EMA-ROMA - Presso l'Azienda Ospedaliera San Filippo Neri
Via Martinotti, 20 - 00135 Roma
Telefono segreteria EMA-ROMA: 06 / 3306 2906

pictureEMA-ROMA è su Facebook!
Clicca!

Primo Piano


Diventa donatore di sangue

Diventa donatore di sangue
Premessa

Il sangue non si produce in laboratorio ed il fabbisogno annuo in Italia è di 2.400.000 unità di sangue intero e più di 1.077.000 litri di plasma.
L'impossibilità di ottenerlo tramite procedimenti chimici e il suo larghissimo impiego, rendono il sangue un presidio terapeutico prezioso non sempre disponibile.
La maggior parte di noi può donare il sangue e molti, almeno una volta nella vita, potrebbero averne bisogno.

 

Alcuni tipi di donazione:

o Sangue intero
o Plasma (plasmaferesi
o Piastrine (piastrinoaferesi)
o Donazione multipla di emocomponenti

 

Per molti ammalati il sangue e/o suoi componenti è terapia indispensabile per la sopravvivenza, alcuni esempi:

o Globuli rossi, in caso di perdite ematiche ed anemie;
o Piastrine, in caso di malattie emorragiche;
o Plasma, in caso di grosse ustioni, tumori del fegato, carenza dei fattori della coagulazione;
o Plasmaderivati, fattore VIII e IX per emofilia A e B, immunoglobuline e albumina per alcune patologie del fegato e dell'intestino.

La sicurezza delle trasfusioni e il raggiungimento dell'autosufficienza regionale e nazionale di sangue, emocomponenti e farmaci derivati, è l'obiettivo del Servizio Sanitario Nazionale e il maggior impegno delle Associazioni e Federazioni dei donatori.

La donazione da donatori volontari, periodici, responsabili, anonimi, e non retribuiti è la migliore garanzia per la qualità e la sicurezza delle terapie trasfusionali.


Requisiti

Al momento della donazione devono essere nella norma, cioè nei limiti previsti dalla legge:

  • Età compresa tra 18 anni e i 60 anni (per candidarsi a diventare donatori di sangue intero), 65 anni (età massima per proseguire l'attività di donazione per i donatori periodici), con deroghe a giudizio del medico;
  • Peso non inferiore a 50 Kg.;
  • Pulsazioni comprese tra 50-100 battiti/min (anche con frequenza inferiore per chi pratica allenamenti sportivi intensi);
  • Pressione arteriosa sistolica tra 110 e 180 ml di mercurio e diastolica tra 60 e 100 ml di mercurio;
  • Stato di salute Buono;
  • Non può donare chi ha comportamenti a rischio, tipo: assunzione di sostanze stupefacenti, alcolismo, rapporti sessuali ad alto rischio di trasmissione di malattie infettive, o chi è affetto da infezione da virus HIV/AIDS o portatore di epatite B o C, o chi fa uso di steroidi o ormoni anabolizzanti.
    Alcune condizioni patologiche o comportamentali non sono compatibili temporaneamente o definitivamente con la donazione in quanto dannose per il donatore e/o per il ricevente.
    Non esistono categorie di persone escluse dalla donazione, ma nella selezione del donatore sono valutati i comportamenti individuali che possono risultare a rischio.

 

Valutazione per l'idoneità

Si effettua presso un servizio trasfusionale o unità di raccolta e consta di: 

  • Accertamento dell'identità del candidato donatore e compilazione di un questionario;
  • colloquio con il medico e valutazione delle condizioni generali di salute;
    o acquisizione del consenso informato alla donazione;


Come si dona

Il giorno del prelievo è preferibile presentarsi a digiuno o dopo una leggera colazione a base di frutta fresca o spremute, thè o caffè poco zuccherati. Non si possono mangiare cibi solidi né bere latte.
Prima della donazione si svolge un colloquio con personale medico per accertare che il candidato donatore abbia i requisiti per effettuare la donazione e per stabilire il tipo di donazione più indicata: sangue intero o suoi componenti.
Ulteriori indagini sanitarie accerteranno l'effettiva idoneità della persona a diventare donatore di sangue.
Alla prima donazione vengono effettuati i seguenti controlli immuno-ematologici:
o determinazione ABO, test diretto e indiretto;
o determinazione fenotipo Rh completo;
o ricerca degli anticorpi irregolari anti-eritrocitari:

 

Ad ogni donazione il donatore viene sottoposto ai seguenti esami:
o esame emocromocitometrico completo;
o determinazione delle ALT con metodo ottimizzato;
o sierodiagnosi per la Lue;
o HIV Ab 1-2 (per l'AIDS);
o Hbs Ag (per l'epatite B );
o HCV Ab (per l'epatite C);
o HCV NAT.

 

Ogni anno il donatore è sottoposto ai seguenti esami:
o creatininemia;
o glicemia;
o proteinemia ed elettroforesi sieroproteica
o colesterolemia;
o trigliceridemia
o ferritinemia

 

Il prelievo del sangue dura tra i 5 e i 10 minuti ed è del tutto innocuo, in quanto effettuato con materiale sterile e monouso. Per legge, il sangue prelevato oscilla tra i 450 ml. +/- 10%
Ai donatori di sangue e di emocomponenti con rapporto di lavoro dipendente, ovvero interessati dalle tipologie contrattuali di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, hanno diritto ad astenersi dal lavoro per l'intera giornata in cui effettuano la donazione, conservando la normale retribuzione per l'intera giornata lavorativa.
La frequenza massima delle donazioni di sangue intero è di quattro volte l'anno (con intervalli minimi di 90 giorni fra una donazione l'altra), ma per le donne in età fertile la frequenza scende a due.
Per altri tipi di donazione l'intervallo tra una donazione e la successiva è sensibilmente inferiore.


Principali criteri di esclusione alla donazione

È necessario tenere presente l'esistenza di alcune  condizioni che possono costituire esclusione, temporanea o permanente, dalla donazione di sangue:
Esclusione Temporanea:
Parto, allergia a farmaci: 1 anno dall'ultimo evento.
Toxoplasmosi, mononucleosi infettiva, M. di Lyme e interruzione di gravidanza: 6 mesi dalla guarigione.
Esami endoscopici, spruzzo delle mucose con sangue o lesioni da ago; trasfusioni di emocomponenti o somministrazione di emoderivati; trapianto di tessuti o cellule di origine umana; tatuaggi o body piercing; agopuntura (se non eseguita da professionisti qualificati con ago "usa e getta"): 4 mesi dall'ultima esposizione al rischio.
Contatti a rischio con persone affette da epatite B; rapporti sessuali occasionali a rischio di trasmissione di malattie infettive; rapporti sessuali con persone infette o a rischio di infezione da HBV, HCV, HIV; intervento chirurgico maggiore: 4 mesi dall'ultima esposizione al rischio.
Malattie infettive, affezioni di tipo influenzale e febbre maggiore di 38°C: due settimane a decorrere dalla data della completa guarigione clinica.
Intervento chirurgico minore: una settimana.
Assunzione di farmaci antinfiammatori: 5 giorni.
Cure odontoiatriche: 1)cure di minore entità da parte di dentista o odontoigienista: esclusione per 48 ore; 2) estrazione, devitalizzazione ed interventi analoghi con prescrizione di terapia antibiotica: esclusione per 1 settimana.
Terapie: rinvio per un periodo variabile di tempo secondo il principio attivo dei medicinali prescritti e comunque considerando la malattia di base.
Malaria - individui che sono vissuti in zona malarica nei primi 5 anni di vita o per 5 anni consecutivi della loro vita: esclusione dalla donazione di sangue intero, emazie e piastrine per i 3 anni successivamente al ritorno dell'ultima visita in zona endemica a condizione che la persona resti asintomatica; è ammessa però la donazione di plasma. Possono essere ammessi alla sola donazione di plasma anche gli individui con pregressa malaria 6 mesi dopo aver lasciato la zona di endemia e visitatori asintomatici di zone endemiche.
Vaccinazioni: 4 settimane per vaccini preparati con virus o batteri vivi attenuati; 48 ore per tutti gli altri tipi di vaccini.
Le donne non possono donare da due giorni prima a cinque giorni dopo la fine del ciclo mestruale
Per le altre condizioni non citate o per qualsiasi altro quesito, l'idoneità alla donazione verrà valutata d'inteso con il Medico responsabile della selezione.
Esclusione Permanente:
Malattie autoimmuni (esclusa malattia celiaca in trattamento dietetico adeguato);
Malattie cardiovascolari (donatori con affezioni cardiovascolari in atto o pregresse ad eccezione di anomalie congenite completamente curate);
Malattie organiche del sistema nervoso centrale (antecedenti di gravi malattie organiche del SNC);
Neoplasie o malattie maligne (eccetto cancro in situ con guarigione completa);
Malattie emorragiche (candidati donatori con antecedenti di coagulopatia congenita o acquisita);
Crisi di svenimenti o convulsioni; Affezioni gastrointestinali, epatiche, urogenitali, ematologiche, immunologiche, renali, metaboliche o respiratorie (candidati donatori con grave affezione attiva, cronica o recidivante);
Epatite B, epatite C, epatite infettiva ad eziologia indeterminata, sieropositività per HIV, sifilide, Babesiosi, Lebbra, Kala Azar (leishmaniosi viscerale),
Tripanosoma Cruzi (malattia di Chagas);
Malattia di Creutzfeldt-Jacob (candidati donatori che hanno soggiornato per più di 6 mesi cumulativi nel Regno Unito, dal 1980 al 1996; candidati che hanno ricevuto trasfusioni nel Regno Unito, dal 1980);
Assunzione di ormoni ipofisari di origine umana (ormone della crescita o gonadotropine);
Trapianto di cornea e/o dura madre; Instabilità mentale; Alcoolismo cronico; Riceventi di Xenotrapianti; Assunzione di sostanze farmacologiche non prescritte (sostanze farmacologiche per via intramuscolare o endovenosa; stupefacenti; steroidi od ormoni a scopo di culturismo); comportamento sessuale (candidati donatori il cui comportamento sessuale lo espone ad elevato rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili con il sangue).

Torna su
Troppi antibiotici in Ue, Italia al top nei consumi

Troppi antibiotici in Ue, Italia al top nei consumi

Nel paese boom superbatteri, i più virtuosi gli olandesi

16 novembre, 18:12
  •  

  •  

(di Pier David Malloni) - Invece che essere sconfitti definitivamente dagli antibiotici, come si credeva nel secolo scorso quando questi farmaci erano appena stati scoperti, i batteri stanno vincendo la guerra, diventando sempre più resistenti. È il messaggio che viene dal rapporto annuale dell'European Center for Diseases Control, che certifica un consumo ancora troppo alto e di conseguenza un aumento del fenomeno della resistenza, con l'Italia nella lista dei cattivi.

"Potenzialmente siamo vicini alla fine dell'era degli antibiotici - ha avvertito Vytenis Andriukaitis, commissario Ue alla Salute, durante la conferenza di presentazione dei dati a Bruxelles, iniziata con le condoglianze alle vittime del terrorismo in Francia -. Lo scorso anno sono morte in Europa 25mila persone per infezioni resistenti".

Quest'anno il focus degli esperti europei, ricavato dal sistema di sorveglianza Ears-Net dell'Unione Europea, è sugli enterobatteri carbapenemasi resistenti, una famiglia particolarmente pericolosa perchè lascia pochissime opzioni per la terapia. L'Italia era già nel gruppo peggiore, con il batterio endemico, due anni fa, e conferma il primato, che detiene per quasi tutti gli altri batteri monitorati dall'Ecdc.

Nel caso dell'Escherichia Coli, uno dei più diffusi, il nostro paese aveva nel 2011 meno del 25% di, mentre ora è entrato nella fascia più alta, quella tra il 25 e il 50%. Per gli acinetobacter, una delle cause delle infezioni ospedaliere, siamo ormai sopra il 50%, mentre per il 'famoso' staffilococco aureo resistente alla meticillina (mrsa) siamo nella fascia 25-50%, battuti solo dalla Romania. Percentuali tra il 25 e il 50% si trovano anche per Klebsiella, una delle cause principali delle infezioni urinarie. Quest'anno la Giornata Europea di Attenzione agli Antibiotici, durante la quale viene lanciato il rapporto, coincide con la settimana che per la prima volta l'Oms dedica a questo tema con lo slogan 'Antibiotici: maneggiare con cura'.

"Dobbiamo aumentare la consapevolezza in tutti gli Stati - ha affermato Zsuzsanna Jakab, direttrice dell'ufficio europeo dell'Oms -. Ancora oggi non si sa che per curare un'influenza non è necessario un antibiotico".

A testimoniare un uso ancora smodato degli antibiotici è il rapporto, basato sui dati della sorveglianza Esac-net dell'Unione Europea. Il dato medio Ue di consumo fuori dagli ospedali per il 2014 è 21,6 dosi al giorno ogni mille abitanti, e varia dalle 10,6 dell'Olanda alle 34,6 della Grecia. L'Italia, con 27,8 dosi, è al quinto posto,dietro a Francia, Romania e Belgio. Per quanto riguarda il consumo di antibiotici negli ospedali la media europea è sostanzialmente stabile a 2 dosi al giorno ogni mille abitanti. Anche in questo caso i più virtuosi sono gli olandesi, con una dose al giorno, mentre i peggiori sono i finlandesi con 2,6, mentre l'Italia resta sopra la media europea con 2,2 e in generale, a parte l'eccezione finlandese, il sud Europa prevale nel consumo. "La popolazione del sud Europa vuole evitare l'incertezza e fare subito qualcosa, questo è un fattore culturale che incide sul consumo - ha spiegato Dominique Monnet dell'Ecdc - ma accanto a questo c'è un problema di controllo e di consapevolezza del problema". (ANSA).

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Medici di famiglia, doveri (e diritti) di chi ci cura. Tutto quello che dobbiamo sapere

Dal “Corriere della Sera”

 

Medici di famiglia, doveri (e diritti) di chi 
ci cura. Tutto quello che dobbiamo sapere

Alzi la mano chi non ha mai criticato nemmeno una volta il suo medico di famiglia: non lo trovo, non mi risponde al telefono, mi dedica poco tempo, mi prescrive solo quello che vuole lui… Ma siamo proprio sicuri di avere sempre ragione? Per conoscere tutti i nostri diritti, ma anche i nostri doveri, abbiamo rivolto a Silvestro Scotti, vicesegretario nazionale vicario della Fimmg e medico di famiglia a Napoli dal 2003, le principali domande su ruolo e compiti del nostro dottore

di Cristina D’Amico

  

* Disponibilità - I giorni e gli orari in ambulatorio

Per quanti giorni alla settimana e per quante ore posso trovare il medico di medicina generale in ambulatorio?

«Il medico di medicina generale — risponde Silvestro Scotti, vicesegretario nazionale della Fimmg — deve essere presente in ambulatorio tutti i giorni feriali, con un orario che dipende dal numero dei suoi assistiti: il medico che ha fino a 500 assistiti deve essere presente per almeno 1 ora al giorno, per 5 giorni alla settimana; fino a mille assistiti il suo impegno minimo in studio deve essere di 2 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana; fino a 1500 pazienti deve assicurare una presenza minima di 3 ore al giorno per 5 giorni settimanali».

«L’orario di lavoro minimo non corrisponde però alla durata dell’attività, perché tutti i pazienti che accedono all’ambulatorio entro l’orario stabilito devono essere ricevuti. In pratica, anche se l’orario è terminato, il medico non può rifiutarsi di visitare un assistito già in attesa. Inoltre, l’impegno del medico comprende le visite a domicilio, nonché la partecipazione alle attività di distretto organizzate dalla Asl».

 

* Disponibilità - La reperibilità del medico

Posso telefonare al medico il sabato? E nei giorni festivi? 

«Il sabato, salvo diversi accordi regionali o di Asl, il medico deve essere reperibile al telefono per 2 ore, dalle 8 alle 10, per rispondere a richieste non differibili, che dovrà soddisfare entro le 14. Qualche esempio di necessità “non differibile”: può esserlo quella di una visita a domicilio, o di una certificazione di malattia per un lavoratore turnista; non lo è la prescrizione di un esame diagnostico cui sottoporsi nei giorni successivi. Quindi, se il medico ritiene giustificata la richiesta di una visita a domicilio che gli è arrivata la mattina del sabato, dovrà andare a casa del paziente entro le 2 del pomeriggio. Superate quelle ore del sabato, il paziente ha il diritto-dovere di rivolgersi alla guarda medica».)

«Può accadere, però, che il medico di famiglia debba impegnare il sabato mattina per partecipare a corsi di formazione obbligatoria, per esempio in relazione a progetti disposti dalla Asl; in questi casi la Asl anticipa al mattino del sabato il servizio di guardia medica, così da assicurare ugualmente la continuità assistenziale. Le stesse regole del sabato valgono per i giorni prefestivi, ma se in quel giorno della settimana, per esempio il giovedì, il medico ha abitualmente attività di ambulatorio dalle 8 alle 14, dovrà essere presente. Potrà “saltare” l’ambulatorio solo se l’apertura era prevista per il pomeriggio. Domeniche e giorni festivi, infine, sono “sacri” anche per il medico di famiglia, a parte alcune eccezioni, poche, di specifici accordi regionali».

 

* Disponibilità - L’accesso libero in ambulatorio senza appuntamento

È giusto che il mio medico mi riceva solo se ho preso l’appuntamento? Può limitare l’accesso all’ambulatorio e, per esempio, dirmi: “Ci sono già troppi pazienti in attesa, torni domani”?

«Può adottare la formula degli appuntamenti, ma questo non significa che di fronte a una richiesta non differibile entro l’orario di ambulatorio possa rifiutarsi di assolverla. In questo caso non può mandare via un paziente che arrivi in studio senza appuntamento».

 

* I contatti con il medico - Telefonate al dottore

Se chiamo il medico di famiglia al telefono, è forse mio diritto che risponda?

«In linea teorica, il medico di medicina generale dovrebbe garantire 2 ore di “reperibilità telefonica” al giorno, dalle 8 alle 10, per le richieste non differibili, da soddisfare entro le 14 — dice Silvestro Scotti, della Fimmg —. Ma con l’avvento dei cellulari la questione è diventata più complicata: il dottore, se ritiene, può rendersi contattabile in studio, magari con l’ausilio di un collaboratore, poi sul cellulare, per tutta la giornata. E se gli vengono espresse esigenze non differibili, deve intervenire “prima possibile”».

«Sia chiaro, però, che non parliamo di “emergenze”, perché per queste ci sono altri servizi, come il Pronto soccorso: se il medico sta visitando in ambulatorio non può certo abbandonare tutti, per correre al capezzale di un altro paziente. Insomma, su una più ampia reperibilità telefonica non ci sono obblighi, e il medico, da una parte ha la necessità di farsi rintracciare il più possibile per conservare la fiducia dei pazienti, dall’altra si espone a un impegno non sempre facile da assolvere. Comunque, se un paziente ritiene che il dottore scelto non offra una sufficiente reperibilità, ha diritto di cambiarlo».

 

* I contatti con il medico - Diagnosi al telefono

È corretto che il medico faccia diagnosi e dia prescrizioni al telefono? 

«Sì, e la risposta è sorretta da una sentenza di qualche anno fa. Riassumiamo la vicenda: a un medico di famiglia, che aveva rifiutato una richiesta di visita domiciliare e aveva prescritto direttamente al telefono alcuni farmaci a un suo paziente, si contestava l’omissione di atti d’ufficio. Il giudice, però, ha assolto quel professionista, affermando che il medico di medicina generale è l’unico soggetto che può prescrivere telefonicamente a un proprio assistito una terapia di primo livello, quando abbia la piena conoscenza della patologia e delle caratteristiche del paziente».

 

* I contatti con il medico - «Visite» via internet

Se contatto il mio medico via internet, è come se mi “visitasse” di persona? 

«Il computer e i più nuovi sistemi di messaggistica mobile possono essere usati dal medico di famiglia, così come da qualunque altro medico, considerando con molta attenzione le diverse situazioni. In alcuni casi questi sistemi possono aiutare: per esempio, il paziente potrebbe scattare la foto di un’eruzione cutanea e inviarla al dottore, consentendogli così di decidere rapidamente una prima possibilità di trattamento. Ma nel caso di una situazione più complessa, che abbia bisogno di un approfondimento, il computer non può certo sostituire il vero contatto diretto medico-paziente».

 

* I contatti con il medico - Ricette «a distanza»

Ma il medico di famiglia non potrebbe inviarmi le ricette via computer? 

«Sarebbe possibile soltanto in presenza di un processo di autorizzazione e identificazione da parte del paziente, cioè con la totale sicurezza che la ricetta arrivi su un sistema protetto accessibile solo all’assistito. Altrimenti, potrebbe essere messa a serio rischio la privacy di dati sensibili. Ricordiamoci che, perfino quando un paziente chiede al suo medico di consegnare una ricetta a un familiare, la prescrizione andrebbe messa in busta chiusa, per riservatezza ».

 

* Le visite a casa - Regole

Quando posso chiedere al mio medico di famiglia una visita a domicilio? E lui può rifiutarsi di venire? 

«Mentre nella normativa per la pediatria di base si dice chiaramente che è il medico a decidere se una visita a domicilio è realmente necessaria, per i medici di famiglia la questione non è altrettanto ben definita — osserva Silvestro Scotti, vicesegretario nazionale Fimmg —. In linea teorica, come già detto, la visita richiesta tra le 8 e le 10 va effettuata entro le 14. «Il paziente può richiedere una visita a casa anche più tardi, sulla base della reperibilità del medico, ma la valutazione sui tempi di risposta è lasciata al dottore, che – come è stabilito nell’Accordo nazionale – dovrà farla “prima possibile”».()

«Ciò significa che il comportamento del medico può dipendere, oltre che dalle caratteristiche della specifica richiesta, anche da questioni organizzative. Ma facciamo, anche qui, un esempio: poniamo che un paziente chieda la visita domiciliare all’inizio dell’orario di ambulatorio, il cui impegno però si protragga fino all’ora in cui entra in attività la guardia medica; il dottore, in questo caso, potrebbe decidere di rinviare la visita domiciliare al giorno successivo. È evidente, allora, che sulla discussa questione delle visite domiciliari si confrontano da un lato la competenza del medico in merito alla patologia e a ciò che ritiene utile rispetto alla condizione di quel paziente, dall’altro la possibilità dell’assistito insoddisfatto di cambiare dottore. È l’equilibrio tra queste due realtà è quello che a “regolare” di fatto il rapporto».

 

* Assenze - A chi rivolgersi in alternativa

Dove andiamo se lo studio è chiuso per ferie? 

«Il medico di famiglia può assentarsi dal lavoro — spiega Silvestro Scotti — per le motivazioni previste dall’Accordo nazionale: malattia, assistenza a familiari con handicap, attività di volontariato o di emergenza. Deve sempre darne comunicazione alla Asl e a volte essere autorizzato. Può chiedere alla Asl, con 15 giorni di anticipo, fino a 30 giorni di “ristoro psicofisico”. In teoria, dovrebbe essere la Asl ad avvisare gli assistiti. Il medico comunque ha l’obbligo, e la convenienza, di informare i pazienti. Se l’assenza non supera i 30 giorni il dottore deve scegliere un sostituto, pagandolo (dal 31esimo giorno, il medico perde parte della retribuzione e il sostituto è pagato dalla Asl)».

 

* Quanti pazienti può avere un medico di famiglia?

«Mille assistiti per ciascun medico di medicina generale è il rapporto considerato “ottimale” (in base ad accordi regionali, tale rapporto può variare, fino a raggiungere i 1300 assistiti) — spiega Silvestro Scotti —. Il numero massimo («massimale») di pazienti è di fatto 1500, anche se, in virtù di un diritto acquisito per vecchi accordi nazionali, alcuni medici hanno in carico anche 1800 pazienti. La media nazionale è comunque di un medico ogni 1150 assistiti (in Lombardia la media è di 1 ogni 1300 pazienti, nel Lazio di 1 ogni 1000».

 

* La scelta: come capire chi fa per noi

Sulla base di quali informazioni scegliamo il medico di famiglia? Possiamo conoscere il suo curriculum? Sapere quanti pazienti segue? Quali sono i suoi orari di attività?

«Informare l’assistito che deve scegliere il medico di medicina generale è compito dell’Azienda sanitaria —, spiega Silvestro Scotti —. Il cittadino ha diritto di consultare l’elenco dei medici e di conoscere di ciascun dottore il curriculum con eventuali specializzazioni, il numero di pazienti che deve seguire (il cosiddetto “massimale”), gli orari di apertura del suo ambulatorio, nonché le caratteristiche di organizzazione della sua attività (se ha l’assistente di studio, l’infermiere, se è in rete, se opera in associazione con altri colleghi). Purtroppo non tutte le Asl forniscono le informazioni previste».

 

* Il medico ci può rifiutare come pazienti?

Ma il medico di famiglia può rifiutarsi di prendere in carico un paziente? Oppure, gli è permesso, una volta instaurato il rapporto, di ricusarlo?

«Nessun paziente può essere rifiutato, —dice Scotti — ma il medico può ricusare un assistito nel momento in cui sorgano problemi che mettono in discussione il rapporto fiduciario. In questo caso il medico presenta una richiesta alla Asl e il paziente viene avvisato. Durante il mese successivo il dottore resta comunque responsabile dell’assistenza, in modo che l’assistito ricusato abbia il tempo per scegliere un altro medico».

 

* Il medico e i suoi pazienti in ospedale

Il medico di famiglia deve seguire i suoi pazienti ricoverati? 

«Non è tenuto, ma su richiesta del malato potrebbe assumersi questo impegno; tuttavia i colleghi ospedalieri non hanno obbligo di confrontarsi con lui. Quindi, al massimo, può predisporre una sintesi delle condizioni del paziente, da consegnare al momento del ricovero».

 

* Le prescrizioni - Limiti del medico

Ci sono farmaci o esami che il medico di medicina generale non può prescrivere? 

«Sì, ci sono — risponde Silvestro Scotti, vicesegretario nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale —. Alcune Regioni, per esempio, consentono la prescrizione di determinate tipologie di farmaci e prestazioni diagnostiche solo in presenza di specifiche condizioni patologiche, prevedendo a volte sanzioni per il medico che non rispetti le limitazioni. Altri medicinali possono essere prescritti solo in casi prestabiliti (nelle “note” al prontuario) o in base a piani terapeutici specialistici (è il caso, per esempio, dei farmaci “innovativi”) per decisione dell’Agenzia italiana del farmaco».

 

* Le prescrizioni - Ricette richieste da altri dottori

Può il mio medico rifiutarsi di prescrivere ciò che è stato indicato da uno specialista o dall’ospedale? 

«Nessun medico è tenuto a prescrivere quello che ha indicato un altro professionista, perché di ogni prescrizione si assume pienamente la responsabilità. Di fatto, però, si creano spesso situazioni fraintese dal paziente. Ad esempio, un ospedaliero che prescrive un farmaco attraverso un piano terapeutico condiziona fortemente la decisione del medico di famiglia. Questi potrebbe con pieno diritto ritenere adatto un altro medicinale, anche in base alla conoscenza più approfondita del suo paziente. Ma un rifiuto rischia di mettere in discussione il rapporto fiduciario con l’assistito, che spesso ragiona come se esistesse una sorta di “gerarchia delle fonti”: in alto sta lo specialista, in posizione subordinata il medico di famiglia. Così, circa il 50 per cento della spesa prodotta dai medici di medicina generale può risultare indotta da specialisti».

 

* Le prescrizioni - Generici o no

Il medico di famiglia deve preferire i farmaci che costano meno, per esempio i cosiddetti “equivalenti” o, se vuole, può imporre un medicinale “di marca” più caro? 

«Le regole in proposito sono variamente interpretabili. In generale, il medico deve prescrivere la molecola efficace disponibile al costo minore, a meno che non ci siano specifiche ragioni (ad esempio, intolleranza del paziente agli eccipienti). Se vuole, aggiunge il nome commerciale del farmaco: in questo caso il paziente, in base all’informazione del farmacista, può sostituirlo con un medicinale equivalente».)

«Al medico, però, è consentito scrivere sulla ricetta solo il nome commerciale di un farmaco nel caso di continuità della terapia per un paziente e quando ritenga non applicabile la regola della sostituibilità. In pratica, a una persona che presenti per la prima volta una certa patologia (per cui il medico non ha dati per verificare una differenza di risposta tra un farmaco e un altro) si dovrebbe prescrivere un generico oppure un farmaco “di marca” di pari prezzo. Quando, invece, il paziente sta già usando un determinato medicinale, il dottore dovrebbe, a mio parere, informarlo di eventuale differenza di costo a suo carico rispetto ad altri prodotti, ma consigliargli di optare per la continuità della terapia».

 

* Il medico fuori orario: un libero professionista

Posso chiedere al mio medico (al di fuori dei suoi compiti nel Servizio sanitario) una visita a pagamento? 

«Il medico di famiglia, al di fuori dei suoi obblighi orari, diventa un libero professionista: se un assistito chiede una visita privata, può farla — dice Scotti —. Sarebbe opportuno (ma non è stabilito) adottare le tariffe delle “visite occasionali” (a pazienti non suoi): 30 euro in ambulatorio, 50 euro per la domiciliare».

 

E un elettrocardiogramma o un’ecografia? 

«Distinguerei tre casi. Il medico di famiglia che ha una specializzazione può fare attività libero professionale (anche verso i suoi assistiti) nel limite di 5 ore settimanali. Se vuole farlo per più tempo, deve comunicarlo alla Asl e ridurre il massimale di 48 assistiti per ogni ora in più settimanale. Diverso il caso del medico dotato di un apparecchio diagnostico, da usare gratuitamente in ambulatorio solo per una prima valutazione. Da escludere, infine, prestazioni private durante l’attività convenzionale (salvo, forse, l’elettrocardiogramma per il certificato sportivo)».

 

* Il medico e le vaccinazioni

Il medico di famiglia è tenuto ad aderire alle campagne vaccinali regionali e di Asl. A volte deve fornire l’elenco dei pazienti candidati, altre volte pratica le vaccinazioni ed è retribuito dalla Asl. L’antitetanica può essere chiesta dal paziente: il medico la esegue, la certifica ed è pagato dall’azienda sanitaria. Infine, può somministrare altre vaccinazioni a spese del paziente ma a costo calmierato. «A titolo gratuito, invece, — dice Scotti — rilascia i certificati di malattia, per attività sportiva scolastica, di rientro a scuola. Ogni altra richiesta di certificazione in linea di massima va soddisfatta, come attività libero professionale».

 

 

Torna su
Presto ricetta elettronica con validità in tutte le regioni

Presto ricetta elettronica con validità in tutte le regioni

Possibile ottenere farmaci anche fuori da regione di residenza

02 gennaio, 14:12

 

Via libera, con il nuovo anno, alla possibilità di ottenere farmaci prescritti con ricetta elettronica in tutte le farmacie italiane, anche in quelle al di fuori della propria regione di residenza. E' appena entrato in vigore il decreto che regolamenta il passaggio dalle prescrizioni cartacee a quelle dematerializzate. 

La novità per il cittadino è che potrà, quando il sistema andrà a regime ovvero quando sarà pronto un software per il calcolo dei diversi ticket regionali, ottenere il farmaco prescritto dal medico anche qualora si trovasse, in villeggiatura o per lavoro, al di fuori dei propri confini regionali. 

Il Dpcm del 14 novembre 2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre, prevede che il prelievo dei medicinali, inclusi nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) prescritti su ricetta farmaceutica dematerializzata a carico del Servizio sanitario nazionale, possa essere effettuato in qualsiasi farmacia pubblica e privata convenzionata del territorio italiano. 

La sincronizzazione della prescrizione del medico da un lato e di erogazione da parte del farmacista dall'altro, consentono di controllare l'appropriatezza e di ridurre eventuali falsificazioni. 

Ma per il cittadino sarà una "una grande novità anche dal punto di vista pratico, perché l'attuale normativa prevede la spendibilità della ricetta solo all'interno della propria regione", spiega Daniele D'Angelo, direttore generale di Promofarma, società di Federfarma dedicata a seguire il percorso di digitalizzazione. "Ci vogliono però - conclude - dei tempi tecnici, presumibilmente qualche mese, affinché diventi realtà".

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Ricetta elettronica “nazionale”: cosa cambia nel 2016

Ricetta elettronica “nazionale”: cosa cambia nel 2016

 

Entra in vigore il dpcm del 14 novembre 2015 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 dicembre scorso. Ecco il percorso che renderà utilizzabile in tutta Italia la ricetta dematerializzata e gli ostacoli che devono essere superati

di Redazione Aboutpharma Online 7 gennaio 2016 

 

Anno nuovo, regole nuove per la ricetta elettronica che – grazie al decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 14 novembre 2015 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 dicembre scorso – sarà valida in tutte le farmacie italiane.  Il dpcm – spiega RifDay, il mattinale d’informazione curato dall’Ordine dei farmacisti di Roma – prevede che il prelievo dei medicinali, inclusi nei Livelli essenziali di assistenza, prescritti su ricetta dematerializzata a carico del Ssn, possa essere effettuato in qualsiasi farmacia pubblica e privata convenzionata del territorio italiano.

Le nuove regole entrano in vigore con l’inizio dell’anno, ma restano ancora alcuni ostacoli da superare per una piena applicazione. Secondo stime recenti di Promofarma – braccio operativo di Federfarma sul terreno dei servizi – entro il primo semestre dell’anno la ricetta elettronica, al momento utilizzata in modo ancora disomogeneo nelle varie Regioni, dovrebbe raggiungere il 70-80% circa di utilizzo su base nazionale. Si renderanno però necessari – spiega in una nota riportata da RifDay il direttore generale di Promofarma, Daniele D’Angelo – “tempi tecnici, presumibilmente qualche mese” affinché tutto vada a regime e i cittadini possano utilizzare senza problemi la prescrizione farmaceutica ottenuta dal loro medico in i farmacia del Paese. In particolare, sarà necessaria la definitiva messa a punto in sede tecnica del software per il calcolo dei diversi ticket regionali, per far sì che la compensazione tra la Regione che ha erogato il farmaco e la Regione di residenza dell’assistito avvenga “secondo i criteri e le modalità specificamente previsti da un apposito Accordo interregionale per la compensazione per la compensazione della mobilità sanitaria”.

La farmacia – prosegue RifDay -che eroga i medicinali prescritti su ricetta elettronica a un cittadino residente fuori Regione (riscuotendo il ticket, se dovuto, applicato nella Regione di appartenenza, che potrà conoscere collegandosi al sistema tessera sanitaria) chiede quindi il rimborso alla Asl territorialmente competente. La compensazione tra la Regione che ha erogato il farmaco e la Regione di residenza dell’assistito avviene “secondo i criteri e le modalità specificamente previsti da un apposito Accordo interregionale per la compensazione per la compensazione della mobilità sanitaria”.
Per una fase transitoria, che non potrà andare oltre il 31 dicembre 2017, le modalità previste dal dpcm non si applicano a tutti i farmaci con piano terapeutico Aifa e ai farmaci distribuiti attraverso modalità diverse dal regime convenzionale.

Sempre Promofarma, in una scheda, ha riassunto il percorso della ricetta farmaceutica elettronica nazionale, ricordando in primo luogo gli obiettivi del progetto: realizzazione di misure di appropriatezza delle prescrizioni, attribuzione e verifica del budget di distretto, farmacovigilanza e sorveglianza epidemiologica. Tutte le farmacie e tutti i medici sono già tecnologicamente in grado di trasmettere al ministero, con modalità asincrona, i dati dei circa 600 milioni di ricette erogate ogni anno, ma – spiega la società di Federfarma – ora “il nuovo ambizioso obiettivo della ricetta dematerializzata è quello di rendere sincrone tutte le attività di prescrizione da parte del medico e di  erogazione da parte della farmacia e, progressivamente, di eliminare i supporti cartacei.”

I medici – precisa il mattinale dei farmacisti romani – non riceveranno più blocchi di ricette cartacee, bensì solo una serie di numeri. Sono i numeri delle ricette elettroniche (Nre), prodotti dal sistema centrale gestito da Sogei, che verranno assegnati alle Aziende sanitarie locali. Le Asl li forniranno ai medici sulla base degli attuali parametri e criteri utilizzati per la distribuzione dei ricettari cartacei. Il medico, per prescrivere un farmaco o una visita specialistica, si connetterà tramite il proprio Pc (ma in un futuro presumibilmente molto prossimo potrà essere un tablet o uno smartphone) al sistema di riferimento e, dopo essersi identificato, effettuerà la prescrizione on line utilizzando uno degli Nre a lui assegnati. Al Nre che decide di utilizzare, il medico assocerà il codice fiscale dell’assistito. Il sistema validerà il codice fiscale e tutte le informazioni di esenzione (per reddito e/o per patologia).a questo punto, il medico completerà la ricetta con la prescrizione del farmaco e, con un semplice clic, confermerà la generazione della ricetta elettronica sul server di Sogei. Quindi, il medico stampa e consegna all’assistito un “promemoria” che riporta Nre, codice fiscale, eventuali esenzioni e prescrizione. Il promemoria garantisce all’assistito la possibilità di ottenere il farmaco anche in caso di assenza di linea o in presenza di qualsiasi altro inconveniente legato all’accesso al server.

Con il promemoria – conclude RifDay – l’assistito si reca in farmacia. La farmacia si collega al sistema mediante le chiavi di accesso rappresentate dal Nre e dal codice fiscale, accede alla ricetta elettronica ed eroga il farmaco. La farmacia completa l’operazione inviando al server di Sogei i dati relativi all’erogazione (prezzo del farmaco, ticket, sconti in favore del SSN, etc.) e i codici che individuano la singola confezione: codice Aic e codice “targatura”, cioè il codice seriale identificativo della singola scatola

 

Torna su
Da ulcera a colesterolo,1 scatola e mezza a testa al mese

Da ulcera a colesterolo,1 scatola e mezza a testa al mese

Italiani 'indisciplinati' rispetto alle prescrizioni del medico

28 gennaio, 09:22

 

 (di Livia Parisi) 

Dai farmaci contro il mal di stomaco a quelli contro l'asma o il colesterolo, nei primi nove mesi del 2015 ogni italiano ne ha assunti oltre una dose al giorno, consumandone in media 14 confezioni a testa, ovvero una e mezzo al mese, in lieve crescita rispetto allo stesso periodo del 2014. E' quanto mostrano i dati sui farmaci acquistati in farmacia e rimborsati dal Servizio sanitario Nazionale, riportati dal Rapporto OsMed relativo al periodo gennaio-settembre 2015. 

Secondo il rapporto 'L'uso dei farmaci in Italia', pubblicato dall'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), aumenta la spesa farmaceutica pubblica trainata dai farmaci innovativi, ma cresce del 2,3% anche quella privata, pagata dai cittadini di tasca propria. Gli italiani si confermano però 'indisciplinati' rispetto alle prescrizioni del medico: 6 su 10 (58,9%) tra coloro che assumono farmaci contro la pressione alta saltano dosi, sbagliano orario o interrompono il ciclo. Mentre meno della metà dei pazienti con colesterolo alto (47,4%) assume regolarmente la terapia prescritta. Complessivamente, tra spesa pubblica e privata, nei primi tre trimestri dell'anno passato sono stati spesi 21,3 miliardi di euro in farmaci, ovvero circa 350 euro per ogni italiano. 

A crescere è soprattutto la farmaceutica territoriale, che si attesta a 9.727 milioni, +9,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, trainata dal boom del 37,4% della spesa per i medicinali di classe A, cioè quelli erogati in distribuzione diretta e per conto. I farmaci oncologici e immunomodulatori restano la voce maggiore di spesa pubblica, mentre quelli per il cuore vengono superati dalla categoria degli antimicrobici, ovvero antivirali, antibiotici, vaccini. Dati, commenta il direttore generale Aifa, Luca Pani, che "riflettono chiaramente l'impatto che i medicinali innovativi ad alto costo immessi sul mercato lo scorso anno, tra tutti gli antivirali e gli antitumorali, sta avendo sulla spesa farmaceutica, in particolare ospedaliera".

Per quanto riguarda la farmaceutica convenzionata, in media ogni giorno sono state consumate 1.041 dosi ogni mille abitanti, cioè una al dì per ciascun italiano, +0,5% rispetto ai primi nove mesi del 2014, e sono state dispensate 851 milioni di confezioni, circa 14 per abitante nei 9 mesi, ovvero una e mezzo al mese. La spesa è maggiore nelle regioni del Sud Italia, in particolare Lazio, Calabria e Puglia e i farmaci più utilizzati si concentrano su un numero limitato di principi attivi. A guidare la 'classifica' il pantoprazolo, protettore gastrico, quindi la rosuvastatina, statina utilizzata per il trattamento della ipercolesterolemia, e il salmeterolo, un antiasmatico.

L'aumento della spesa privata del 2,3% segnalata dal Rapporto comprende tutte le voci di spesa sostenute dal cittadino, ma a pesare è soprattutto quella per i farmaci da banco(+4,2%), cioè non soggetti a prescrizione, seguita dell'acquisto privato dei farmaci di classe A (+3,3%). Segna anche un aumento dell'1,4% la spesa per compartecipazioni a carico del cittadino nell'acquisto di medicinali di fascia A e un incremento dello 0,8% la spesa dei farmaci di classe C con ricetta.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Zika, in Italia attenzione alla stagione di attività biologica delle zanzare

Medicina scienza e ricerca

Zika, in Italia attenzione alla stagione di attività biologica delle zanzare

I microbiologi clinici italiani richiamano l’attenzione sul possibile incremento di casi legato all’attività di sviluppo delle zanzare in Italia. Oggi sono 25 sono i Paesi in cui Zika è presente ma il numero è destinato ad aumentare

di Redazione Aboutpharma Online 27 gennaio 2016 

 

Nell’ultimo mese ha fatto molto parlare di sé. Zika, questo è i suo nome, è un Flavivirus, simile per intenderci a quello della febbre gialla o della Dengue, trasmesso dalle zanzare del genere Aedes, tra cui la Aedes aegypti,  suo vettore originario e all’ Aedes albopictus  (zanzara tigre) al quale, secondo le prime evidenze,  si deve l’ enorme e recente diffusione. Apparentemente innocuo o fonte di infezioni non eccessivamente pericoloso per l’uomo, Zika si è invece rivelato la causa di microcefalie nei bambini nati da donne punte in gravidanza da zanzare portatrici. Secondo dati recenti in Brasile, dove è in corso l’epidemia di infezione più vasta mai registrata, c’è stato un aumento dei casi di malformazioni congenite alla testa , toccando i 3.893 casi dall’ottobre 2015, quando le autorità sanitarie del Paese sudamericano hanno notato un incremento del difetto, contro i 3.500 dell’ultimo report diffuso la scorsa settimana, secondo quanto riporta la Bbc.

Il virus è stato isolato per la prima volta in Uganda nel 1947 da scimmie della foresta Zika, vicino al lago Victoria, da cui prese il nome, e sugli esseri umani nel 1968, su un uomo malato in Nigeria. Dal 1968 al 2012 si sono registrati casi di infezioni umane solamente in centro Africa e nel sud est asiatico.  Dal 2012, invece, si è assistito ad una diffusione straordinaria nelle  isole del pacifico. In queste isole e soprattutto nella Polinesia francese, si sono avuti casi di complicazioni  neurologiche  di  cui alcune decine di casi  Guillain-Barré. Nel 2014 ha avuto inizio la diffusione nei Paesi dell’ America latina come il Cile, il Venezuela, e il Brasile dove si sta manifestando la correlazione tra l’ infezione nelle donne in gravidanza e la nascita di neonati microcefalici. Infine, nel 2015, si sono registrati i primi casi in Porto Rico e in Florida da cui ha preso piede l’allarme negli USA. Pochi i casi in Europa e tutti da importazione

In Brasile in particolare il virus Zika ha già ucciso 5 bambini, come ha spiegato il ministero della Sanità, e sono in corso approfondimento su altre 44 morti che potrebbero essere associate alla malattia. La scorsa settimana, il ministro della Sanità Marcelo Castro ha annunciato lo sviluppo di un nuovo kit diagnostico per identificare rapidamente la presenza del virus, e investimenti straordinari per arrivare il più in fretta possibile alla messa a punto di un vaccino. Al momento l’unica via per combattere l’infezione è infatti eliminare i depositi d’acqua stagnanti in cui proliferano le zanzare Aedes aegypti.

Un forte aumento delle diagnosi di Zika si è osservato in varie altre nazioni dell’America Latina. In Colombia, per esempio, sono stati riportati oltre 13.500 casi. “Siamo il secondo Paese più colpito dopo il Brasile”, ha ammesso il ministro della Sanità Alejandro Gaviria, arrivando a consigliare alle donne di evitare una gravidanza fino al termine del focolaio che potrebbe durare sino a luglio. In Bolivia le autorità sanitarie hanno rilevato il primo caso di Zika in una donna incinta. “Non aveva viaggiato fuori dal Paese, quindi non si tratta di un caso importato”, ha precisato Joaquin Monasterio, direttore dei Servizi sanitari del Dipartimento orientale di Santa Cruz. Alla fine della scorsa settimana, i Cdc amercani hanno lanciato un alert invitando le donne in attesa di un figlio a rimandare i viaggi in Brasile, Colombia, El Salvador, Guiana francese, Guatemala, Haiti, Honduras, Martinica, Messico, Panama, Paraguay, Suriname, Venezuela e Portorico.

Per quanto riguarda l’Italia, “il problema  più serio si porrà con l’inizio della stagione di attività biologica delle zanzare, perché se una persona torna con il virus Zika nel sangue e viene punto da una zanzara, questa diventa portatrice ed in grado di infettare la persona che punge dopo e via di seguito” spiega Maria Paola Landini, Professore di Microbiologia Bologna, Responsabile del Centro Regionale per le emergenze microbiologiche della regione Emilia Romagna e Membro del Consiglio Direttivo AMCLI alla luce delle notizie che hanno iniziato a diffondersi presso l’opinione pubblica italiana.  “Se questa catena non si ferma subito si può innescare  un focolaio autoctono che può assumere anche dimensioni rilevanti o portare il Paese a diventare endemico. Ciò che noi microbiologi siamo tenuti a fare è la diagnosi rapida di infezione in fase viremica ( virus nel sangue)   e molte Regioni si sono attrezzate con un centro regionale di riferimento che conduce la diagnosi di infezione da Zika, ma anche di Dengue, e di Chikungunya, virus trasmessi dalle stesse zanzare che possono dare origine a catene di trasmissione esattamente come Zika e che causano sintomatologia spesso sovrapponibile. Ce l abbiamo fatta a tenere sotto controllo la diffusione del virus Dengue, molto più diffuso di Zika, ce la faremo a tenere lontano anche Zika!”.

“In effetti ciò che stiamo osservando è che le infezioni trasmesse da  artropodi ematofagi stanno aumentando e bisogna ricordare che non sono solo trasmessi dei virus,  ma anche  dei parassiti come i plasmodi della malaria o le leishmanie, batteri  come Tripanosoma, Rikettsie, Babesie” ha aggiunto Pierangelo Clerici, Presidente Amcli e Direttore dell’Unità Operativa di Microbiologia dell’Azienda Ospedaliera di Legnano. “Oggi  questi piccoli insetti sono da considerare gli animali più pericolosi al mondo per la salute dell’ uomo e noi microbiologi ci troviamo ancora una volta in prima linea”.

Tra i sintomi più comuni si segnalano episodi di mal di testa, rash maculopapulare    (3-4 gg), episodi febbrili   (2-3 gg), malessere, congiuntivite, artralgie. Come per altre infezioni da arbovirus, solo in un caso su 4 si manifesta la sintomatologia. Negli altri tre l’infezione decorre in modo asintomatico.

“Come per altri virus che si sono progressivamente manifestati in diversi continenti, occorre adottare semplici accorgimenti per le persone che si recano nelle zone ritenute a maggior rischio sia per motivi di lavori sia di piacere. Questo avvertimento in ragione anche del probabile flusso di persone che si recheranno in Brasile in occasione dei prossimi Giochi Olimpici e che trascorrono periodi estivi negli Stati Uniti” ha concluso Clerici.

 

Torna su
Virus Zika: dal ministero della Salute una “guida” alle misure di prevenzione e controllo

EMA-ROMA attira l'ettenzione dei donatori di Sangue verso questo articolo esaustivo emesso dal Ministero della Salute a proposito del Virus Zika, ricordando che terminati i 28 giorni dall'ultimo giorno di pernottamento nelle zone indicate, ogni donatore può tranquillamente riprendere a donare il proprio sangue, continuando, così, a compiere uno splendido gesto di Solidarietà verso coloro che necessitano di trasfusioni di sangue

La Redazione del Sito

 

Sanità e Politica

Virus Zika: dal ministero della Salute una “guida” alle misure di prevenzione e controllo

Le indicazioni in una circolare inviata agli assessori alla sanità, ai ministeri e agli enti coinvolti. No ai viaggi nelle “zone a rischio” per le donne in gravidanza e stop alle donazioni di sangue (per 28 giorni) per chi rientra.

di Redazione Aboutpharma Online 29 gennaio 2016

 

Quali misure mettere in atto per la prevenzione e il controllo delle infezioni da virus Zika? Lo spiega il ministero della Salute in una circolare inviata agli assessorati regionali alla Sanità, ai ministeri e a tutti gli enti coinvolti. La nota fornisce una serie di raccomandazioni per chi si reca o proviene dai Paesi affetti. Il ministero ha predisposto anche una scheda informativa, sulla base dell’avviso del Centro europeo controllo malattie infettive, e un poster da esporre in corrispondenza dei punti di ingresso di porti ed aeroporti aperti al traffico internazionale.

Il ministero elenca i Paesi in cui al momento sono in corso epidemie di virus Zika a rapida evoluzione, con trasmissione in aumento o diffusa: Colombia, Brasile, Suriname, El Salvador, Guiana Francese, Honduras, Martinica (Dipartimento francese d’oltremare), Messico, Panama, Venezuela. Paesi in cui al momento vengono segnalati casi e trasmissione sporadica a seguito di introduzione recente del virus Zika: Barbados, Bolivia, Ecuador, Guadalupe, Guatemala, Guyana, Haiti, Porto Rico, Paraguay, Saint Martin.

Sebbene l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al momento, non raccomandi l’applicazione di restrizioni di viaggi e movimenti internazionali verso le aree interessate da trasmissione di virus Zika, nella nota si ritiene opportuno, sulla base di un principio di estrema precauzione:
1) Informare tutti i viaggiatori verso le aree interessate da trasmissione diffusa di virus Zika o in cui sono segnalati casi di infezione da tale virus, di adottare le misure di protezione individuale per prevenire le punture di zanzara;
2) Consigliare alle donne in gravidanza, e a quelle che stanno cercando una gravidanza, il differimento di viaggi non essenziali verso tali aree.
3) Consigliare ai soggetti affetti da malattie del sistema immunitario o con gravi patologie croniche, il differimento dei viaggio, quantomeno, una attenta valutazione con il proprio medico curante prima di intraprendere il viaggio verso tali aree;
4) Raccomandare ai donatori di sangue, che abbiano soggiornato nelle aree dove si sono registrati casi autoctoni d’infezione di virus Zika, di attenersi al criterio di sospensione temporanea dalla donazione per 28 giorni dal ritorno da tali aree, nell’ambito delle misure di prevenzione della trasmissione trasfusionale.

DOMANDE E RISPOSTE SUL VIRUS ZIKA

 

FAQ - Febbre da virus Zika

Ultimo aggiornamento:  29 gennaio 2016

 

1. Dove è presente in virus Zika?


Il virus Zika è presente nelle regioni tropicali, in grandi popolazioni di zanzare, circola in Africa, nelle Americhe, in Asia meridionale e nel Pacifico occidentale.

Il virus Zika è stato scoperto nel 1947, ma per molti anni sono stati rilevati solo casi sporadici nell’uomo, in Africa e in Asia meridionale. Nel 2007, il primo focolaio documentato di malattia da virus Zika è occorso nel Pacifico. Dal 2013, casi e focolai di malattia sono stati segnalati dal Pacifico occidentale, dalle Americhe e dall'Africa.

Data la diffusione ambientale delle zanzare, facilitata da urbanizzazione e globalizzazione, esiste la possibilità che si verifichino, a livello globale, grandi epidemie urbane di malattia da virus Zika.



2. Come si trasmette il virus Zika?

Il virus si trasmette con la puntura di zanzare del genere Aedes, le stesse che trasmettono la dengue, la chikungunya e la febbre gialla

3. Come si riproducono le zanzare Aedes?

Pungono solo le femmine; si alimentano a intermittenza e preferiscono pungere più di una persona. Una volta che la zanzara femmina si è completamente alimentata, necessita di riposare 3 giorni prima di deporre le uova. Le uova possono sopravvivere fino a 1 anno senza acqua. Una volta che l'acqua è disponibile e, sono sufficienti piccole quantità di acqua stagnante, le uova diventano larve e poi zanzare adulte. Le zanzare si infettano da persone portatrici del virus

4. Dove può sopravvivere la zanzara Aedes?

Ci sono 2 tipi di zanzara Aedes in grado di trasmettere il virus Zika. Nella maggior parte dei casi, Zika si diffonde attraverso la zanzara Aedes aegypti nelle regioni tropicali e subtropicali. La zanzara Aedes aegypti non sopravvive a temperature climatiche più fredde. Anche la zanzara Aedes albopictus può trasmettere il virus. Questa zanzara può ibernare e sopravvivere in aree più fredde

5. Può la zanzara Aedes viaggiare da paese a paese e da regione a regione?

La zanzara Aedes non può volare a più di 400 metri. Ma può inavvertitamente essere trasportata dall’uomo da un luogo ad un altro (ad esempio nei bagagliai delle macchine, con le piante). Se sopravvive al clima della destinazione, potrebbe in teoria essere in grado di riprodursi lì e di introdurre il virus Zika in nuove aree

6. Quali sono i sintomi di infezione da virus Zika?

Il virus Zika di solito provoca una forma lieve di malattia; i sintomi compaiono un paio di giorni dopo che la puntura di una zanzara infetta. La maggior parte delle persone con malattia da virus Zika presenta febbricola e rash cutaneo, si possono presentare anche congiuntiviti, dolori muscolari e articolari, e astenia. I sintomi di solito scompaiono in 2-7 giorni

6. Quali potrebbero essere le possibili complicanze del virus Zika?

Poiché non si sono registrate grandi epidemie di virus Zika prima del 2007, si conosce poco attualmente sulle complicazioni della malattia.

Durante il primo focolaio di Zika nel 2013 - 2014 nella Polinesia francese, che ha coinciso anche con un focolaio di dengue, le autorità sanitarie nazionali hanno riportato un insolito aumento della sindrome di Guillain-Barré. Sono in corso le indagini retrospettive in questo senso, compreso il ruolo potenziale del virus Zika e di altri possibili fattori. Un simile incremento di sindrome di Guillain-Barré si è verificato anche nel 2015, nel contesto del primo focolaio di virus Zika in Brasile.

Nel 2015, le autorità sanitarie locali in Brasile hanno anche osservato un aumento di bambini nati con microcefalia, contemporaneamente a un focolaio di virus Zika. Le autorità sanitarie e le agenzie stanno ora indagando sul potenziale collegamento tra microcefalia e virus Zika, oltre ad altre possibili cause. Tuttavia sono necessarie ulteriori indagini e ricerche prima di essere in grado di capire il possibile collegamento.

La Sindrome di Guillain-Barré è una condizione in cui il sistema immunitario attacca una parte del sistema nervoso. Essa può essere causata da un certo numero di virus e può colpire persone di qualsiasi età. Quello che innesca esattamente la sindrome non è noto. I sintomi principali sono debolezza muscolare e formicolio alle braccia e alle gambe. Gravi complicazioni possono verificarsi se sono colpiti i muscoli respiratori, che richiedono il ricovero in ospedale. La maggior parte delle persone affette da sindrome di Guillain-Barré guarisce, anche se alcuni possono continuare ad avvertire sintomi come la debolezza.



7. Le donne gravide devono preoccuparsi del virus Zika?

Le autorità sanitarie stanno attualmente indagando sul potenziale legame tra virus Zika nelle donne in gravidanza e microcefalia nei loro bambini. Fino a quando non si saprà di più, le donne in gravidanza o che stanno pianificando una gravidanza dovrebbero fare molta attenzione e proteggersi dalle punture di zanzara.

Le donne incinte che sospettano di avere la malattia da virus Zika, devono consultare il medico per un attento monitoraggio durante la gravidanza.



8. Che cosa è la microcefalia?

La microcefalia è una rara condizione in cui un bambino ha, anormalmente, una testa piccola, dovuta ad un anomalo sviluppo del cervello del bambino nel grembo materno o durante l'infanzia. Neonati e bambini con microcefalia hanno spesso problemi cerebrali durante la crescita.

La microcefalia può essere causata da una varietà di fattori ambientali e genetici come la sindrome di Down; esposizione a droghe, alcool o altre tossine nel grembo materno; e da infezione da rosolia in gravidanza.



9. Come si cura la malattia da virus Zika?

Il trattamento è sintomatico e consiste in farmaci per alleviare il dolore e la febbre, il riposo e bere tanta acqua. Se i sintomi peggiorano, consultare un medico. Non esiste un vaccino specifico contro il virus.

10. Come viene diagnosticata la malattia da virus Zika?

Per la maggior parte delle persone con diagnosi di malattia da virus Zika, la diagnosi si basa sui sintomi e sull’anamnesi recente (quali punture di zanzara o viaggi in una zona affetta). Un laboratorio può confermare la diagnosi con esami del sangue.

11. Che cosa posso fare per proteggermi?

La migliore protezione dal virus Zika è prevenire le punture di zanzara. Prevenire le punture di zanzara proteggerà le persone dal virus Zika, e da altre malattie che sono trasmesse dalle zanzare come la dengue, chikungunya e febbre gialla.

Questo può essere fatto utilizzando un repellente per insetti; indossando abiti (preferibilmente di colore chiaro), che coprano il corpo il più possibile; utilizzando schermi a porte e finestre e dormendo sotto zanzariere. E' anche importante mantenere vuoti e puliti, o coperti, contenitori che possono contenere anche piccole quantità di acqua come secchi, vasi da fiori o pneumatici, in modo che i luoghi in cui le zanzare si riproducono vengano rimossi.



12. E' sicuro viaggiare verso Paesi in cui il virus Zika è circolante?

I viaggiatori devono essere informati relativamente al virus Zika e alle altre malattie trasmesse da zanzare e consultare le autorità sanitarie.

Per proteggersi dal virus Zika e da altre malattie trasmesse dalle zanzare, si dovrebbe evitare di essere punti dalle zanzare, adottando le misure sopra descritte. Le donne che sono in gravidanza o che stanno pianificando una gravidanza dovrebbero seguire queste raccomandazioni e consultare anche le autorità sanitarie se si viaggia verso una zona con un'epidemia di virus Zika in corso.

Sulla base delle evidenze disponibili, l'OMS non raccomanda alcuna restrizione a viaggi o commerci internazionali a causa di epidemie da virus Zika.

Come misura precauzionale, alcuni governi, compresa l’ITALIA, hanno fornito misure di sanità pubblica e raccomandazioni ai viaggiatori, sulla base della valutazione dei fattori di rischio e delle evidenze disponibili.



13. El Niño può avere un effetto sul virus Zika?

Le zanzare Aedes aegypti proliferano in acqua stagnante. Grave siccità, inondazioni, forti piogge e aumenti di temperatura sono tutti effetti noti di El Niño - un riscaldamento dell'Oceano Pacifico centro-orientale tropicale. È atteso un aumento di zanzare a causa della favorevole estensione dei siti di riproduzione.

Possono essere adottate misure per prevenire e ridurre gli effetti sulla salute di El Niño, in particolare riducendo le popolazioni di zanzare che diffondono il virus Zika.

OMS e partner stanno collaborando per fornire sostegno ai ministeri della sanità per:

  • incrementare la preparazione e la risposta a El Niño
  • rafforzare qualsiasi azione che aiuti a controllare le popolazioni di zanzare come la riduzione alla sorgente, misure che riguardano i principali luoghi di riproduzione delle zanzare, distribuzione di larvicidi (insetticidi specificamente mirati contro la fase di vita larvale della zanzara Aedes) per il trattamento dei siti d'acqua che non possono essere trattati in altri modi (pulizia, svuotamento, copertura) ecc.
  • rafforzare la sorveglianza dei vettori (per esempio, il numero di siti di riproduzione in una zona, la percentuale di siti ridotti)
  • monitorare l'impatto delle azioni per controllare le popolazioni di zanzare.

Anche singole famiglie possono contribuire a ridurre le popolazioni di zanzare. I contenitori che possono contenere anche piccole quantità di acqua come secchi, vasi da fiori o pneumatici usati devono essere svuotati, puliti o coperti in modo che le zanzare non li possano utilizzare per riprodursi (anche durante una grave siccità).



14. Quali lacune si devono superare per conoscere il virus Zika?

I temi chiave da affrontare nella comprensione della malattia da virus Zika sono:

  • caratteristiche epidemiologiche del virus, ad esempio, il suo periodo di incubazione, il ruolo che giocano le zanzare nella trasmissione del virus e la sua diffusione geografica
  • contromisure sanitarie potenziali (compresi trattamenti e vaccini) che possono essere sviluppate
  • In che modo il virus Zika interagisce con altri arbovirus (virus che vengono trasmessi da zanzare, zecche e altri artropodi,, come la dengue
  • sviluppo di più specifici test diagnostici di laboratorio per virus Zika che possono ridurre le diagnosi errate che si verificano a causa della presenza di dengue o altri virus in un campione.



15. Che cosa sta facendo l’OMS?

L’OMS sta collaborando con i paesi per:

  • definire e dare priorità alla ricerca della malattia da virus Zika coinvolgendo esperti e partner
  • rafforzare la sorveglianza del virus Zika e possibili complicanze
  • rafforzare la capacità di comunicazione del rischio per aiutare i paesi a raggiungere gli impegni assunti nell'ambito del regolamento sanitario internazionale
  • fornire formazione sulla gestione clinica, la diagnosi e il controllo del vettore anche attraverso una serie di WHO Collaborating Centres
  • rafforzare la capacità dei laboratori per rilevare il virus
  • supportare le autorità sanitarie per implementare le strategie di controllo dei vettori volte a ridurre le popolazioni di zanzare Aedes come la fornitura di larvicidi per il trattamento di siti di acqua stagnante che non possono essere trattati in altro modo, come la pulizia, lo svuotamento, e le coperture
  • preparare raccomandazioni per la cura clinica e il follow-up di persone con il virus Zika, in collaborazione con esperti e altri enti sanitari.

 

 

Organizzazione Mondiale della sanità

Traduzione: Ministero della salute, D.G.Prevenzione sanitaria

 

Torna su
Zika, possibile trasmissione per via sessuale durante la fase sintomatica

Medicina scienza e ricerca

Zika, possibile trasmissione per via sessuale durante la fase sintomatica

Il virus può trovarsi anche nello sperma, per cui la trasmissione sessuale è rara ma non impossibile. La trasmissione dell’infezione avviene solo durante il periodo di viremia, quando la persona è sintomatica, per cui basta usare adeguate precauzioni nei giorni seguenti all’esposizione

di Redazione Aboutpharma Online 3 febbraio 2016 

 

È raro ma non impossibile. È di oggi la notizia che il virus Zika possa essere trasmesso non solo tramite la puntura di una zanzara ma anche sessualmente. A Dallas infatti il Centro per il controllo delle malattie (Cdc) alla Bbc, ha riferito del un contagio di una persona che non aveva effettuato viaggi nelle aree contagiate dal virus, ma il cui partner era appena ritornato dal Venezuela.

“Il virus Zika nella sua fase acuta è presente nel sangue e quindi è possibile che sia anche nello sperma” spiega all’Adnkronos Salute Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive parassitarie e immunomediate dell’Istituto superiore di sanità (Iss). “È raro ma potrebbero esserci altri casi come quello segnalato a Dallas dai Cdc americani, su cui però dovrebbero essere fatti approfondimenti. È possibile quindi che una persona che ha viaggiato nei Paesi colpiti da Zika possa al ritorno trasmettere, durante un rapporto sessuale, il virus al partner. La raccomandazione è di astenersi per alcuni giorni dall’attività sessuale”, dal momento che la viremia dura poco”.

“Per quanto riguarda lo sviluppo del vaccino invece – continua Rezza – non si produce in un giorno, ci sono ricercatori che ci stanno lavorando e qualcosa inizia a muoversi”.

“Il contagio del virus per via sessuale deve essere ulteriormente approfondito per comprendere le condizioni, quante volte o con che probabilità si possa verificare una trasmissione simile” spiega all’AdnKronos Salute da Ginevra il portavoce dell’Organizzazione mondiale della sanità, Gregory Hartl. “Siamo consapevoli che la notizia di un caso di trasmissione per via sessuale del virus desti preoccupazione”.

“Abbiamo anche bisogno di sapere se altre vie di trasmissione del virus sono possibili” prosegue Hartl. “Per il momento la zanzara è ancora il mezzo di trasmissione preponderante, ed è qui che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Le autorità sanitarie devono agire per eliminare le zanzare e i siti di riproduzione, mentre i singoli individui possono adottare interventi per proteggere se stessi, come repellenti, insetticidi, abiti lunghi e coprenti e cortine per i letti”.

La trasmissione del virus  Zika per via sessuale non è comunque una novità. “È  già stata dimostrata in almeno un caso prima del recente report nordamericano. Tanto che già le autorità sanitarie consigliano l’uso del profilattico al ritorno dai Paesi endemici per Zika, per almeno un mese”. Come spiega all’AdnKronos Salute Emanuele Nicastri, l’infettivologo dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. “Il virus è stato infatti nel sangue, nelle urine e anche nello sperma dei pazienti affetti da questa infezione. Per cui vi era già un sospetto, nel primo caso poi dimostrato, di trasmissione sessuale, proprio per l’evidenza del virus nel liquido spermatico”.

La  trasmissione dell’infezione comunque avviene solo durante il periodo di viremia, quando la persona è sintomatica. Zika infatti non dovrebbe essere come l’Hiv che rimane infettivo.

 

Torna su
Virus Zika, l’appello Onu ai paesi colpiti: cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione

Sanità e Politica

Virus Zika, l’appello Onu ai paesi colpiti: cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione

Secondo l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra'ad Al Hussein, le norme restrittive andrebbero modificate con urgenza

di Redazione Aboutpharma Online 5 febbraio 2016

 

Rimuovere le restrizioni che limitano l’aborto e la contraccezione nei paesi colpiti dal virus Zika. È l’appello dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein, che sta rimbalzando sui media internazionali.

“Le leggi e le politiche che limitano l’accesso a questi servizi dovrebbero essere urgentemente riesaminate in conformità con i diritti umani, al fine di garantire, in pratica, il diritto alla salute per tutti”, ha dichiarato il commissario. Il virus Zika, infatti, è sospettato di provocare microcefalia nei feti delle donne contagiante nel corso della gravidanza.

La richiesta ai Governi è di cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione, in considerazione dei rischi legati all’emergenza. “Come possono chiedere a queste donne di non rimanere incinte e non offrire anche la possibilità, se lo desiderano, di interrompere una gravidanza?”, ha detto il portavoce del Commissario delle nazioni Unite, Cecile Pouilly, riferendosi a Paesi come El Salvador che considerano reato l’aborto.

L’interruzione di gravidanza è consentita solo in casi limitati (rischio di morte per la madre e stupro) in Brasile, dove i casi di bambini nati con microcefalia sono aumentati in maniera esponenziale dopo l’epidemia di Zika, con 4 mila bambini nati con la grave malformazione negli ultimi 4 mesi.

Torna su
Zika, l’Ema istituisce una task force: supporto a chi fa ricerca contro il virus

Legal & Regulatory

 

Zika, l’Ema istituisce una task force: supporto a chi fa ricerca contro il virus

Il gruppo di lavoro sarà disponibile per fornire consulenza su ogni aspetto scientifico e regolatorio per la ricerca e lo sviluppo di farmaci o vaccini contro il virus

di Redazione Aboutpharma Online 8 febbraio 2016

 

Una task force di esperti con conoscenze specialistiche su vaccini, malattie infettive ed altre competenze rilevanti per contribuire alla risposta globale alla minaccia dell’infezione del virus Zika. È l’iniziativa annunciata oggi dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema). Il gruppo sarà disponibile per fornire supporto su ogni aspetto scientifico e regolatorio per la ricerca e lo sviluppo di farmaci o vaccini contro il virus.
“Non ci sono al momento vaccini o farmaci approvati o sottoposti a studi clinici, per proteggere o trattare l’infezione del virus Zika. L’Agenzia – si legge in un comunicato – sta incoraggiando chi sviluppa farmaci a contattare Ema se ha progetti promettenti in questa area. Ema si metterà inoltre in contatto in maniera proattiva con le aziende che stanno già pianificando di lavorare su vaccini sperimentali ed offrirà consulenza scientifica e normativa”.
Le aziende possono chiedere una consulenza scientifica (Scientific Advice) all’Ema sui test e sugli studi appropriati, richiesti nello sviluppo dei loro prodotti. “Un’interazione precoce e regolare con l’agenzia può accelerare in maniera significativa lo sviluppo di farmaci. Anche la Procedura Europea ai sensi dell’articolo 58 del Regolamento CE 726/2004 fornisce l’opportunità di dare un’opinione scientifica su trattamenti destinati principalmente all’ uso in paesi non europei, collaborando a stretto contatto con l’Organizzazione mondiale della sanità ed esperti di tali paesi”, conclude l’agenzia.

Torna su
Vaccini, fidarsi è meglio: i “falsi miti” mettono in pericolo la salute di tutti

Medicina scienza e ricerca

Vaccini, fidarsi è meglio: i “falsi miti” mettono in pericolo la salute di tutti

Il calo delle coperture vaccinali preoccupa gli esperti. Si rischia il “ritorno” di malattie infettive che grazie alla prevenzione possono essere eliminate. Pesa lo scetticismo sulle vaccinazioni, alimentato spesso da luoghi comuni e informazioni infondate

di Redazione Aboutpharma Online 8 febbraio 2016

 

Se la prevenzione arretra, le malattie infettive avanzano pericolosamente. Dalla meningite al morbillo, la vaccinazione è considerata l’unica arma efficace per tutelare la salute di tutti. Ma i luoghi comuni sulla presunta pericolosità o inutilità di vaccini alimentano scetticismo e diffidenza. E i tassi di copertura vaccinale in Italia continuano a scendere, ha ricordato di recente il ministero della Salute.

L’allarme meningite in Toscana
A riportare al centro dell’attenzione il tema dei vaccini sono (anche) le notizie preoccupanti che arrivano in questi giorni dalla Toscana: 10 casi di meningite dall’inizio dell’anno; 38 nel 2015, inclusi 9 decessi. Ne abbiamo parlato con Rino Rappuoli, uno dei massimi esperti di vaccini a livello internazionale nonché amministratore delegato di Gsk Vaccines: “Il meningococco C – spiega Rappuoli – arriva in una Regione, si diffonde fra la popolazione e provoca un alto numero di casi per 10-15 anni. È ciò che sta accadendo in Toscana, ma anche in Normandia, in Argentina o in Brasile. Oppure in Inghilterra, con il meningococco B, o in Cile e Colombia con il meningococco W. La mortalità è alta (dal 10 al 25%) perché la malattia si evolve troppo rapidamente e quando si arriva a riconoscerla gli antibiotici sono già inefficaci. L’unica cosa che si può fare è prevenirla e l’unica arma è il vaccino”.

Che il vaccino sia in grado di “eliminare il rischio” è stato “dimostrato in tutto il mondo”, sottolinea lo scienziato, rievocando l’esperienza dell’Inghilterra di alcuni anni fa: “Nel 2000 siamo stati chiamati a usare il nuovo vaccino anti-meningococco C in Inghilterra, dove il batterio stava dilagando. Si trattava di circa 1.500 casi all’anno. Abbiamo vaccinato tutta la popolazione dai due mesi ai 18 anni. I casi sono spariti quasi del tutto e vaccinando la popolazione più giovane abbiamo bloccato la diffusione del batterio verso le persone di età più adulta non vaccinate”. E se la Toscana non avesse avviato dieci anni fa la vaccinazione anti-meningococco C per tutti i nuovi nati, oggi i numeri sarebbero ancora più allarmanti. “Invece – sottolinea Rappuoli – i casi si collocano tutti oltre una certa fascia d’età”.

“Se smettiamo di vaccinare, le malattie ritornano”
“Non vaccinare è pericoloso”, dice Rappuoli, e non solo per la meningite. Il calo delle vaccinazioni contro morbillo, parotite e rosolia (nessuna Regione italiana raggiunge la soglia “raccomandata” del 95%) è un “dato preoccupante”. Il rischio? Il ritorno di malattie che in realtà “spariscono” grazie ai vaccini. “Negli Stati Uniti – spiega l’esperto – non esistono più casi endogeni di morbillo, gli unici che si verificano vengono importati dall’estero e colpiscono dove c’è una popolazione non vaccinata, come in alcune comunità religiose che rifiutano i vaccini”.

Convinzioni e “falsi miti” sui vaccini sono stati elencati alcuni mesi fa dalla Società italiana di pediatria (Sip). Uno di questi, pronunciato da una ipotetica “mamma diffidente”, dice: “Perché dovrei vaccinare mio figlio per malattie scomparse o quasi?”. “È una domanda comprensibile – commenta Rappuoli – perché le mamme di oggi fortunatamente non hanno mai visto difterite, tetano, morbillo e così via. Ma se smettiamo di vaccinare, le malattie ritornano. L’unica che non può ritornare è il vaiolo, che è stata eradicata. Ai genitori bisognerebbe dire: se oggi viviamo in media 35-40 anni in più di quanto si viveva un secolo fa è perché grazie ai vaccini abbiamo eliminato le malattie infettive che ci uccidevano”.

Vaccini e autismo
Da smentire categoricamente, secondo l’esperto, è anche il più famoso dei falsi miti: la correlazione fra vaccini e autismo. “Studi scientifici serissimi – sottolinea lo scienziato – hanno provato e riprovato, decine di volte, che non c’è alcun legame. La cosa più abominevole è l’aver cavalcato questa teoria in modo assolutamente anti-etico o addirittura per speculare economicamente con cause legali e richieste di risarcimenti”. Con ricadute pericolose per la salute: “La famosa teoria di Wakefield determinò in Inghilterra un calo drastico delle vaccinazioni. Si ricominciò a morire di morbillo e fu necessaria una campagna vaccinale straordinaria in tutto il Paese. Davvero si deve arrivare a questo per comprendere l’importanza dei vaccini?”, chiede Rappuoli.

Gli “ingredienti pericolosi”
Alcuni falsi miti screditano i vaccini per “come sono fatti”. In cima alla lista dei falsi miti stilata della Sip, si legge: “I vaccini contengono ingredienti e additivi pericolosi”. Ne abbiamo parlato con Marco Ercolani, Medical & Scientific Director di Sanofi Pasteur MSD: “I vaccini sono prodotti biologici composti da più elementi. C’è innanzitutto l’antigene, la parte attiva che determina la risposta protettiva del nostro sistema immunitario. Insieme all’antigene, sono presenti un liquido di sospensione (spesso acqua distillata sterile o soluzione fisiologica sterile), conservanti come ad esempio minime quantità di antibiotici (ad esempio la neomicina) utilizzati per garantire la sterilità del prodotto e stabilizzanti, come l’albumina e la gelatina, che impediscono la degradazione del vaccino. Inoltre alcuni vaccini contengono  minime quantità di sostanze adiuvanti, che consentono di avere una idonea risposta immunitaria al tipo di antigene somministrato.: Il più comune è il sale di alluminio, che è  estremamente sicuro. L’uso di conservanti a base di mercurio fu abbandonato nel 2002. Ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che non esistono prove che la minima quantità di questi conservanti, utilizzata in passato in alcuni vaccini, comportasse rischi per la salute”.

Una filiera sicura
Ma come viene garantita la sicurezza dai vaccini sin dalle prime fasi del loro sviluppo? “I vaccini sono fra i medicinali più controllati in assoluto – spiega Ercolani – ed arrivano in commercio dopo un lungo periodo di sviluppo clinico, tra i 10 ed i 12 anni, in cui sicurezza e tollerabilità sono ampiamente verificate e dimostrate su migliaia di soggetti.  Tutte le aziende produttrici sono tenute a rispettare le Good Manifacture Practice (GMP), un insieme di norme definite dagli enti regolatori per garantire standard di qualità. E il rispetto di queste regole viene verificato con ispezioni periodiche dalle autorità competenti”. Un ciclo di produzione dei vaccini può durare fino a due anni e richiede controlli di qualità su ogni singolo lotto, effettuati sia dal produttore che da laboratori esterni (Official Medicines Control Laboratories) per l’Italia  l’Istituto Superiore di Sanità. “Si pensi – sottolinea Ercolani – che i controlli di qualità occupano il 70% del tempo totale di produzione”. E non solo: “Una volta arrivati in commercio, la sorveglianza post-marketing sui vaccini è più intensa rispetto ai farmaci. Nel caso dei vaccini si registrano anche gli eventi avversi non gravi ed attesi. Questo permette di monitorare sul campo, cioè su milioni di soggetti, la loro sicurezza”.

Effetti collaterali gravi?
Infine, tra i falsi miti, la paura di presunti effetti collaterali gravi. “La maggior parte degli eventi avversi da vaccini – spiega Ercolani – è di scarsa rilevanza, quelli gravi sono rarissimi. È molto più probabile essere affetti da una malattia prevenibile con il vaccino che avere una reazione grave da vaccino: ad esempio il morbillo può determinare un caso di encefalite ogni 1000 persone affette. Il rischio di encefalite post-vaccino? È stimato essere tra uno su un milione ed uno su due milioni e mezzo, frequenza peraltro non dissimile da quella che si rileva nella popolazione generale senza fattore di rischio. Oppure: il rischio di reazione allergica grave con il vaccino per morbillo-parotite-rosolia è di uno su un milione. Se vogliamo semplificare, il rischio di essere colpiti da un fulmine per strada durante un temporale sapete quant’è? Uno su diecimila, quindi cento volte più alto. Il problema semmai è la percezione del rischio: i vaccini sono generalmente somministrati a soggetti in buona salute, quindi per le persone l’accettabilità dell’evento avverso – a differenza dei farmaci che curano una malattia – è davvero bassissima”.

A rimarcare la sicurezza da vaccini è, infine, Rino Rappuoli: “La paura di effetti collaterali gravi è atavica. I primi vaccini, sviluppati un secolo fa, avevano effetti collaterali pesanti (ad esempio l’anti-polio orale). Ma oggi non si usano più. La cosa ‘peggiore’ che può verificarsi? Qualche linea di febbre, un po’ di dolore sul punto dell’iniezione o rarissime allergie come per tutti i farmaci”.

 

 

Nei Paesi in via di sviluppo un dollaro speso per i vaccini ne “rende” 44

E' la stima dei minori costi per il sistema salute e di Pil in più prodotto da persone che non si ammalano grazie alla profilassi

di Redazione Aboutpharma Online 8 febbraio 2016

 

Ogni dollaro speso per incrementare le vaccinazioni nei Paesi in via di sviluppo ne rende 44 in termini di minori costi e in Pil prodotto da persone che altrimenti non sarebbero in salute. Lo afferma uno studio della Bloomberg School of Public Health di Baltimora pubblicato dalla rivista Health Affairs.
I ricercatori hanno stimato i costi e i benefici dei programmi di vaccinazione per le dieci malattie più diffuse in 96 paesi a medio e basso reddito nel mondo tra il 2011 e il 2020 usando due approcci.
Nel primo si è tenuto conto solo dei costi di trattamento e trasporto dei malati di patologie prevenibili, oltre che della produttività persa da familiari e altre persone che assistono il malato. Il secondo invece ha stimato anche il valore di una persona che vive più a lungo e in salute grazie alla vaccinazione. Al costo del vaccino sono stati invece aggiunti quelli per il trasporto e la somministrazione. Tra il 2011 e il 2020 il costo totale dei programmi di immunizzazione nei 94 paesi studiati è stimato in 34 miliardi di dollari. Con il primo approccio si eviterebbero costi per 686 miliardi di dollari, mentre il beneficio correlato al secondo approccio è stimato in 1,5 miliardi di dollari.

 

 

Torna su
Un test per rilevare le ferite infette in tempo reale

Medicina scienza e ricerca

Un test per rilevare le ferite infette in tempo reale

Ricercatori della George Washington University scoprono un metodo a basso costo per rintracciare la presenza di alcuni batteri senza attendere l'esito della coltura. L'esame potrà permettere anche un uso più appropriato degli antibiotici, limitando la comparsa di resistenze

di Redazione Aboutpharma Online 8 febbraio 2016 

 

Nuovo test fai-da-te per scoprire in meno di un minuto se una ferita è infetta o meno. L’ha messo a punto un team di ricercatori della George Washington University che ha inventato il metodo per identificare le molecole prodotte da batteri (es. Pseudomonas) che solitamente infettano le ferite croniche. Gli esperti, coordinati da Victoria Shanmugam, hanno testato un sensore elettrochimico, economico e monouso, che rivela immediatamente la presenza dei batteri localizzando la piocianina (un pigmento antiobitico prodotto dal batterio e che rende blu le ferite infettate). Tale test ha permesso di identificare correttamente la presenza del microrganismo nel 71% dei casi e la sua assenza il 57% delle volte. La scoperta, nella sua semplicità, spalanca le porte a notevoli vantaggi terapeutici. “Poter rilevare lo Pseudomonas e altri organismi infettivi al momento della visita clinica – dice Victoria Shanmugam – migliorerà di molto la nostra capacità di prenderci cura dei pazienti. Non dovremo aspettare i risultati della coltura (almeno 24 ore) prima di decidere se e quale antibiotico usare”. Il metodo potrebbe offrire un nuovo strumento ai medici per rilevare infezioni alle ferite già al letto del paziente scegliendo, invece di antibiotici a largo spettro, dei farmaci più specifici e in tempi più rapidi, con costi minori e riducendo la possibile resistenza agli antibiotici.

 

Torna su
Trapianti, nel 2015 in aumento donazioni e interventi

Sanità e Politica

 

Trapianti, nel 2015 in aumento donazioni e interventi

Presentati oggi i dati del Sistema informativo trapianti. A crescere è anche la sensibilità degli italiani: quasi mille cittadini al giorno hanno detto "sì" alla donazione registrando la dichiarazione di volontà all'anagrafe del comune di residenza

di Redazione Aboutpharma Online 17 febbraio 2016

 

Aumentano in Italia i donatori di organi, i trapianti eseguiti e – con un enorme balzo in avanti – il numero di italiani che si esprime a favore della donazione. A dirlo, a proposito del 2015, sono i dati del Sistema informativo trapianti presentati oggi al ministero della Salute. L’anno scorso, infatti, il totale di pazienti trapiantati ha raggiunto quota 3.317: il 2% in più rispetto al 2014 e un +7% rispetto al 2013. Le donazioni, sia da cadavere che da vivente, sono passate dalle 1443 del 2014 a 1494 (51 in più). Il 2015 è anche l’anno in cui sono stati raccolti i frutti della campagna “Una scelta in Comune”, l’iniziativa promossa dal ministero della Salute con Federsanità Anci per la registrazione della dichiarazione di volontà sulla donazione degli organi al momento del rilascio (o rinnovo) della carta d’identità. Sono stati 104.571 gli italiani che, all’ufficio anagrafe del comune di residenza, hanno espresso la loro volontà (positiva nel 92% dei casi). Nel 2014 erano appena 15.137, mentre i comuni che hanno attivato la procedura sono passati da 23 a 454. In media, sono state raccolte nel 2015 mille dichiarazioni al giorno. Secondo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, “bisogna rafforzare la collaborazione con le amministrazioni comunali perché queste possono aiutarci a veicolare i progetti di buona sanità” e, più in generale, “lavorare per ottimizzare e migliorare sempre di più il sistema dei trapianti in Italia che è un eccellenza riconosciuta in tutto il mondo”.

“È stato un anno positivo – commenta Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti – perché c’è un aumento del numero delle donazioni e dei trapianti, è cominciata l’attività di donazione a cuore fermo, le liste di attesa sono stabili il che è un segno fortemente positivo e anche la sopravvivenza dei pazienti dopo l’intervento è positiva. Il sistema conferma la sua eccellenza. Ci sono ancora molte differenze sulle donazioni fra Nord e Sud, ma molte Regioni del Sud stanno crescendo”.

 

Diapositiva07

 

I dati nel dettaglio

L’intera attività trapiantologica cresce complessivamente, ma con alcune peculiarità: cuore e fegato hanno registrato un buon incremento, arrivando rispettivamente a 246 (19 in più rispetto al 2014) e 1067 interventi (10 in più rispetto al 2014). I trapianti di rene sono stati 1.877, in aumento grazie agli interventi eseguiti da donatori viventi. Il polmone ha subìto una leggera inflessione (112 nel 2015; 126 nel 2014) mentre il pancreas risulta in crescita (50 nel 2015; 43 nel 2014). Altrettanto positiva l’attività trapiantologica per i tessuti e le cellule staminali emopoietiche; per quest’ultime, sono stati 704 i trapianti da donatore non familiare adulto (+11 rispetto al 2014) e in aumento quelli da donatore familiare semi-compatibile (“aploidentico”).

Sono stati 2.332 gli accertamenti di morte con criteri neurologici (nel 2014 erano stati 2.349); il numero dei donatori offerti alla rete trapiantologica è pari a 1.388 (+ 5 rispetto all’anno precedente). Il totale dei donatori utilizzati a scopo di trapianto è stato 1.170 (contro i 1174 del 2014); questa lieve oscillazione è imputabile agli elevati standard di sicurezza che caratterizza il nostro sistema.

Scende la percentuale delle opposizioni alla donazione nel 2015, pari al 30.6% rispetto al 31% dell’anno precedente. Crescono i donatori di tessuti, con particolare riferimento alla cornea (7553 nel 2015 contro i 7449 nel 2014), di cui il nostro Paese è primo in Europa. In aumento anche i donatori volontari iscritti al Registro IBMDR (469.000 nel 2015).

La “donazione da vivente” ha registrato un notevole incremento: 301 sono state quelle di rene e 23 sono state quelle di fegato (contro le 18 del 2014). Per le donazioni di rene da vivente, il 2015 ha consentito di raggiungere un vero e proprio record, sfondando per la prima volta la soglia dei 300 prelievi (+50 rispetto al 2014, +74 rispetto al 2013 e +109 rispetto al 2012).

L’altra innovazione del 2015 ha riguardato la donazione a cuore fermo; nell’anno appena concluso sono state 6 le donazioni eseguite “a cuore fermo”, modalità che richiede il pieno rispetto dei 15 minuti di “no touch period” prima di procedere al prelievo. Grazie alle sei donazioni a cuore fermo sono stati eseguiti 12 trapianti.

A fine dicembre 2015 i pazienti in lista di attesa erano 9.070; la maggior parte di questi in lista di attesa per ricevere un trapianto di rene (6.765); rispetto agli altri organi, al paziente è offerta la possibilità di iscriversi in più liste d’attesa per il rene. Sono 1.072 i pazienti iscritti in lista per il fegato, 731 per il cuore e 383 per il polmone. Vi è una sostanziale stabilità dei dati di lista, dovuti ad un maggiore equilibrio, rispetto al passato, tra i flussi di entrata e di uscita. Nell’anno 2015, con variazioni per singolo organo, sono stati tra il 70% e l’80% i pazienti usciti dalle liste di attesa con un trapianto.

 

 

 

Torna su
I camici bianchi confermano lo sciopero: segnali di apertura dal ministro, ma servono atti concreti

Sanità e Politica

I camici bianchi confermano lo sciopero: segnali di apertura dal ministro, ma servono atti concreti

Lo comunica l'intersindacale a seguito del confronto di oggi con il ministro Lorenzin.

di Redazione Aboutpharma Online 18 febbraio 2016

 

“Nell’attesa di atti e segnali concreti”, lo sciopero generale dei camici bianchi del 17 e 18 marzo rimane confermato. A comunicarlo è l’intersindacale dei medici di medicina generale a seguito del confronto odierno con il ministro Lorenzin. “Contratto e convenzioni, sono da attivare subito – spiega la nota rilasciata dell’intersindacale – costituendo irrinunciabili strumenti di governo, anche della spesa, e di innovazione organizzativa”. Non sono mancati però segnali di apertura. “Il ministro ha dato la propria disponibilità all’attivazione di tavoli tecnici, anche interministeriali, che affrontino le ragioni che oggi rendono insostenibile la situazione dei medici, e dei dirigenti sanitari”. Molti i temi caldi rimarcati al ministro dalle organizzazioni: dalla sospensione degli effetti o ritiro del decreto “appropriatezza”,  all’applicazione della Legge sull’orario di lavoro e al superamento del precariato,  dalla riforma del sistema di formazione medica, alla definizione di requisiti di accreditamento omogenei per il settore pubblico e quello privato. “Le organizzazioni Sindacali e il Ministro hanno concordato sulla necessità di aprire un processo che porti al riconoscimento da parte del Governo del ruolo e del valore del lavoro dei medici, e degli altri professionisti del Ssn, insieme con quello della sanità pubblica”.

 

 SCIOPERO GENERALE 17 E 18 MARZO 2016 MANIFESTO PER #LABUONASANITA’       

PREMESSA Dopo lo sciopero unitario del 16 dicembre 2015, il Governo non ha ancora ritenuto di avviare un confronto con i professionisti per il rilancio della sanità pubblica e la valorizzazione del lavoro di chi quotidianamente garantisce la tutela della salute a milioni di cittadini. Latitano convenzioni e contratti di lavoro, bloccati da oltre sei anni, irrinunciabili strumenti di governo, anche della spesa, e di innovazione dei modelli organizzativi, delle forme retributive, dei contenuti e delle tipologie di lavoro.  Le Organizzazioni sindacali, che non intendono essere spettatrici passive del declino inesorabile della sanità pubblica, sottoposta a continui e pesanti tagli che già peggiorano i dati di salute, tornano a chiedere al Governo di investire sul sistema sanitario pubblico, volano di una filiera produttiva che oggi vale 11 punti di PIL, a partire dalla valorizzazione del suo capitale umano. E di riportare le questioni della sua sostenibilità, della distribuzione non omogenea dei LEA, della specificità di ruolo, status, identità, dei Medici e dei dirigenti sanitari, del futuro dei giovani, della organizzazione del lavoro nell’agenda della politica italiana, dentro una idea ed una azione progettuale. E’ tempo che la politica decida se è ancora un diritto costituzionale la tutela della salute dei cittadini. Ai quali, destinatari del nostro lavoro quotidiano, denunciamo il pericolo che sia vanificato il dettato costituzionale, lasciando le persone più fragili e indifese a subire le malattie come eventi catastrofici. Essere curati secondo i bisogni costituisce un limite etico, civile e sociale oggi fortemente minacciato e, da qualche parte del nostro Paese, già pericolosamente travalicato. I tagli ai servizi che limitano l’accesso alle cure per fasce crescenti di cittadini, salvo pagarli a caro prezzo, lasciano soli coloro che, tutti i giorni e tutte le notti, garantiscono la esigibilità di un diritto costituzionalmente tutelato, a reggere il fronte di una domanda crescente e complessa con risorse decrescenti, esposti alla delegittimazione sociale ed a rischi sempre meno sostenibili a fronte di retribuzioni bloccate da 6 anni.  Il futuro del SSN, che perde pezzi di equità ed universalismo, non dipende solo dal finanziamento, che vede crescere il gap con gli altri paesi europei, ma anche dalla capacità di superare un modello di sanità a pezzi per garantire una omogenea esigibilità del diritto alla salute in tutto il Paese. E dalla inversione della scala delle priorità, che oggi pone la salute agli ultimi posti nelle strategie politiche, dal valore che si attribuisce al lavoro dei professionisti, dal ruolo e dalle responsabilità da assegnare ai Medici, la cui crisi di identità professionale rischia di portarli lontano da ciò che interessa la società e da ciò di cui hanno bisogno i cittadini mettendo a rischio quel valore sociale che è nell’esercizio quotidiano di prossimità alle persone, negli ospedali, negli ambulatori, negli studi, nelle case dove vivono, nei luoghi dove lavorano.   UNA NUOVA GOVERNANCE  DELLE ATTIVITA SANITARIE  Il disagio professionale è figlio di un processo che vede i medici, e le professioni, marginalizzati e costretti in matrici organizzative che, il più delle volte, trascurano le competenze e mortificano il merito. L’idea del governo clinico e di un management diffuso mantiene, perciò, le sue buone ragioni, nel prospettare un nuovo modello di organizzazione e gestione delle attività di tutela della salute. Riconoscendo più spazio e più peso alle associazioni di tutela dei cittadini, ai governi dei territori (municipalità, comuni, consorzi di comuni),ai Medici ed alle professioni nell’orientare e supportare le scelte tecniche nella programmazione e valutazione degli obiettivi e dei risultati di salute, partendo dal riconoscimento di una sfera decisionale fondata sulla autonomia e responsabilità professionale. La natura monocratica del management aziendale, la subalternità dell’autonomia tecnico-professionale alle ragioni della gestione economicistica, la discrezionalità connessa al rapporto fiduciario, le procedure di selezione, progressione e verifica delle carriere discrezionali ed autoritarie, non possono più essere il paradigma unico e immutabile. I bisogni dei malati ed i valori professionali, e non la struttura finanziaria, devono essere i motori delle scelte strategiche. La appropriatezza clinica è un valore intrinseco alla professione al quale non intendiamo rinunciare, ma nemmeno subire attraverso atti calati dall’alto. Oggi, Regioni ed Aziende invadono la autonomia e la responsabilità professionale dei medici, per amministrare i loro atti clinici ed imporre ai cittadini prestazioni standardizzate con un generalizzato aumento del ticket. Obbligandoli anche ad usare presidi sanitari decisi da altri, magari al costo più basso a scapito della qualità. Questo comporterà un danno al malato, curato con mezzi inadeguati, e toglierà al medico il controllo sui mezzi che impiega, facendo  ricadere su di lui ogni scadimento dell’assistenza. Solo    se le competenze dei Medici definiscono il giusto equilibrio nel binomio qualità/prezzo, si eviteranno bisturi  che non tagliano, guanti che non proteggono e siringhe che si bloccano. Una politica di efficienza ed ottimizzazione dei costi, per non ridurre la qualità, richiede la applicazione di conoscenze e valori professionali di derivazione clinica. Il blocco del turnover produce ritmi e turni di lavoro spesso insostenibili, mancato rispetto delle pause e dei riposi, a danno di qualità e sicurezza delle cure, milioni di ore lavorative non retribuite e non recuperabili, ferie non godute, impossibilità per i medici più esperti di trasmettere le loro competenze a quelli più giovani, ed una generalizzata riduzione dei servizi. E crescita del numero di medici e dirigenti sanitari disoccupati e precari, una intera generazione di giovani relegata dopo 11-12 anni di formazione in contratti di lavoro atipici che negano i diritti fondamentali del lavoro. Le assunzioni promesse non saranno sufficienti a riportare a regime il sistema, specie se allocate in maniera non rispettosa dei bisogni organizzativi o, peggio ancora, se avvenissero con un aumento dei contratti atipici. E’ ora di aumentare l’occupazione dei giovani e di mettere fine ad un precariato che li priva di futuro e li condanna allo sfruttamento.  

COINVOLGERE IL SSN NELLA FORMAZIONE La crisi del sistema della formazione è finita in un imbuto che produce disoccupazione, lasciando troppi giovani in una sorta di riserva indiana a bassa qualificazione professionale, nella quale pescano soggetti interessati a sviluppare attività sanitarie concorrenziali con il pubblico a costi più bassi, fino a moderne forme di caporalato. O spingendoli a cambiare Paese. Occorre garantire coerenza tra la programmazione della formazione pre e post laurea e le esigenze del sistema sanitario nazionale. E anticipare al periodo formativo l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, anche per assicurare loro un futuro previdenziale. Il regime monopolistico della formazione è il chiavistello con il quale l’Università sta occupando la direzione delle UUOO del SSN, in aziende integrate dilatate da improvvidi provvedimenti legislativi, pur dedicando solo il 30% del tempo di lavoro all’attività clinica. La direzione di tutte le Unità Operative deve essere affidata per pubblico concorso e la attività formativa deve vedere un ruolo attivo dei professionisti operanti nel e per il SSN.         

OSPEDALE E TERRITORIO La riduzione dei posti letto, oggi al di sotto della media europea, avvenuta nel vuoto di politiche attive per le cure primarie, provoca aumento delle liste di attesa e sovraffollamento dei Pronto Soccorso, luoghi simbolo della negazione di diritti costituzionali, che famiglie e medici vivono costretti su fronti opposti. Occorre delineare chiaramente il percorso politico, organizzativo e culturale capace di realizzare il necessario equilibrio ospedale-territorio, non più universi paralleli e separati, attraverso una efficace messa a sistema di diverse modalità assistenziali. Ripensando il ruolo, il modello e la organizzazione del lavoro delle strutture per acuti, in una ottica di sistema, insieme, non prima né dopo, con lo sviluppo di modelli consolidati di cure primarie, in una logica di rete aperta a processi di misurazione e valutazione delle attività e dei loro risultati, in una nuova forma di unità professionale. I nuovi modelli organizzativi ospedalieri derivati dalla industria automobilistica, legittimano, invece, un uso opportunistico delle competenze, in una prospettiva di sanità low cost, una illusione elevata a paradigma di governo.  

Le Organizzazioni sindacali mettono al centro delle loro proposte il diritto alla salute dei cittadini ed il lavoro, che del SSN è un valore fondante. Il lavoro arricchito dall’autonomia e dalla responsabilità derivanti da un percorso formativo di lunghezza e complessità senza pari, e dal valore intrinseco del sapere e del saper fare, potente leva di cambiamento e strumento di governo della sanità. Un pensiero riformatore del sistema sanitario deve essere capace di coniugare soluzioni innovative per il rilancio della sanità pubblica con la declaratoria dei nostri ruoli e delle nostre funzioni, per contare nei processi decisionali ed essere rispettati nelle nostre competenze. La ricerca di compatibilità tra scienza, politica ed economia deve ricontestualizzare la professione, anche ridiscutendone essere e modo di essere, per favorire un sostanziale cambio di paradigma culturale, politico e organizzativo al quale possiamo assicurare, in una logica di cambiamenti reciproci, appropriatezza clinica e qualità professionale.  Un Paese che cambia ha bisogno di un Ssn nuovo, centrato sul suo capitale umano, e di nuovi modelli di sviluppo sanitario e sociale.Non intendiamo lasciare il progetto del futuro della nostra salute a interessati liquidatori fallimentari, ma riconquistare uno spazio politico come interlocutori e come soggetto negoziale, parte della soluzione per garantire una assistenza efficace ad un costo minore, e non del problema, rifiutando il ruolo di controparte del cambiamento.         

 

Torna su
Negli Usa il vaccino anti-Hpv ha ridotto di due terzi la presenza del virus

Medicina scienza e ricerca

 

Negli Usa il vaccino anti-Hpv ha ridotto di due terzi la presenza del virus

Il bilancio di dieci anni di immunizzazione in uno studio del Centers for disease control and prevention (Cdc) degli Stati Uniti e pubblicato sulla rivista Pediatrics

di Redazione Aboutpharma Online 22 febbraio 2016

 

Raccomandare il vaccino contro il papillomavirus umano (Hpv), tra i principali responsabili dei tumori della cervice uterina, ha fatto crollare la presenza del virus nella popolazione americana di due terzi in dieci anni. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Pediatrics e realizzato dal Centers for disease control and prevention (Cdc) degli Stati Uniti.

L’analisi ha esaminato i dati sulla prevalenza del virus nelle ragazze e nelle giovani donne tra il 2003 e il 2006, anno di introduzione della raccomandazione, e tra il 2009 e il 2012. Nella fascia tra 14 e 19 anni la presenza del virus è diminuita del 64%, mentre in quella sopra i 20, in cui il tasso di vaccinazione è molto più basso, c’è stata comunque una riduzione del 34%. I numeri, affermano gli autori, sono addirittura migliori di quelli attesi. “Il fatto che vediamo una diminuzione maggiore di quella che aspettavamo coi tassi di vaccinazione che avevamo – scrivono – suggerisce che ci potrebbe essere qualche effetto di ‘immunità di gregge’, e che il vaccino inizia ad essere efficace anche prima di terminare la serie di iniezioni”. Il vaccino per l’Hpv è uno dei più controversi negli Usa, perchè i medici sono riluttanti a consigliarlo per non dover affrontare il tema spinoso della sessualità delle adolescenti,dato che il virus si trasmette per via sessuale.

Torna su
In pensione la vecchia ricetta, da 1 marzo sarà elettronica

In pensione la vecchia ricetta, da 1 marzo sarà elettronica

Medici famiglia, vantaggi ma anche aggravio lavoro

27 febbraio, 13:18
  •  

Va in pensione la vecchia ricetta rossa del medico di famiglia: dal primo marzo, infatti, sarà sostituita dalla ricetta elettronica, o 'dematerializzata'. La legge che manda in soffitta i blocchetti rossi del medico, ricorda la Federazione nazionale dei medici di famiglia Fimmg, è in realtà del dicembre 2015 e recepisce un decreto di più di tre anni fa. Dopo alcuni blocchi informatici, il sistema è dunque ora ai nastri di partenza: per prescrivere un farmaco, un accertamento o una visita, il medico si collegherà da ora in poi a un sistema informatico, lo stesso visibile al farmacista che ci consegnerà pillole o sciroppi.


Ma ricetta elettronica non è ancora sinonimo di abolizione della carta. Per ora, infatti, riceveremo dal dottore un piccolo promemoria da consegnare al bancone della farmacia, che permetterà di recuperare la prescrizione anche in caso di malfunzionamenti del sistema o assenza di linea Internet.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

 

 

Torna su
Epatite C, allerta Oms su medicinali contraffatti in circolazione nel Sud Est Asiatico

Legal & Regulatory

 

Epatite C, allerta Oms su medicinali contraffatti in circolazione nel Sud Est Asiatico

L'Organizzazione mondiale della sanità richiama tutti gli Stati e le autorità sanitarie a una maggiore vigilanza sulle catene di approvvigionamento

di Redazione Aboutpharma Online 1 marzo 2016

 

Anche i farmaci innovativi ad alto costo diventano un bersaglio del mercato della contraffazione. Se fino a qualche tempo fa la falsificazione dei farmaci riguardava essenzialmente prodotti come quelli contro le disfunzioni erettili o gli steroidi anabolizzanti, oggi il fenomeno fa registrare un pericoloso salto di qualità. Prodotti contraffatti simili ai farmaci salvavita maggiormente richiesti, come antitumorali o farmaci per la cura dell’epatite C, vengono immessi sul mercato attraverso canali non controllati. A lanciare l’allarme è una nota dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), che riporta un comunicato di allerta diramato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) relativo proprio alla circolazione, nel Sud Est Asiatico, di farmaci contro l’epatite C contraffatti.

Il fenomeno è particolarmente significativo soprattutto nei Paesi in via di sviluppo; si tratta spesso di medicinali che non contengono ingredienti attivi, con ingredienti attivi differenti o presenti in qualità o quantità diverse da quelle indicate, a volte del tutto inefficaci o ancor più pericolosi, perché contaminati con sostanze tossiche. Di questi prodotti non è in alcun modo possibile garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia poiché, nella gran parte dei casi, è impossibile identificare da dove provengano, chi li produca, in che modo e con quali ingredienti.

In seguito a questa allerta l’Oms chiede a tutte le autorità regolatorie nazionali la massima attenzione e sorveglianza su questi prodotti specifici. I prodotti identificati come contraffatti sono due “medicinali” utilizzati per il trattamento dell’Epatite C che fanno anche parte della lista Oms dei farmaci essenziali: Sofosbuvir 400mg + Ledipasvir 90mg e Daclatasvir 60mg, messi in vendita con diversi nomi commerciali.

Il comunicato riporta che, nel febbraio 2016, l’Oms è stata allertata da una Ong locale operante in Myanmar che aveva identificato la versione contraffatta dei “medicinali” Ledso e Dakavir, due prodotti che riportavano quale produttore la Pharco Corporation, con sede ad Alessandria d’Egitto. Nel Drug Alert dell’Oms sono riportate anche le foto delle confezioni dei due “falsi”. La Pharco Corporation ha dichiarato di non produrre medicinali contenenti la combinazione Sofosbuvir 400mg + Ledipasvir 90mg, di non produrre nessun prodotto con il nome Ledso o Dakavir e di non produrre attualmente Daclatasvir 60mg.

Non sono state segnalate in questa fase reazioni avverse gravi attribuibili ai prodotti identificati. Tuttavia, l’Oms raccomanda a tutti coloro che dovessero aver assunto uno di questi “medicinali” o che dovessero manifestare una qualsiasi reazione avversa in seguito alla loro assunzione di rivolgersi immediatamente a un operatore sanitario qualificato e di riferire l’episodio alle autorità sanitarie e regolatorie del proprio Paese e al locale centro di Farmacovigilanza.

L’Oms richiama, infine, tutti gli Stati e tutte le autorità sanitarie a una maggiore vigilanza sulle catene di approvvigionamento dei Paesi che possono essere interessati dal traffico di prodotti contraffatti. L’attività di vigilanza dovrebbe includere ospedali, cliniche, farmacie e ogni altro fornitore di medicinali.

Torna su
Infiltrazioni mafiose in farmacie, Fofi chiede controlli rigorosi sulle proprietà

Sanità e Politica

Infiltrazioni mafiose in farmacie, Fofi chiede controlli rigorosi sulle proprietà

Il presidente Andrea Mandelli sottolinea come questo aspetto sia sempre stato portato dalla Federazione all'attenzione delle autorità competenti

di Redazione Aboutpharma Online 2 marzo 2016

 

“Dopo le notizie su infiltrazioni mafiose nella proprietà di alcune farmacie scoperte dalla Magistratura, la Federazione degli ordini dei farmacisti (Fofi) evidenzia come il tema della proprietà delle farmacie sia una questione molto delicata”. Ad affermarlo è Andrea Mandelli, presidente della Fofi, che sottolinea come questo aspetto sia sempre stato portato dalla Federazione all’attenzione delle autorità competenti.

“La normativa attuale prevede per l’iscrizione all’Ordine del professionista l’autocertificazione di tutti i requisiti richiesti e l’Ordine provvede al successivo controllo di quanto dichiarato; per l’acquisto delle sedi farmaceutiche si prevede invece il passaggio dal notaio, con gli adempimenti del caso, e la successiva delibera autorizzativa dell’autorità sanitaria locale, che effettua ulteriori controlli – continua – Come i fatti dimostrano, sono comunque possibili episodi di questa natura, e quindi nell’allargare la titolarità delle farmacie a società di capitali come previsto dal Ddl Concorrenza in discussione attualmente al Senato, è necessario porre la massima attenzione e prevedere controlli ancora più rigorosi. Queste criticità sono state autorevolmente confermate dal Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, proprio in occasione della sua audizione in 10a Commissione al Senato sul Ddl Concorrenza”.

Di per sé la farmacia è un bersaglio sensibile: “il rapporto con la pubblica amministrazione e, come hanno detto gli stessi magistrati, la rispettabilità del ruolo, sono elementi che la rendono appetibile per chi ha interesse, per esempio, a riciclare denaro – prosegue Mandelli – Non c’è soltanto la questione del riciclo di proventi illeciti, ma anche il fenomeno sempre più grave della contraffazione farmaceutica da cui finora l’Italia, grazie alla complessiva sicurezza del sistema, è rimasta esente: bisogna che questo non cambi né oggi né mai, soprattutto per la tutela della salute del paziente”.

 

Torna su
In Toscana 12 casi di malattia invasiva da meningococco C nel 2016

Regioni

In Toscana 12 casi di malattia invasiva da meningococco C nel 2016

Non si arresta l'ondata di casi di meningiti e sepsi iniziato nel corso del 2015 in alcune aree della Regione. Le raccomandazioni e il punto del ministero della Salute

di Redazione Aboutpharma Online 3 marzo 2016

 

Nel 2016, in Toscana, sono stati registrati 12 casi di malattia invasiva da meningococco C, di cui 4 con esito fatale. Un aumento dei casi di malattia invasiva da meningococco C, meningiti e sepsi, iniziato nel corso del 2015, in alcune aree della Toscana, che si sta protraendo anche nell’anno in corso.

Nel 2015 sono stati segnalati al sistema di sorveglianza nazionale 31 casi, inclusi 6 decessi, contro i 2 del 2014 e i 3 del 2013. A fare il punto una nota del ministero della Salute, che ricorda le iniziative messe in campo dalla regione Toscana: misure di controllo immediate con chemioprofilassi dei casi e indagini epidemiologiche,e una campagna di vaccinazione che progressivamente ha esteso l’offerta vaccinale ad adolescenti, adulti e anziani, essendo stati registrati casi in tutte le fasce d’età.

Sebbene al momento non sia stato registrato un andamento epidemiologico simile anche in altre aree del Paese, il ministero della Salute ha emanato la Circolare n. 5783 del 1° marzo 2016 contenente indicazioni alle Regioni per il rafforzamento della sorveglianza, al fine di monitorare la situazione anche sul restante territorio nazionale e, se necessario, implementare nuove strategie di controllo.

Al momento non si è reputato necessario predisporre particolari raccomandazioni per le persone che si recano per viaggi occasionali nelle aree maggiormente interessate dall’aumento dei casi – si legge nella nota – pur ribadendo che la frequentazione di locali molto affollati, per alcune ore, l’uso di alcol e l’abitudine al fumo durante i periodi con un aumento dei casi di malattia invasiva da meningococco potrebbe aumentare il rischio di contagio attraverso il contatto ravvicinato con potenziali portatori.

Infine, si raccomanda alle Regioni di mettere a disposizione la vaccinazione, con le stesse modalità previste in Toscana, per quei soggetti che si rechino per lunghi e continuativi periodi in Toscana.

 

Torna su
L’ormone del parto, ossitocina, come nuovo analgesico contro il dolore

Medicina scienza e ricerca

 

L’ormone del parto, ossitocina, come nuovo analgesico contro il dolore

 

Uno studio ha identificato i 30 neuroni responsabili del rilascio dell'ormone che sarebbero coinvolti nella percezione del dolore, aprendo quindi le porte all’utilizzo dell’ormone come analgesico

di Redazione Aboutpharma Online 4 marzo 2016

 

L’ossitocina, o ormone del parto, potrebbe essere utilizzato in futuro come analgesico. A dimostralo è uno studio appena pubblicato su Neuron che ha portato all’identificazione dei 30 neuroni responsabili del rilascio dell’ormone – noto già per il ruolo che svolge durante il parto,  favorendo le contrazione dell’utero – e coinvolti nella percezione del dolore. I risultati insomma dimostrano che l’ossitocina è coinvolta anche nella percezione del dolore infiammatorio. La ricerca, frutto di un gruppo di lavoro internazionale al quale ha partecipato anche l’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano, apre quindi la strada all’utilizzo di tale ormone come analgesico.

“La ricerca ha permesso per la prima volta di identificare i neuroni responsabili del rilascio dell’ossitocina da cui dipende la regolazione della percezione del dolore a livello del midollo spinale” piega Bice Chini dell’In-Cnr e dell’Irccs Istituto clinico Humanitas. “In modelli sperimentali, si è visto che si tratta di circa 30 neuroni, situati in una regione del cervello, l’ipotalamo, dal quale inviano i loro prolungamenti fino alle sezioni più lontane del midollo spinale. Ed è qui che rilasciano questo ormone, che agisce regolando gli input dolorifici provenienti dalle aree periferiche del corpo”.

I neuroni ipotalamici identificati nello studio provocano il rilascio dell’ormone anche nel sangue, attraverso un circuito collaterale, e lo stesso studio ha evidenziato che anche a questo livello l’ossitocina contrasta il dolore.

Le tecniche usate per evidenziare l’effetto anti-dolorifico dell’ossitocina sono innovative e hanno previsto anche l’utilizzo di metodiche di optogenetica: “Mediante l’inserimento di sottilissime fibre ottiche è stato infatti possibile stimolare esclusivamente i 30 neuroni identificati e studiare così gli effetti analgesici legati al loro rilascio di ossitocina” continua Chini. “Va però precisato che l’azione rilevata non è ad ampio spettro: riguarda solo alcuni tipi di dolore, in particolare quello infiammatorio. È proprio nelle malattie infiammatorie, dunque, che si potrà utilizzare l’ossitocina come analgesico”.

 

Torna su
Nuovo farmaco antivirale efficace contro Zika

Medicina scienza e ricerca

 

Nuovo farmaco antivirale efficace contro Zika

La molecola, sviluppata dall'azienda americana BioCryst Pharmaceuticals, con il sostegno del governo, ha mostrato buoni risultati su uno studio condotto su topi

di Redazione Aboutpharma Online 8 marzo 2016

 

Per ora i risultati sono buoni ma solo in esperimenti condotti su topi. Parliamo di un nuovo farmaco antivirale ad ampio spettro d’azione sviluppato dall’azienda americana BioCryst Pharmaceuticals che si è dimostrato efficace contro il virus Zika. I risultati dello studio preclinico, condotto alla Utah State University, sono stati presentati al meeting dell’Organizzazione mondiale della sanità in corso a Ginevra.

Il composto sperimentale è stato somministrato per via intramuscolare a roditori immunodepressi infettati da Zika, due volte al giorno, a iniziare da quattro ore prima dell’esposizione al virus e per gli otto giorni successivi. Sono state testate due dosi della molecola (dosaggio standard e basso dosaggio), confrontate con placebo o ribavirina con l’obiettivo di valutare la sopravvivenza degli animali a 28 giorni. Degli otto topi trattati con la dose standard, sette sono sopravvissuti al 28esimo, mentre nessuno dei roditori del gruppo controllo e di quelli che avevano ricevuto la dose bassa di BCX4430 è arrivato vivo dopo lo stesso periodo di tempo.

“BCX4430 – spiega la BioCryst in una nota stampa – è un inibitore dell’enzima Rna polimerasi Rna-dipendente, proteina chiave nel processo di replicazione virale. Per altre indicazioni il composto è arrivato agli studi di fase clinica I, su volontari sani, dopo che nei test preclinici ha prodotto benefici in termini di sopravvivenza contro diversi agenti patogeni fra cui Ebola, virus Marburg e della febbre gialla”.

Dal settembre 2013 il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid), parte degli Nih statunitensi, ha supportato lo sviluppo della molecola come candidato farmaco contro Ebola e Marburg. Nel marzo 2015 la Biomedical Advanced Research and Development Authority (Barda), interna allo Us Department of Health and Human Service’s Office dell’Assistant Secretary for Preparedness and Response (Aspr) ha concesso alla BioCryst un contratto che prevede ulteriori finanziamenti fino a 35 milioni di dollari per proseguire nello sviluppo di BCX4430 come possibile trattamento contro i filovirus.

 

Torna su
Sospeso lo sciopero dei medici del 17 e 18 marzo

Sanità e Politica

 

Sospeso lo sciopero dei medici del 17 e 18 marzo

 

Rinviato di 60 giorni. La decisione dopo l'incontro dei sindacati con i ministri Lorenzin e Madia. Al via tavoli di confronto su governance, formazione, valorizzazione dei professionisti e rinnovo dei contratti

di Redazione Aboutpharma Online 9 marzo 2016

medici

Sospeso lo sciopero generale di 48 ore indetto dai sindacati medici per il 17 e 18 marzo. Ad annunciarlo i sindacati al termine dell’incontro di oggi a Palazzo Chigi con i ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, e con il sottosegretario Claudio De Vincenti. Lo sciopero non è stato annullato, ma rinviato di 60 giorni. Potrebbe, dunque, essere nuovamente proclamato nel mese di maggio.

“Possiamo dire con soddisfazione che da oggi la sanità e la questione medica tornano nelle prime pagine dell’agenda di Governo”, afferma Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia, commentando l’esito dell’incontro di oggi con l’Esecutivo. “Non stiamo battendo cassa per ottenere chissà quali aumenti, vogliamo soltanto far capire al Governo che tra tagli, demotivazione e marginalizzazione dei medici rischiamo di lasciare agli assistiti una sanità pubblica al tracollo. E credo di poter dire – prosegue Milillo – che le nostre preoccupazioni siano state questa volta condivise. Rispetto alle chiusure dei mesi scorsi – aggiunge – è un fatto positivo non essersi lasciati con una pacca sulle spalle, ma con l’impegno concreto ad aprire tavoli permanenti di confronto sulle questioni più spinose, coinvolgendo in futuro anche il Miur”.

Una presenza, questa, che per il Segretario nazionale della Fimmg “dovrà consentire di risolvere i problemi della formazione pre e post laurea, a cominciare da una seria programmazione degli accessi alle specializzazioni per evitare di creare in futuro nuovi disoccupati. Così come è necessario che la specializzazione in chirurgia poggi su una maggiore esperienza sul campo. La decisione di costituire i tavoli di confronto va nella direzione giusta, ma ora è essenziale che il Governo passi ai fatti, garantendo la sostenibilità economica del sistema sanitario pubblico, formalizzando nero su bianco la disponibilità di 4 miliardi di risorse aggiuntive annunciata per ora solo via etere dal ministro Lorenzin. Risorse che servirebbero innanzitutto ad eliminare la piaga del precariato medico, che di certo non favorisce la qualità delle cure. Così come il rinnovo della convenzione dei medici di famiglia, scaduta da oltre sei anni, può essere l’occasione buona per migliorare la presa in carico dei pazienti, garantendo soprattutto la continuità assistenziale ai malati cronici”.

Le associazioni sindacali incontreranno di nuovo il ministro della Salute lunedì 14 marzo per continuare il confronto sui temi che stanno a cuore ai medici. In particolare, “nel prossimo incontro si parlerà – ricorda Riccardo Cassi, presidente Cimo – di formazione e accesso dei professionisti al servizio sanitario nazionale”.

“La disponibilità del Governo apre un processo importante – aggiunge Costantino Troise, segretario nazionale Anaao Assomed, durante la conferenza stampa unitaria organizzata dai sindacati – a partire da tre punti principali. In primo luogo la difesa della sanità pubblica, e quindi del diritto alla salute dei cittadini. In secondo luogo c’è stato il riconoscimento del ruolo dei medici e del lavoro che svolgono all’interno del sistema sanitario nazionale. Infine, c’è l’impegno alla presa in carico della questione del precariato medico e della formazione post-laurea come questione che riguarda la tenuta stessa del Ssn”. Dal Governo oggi sono stati presi impegni importanti, ma da verificare: “Vedremo poi i conti, alla prova del Mef e delle Regioni, perché oggi di soldi non si è parlato”, commenta Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil medici .

Per Alessandro Vergallo, presidente nazionale del sindacato degli anestesisti e rianimatori  Aaroi-Emac, ora inizia “la parte più difficile del confronto”: “In caso di non mantenimento degli impegni governativi  – per quanto ci riguarda specificatamente in ordine ad un rinnovo contrattuale adeguato sia dal punto di vista normativo che economico, stabilizzazione dei precari e tutte le nuove assunzioni che servono, edizione di LEA che rispettino le reali potenzialità del personale in forza alle singole Unità Operative – trarremo le conclusioni necessariamente conseguenti e sapremo riprendere la nostra protesta in modo più incisivo”, si legge in una nota del sindacato.

I 6 tavoli sulla “vertenza salute”

A un comunicato congiunto diffuso nel pomeriggio, il compito di sintetizzare l’esito del confronto fra sindacati e governo: “Clima cordiale e costruttivo”, si legge nella nota in cui si spiega che le parti hanno condiviso “l’impegno a formulare una progettualità nazionale che, pur nel rispetto delle Regioni, metta la Sanità tra le priorità della propria agenda”.

Nel corso della discussione – prosegue la nota – il Governo ha ribadito “l’esigenza di mantenere, all’interno di un percorso di cambiamento e di efficienza, la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, nel rispetto dei principi di universalità, solidarietà ed equità, confermando i livelli di finanziamento già disposti e promuovendo, con la collaborazione dei medici, una maggiore appropriatezza sia organizzativa che clinica, al fine di garantire su tutto il territorio nazionale – in modo omogeneo – un’effettiva erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza, e una efficace ed efficiente allocazione delle risorse disponibili”.

La “vertenza salute” sarà esaminata in futuro nell’ambito di “tavoli” dedicati a questi sei temi:

1) Valorizzazione della professione medica, riconoscendole il ruolo centrale nella prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione dei pazienti, nonché nella governance delle strutture sanitarie, ospedaliere e di medicina territoriale, assicurando l’autonomia tecnico-professionale e la correlata responsabilità

2) Coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali – con le Regioni, i Ministeri della Salute, dell’Istruzione, università e ricerca e dell’economia e delle finanze – nella stesura, relativamente all’attuazione del Patto della salute 2014/16, dell’art. 22, per ciò che riguarda gli sviluppi professionali di carriera, la valorizzazione delle risorse umane, i rapporti con le altre professioni sanitarie

3) Definizione delle tipologie di contratti flessibili compatibili con l’attività sanitaria all’interno della P.A., in coerenza con la disciplina UE di riferimento; percorsi di stabilizzazione graduale del personale precario; regolamentazione dei fenomeni di esternalizzazione delle attività sanitarie da parte delle strutture ospedaliere; verifica del tetto di spesa per il personale

4) Riforma del sistema di formazione, pre e post laurea, dei medici e dei dirigenti sanitari, in sinergia con il MIUR e il Ministero della salute

5) Avvio con la vigilanza dei ministeri competenti, previa definizione delle aree contrattuali e dell’atto di indirizzo, delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro e dell’accordo collettivo nazionale, quali strumenti di governo e innovazione del sistema sanitario

6) Verifica con le Regioni e col Mef in sede di Conferenza Unificata dell’ambito applicativo del comma 236 della legge di stabilità 2016.

 

Torna su
Vaccini 'salvavita' per anziani, evitano malattie croniche

Vaccini 'salvavita' per anziani, evitano malattie croniche

Ma ancora questo strumento non adeguatamente sfruttato in Europa

19 febbraio, 12:24
  •  

  •  

ROMA - I vaccini sono 'salvavita' per gli anziani, eppure ancora troppe malattie prevenibili con le vaccinazioni affliggono gli over-65 europei, con complicanze spesso gravi. Basti pensare che, nonostante sia del 75% l'obiettivo ufficiale raccomandato da OMS e Consiglio dell'Unione Europea relativamente al vaccino antinfluenzale, solo 2 nazioni (Paesi Bassi e Regno Unito) sono riusciti a raggiungerlo.

E' quanto emerso nel corso del primo Congresso biennale dell'Associazione mondiale per le malattie infettive e disordini immunologici WAidid (World Association for Infectious Diseases and Immunological Disorders) che si chiude domani a Milano.

Nel corso del meeting sono state presentate due ricerche redatte da un gruppo di esperti europei e di Sanofi Pasteur MSD che hanno evidenziato come le malattie prevenibili con i vaccini pesino sulla salute degli anziani europei, soprattutto a causa del calo delle vaccinazioni.

Diversi vaccini sono raccomandati in tutta Europa per gli anziani, perlopiù nella popolazione dai 65 anni in su, per proteggerli contro malattie come influenza, pneumococco, pertosse, Herpes Zoster, noto anche come Fuoco di Sant'Antonio, tenuto conto della loro maggiore vulnerabilità legata al naturale indebolimento del sistema immunitario dovuto all'età (la cosiddetta "immunosenescenza"). "Negli anziani, alcune malattie infettive come l'influenza, le malattie da pneumococco o l'Herpes Zoster possono avere un esito peggiore rispetto alla popolazione più giovane, esito che conduce in alcuni casi a una cascata di eventi e a un declino dello stato funzionale", ha dichiarato Gaetan Gavazzi del Policlinico Universitario di Grenoble. "L'insorgenza di queste malattie negli anziani può segnare l'inizio di perdita di autonomia, ha aggiunto. Tutto questo potrebbe essere evitato grazie alle vaccinazioni".

"A fronte di malattie prevenibili con i vaccini ormai ben controllate nella popolazione pediatrica, un numero molto maggiore di casi di malattie analogamente prevenibili si verificano negli anziani", ha osservato la Prof.ssa Susanna Esposito, Presidente di WAidid. "E 'importante capire che i vaccini non sono solo per i bambini e che la vaccinazione dovrebbe essere considerata una componente chiave di prevenzione di routine per preservare la salute dei nostri anziani", ha concluso. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Per tumori rene interventi conservativi senza tagli nè cicatrici

11 marzo, 16:39
  •  

  •  

I buchini della laparoscopia si riducono della metà e diventano 'punti' di 3 millimetri di diametro, almeno negli interventi di urologia eseguiti dai chirurghi con maggiore esperienza, con una tecnica che sarà al centro di numerose presentazioni al 31/o Congresso Europeo di Urologia, in programma a Monaco di Baviera da domani a martedì 15.

In Italia, a Peschiera del Garda (Verona) è stata appena operata con questa 'mini laparoscopia' Elena, una ragazza di 22 anni, di Catania, affetta da una fibrosi che bloccava l'uretere e le impediva di urinare. La sua vita sembrava segnata: per urinare avrebbe dovuto utilizzare a vita un tubo che le era stato inserito nell'addome. L'alternativa? Ricorrere a un' operazione che le avrebbe lasciato una cicatrice di oltre 20 centimetri. L'equipe di Gaetano Grosso, alla Clinica Pederzoli di Peschiera del Garda, attraverso alcuni micro buchini di 3 millimetri di diametro, in 2 ore e mezzo le ha ricostruito internamente l'uretere utilizzando 10 centimetri dell'appendice.

Dopo 7 giorni di degenza e 2 di convalescenza Elena sta bene.

"E' un approccio che dà importanti i vantaggi - spiega Grosso - e garantisce al paziente degenza e convalescenza ancora più brevi, minor trauma e dolore, infezioni e complicazioni sempre più rare. Molto importante, poi, l'aspetto estetico: l'assenza di una cicatrice di grandi dimensioni lasciata da un intervento di chirurgia tradizionale rappresenta un altro vantaggio".

Con la 'mini-laparoscopia' nel Centro di Peschiera è stato operato con successo anche un ragazzo di 17 anni affetto da sindrome dello schiaccianoci, malformazione che porta alla compressione della vena renale con sanguinamenti e dolori.

"Ma la mini laparoscopia - aggiunge l'urologo di Peschiera - viene utilizzata anche per il tumore del rene, organo che oggi viene conservato, e non asportato, nel 70% dei casi". In particolare, il tumore del rene è in forte aumento: i nuovi casi ogni anno in Italia sono circa 15.000, una cifra più che raddoppiata in 10 anni. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Scoperta nuova classe di antidepressivi ad azione rapida

Medicina scienza e ricerca

 

Scoperta nuova classe di antidepressivi ad azione rapida

 

Si tratta di molecole in grado di spegnere un enzima in alcune regioni del cervello, in modo da ridurre così i processi infiammatori a livello cerebrale e aumentare il benessere dei neuroni

di Redazione Aboutpharma Online 16 marzo 2016

Una nuova classe di farmaci contro la depressione è stata descritta per la prima volta sulla rivista Pnas. La novità più rilevante è la rapidità della loro azione, vantaggio significativo rispetto i farmaci attuali che impiegano anche diverse settimane prima di manifestare qualche effetto. Si tratta di molecole in grado di spegnere un enzima in alcune regioni del cervello, in modo da ridurre così i processi infiammatori a livello cerebrale e aumentare il benessere dei neuroni. “Lo studio – spiega Graziano Pinna, neuroscienziato esperto di depressione dell’Università dell’Illinois – è stato condotto da Bruce Hammock dell’università di Davis in California ed è potenzialmente importante, sia perché queste nuove molecole hanno azione antidepressiva rapida, poi perché gli scienziati californiani hanno dimostrato che somministrandole ad animali prima di un episodio depressivo, esse hanno addirittura azione preventiva”.
Non è la prima volta che si nota un legame tra processi infiammatori e depressione. Non a caso, spiega Pinna, in passato taluni studi avevano evidenziato l’azione antidepressiva di alcuni analgesici e, al contrario, l’azione antinfiammatoria/analgesica di alcuni antidepressivi. In questo studio gli esperti Usa hanno dimostrato su gruppi di topolini depressi l’azione di molecole che inibiscono l’enzima “epossido idrolasi in forma solubile”, in particolare l’efficacia dell’inibitore “TPPU”, che mostra un’azione antidepressiva nel giro di poche ore dalla somministrazione. Spegnendo l’enzima, TPPU protegge i grassi nel cervello coinvolti nella riduzione dei processi neuroinfiamatori e nel dolore neuropatico. “La scoperta –  aggiunge Pinna –  è importante anche perché l’enzima epossido idrolasi è coinvolto in diverse malattie infiammatorie e neuroinfiamatorie, pertanto molecole sviluppate contro questo target possono essere utilizzate al di là della depressione”.

 

Torna su
100 sprechi nella sanità, macchinari inutilizzati e reparti chiusi

100 sprechi nella sanità, macchinari inutilizzati e reparti chiusi

Cittadinanzattiva, la ricetta della Spending Review va cambiata

17 marzo, 10:55

 

Ben otto ecografi acquistati per un ospedale in cui i medici in grado di utilizzarli sono solo tre. Ambulanze dotate di innovativi dispositivi di telemedicina ma mal funzionanti. Reparti nuovi e mai aperti o sottoutilizzati per mancanza di personale. Dalla Sicilia alla Campania, ma senza escludere anche regioni del nord come il Piemonte, sono oltre 100 i casi eclatanti di sprechi in sanità rilevati dal Rapporto "I due volti della sanità. Tra sprechi e buone pratiche, la road map per la sostenibilità vista dai cittadini", presentato oggi da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato.

Il Rapporto prende in esame 104 situazioni di spreco individuate da cittadini e operatori sanitari che a giugno 2015 risultavano irrisolte. Le cause sono dovute nel 46% dei casi al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali e strutture, per il 37% a inefficiente erogazione di servizi e prestazioni, per il 17% a cattiva gestione delle risorse umane. 

La conseguenza è che ad esser violati, secondo i cittadini, sono il diritto al rispetto degli standard di qualità(14,7%), il diritto al rispetto del tempo(14%) e alla sicurezza delle cure(11,6%). "I tagli al Servizio Sanitario Nazionale cumulati tra il 2011 e il 2015 secondo la Corte dei conti - ha commentato Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato - sono stati di 54 miliardi, praticamente mezzo fondo sanitario. Nessuno però ha spiegato se e quanti sono stati gli effettivi risparmi prodotti e come sarebbero stati reinvestiti. Se questi sono i risultati, la ricetta della Spending Review non funziona". La Raod map di Cittadinanazattiva parte "dall'aggredire in modo selettivo gli sprechi" e "rilanciare una vera programmazione sanitaria".

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Il vaccino della polio diventa bivalente

Medicina scienza e ricerca

Il vaccino della polio diventa bivalente

A partire dal 17 aprile, in sole due settimane, in 155 paesi contemporaneamente verrà eliminato il ceppo 2, scomparso in natura e per questo non più necessario. Il poliovirus 2 sarebbe inoltre responsabile dei focolai derivati dal vaccino stesso

di Redazione Aboutpharma Online 23 marzo 2016 

 

È uno dei progetti di sincronizzazione globale più ambiziosi nella storia dei vaccini. Lo scrive l’Aifa a proposito del passaggio del vaccino della polio da trivalente a bivalente. La scomparsa in natura del poliovirus selvaggio di tipo 2, quasi del tutto certa, rende infatti la presenza del ceppo 2 non più necessaria nel vaccino. A partire dal 17 aprile 2016, in sole due settimane, in 155 paesi contemporaneamente si passerà quindi dal vaccino trivalente a uno bivalente in cui resterebbero solo i ceppi 1 e 3. Operazione, quella del ritiro del vaccino Opv2, per cui, secondo lo Strategic Advisory Group of Experts on Immunization (Sage), i benefici supererebbero i rischi. “Il passaggio potrebbe sembrare semplice – si legge sul sito dell’Aifa – ma richiede un coordinamento globale su una scala senza precedenti. Per non provocare problemi è necessario che sia sincronizzato in tutto il mondo”.

Al momento il poliovirus di tipo 2 esiste solo nei laboratori e, in forma attenuata, nel vaccino trivalente antipolio orale (tOPV), che, in rare occasioni, è stato la causa di focolai dovuti a ceppi circolanti di poliovirus derivati dal vaccino stesso. “Per questo motivo – continua l’Agenzia – sarà fondamentale interrompere l’uso di Opv una volta certificata l’eradicazione della malattia. Questa componente non è più necessaria nel vaccino orale, soprattutto considerando che esso ha costituito la causa del 90% dei focolai di poliovirus vaccino-derivati (VDPV) circolanti negli ultimi anni”.

Due ricercatori, Manish Patel e Walter Orenstein, in un recente editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicines hanno fatto il punto della situazione delineando i passi da compiere sia in preparazione del passaggio sia nei mesi successivi. “L’interruzione a livello globale dell’utilizzo del vaccino Opv2 presenta un rischio basso, ma reale di focolai di infezioni associate alla diminuzione dell’immunità al virus di tipo 2 – spiegano – per ridurre il quale è necessario massimizzare questa immunità prima e dopo il ritiro del vaccino e preparare una risposta adeguata a una possibile epidemia, con un approccio globale articolato su più fronti”.

 

Torna su
Con dieta vegan in tutto mondo 8,1 mln morti meno nel 2050

Con dieta vegan in tutto mondo 8,1 mln morti meno nel 2050

Benefici anche da sola riduzione carne a 300 grammi settimana

23 marzo, 16:38
  •  

  •  

Se tutto il mondo adottasse una dieta strettamente vegana si risparmierebbero 8,1 milioni di morti premature da qui al 2050, ma anche un cambiamento minore che limiti il consumo di carni rosse a circa 300 grammi alla settimana ne eviterebbe più di 5 milioni. Lo afferma uno studio della Oxford university pubblicato dalla rivista Pnas, che ha calcolato anche i risparmi in termini economici che si otterrebbero.

I ricercatori hanno elaborato quattro diversi scenari, uno di 'business as usual' in cui si mantengono le attuali tendenze in termini di dieta, uno in cui si limita la carne a 300 grammi a settimana aumentando l'apporto di frutta e verdura, uno strettamente vegetariano e uno vegano. Il maggior guadagno in termini di vite salvate, soprattutto per le minori malattie cardiovascolari ma anche per tumori e patologie legate all'obesità, verrebbe appunto dalla dieta vegana, seguita dalla vegetariana (7,4 milioni di morti risparmiate). Queste due permetterebbero anche i maggiori vantaggi in termini di riduzione delle emissioni, del 63% per la dieta vegetariana e del 70% per la vegana, mentre quella 'moderatamente carnivora' le ridurrebbe del 30%. I benefici economici per i sistemi sanitari andrebbero dai 700 ai mille miliardi di dollari l'anno.

"Le diete sbilanciate, con un consumo eccessivo di carne, sono responsabili del maggior peso globale in termini di perdita di salute - affermano gli autori -. Allo stesso tempo il sistema alimentare è responsabile di più di un quarto delle emissioni, ed è una delle forze principali che spingono i cambiamenti climatici".

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Arriva in ospedale il disinfettante al grafene

Medicina scienza e ricerca

 

Arriva in ospedale il disinfettante al grafene

 

L'ossido di grafene è efficace nell’annientare batteri e funghi killer ospedalieri come lo Staphylococcus aureus e la Candida albicans. La sua efficacia anti-batterica, inoltre, potrebbe essere usata anche per rivestire gli strumenti medici e chirurgici

di Redazione Aboutpharma Online 29 marzo 2016

 

Il grafene, nanomateriale costituito di carbonio dai mille utilizzi, ora potrebbe essere utilizzato anche come disinfettate in ospedale. I ricercatori della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica di Roma, in collaborazione con l’Istituto sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), hanno infatti scoperto che l’ossido di grafene è efficace nell’annientare batteri e funghi killer ospedalieri come lo Staphylococcus aureus e la Candida albicans. La sua efficacia anti-batterica, inoltre, potrebbe essere usata anche per rivestire gli strumenti medici e chirurgici.

Il disinfettante in una formulazione gel o liquida, è stato esaminato su tre batteri: Staphylococcus aureus e Enterococcus faecalis, causa di infezioni opportunistiche e nosocomiali, e E.coli, che può provocare anche gravi intossicazioni alimentari. I ricercatori hanno dimostrato che l’ossido di grafene, in fogli di circa 200 nanometri, in soluzione acquosa è in grado di eliminare circa il 90% di S. aureus e E. faecalis, e circa il 50% di E. coli in meno di due ore. Lo studio evidenzia inoltre che l’ossido di grafene è efficace contro i batteri anche a concentrazioni bassissime (inferiori a 10 µg/ml – microgrammi per millilitro).

“La dimostrazione è avvenuta per ora in laboratorio in esperimenti in provetta, ma si sta valutando la possibilità di eseguire sperimentazioni in ambito clinico” ha spiegato Massimiliano Papi, professore dell’Istituto sistemi complessi del Cnr. “Il grafene ha un meccanismo d’azione triplice: può tagliare come una lama le pareti dei batteri, uccidendoli; può intrappolare i batteri come un lenzuolo isolandoli dal mondo esterno e quindi in un certo senso soffocandoli; può alterarne il metabolismo impedendo che si moltiplichino. È proprio questa triplice azione che lo rende superiore agli altri agenti antibatterici oggi in uso, contro cui i microbi killer possono facilmente instaurare resistenze”.

Il team ha anche scoperto che l’ossido di grafene è efficace contro il fungo Candida albicans che causa infezioni pericolose in ospedale, con un’efficacia simile a quella trovata per E. coli.

“Si tratta di uno studio fortemente interdisciplinare, dove le competenze di base sulla fisica dei sistemi complessi sono indispensabili per un’applicazione concreta, molto prossima all’utilizzo pratico” ha osservato Claudio Conti, direttore Isc-Cnr.

Il grafene poi ha anche il vantaggio di essere una molecola rispettosa dell’ambiente e ha costi contenuti” conclude Papi. “Inoltre potrebbe essere usato per rivestire strumenti medici e chirurgici, contribuendo a ridurre le infezioni, soprattutto dopo un intervento, oltre a ridurre l’uso di antibiotici e la resistenza”.

 

Torna su
Fp Cgil Medici: “La priorità non è l’intramoenia ma l’abolizione di ticket e liste d’attesa”

Sanità e Politica

 

Fp Cgil Medici: “La priorità non è l’intramoenia ma l’abolizione di ticket e liste d’attesa”

Cozza risponde al presidente Rossi, invitandolo a un confronto e lancia l'allarme sul boom extramoenia: "Il 37% dei primari lavora anche nel privato"

di Redazione Aboutpharma Online 25 marzo 2016

 

Non si placa la polemica sollevata dal presidente della Toscana, Enrico Rossi, che con un post pubblicato su Facebook ha lanciato la proposta di abolire la libera professione nel Servizio sanitario nazionale (Ssn). A bocciarla è il segretario nazionale della Fp Cgil Medici, Massimo Cozza, secondo cui questa idea “rischia di sviare l’attenzione dall’obiettivo fondamentale per garantire la tutela della salute: il diritto all’accesso alle cure su tutto il territorio nazionale. E le priorità sono un rinnovato governo nazionale della sanità per superare le diseguaglianze regionali, e in primo luogo l’abolizione delle liste di attesa e dei ticket”.

Per raggiungere questo risultato, osserva il dirigente sindacale, “c’è bisogno di mettere la parola fine alla stagione dei tagli e di portare avanti una politica di investimenti nel servizio pubblico, che riporti il nostro Paese al livello europeo dei finanziamenti rispetto al Pil. Se un cittadino deve aspettare sei mesi per una visita ortopedica, e il servizio pubblico ha solo quattro medici invece dei sette necessari, il primo passo dovrebbe essere l’assunzione dei tre ortopedici mancanti per garantire le prestazioni essenziali ai cittadini. Poi intervenire sull’appropriatezza dei percorsi di accesso e dell’organizzazione. Quindi eliminare il ticket, che oggi può arrivare a cifre tali da rendere più conveniente rivolgersi direttamente al privato. In questo quadro – precisa Cozza – andrebbe valorizzato chi lavora solo per il servizio pubblico, con una rivalutazione della esclusività, con contratti rinnovati e con la possibilità di premiare il merito”.

Secondo il segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil Medici “abolire invece la libera professione oggi, in una situazione di tagli e di carenza di personale (dal 2009 al 2014 sono 5 mila i medici in meno), di blocco del contratto da oltre 6 anni, di congelamento della indennità di esclusività da oltre 15 anni e perfino della retribuzione accessoria con la quale si dovrebbe premiare il merito, rischia di essere un boomerang per il servizio pubblico”. Ritornando ai quattro ortopedici, spiega ancora Cozza, “impedire a due di fare la libera professione intramoenia senza assumere i tre mancanti non cambierebbe la lista di attesa e il cittadino non avrebbe più la possibilità di avere prestazioni anche se a pagamento, ma con tariffe e modalità che dovrebbero essere regolamentate all’interno del servizio pubblico. Il beneficiario, nei fatti, sarebbe il pilastro del privato”.

La Fp Cgil Medici, con la Fp Cgil e la Cgil, aggiunge il dirigente sindacale, “è stata tra gli attori principali dell’accordo politico-contrattuale con il ministro della Salute Bindi, con il quale si è messa la parola fine al doppio canale tempo pieno e tempo definito, e che avrebbe dovuto riportare all’interno del solo servizio pubblico l’attività dei medici con l’istituzione della indennità di esclusività con fondi extracontrattuali, e con la possibilità della libera professione intramoenia regolamentata e trasparente”. Oggi il quadro vede invece, secondo una elaborazione della Fp Cgil Medici condotta sui dati del Conto annuale del Tesoro, “una crescita allarmante di medici pubblici in extramoenia, nel silenzio della politica, con una crescita dal 2009 al 2014 di 1.707 unità (da 5.392 a 7.099) e con il dato più preoccupante di ben 37% direttori di struttura complessa in più (da 246 a 390). In altre parole, chi dirige i reparti ospedalieri e li dovrebbe organizzare, lavora sempre di più anche nel privato, in modo non regolamentato e concorrenziale allo stesso pubblico”.

La normativa vigente, la legge 138 del 2004, successiva alla Legge Bindi (229/1999), consente “al medico pubblico di poter optare ogni anno tra esclusività di rapporto (con facoltà dell’intramoenia) e l’extramoenia. Inoltre la Legge 189 del 2012 ha, di fatto, istituzionalizzato la possibilità di svolgere l’attività intramoenia negli studi privati, seppure in rete con controlli telematici. Si tratta di cambiamenti, da noi con coerenza non condivisi, che, insieme con le politiche dei tagli e il congelamento della indennità di esclusività, stanno di fatto cambiando lo spirito originario con il quale avevamo condiviso con la ex ministra Bindi l’introduzione della libera professione intramoenia”.

“Il nostro sindacato in questi anni non si è limitato a lanciare l’allarme sul progressivo impoverimento del servizio pubblico ma ha formulato proposte e portato avanti iniziative, come la campagna ‘Salviamo la Salute’, che la Conferenza delle Regioni e i diversi Governi hanno volutamente ignorato. Per questo pensiamo che il presidente della Regione Toscana, anziché promuovere slogan con soluzioni semplicistiche, pericolose per lo stesso servizio pubblico senza centrare il problema, si dovrebbe impegnare con i cittadini perché in tutto il Paese sia garantito l’accesso alle prestazioni. Su questo punto lo invitiamo a un aperto e franco confronto, compresa la possibilità di abolire la stessa libera professione”, conclude Cozza.

 

Torna su
Allergie incubo per 30% italiani, sport 'antidoto' a sintomi

Allergie incubo per 30% italiani, sport 'antidoto' a sintomi

3 Aprile l'Allergy Day,medici e serie A in campo contro disturbo

01 aprile, 13:54

 

Le allergie rappresentano un 'incubo' per tre italiani su dieci, ma pochi si curano correttamente e sanno che un'attività fisica regolare e moderata, sotto il controllo dello specialista, può ridurre quasi completamente i sintomi allergici e migliorare la qualità della vita. Per accendere i riflettori sul problema, domenica 3 aprile si celebra la quinta edizione della Giornata Nazionale dedicata alla informazione e sensibilizzazione sulle malattie allergiche, L'Allergy Day 2016, promossa dalla Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) insieme alla Lega Calcio Serie A.

Specialisti e serie A scenderanno dunque in campo contro le allergie. Grande palcoscenico sarà ancora una volta il campionato di calcio di Serie A: in occasione della 12° giornata di ritorno di campionato che si giocherà da sabato 2 aprile a lunedì 4, in tutti gli stadi d'Italia prima del fischio d'inizio della partite sarà esposto uno striscione con lo slogan 'In campo per vincere l'allergia', mentre sui maxischermi sarà proiettato un video. Inoltre il messaggio verrà ripreso anche su cappellini che gli allenatori utilizzeranno.

''Questa giornata e' un'occasione importante per sottolineare che nello sport come nella vita si può essere campioni pur se soggetti allergici e che non occorre aver paura perché con le allergie si può convivere e avere una vita del tutto normale. Bisogna però essere ben informati e ben curati", commenta Giorgio Walter Canonica, presidente SIAAIC. Ogni anno cresce però il numero di pazienti allergici che in Europa sono 70 milioni, mentre nel nostro Paese un italiano su tre è affetto da patologie allergiche. Tra le malattie più diffuse, asma e rinite di cui soffrono 3 e 12 milioni di italiani provocate da pollini, acari o peli di animali. Altre patologie sono gli eczemi e orticaria che interessano circa l'1% della popolazione. Le allergie alimentari sono più comuni in età pediatrica e interessano oltre mezzo milione di under 18. Allergie meno note sono quelle a farmaci, prevalenti in età adulta, e le allergie al veleno di api e vespe. Si stima inoltre che circa il 30% degli atleti soffra di allergie: queste, conclude Gianenrico Senna, vicepresidente SIAAIC, ''non devono essere tuttavia considerate un ostacolo, come testimoniato da molti atleti asmatici vincitori di medaglie olimpiche".

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Diabetologi: “Bene mozione bipartisan Senato su diabete a scuola”

Sanità e Politica

 

Diabetologi: “Bene mozione bipartisan Senato su diabete a scuola”

 

Presidente Amd: “Il segnale ricevuto dal mondo politico ci fa ben sperare. Auspichiamo che le Istituzioni proseguano su questa strada"

di Redazione Aboutpharma Online 7 aprile 2016

 

L’Associazione medici diabetologi (Amd) accoglie con favore la mozione bipartisan firmata da 81 senatori, che impegna il Governo a valutare, promuovere e sostenere ogni iniziativa utile a un’appropriata gestione del diabete a scuola, a partire dall’assunzione dell’atto definitivo delle linee guida in materia. Il segnale positivo arriva proprio in occasione della Giornata mondiale della salute, dedicata quest’anno al diabete.

“In questa Giornata aver richiamato l’attenzione su una categoria di pazienti particolarmente fragili, come i bambini in età scolare, ci sembra un’azione di grande importanza – dichiara Nicoletta Musacchio, presidente Amd – In particolare, lavorare sulla formazione del personale scolastico affinché sia preparato ad accogliere e supportare il bambino diabetico è cruciale per due ragioni: innanzitutto questo consentirà al piccolo paziente di vivere più serenamente la propria quotidianità, senza risentire dello stigma sociale che, purtroppo, si accompagna spesso alla malattia sin dalla più tenera età. In più, un bambino che oggi non vive il diabete come un trauma, domani sarà un adulto in grado di autogestire al meglio la propria patologia. Per raggiungere risultati concreti, ad ogni modo, sarà imprescindibile coinvolgere attivamente bambini, famiglie e personale scolastico in appositi percorsi di formazione e approfondimento sul diabete e sulla sua gestione. A questo scopo, le Associazioni di pazienti diabetici avranno l’opportunità di giocare un ruolo insostituibile”.

L’ultima edizione del Diabetes Atlas, redatto dall’International Diabetes Federation (Idf), stima che in Italia 3,51 milioni di persone, pari al 7,85% della popolazione adulta, convivono con il diabete; i costi per il trattamento della patologia hanno raggiunto lo scorso anno i 9,11 miliardi di euro, ossia l’8% dell’intero budget sanitario nazionale. Anche a livello internazionale la patologia ha assunto ormai i contorni di una vera e propria emergenza sanitaria, con 60 milioni di malati in Europa e 350 milioni in tutto il mondo. Da qui la decisione dell’Oms di dedicare proprio al diabete l’edizione di quest’anno della Giornata mondiale della Salute.

“Il segnale ricevuto dal mondo politico ci fa ben sperare – conclude Musacchio – Auspichiamo che le Istituzioni proseguano su questa strada. L’obiettivo fondamentale è fornire a tutti i cittadini un’informazione più approfondita sul diabete, sulla sua gestione, sul suo trattamento e soprattutto sulle concrete possibilità di prevenirlo efficacemente”.

 

Torna su
Il 7 aprile si celebra la Giornata mondiale della salute. L’Oms dichiara “guerra” al diabete

Il 7 aprile si celebra la Giornata mondiale della salute. L’Oms dichiara “guerra” al diabete

Entro il 2030 sarà la settima principale causa di morte a livello globale. Serve uno sforzo in più su prevenzione, diagnosi precoce e gestione della patologia


Il diabete è un’epidemia globale, colpisce circa 350 milioni di persone nel mondo e saranno il doppio nei prossimi 20 anni. Occorre, allora, aumentare la prevenzione, rafforzare le cure e migliorare la sorveglianza. Muovendo da queste premesse l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha deciso di dedicare al diabete la Giornata mondiale del salute 2016 indetta per il 7 aprile, giorno in cui si celebra il “compleanno” dell’organizzazione.

A riassumere il senso della giornata è una nota pubblicata sul sito del ministero della Salute. “L’epidemia di diabete – scrive il ministero – è in rapida crescita in molti Paesi, soprattutto in quelli a basso e medio reddito: entro il 2030 il diabete sarà la settima principale causa di morte a livello globale. Una gran parte dei casi di diabete sono prevenibili: semplici interventi sugli stili di vita (dieta e attività fisica) hanno dimostrato di essere efficaci nel prevenire il diabete di tipo 2 o ritardarne l’insorgenza. Il diabete può essere controllato e gestito per prevenirne le complicanze: diagnosi precoce, educazione all’auto-gestione e trattamento a costi sostenibili sono componenti essenziali della strategia di risposta. Gli sforzi per prevenire e curare il diabete saranno importanti per raggiungere l’obiettivo del Sustainable Development Goal 3: Ensure healthy lives and promote well-being for all at all ages (ridurre la mortalità prematura da malattie croniche non trasmissibili di un terzo entro il 2030), per il quale molti settori della società, compresi i governi, i datori di lavoro, gli educatori, i produttori, la società civile, il settore privato, i media e gli individui stessi, dovranno impegnarsi”.

Tre sono gli obiettivi principali da perseguire secondo l’Oms: accrescere la consapevolezza della diffusione del diabete, del suo peso e delle sue conseguenze in particolare nei Paesi a basso e medio reddito; avviare una serie di azioni specifiche, efficaci e sostenibili per contrastare il diabete, in particolare per la prevenzione, la diagnosi precoce e la cura della patologia; lanciare il primo Global report sul diabete che descriverà il peso e le conseguenze della malattia e raccomanderà ai sistemi sanitari di migliorarne la sorveglianza, promuoverne la prevenzione e rafforzarne la gestione.

 

Torna su
Noduli alla tiroide: che cosa sono e come vanno affrontati

Dal "Corriere della Sera"

 

Noduli alla tiroide: che cosa sono
e come vanno affrontati

Il riscontro di un nodulo alla tiroide è molto frequente (30-40% della popolazione), soprattutto nel sesso femminile e con l’avanzare dell’età. La maggior parte di queste formazioni è benigna e in genere non determina alterazioni funzionali della tiroide.

di Antonella Sparvoli

  

Ormoni che regolano il metabolismo

La tiroide è una ghiandola endocrina posta nel collo che produce ormoni (triiodotironina e tiroxina), i quali entrano nel circolo sanguigno e sono coinvolti nella regolazione del metabolismo. I noduli che si possono formare nella tiroide sono nel 95% dei casi benigni e possono avere diverse cause:
1) il nodulo si forma a causa della crescita esuberante di una porzione della tiroide;
2) si può percepire come nodulo un’area di infiammazione locale;
3) il nodulo può essere di natura cistica, dovuto alla raccolta di un materiale fluido (colloide), prodotto normalmente dalla tiroide.

 

Se il nodulo è maligno

Nel 5% dei casi i noduli tiroidei sonocarcinomi di natura maligna. Nella maggior parte dei casi (circa 80%) si tratta di tumori papillari che hanno aggressività moderata e sono curabili in modo efficace. Esistono poi i carcinomi follicolare, midollare e, più di rado, anaplastico.

 

I segni a cui prestare attenzione

Se il nodulo è di grosse dimensioni si può notare una massa palpabile a livello della tiroide. Nella maggior parte dei casi però i noduli tiroidei non danno sintomi, ma in alcune circostanze possono dare disturbi conseguenti a fenomeni compressivi locali come sensazione di nodo in gola o leggero soffocamento, difficoltà di deglutizione, voce rauca.

 

Eccessiva secrezione ormonale

Nei rari casi di noduli iperfunzionanti si possono avere sintomi indicativi di un’eccessiva secrezione ormonale: tachicardia, nervosismo, dimagrimento. In queste circostanze l’esecuzione di una scintigrafia tiroidea permette di individuare l’area della tiroide eccessivamente attiva.

 

 

 

Come viene fatta la diagnosi

Il primo passo è la palpazione del nodulo (qualora sia di dimensioni tali da essere percepibile) che può fornire informazioni utili sulla sua natura. Isegni di benignità sono: consistenza morbida, contorno ben delineato, movimento con gli atti della deglutizione, assenza di linfonodi del collo ingrossati. I segni di malignitàsono: consistenza dura, accrescimento rapido e progressivo, fissità sui piani del collo, presenza di uno o più linfonodi ingrossati nel collo.
Il passo successivo è l’esecuzione di un’ecografia del collo. I noduli cistici a contenuto liquido sono quasi sempre benigni, così come i noduli che hanno le stesse caratteristiche del tessuto tiroideo. Segni ecografici di possibile malignità sono il riscontro di microcalcificazioni e la crescita irregolare, con bordi del nodulo frastagliati.
In presenza di noduli di dimensioni superiori a 1 centimetro e di dubbia natura si ricorre all’agoaspirato: si prelevano alcune cellule della tiroide con un ago sottile e si osservano al microscopio.

 

Quali sono le possibili cure

La terapia dei noduli tiroidei dipende dalla loro natura.
In caso di formazioni benigne è sufficiente un monitoraggio periodico (circa una volta l’anno) con l’ecografia. Se sussistono dubbi si preferisce ripetere periodicamente l’agoaspirato.
Se il nodulo benigno tende ad accrescersi e causa disturbi locali per le sue dimensioni si valuta l’opportunità di un trattamento chirurgico o con tecniche mininvasive (laser o radiofrequenza) che non comportano cicatrici cutanee.
Le cisti benigne, se sintomatiche, vanno svuotate con l’agoaspirato. In caso di recidiva si può effettuare una sclerosi percutanea, iniettando al loro interno alcol assoluto, inducendo così una marcata riduzione del loro volume senza ricorrere alla chirurgia.
I noduli maligni vanno asportati chirurgicamente. Nel caso di noduli sotto 1-2 cm, ben all’interno della tiroide, e senza interessamento dei linfonodi regionali, si può rimuovere anche solo la metà della tiroide che li contiene (emitiroidectomia).
Se il nodulo ha superato la capsula che delimita la tiroide e sono interessati anche i linfonodi del collo, si asporta tutta la tiroide (tiroidectomia) e i linfonodi interessati e poi, per eliminare eventuali residui di tessuto tiroideo, si ricorre a un trattamento con iodio radioattivo (terapia radiometabolica). Dopo l’intervento, il paziente viene sottoposto a terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina.
La chemioterapia e la radioterapia non sono indicate se non in rari casi di tumori altamente aggressivi o in presenza di metastasi a distanza.

 

 

 

Torna su
Tbc, un passo avanti verso un nuovo vaccino

Medicina scienza e ricerca

 

Tbc, un passo avanti verso un nuovo vaccino

 

Un team della Oxford University ha scoperto dei biomarker che potrebbero fornire indizi preziosi per valutare l'efficacia di eventuali nuovi prodotti.  Oggi l'unico vaccino disponibile funziona bene per prevenire la malattia nei bambini, ma è molto variabile nella protezione contro la malattia polmonare

di Redazione Aboutpharma Online 12 aprile 2016 http://www.aboutpharma.com/wp-content/themes/aboutpharma/img/print.png

 

Un vaccino ancora più efficace contro la tubercolosi. Potrebbe essere realtà grazie alla scoperta di un team della Oxford University che ha identificato nuovi biomarcatori per la Tbc, che hanno mostrato per la prima volta il motivo per cui l’immunità ottenuta dal vaccino con il Bacillo di Calmette-Guerin (BCG) è così variabile. Biomarcatori che da una parte potrebbero favorire lo sviluppo di un nuovo e più efficace vaccino e dall’altra fornire indizi preziosi per valutare l’efficacia di eventuali nuovi prodotti.

La ricerca –nata in collaborazione con i colleghi dell’università di Città del Capo, la London School of Hygiene and Tropical Medicine e la South African Tuberculosis Vaccine Initiative – è stata finanziata dal Wellcome Trust and Aeras e guidato da Helen McShane ed Helen Fletcher, e ha studiato la risposta immunitaria nei bambini in Sud Africa che stavano prendendo parte ad una sperimentazione sul vaccino contro la tubercolosi.

I ricercatori hanno effettuato i test per ventidue possibili fattori. Scoprendo, fra l’altro, che livelli più elevati di anticorpi Ag85A sono stati associati con un rischio più basso tubercolosi.

“La tubercolosi è ancora un pericoloso killer internazionale, e i tassi di malattia in Sud Africa sono fra i più alti del modo” ha commentato Tom Scriba della South African Tuberculosis Vaccine Initiative. “Queste scoperte forniscono dati importanti sul tipo di immunità che i vaccini anti-tubercolosi dovrebbero evocare, e ci portano un passo più vicini alla nostra visione: un mondo senza Tbc”.

La tubercolosi infatti rimane una delle principali malattie mortali del mondo, con 9,6 milioni di persone contagiate e 1,5 milioni di morti solo nel 2014. L’unico vaccino disponibile funziona bene (efficacia di circa il 50%) per prevenire la malattia nei bambini, ma è molto variabile (da 0% a 80%) nella protezione contro la malattia polmonare, in particolare nei Paesi in cui la tubercolosi è più diffusa.

 

Torna su
AL GEMELLI DI ROMA PRIMO CINEMA IN UN OSPEDALE ITALIANO

AL GEMELLI DI ROMA PRIMO CINEMA IN UN OSPEDALE ITALIANO

 

Roma - E' stata inaugurata oggi al Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma la prima sala cinematografica ricavata all'interno di un ospedale italiano. La sala, realizzata tra l'ottavo e il nono piano del complesso ospedaliero, puo' ospitare fino a 130 persone tra pazienti, familiari, amici, volontari e personale di assistenza. E' stata costruita in modo da poter accogliere anche pazienti non autosufficienti, a letto o in sedia a rotelle. Il progetto e' stato possibile attraverso una raccolta fondi solidale promossa da MediCinema Italia Onlus: la somma ricavata e' stata sufficiente per finanziare il costo totale dell'operazione, pari a circa 500 mila euro. C'e' anche stato un sostegno di diversi partner, primo fra tutti la Walt Disney Company Italia, alla quale si e' aggiunta la Rai. "In due anni abbiamo realizzato qualcosa che in Italia non era mai esistito e che poteva sembrare un progetto impossibile", ha detto la presidente di MediCinema Italia Onlus, Fulvia Salvi, sottolineando che "e' la prima sala cinematografica integrata in una struttura ospedaliera italiana ed e' la prima di queste dimensioni realizzata in Europa". "Il nostro obiettivo - ha spiegato Celestino Pio Lombardi, responsabile della Commissione medico-scientifica del progetto - e' quello di ridurre lo stress dei pazienti, cercare di rimuovere in qualche modo le preoccupazioni di chi deve sottoporsi a un'operazione chirurgica o a un esame fastidioso, ma anche, per esempio, a donne che hanno una gravidanza difficile".

Rocco Bellantone, preside della Facolta' di Medicina, ha precisato che con l'apertura della sala cinematografica "svolgeremo anche un'attivita' di ricerca che attraverso protocolli clinici allo studio ci portera' a misurare l'efficacia della 'cinematerapia' sui malati. Padre Agostino Gemelli, fondatore del policlinico, ci ha dato come missione quella di essere con il cuore nella realta' - ha concluso Bellantone - ed e' stato con il cuore che siamo riusciti a superare tutte le difficolta' che si sono presentate nella realizzazione di questo progetto". "Senza la Walt Disney - ha affermato il direttore generale della Fondazione del policlinico, Enrico Zampedri - non sarebbe stato possibile fare tutto questo ma sono state molto importanti anche le altre realta' coinvolte nel progetto, a partire dalla Rai. Grazie a un gioco di squadra perfetto e un impegno fortissimo siamo riusciti in pochi mesi a costruire questa sala ed e' motivo di grande soddisfazione. Speriamo che possa in qualche modo alleviare le sofferenze e i pensieri dei pazienti. Gia' giovedi' scorso - ha raccontato infine Zampedri - abbiamo avuto un primo paziente che e' venuto a vedere un film: un bambino da noi ricoverato per il quale era proprio la prima volta che vedeva un film al cinema. E' stato un momento bellissimo, di forti emozioni". (AGI)

AL GEMELLI DI ROMA 

·          

Roma - E' stata inaugurata oggi al Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma la prima sala cinematografica ricavata all'interno di un ospedale italiano. La sala, realizzata tra l'ottavo e il nono piano del complesso ospedaliero, puo' ospitare fino a 130 persone tra pazienti, familiari, amici, volontari e personale di assistenza. E' stata costruita in modo da poter accogliere anche pazienti non autosufficienti, a letto o in sedia a rotelle. Il progetto e' stato possibile attraverso una raccolta fondi solidale promossa da MediCinema Italia Onlus: la somma ricavata e' stata sufficiente per finanziare il costo totale dell'operazione, pari a circa 500 mila euro. C'e' anche stato un sostegno di diversi partner, primo fra tutti la Walt Disney Company Italia, alla quale si e' aggiunta la Rai. "In due anni abbiamo realizzato qualcosa che in Italia non era mai esistito e che poteva sembrare un progetto impossibile", ha detto la presidente di MediCinema Italia Onlus, Fulvia Salvi, sottolineando che "e' la prima sala cinematografica integrata in una struttura ospedaliera italiana ed e' la prima di queste dimensioni realizzata in Europa". "Il nostro obiettivo - ha spiegato Celestino Pio Lombardi, responsabile della Commissione medico-scientifica del progetto - e' quello di ridurre lo stress dei pazienti, cercare di rimuovere in qualche modo le preoccupazioni di chi deve sottoporsi a un'operazione chirurgica o a un esame fastidioso, ma anche, per esempio, a donne che hanno una gravidanza difficile".

Rocco Bellantone, preside della Facolta' di Medicina, ha precisato che con l'apertura della sala cinematografica "svolgeremo anche un'attivita' di ricerca che attraverso protocolli clinici allo studio ci portera' a misurare l'efficacia della 'cinematerapia' sui malati. Padre Agostino Gemelli, fondatore del policlinico, ci ha dato come missione quella di essere con il cuore nella realta' - ha concluso Bellantone - ed e' stato con il cuore che siamo riusciti a superare tutte le difficolta' che si sono presentate nella realizzazione di questo progetto". "Senza la Walt Disney - ha affermato il direttore generale della Fondazione del policlinico, Enrico Zampedri - non sarebbe stato possibile fare tutto questo ma sono state molto importanti anche le altre realta' coinvolte nel progetto, a partire dalla Rai. Grazie a un gioco di squadra perfetto e un impegno fortissimo siamo riusciti in pochi mesi a costruire questa sala ed e' motivo di grande soddisfazione. Speriamo che possa in qualche modo alleviare le sofferenze e i pensieri dei pazienti. Gia' giovedi' scorso - ha raccontato infine Zampedri - abbiamo avuto un primo paziente che e' venuto a vedere un film: un bambino da noi ricoverato per il quale era proprio la prima volta che vedeva un film al cinema. E' stato un momento bellissimo, di forti emozioni". (AGI)

 

Torna su
Al Gemelli di Roma un super laboratorio per le analisi del sangue

Al Gemelli di Roma un super laboratorio per le analisi del sangue

Attivo h24, smaltirà il 75% di tutte le analisi eseguite nell’ospedale e farà risparmiare 1,3 milioni di euro l’anno


Un super laboratorio di analisi al Policlinico universitario A. Gemelli di Roma. Automatizzato, lungo 36 metri, Aptio™1 Automation di Siemens Healthcare smaltirà il 75% di tutte le analisi del sangue eseguite nell’ospedale, esclusi gli esami complessi. Lavorerà h24 con tutte le provette dei diversi ambulatori e reparti che finiranno tutte nella ‘pancia’ di questo super analizzatore, muovendosi rapide per il Policlinico attraverso un sistema di posta pneumatica e una tracciatura a prova di errore. Il tutto, a regime, garantirà risparmi per circa 1,3 milioni di euro l’anno, anche perché si risparmierà sulle forniture di prodotti (anzitutto reagenti e provette) che serviranno al suo funzionamento.

Aptio™1 è stato presentato oggi, in occasione del secondo Forum On Workflow and Clinical Excellence, una conferenza internazionale organizzata da Siemens Healthcare in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli.

“Il Policlinico – afferma Enrico Zampedri, direttore generale del Gemelli – ha avviato una profonda riorganizzazione di tutto il processo connesso all’attività laboratoristica, che rappresenta uno dei driver più importanti dell’attività assistenziale che quotidianamente si svolge nella nostra struttura al servizio dei pazienti. Un’attività consistente che complessivamente supera il numero di circa 6 milioni di prestazioni all’anno. Tale processo in via di realizzazione – con l’obiettivo di rendere più efficiente e sicura l’attività laboratoristica, essenziale nella filiera della vita ospedaliera – comporta un notevole cambiamento nella filosofia di lavoro di medici e tecnici coinvolti, favorendone una maggiore integrazione tra tutte le componenti e valorizzando ancora di più il lavoro di squadra. In questo percorso di miglioramento dell’offerta uno dei nostri principali partner è Siemens. Grazie all’innovazione tecnologica garantita da questa partnership abbiamo realizzato la concentrazione in un unico laboratorio dell’attività relativa a chimica, immunochimica, ematologia e coagulazione. Tale integrazione produrrà anche l’ottimizzazione delle risorse economiche con significativi risparmi a tendere”.

“Al Policlinico Gemelli abbiamo installato uno dei sistemi di automazione più all’avanguardia del mondo per fornire a questa struttura quello di cui ha bisogno per prendersi cura degli abitanti di Roma, e non solo, che gli chiedono assistenza – aggiunge Franz Walt, President, Siemens Healthcare Laboratory Diagnostics – Aptio™1 Automation offre una soluzione diagnostica che permette ai medici dell’ospedale di effettuare diagnosi veloci e di prendere decisioni più rapide e informate in merito alla cura dei pazienti”.

Con l’arrivo di Aptio™1 è stata anche identificata una accettazione unica, ovvero un unico punto di raccolta delle provette, garantendo così una migliore tracciatura dei processi e del percorso delle provette, grazie anche all’adozione di tecnologie informatiche innovative.

 

Torna su
Corruzione in sanità, intesa ministero-Anac: da settembre controlli nelle Asl

Corruzione in sanità, intesa ministero-Anac: da settembre controlli nelle Asl

 

Lorenzin e Cantone siglano un protocollo di intesa. Istituita una task force che - insieme ad Agenas e Nas - effettuerà controlli nelle aziende sanitarie. L’obiettivo è verificare la reale applicazione del Piano nazionale anticorruzione

di Redazione Aboutpharma Online 21 aprile 2016

 

Arriveranno a settembre nelle aziende sanitarie italiane i controlli di una Task force, istituita da ministero della Salute e Anac, che verificherà l’applicazione del Piano nazionale anticorruzione (Pna). Lo hanno annunciato oggi il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, dopo aver sottoscritto un protocollo d’intesa. “Si dà così attuazione – commenta il ministro – alla parte relativa ai controlli, perché il rischio è che le norme non abbiano applicazione nei territori. La task force, composta da Carabinieri dei Nas e ispettori del ministero e dell’Anac, ha proprio l’obiettivo di verificare che i protocolli anticorruzione siano applicati”. Questa, ha precisato, “non vuole essere una fase repressiva ma di prevenzione. Dobbiamo cioè cambiare l’approccio culturale perché a volte non c’è neppure consapevolezza che non si stiano rispettando le regole o che ci siano comportamenti lesivi”.

Il protocollo prevede un impegno comune per attività di “verifica, controllo e valutazione anche sul campo, avvalendosi dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas)”, dell’attuazione dei piani di prevenzione della corruzione. Presso l’Anac, “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, sarà istituito un registro del personale ispettivo con i requisiti richiesti. Nasce anche il gruppo del Nucleo operativo di coordinamento (Nuoc) che sarà composto da tre rappresentanti del ministero della Salute, di Anac e Agenas, e svolgerà funzioni di supporto per le attività ispettive. Il protocollo avrà la durata di 36 mesi ma un primo bilancio dei risultati ottenuti, ha sottolineato Cantone, si avrà entro la fine dell’anno.

Secondo il numero uno dell’anticorruzione sono “varie le situazioni a rischio di corruzione nella sanità, dalle liste di attesa alle nomine, dagli appalti ai conflitti di interessi tra medici e aziende”. Un terreno fertile per il malaffare, quello della sanità, grazie ai “grandi interessi economici che girano interno”, sottolinea. Quanto ai numeri sulla corruzione, che alcune stime valutano in circa sei miliardi l’anno per il solo settore sanità, Cantone invita ancora una volta alla cautela: “Come tutte le attività illecite  è difficile calcolare l’impatto reale del fenomeno, ma su questo stiamo lavorando e un’idea è quella di utilizzare le competenze dell’Istat per arrivare ad una valutazione”.

Il protocollo d’intesa firmato oggi ”non certifica l’esistenza di un sistema malato dalla testa ai piedi ma, al contrario, la volontà delle istituzioni e della parte più sana del Ssn, che è la maggioranza, di allearsi tenacemente per stanare i pochi intrusi ed espellerli dal sistema prima ancora che possano provocare danni”. Ne è convinto Francesco Bevere, direttore generale di Agenas, che spiega così il ruolo dell’agenzia nell’attività della task force: “Agenas sarà lo strumento tecnico di raccordo per cooperare nelle attività di verifica e monitoraggio anche sul campo, ampliando e integrando la propria mission istituzionale di affiancamento delle regioni e delle aziende sanitarie nel percorso di miglioramento delle performance cliniche, economiche ed amministrativo-gestionali”. L’Agenas, inoltre, ”investirà ancora nella formazione di professionalità specifiche – ha aggiunto – affinché come in un lavoro di squadra, tutti insieme, si possano individuare strumenti e metodi per mettere in sicurezza il sistema sanitario da rischi corruttivi”.

L’iniziativa di ministero e Anac piace ad Assobiomedica, l’associazione che riunisce le aziende produttrici di medical device, che in una nota interpreta “il segnale forte lanciato oggi” come uno stimolo importante “per aggredire le inefficienze generate da una gestione poco etica e trasparente della sanità”.

“Le imprese associate ad Assobiomedica – ricorda il presidente, Luigi Boggio – da anni si sono dotate di un codice etico e di modelli di organizzazione, gestione e controllo al loro interno per arginare episodi di corruzione, attuando procedure specifiche di vigilanza e attività di formazione rivolte ai propri collaboratori. Comportamenti poco etici introducono una distorsione della concorrenza sul mercato che fa male alle imprese”. Sempre nell’ottica di “leale e trasparente collaborazione tra attori del sistema”, Boggio ricorda infine “i protocolli d’intesa sottoscritti negli ultimi anni con diverse società scientifiche per collaborare in modo etico anche e soprattutto nella formazione medico-scientifica”.

 

Torna su
Rivoluzione in studi medici, aperti 16 ore e 7 giorni su 7

Dal “Corriere della Sera”

 

Rivoluzione in studi medici, 
aperti 16 ore e 7 giorni su 7

da Redazione Salute

 

 

È una vera e propria «rivoluzione» quella che avverrà, a breve ed a tutto vantaggio dei cittadini, negli studi dei medici di famiglia: l’assistenza sarà infatti garantita 16 ore e 7 giorni su 7 con gli studi aperti dalle 8 alle 24, mentre nelle ore notturne entra in campo il 118. Ma soprattutto, a regime niente più file per pagare ticket e prenotare visite: si farà tutto direttamente nello studio medico. La nuova organizzazione è prevista nell’Atto di indirizzo per il rinnovo della convenzione di medicina generale, che il Comitato di settore Governo-Regioni ha approvato oggi. Mai più file estenuanti al pronto soccorso, dunque, perché il medico di fiducia non c’è. E presto anche niente attese per pagare il ticket o prenotare una visita: operazioni che bypassando il Cup (Centro unico di prenotazione) si potranno fare rapidamente dallo studio del medico. Un meccanismo che potrebbe portare anche maggiore trasparenza nella gestione delle liste d’attesa.

Disponibilità del medico

La novità di maggior rilevo è però quella che assicura agli assistiti la disponibilità del medico per 16 ore al giorno e 7 giorni su 7. Una continuità assistenziale che dovrà essere garantita dalle 8 del mattino alla mezzanotte da medici di famiglia e guardia medica, oramai assimilati in un ruolo unico. Nelle ore notturne sarà invece attivo il 118. Una «staffetta che consente di avere più medici disponibili nell’arco della giornata, andando a coprire anche fasce orarie come quelle delle 8 alle 10 del mattino o del primo pomeriggio, dalle 14 alle 16, oggi meno coperte. E che generano così intasamenti nei pronto soccorsi a discapito di chi ha una vera emergenza», spiega il segretario del sindacato dei medici di medicina generale Fimmg, Giacomo Milillo.

Le aggregazioni territoriali funzionali

A garantire la continuità delle cure saranno le Aft, Aggregazioni territoriali funzionali, non un luogo fisico, ma un nuovo modello organizzativo che consentirà comunque ai cittadini di trovare il medico per tutto l’arco della giornata. Terminato il turno del proprio medico di fiducia, ce ne sarà comunque un altro a disposizione, collegato a un data base che consentirà in qualsiasi momento di avere sottomano il profilo sanitario dell’assistito. I servizi di pediatria saranno invece garantiti dalle 8 alle 20 per cinque giorni la settimana. Il nuovo modello di assistenza di base dovrebbe inoltre favorire la nascita di nuovi maxi-ambulatori, con presenza di più medici, dove è possibile fare prime analisi cliniche, accertamenti diagnostici meno complessi e piccola chirurgia ambulatoriale. Anche se sotto sigle diverse (come Case della salute in Emilia e Toscana o Ucp nel Lazio) oggi lungo lo Stivale si contano già otre 800 di queste strutture, «che dovrebbero ora diffondersi in tutto il territorio nazionale grazie alla nuova convenzione, sempre che arrivino poi le autorizzazioni regionali», precisa Milillo. L’atto di indirizzo, «è un atto doveroso, dopo sei anni di blocco della convenzione. Aggiustamenti saranno necessari ma il giudizio è positivo. Fermo restando - conclude il leader sindacale - che vigileremo sul rispetto dei livelli occupazionali”. La nuova Convenzione rappresenta un segnale «positivo» anche secondo il Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, purché, tuttavia, «il tutto avvenga senza ulteriori costi per le famiglie».

Torna su
Dolore cronico, casi in aumento e trattamento ancora inadeguato

Medicina scienza e ricerca

 

Dolore cronico, casi in aumento e trattamento ancora inadeguato

 

Un’indagine condotta dal Movimento Consumatori, in collaborazione con il Centro studi Mundipharma, ha mostrato che circa la metà degli intervistati presenta un dolore cronico, nella maggior parte dei casi trattato con Fans o paracetamolo. Solo 4 persone su 10 però si ritengono soddisfatte della gestione della malattia

di Redazione Aboutpharma Online 22 aprile 2016

 

Negli ultimi dieci anni, nonostante anche l’introduzione della legge 38/2010 sul dolore, la prevalenza della malattia in Italia è aumentata e resta ancora sottotrattata o curata in maniera non adeguata. È quanto emerge da un’indagine condotta dal Movimento Consumatori, in collaborazione con il Centro studi Mundipharma. Secondo l’indagine – condotta su un campione di circa duemila soci del Movimento consumatori – circa la metà degli intervistati (il 46,4%) ha dichiarato di convivere con un dolore cronico, cioè che dura in maniera costante da almeno tre mesi. Di questi l’87% afferma di avere dolore da oltre sei mesi. Tra le cause annoverate per l’insorgenza della malattia (così viene ormai considerato il dolore cronico) nell’49,8% dei casi si parla di artrosi, seguita da mal di testa ed emicrania (19,9%) e artrite (14,4%( mentre) l’origine oncologica si riscontra solo nel 4% degli intervistati. Gli intervistati inoltre hanno dichiarato di convivere con un dolore di grado severo (47,5%) o moderato (42%) e sette persone su dieci hanno affermato che il tipo di dolore è tale da compromettere la qualità di vita, influenzando soprattutto lo svolgimento delle attività quotidiane (65%), il riposo notturno (45%) e anche le mansioni lavorative (36,4%). Per quanto riguarda il trattamento del dolore, quasi il 42% ha riferito che il dolore viene misurato dal proprio medico di famiglia ad ogni visita, come dovrebbe essere secondo la legge 38/2010, mentre ad un 16,9% non viene mai misurato e a un 15% ogni due visite per citare i dati principali. Su 1023 intervistati che avevano dichiarato di avere un dolore cronico, il 33% ha dichiarato di non seguire nessuna terapia, mentre il 67%  è in cura, nella maggior parte dei casi con fans e paracetamolo. Sono queste due classi di farmaci a coprire rispettivamente il 50,8% e il 29,5% dei trattamenti citati dal campione – facilitati probabilmente anche da un accesso più facile per i cittadini a cui è richiesta una ricetta ripetibile o nessuna prescrizione per l’acquisto dei farmaci rispetto gli altri farmaci considerati per cui serve una ricetta non ripetibile – seguiti da un 8,9% dell’associazione codeina/paracetamolo, il 4,7% di tramadolo/paracetamolo, il 2,8% di solo tramadolo e infine il 14% di oppioidi forti. I fans quindi continuano ad essere la terapia più utilizzata nel trattamento del dolore cronico nonostante il loro utilizzo sia sconsigliato nel lungo periodo da numerose Linee guida e dall’Autorità regolatoria italiana ed europea per gli effetti collaterali che possono manifestarsi a livello gastrico e cardiovascolare. Nel campione di intervistati però solo 4 persone su dieci si è ritenuto sodisfatto della gestione del problema.

“Dalla ricerca emerge  una situazione italiana ancora preoccupante – spiega Vittorio Schweiger, direttore Strutture semplice Terapia del dolore dell’Azienda ospedaliero universitaria integrata di Verona – è aumentata la percentuale di cittadini con dolore persistente, e nonostante sia stato fatto molto per aumentare la cultura della valutazione del dolore, tale aspetto è ancora sottovalutato con una buona percentuale di pazienti in cui il dolore vien misurato mai o raramente, impedendo cosi un monitoraggio puntuale della malattia.   Inoltre il consumo di Fans in Italia è ancora troppo elevato, nonostante debbano essere utilizzato solo per breve tempo. Oggi le evidenze scientifiche consigliano di trattare il dolore con bassi dosaggi di oppioidi forti, più efficaci e con minor effetti collaterali. Sicuramente bisogna partire dalla sensibilizzazione degli operatori sanitari.

“Benché negli ultimi anni sia cresciuta l’attenzione delle istituzioni e della comunità medica verso il problema – commenta Marco Filippini, General manager di Mundipharma Italia ­– l’indagine dimostra che la gestione del problema in Italia è ancora ben lontana da potersi definire ottimale. L’impiego dei farmaci oppioidi è ancora troppo limitato e sconta probabilmente il retaggio culturale e timori infondati per cui gli oppiacei possono dare dipendenza, che tuttavia non riguarda le realtà italiana dove il consumo di questi farmaci a scopo analgesico è tra i più bassi in Occidente”.

 

Torna su
Nasce la prima società scientifica italiana dedicata a dolore muscolo-scheletrico e algodistrofia

Medicina scienza e ricerca

Nasce la prima società scientifica italiana dedicata a dolore muscolo-scheletrico e algodistrofia

Ortopedici, reumatologi e fisiatri lanciano “Guida” per stimolare la ricerca scientifica e promuovere una gestione interdisciplinare delle patologie

di Redazione Aboutpharma Online 2 maggio 2016 

 

Il panorama delle società scientifiche italiane si arricchisce con un nuovo soggetto: è stata appena costituita la Società italiana per la gestione unificata ed interdisciplinare del dolore muscolo-scheletrico e dell’algodistrofia” (Guida). Fra gli obiettivi – si legge in un comunicato – promuovere ricerca, attività culturali e formazione, ma soprattutto fare chiarezza sugli aspetti scientifici e gestionali.  Guida è la prima società scientifica in Italia con un focus specifico su queste patologie e riunisce ortopedici, reumatologi e fisiatri. A presiederla è Ombretta Di Munno, docente associato di Reumatologia all’Università di Pisa.

Torna su
Dal pesarsi ogni giorno al fare scale, si rimane in forma così

Dal pesarsi ogni giorno al fare scale, si rimane in forma così

Magri senza sforzo, uno studio dimostra che e' possibile

02 maggio, 18:46
  •  


Restare in linea senza sforzo, ecco alcuni piccoli e facili comportamenti - come salire sulla bilancia ogni giorno, parcheggiare la macchina lontano dalla propria destinazione - per mantenere costante il proprio peso e dimezzare il rischio di divenire obesi negli anni.

Lo rivela lo studio di Rena Wing della Brown University presso Prividence (USA) su 599 giovani di 18-35 anni.

Ventenni e trentenni rischiano più di tutti di ingrassare rapidamente di anno in anno - una media di 0,5-1 chilo in più l'anno - passando dalla "pancetta" al sovrappeso nel giro di pochi anni, probabilmente come effetto delle tante difficili transizioni che vivono - dal passaggio dal mondo della scuola a quello del lavoro, al matrimonio, alla nascita di un figlio.

Cosa fare allora per evitare di metter su chili compleanno dopo compleanno lo suggerisce la ricerca, pubblicata su JAMA Internal Medicine.

Innanzitutto, spiega Wing all'ANSA, pesarsi tutti i giorni e avere bene in mente il proprio peso perché solo così lo si riesce a mantenere. Se non so quanto peso non mi renderò nemmeno conto che sto ingrassando. Peraltro è stato dimostrato che pesarsi ogni giorno aiuta a dimagrire, potenzia gli effetti di una dieta.

Poi quando si esce in auto bisogna fare sempre lo sforzo di parcheggiare lontano dalla propria destinazione finale, così da fare un po' di moto a piedi.

Poi, spiega ancora Wing, "abbiamo consigliato ai volontari di preferire sempre le scale all'ascensore", ad esempio quando tutte le mattine ci si reca al proprio piano in ufficio.

Poi ci sono alcuni piccoli accorgimenti alimentari che danno ottimi risultati se sostenuti nel tempo, senza dover fare diete: eliminare o ridurre, ad esempio, condimenti esagerati come salse troppo elaborate e magari ricche di zuccheri.

Quando si parte già da una condizione di sovrappeso, afferma Wing, "consigliamo di aumentare gradualmente il proprio livello di attività fisica fino a portarlo a una media di 50 minuti al giorno". In questi casi è utile anche una dieta ipocalorica per un breve periodo per perdere il peso in eccesso.

Questi consigli funzionano, infatti i giovani cui Wing ha "prescritto" gli accorgimenti citati, dopo tre anni di osservazione, erano in gran parte riusciti a mantenere il peso di partenza; il loro rischio di ingrassare risultava dimezzato.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Dolore acuto o cronico, ecco come riconoscerlo e affrontarlo

Medicina scienza e ricerca

 

Dolore acuto o cronico, ecco come riconoscerlo e affrontarlo

 

Assosalute e Simg insieme per fare chiarezza sul tema durante l’incontro ‘I Mille Volti del Dolore’

di Redazione Aboutpharma Online 3 maggio 2016

 

Un mal di testa, un mal di pancia improvviso. Ma anche il ciclo mestruale o una brutta caduta. Stati diversi, ma accomunati da una cosa, il dolore. A volte forte, altre volte più blando. E’ proprio per riconoscere le varie forme di dolore e imparare a gestirle correttamente che la Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg) e Assosalute, l’Associazione nazionale farmaci di automedicazione, hanno promosso l’incontro ‘I Mille Volti del Dolore’, un confronto tra esperti finalizzato a eleggere il percorso più appropriato per riconoscere il dolore acuto e affrontarlo nel migliore dei modi.

Il dolore rappresenta una tra le manifestazioni più importanti di un disturbo o di una malattia; inoltre, fra i sintomi, è quello che tende a minare maggiormente la qualità di vita. Secondo un’indagine dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), su 5.447 soggetti ospitati da 15 centri di tutto il mondo, il dolore persistente nell’ambito delle cure primarie risulta avere una prevalenza del 20%. In Italia, uno studio osservazionale pubblicato nel 2005, che ha coinvolto 89 medici di medicina generale, ha rilevato come circa un terzo dei contatti ambulatoriali che il medico ha durante la sua attività routinaria lamenti dolore, classificato dai medici ricercatori nel 52,8% dei casi come cronico. In aggiunta, in una recente ricerca condotta dalla Simg, sono stati selezionati i pazienti che hanno richiesto un consulto al proprio medico a causa del proprio dolore. Sono stati considerati solo i pazienti che denunciavano un dolore con intensità maggiore di 3 alla scala Nrs (Numerical Rating Scale), un sistema di valutazione del dolore che viene compilata chiedendo al paziente di assegnare un punteggio da 0 a 10 corrispondente al dolore provato. Ebbene, all’interno di questo campione, il dolore cronico (maggiore del valore 3 alla scala Nrs con durata superiore ai tre mesi) era presente nel 3% del totale della popolazione assistita, con proiezione su base annua e rappresentava circa il 27% dei primi accessi per dolore. Secondo quanto emerso, quindi, si può ritenere che la maggior parte dei pazienti, il 70% di quelli che consultano il proprio medico per un problema di dolore, lo fa per la presenza di un dolore acuto.

“Tra i principali obiettivi che la Simg si propone, figura anche quello di supportare le persone costrette a convivere con alcuni problemi di salute che, nella maggior parte dei casi, provocano la comparsa di dolore – commenta Ovidio Brignoli, vice presidente di Simg – E’ per questo che il medico di famiglia, quando opportunamente consultato, sarà in grado di prescrivere una terapia idonea o, in caso di lievi sintomi da leggeri disturbi, indirizzare il paziente verso una gestione autonoma del dolore, tramite l’assunzione responsabile di farmaci di automedicazione”.

In caso di una causa scatenante netta e chiara – la presenza del ciclo mestruale, una piccola contusione, un arrossamento degli occhi, un’indigestione o un mal di testa – il dolore acuto può essere controllato in autonomia, tramite la corretta assunzione di farmaci di automedicazione o da banco, acquistabili senza obbligo di prescrizione e riconoscibili grazie al bollino rosso che sorride, presente sulla confezione, dove è indicato chiaramente che quello che si sta acquistando è un farmaco senza obbligo di ricetta. Questi medicinali sono disponibili senza ricetta medica perché nel loro impiego diffuso e di lungo corso si sono dimostrati sicuri, efficaci ed hanno ricevuto un’apposita autorizzazione da parte dell’Autorità sanitaria.

In presenza di dolore cronico, invece, è opportuno consultare il proprio medico di fiducia, il quale sarà in grado di individuare la giusta diagnosi e, di conseguenza, prescrivere il trattamento più efficace. “Oltre a limitare in maniera impattante la qualità della vita, il dolore è causa di una serie considerevole di costi sociali, in termini di rendimento al lavoro, conseguenze psicologiche e ripercussioni fisiche – conclude Pierangelo Lora Aprile, responsabile Area dolore Simg – Per arginare in maniera efficace questo fenomeno complesso, in presenza di sintomi derivanti da semplici disturbi è opportuno educare la popolazione a una gestione autonoma del dolore, tramite una terapia che preveda l’assunzione responsabile di farmaci da banco. In caso di dolori caratterizzati da un’intensità più forte che non si risolvono a breve e non sono strettamente correlati a eventi acuti e/o traumatici, è opportuno consultare un medico per una diagnosi più puntuale e l’inizio di un trattamento specifico”.

 

Torna su
Igiene delle mani, Giornata mondiale: Boggio (Assobiomedica), “Da prevenzione infezioni ospedaliere 500 mln l’anno di risparmio”

 Medicina scienza e ricerca

 

Igiene delle mani, Giornata mondiale: Boggio (Assobiomedica), “Da prevenzione infezioni ospedaliere 500 mln l’anno di risparmio”

 

In Italia ogni anno dal 5 all’8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera, che provoca il decesso di circa 5-6mila persone: si tratta di un problema che potrebbe pesare fino a 1 miliardo di euro sulla Sanità italiana, quando il 20-30% di infezioni potrebbe essere evitato con le buone pratiche cliniche

di Redazione Aboutpharma Online 5 maggio 2016

 

La lotta alle infezioni ospedaliere è fondamentale per la tutela della sicurezza del paziente e il  contrastarle frutterebbe anche al Ssn qualcosa come 500 milioni di risparmi l’anno. A ricordarlo – in occasione della Giornata mondiale dell’igiene delle mani, è il presidente Assobiomedica, Luigi Boggio: “La giornata mondiale sull’igiene delle mani – afferma in una nota – pone l’accento su un problema di dimensioni rilevanti, con un impatto potenzialmente devastante sul paziente e molto oneroso per le casse sanitarie. Il tema può sembrare banale mentre invece il corretto e costante lavaggio delle mani può davvero contribuire in larga parte a evitare il fenomeno delle infezioni ospedaliere. Per evitare una gestione tardiva delle infezioni e la resistenza alla terapia antibiotica è sempre più urgente  un approccio coordinato e preventivo tra reparti, ma anche tra strutture sanitarie, enti locali e centrali, volto ad avviare in maniera omogenea politiche sulla prevenzione dei rischi; formazione del personale sulle pratiche di controllo delle infezioni; utilizzo di metodiche e dispositivi appropriati per la pulizia, l’igiene e la disinfezione delle apparecchiature. Ciò significherebbe un risparmio annuale stimato di più di 500mila euro a struttura sanitaria, oltre a una riduzione del 50% delle infezioni nosocomiali”.

In Italia ogni anno dal 5 all’8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera, che provoca il decesso di circa 5-6mila persone. Le infezioni ospedaliere rappresentano sempre più una crisi sanitaria che richiede una gestione preventiva e adeguata. Assobiomedica ha stimato risparmi di almeno 500 milioni di euro l’anno applicando in Italia modelli, utilizzati in altri paesi europei, per ridurre le infezioni correlate all’assistenza ospedaliera. Si tratta di un problema che potrebbe pesare fino a 1 miliardo di euro sulla Sanità italiana, quando il 20-30% di infezioni potrebbe essere  evitato con l’attuazione di buone pratiche cliniche, come l’igiene delle mani, ma anche con l’utilizzo di tecnologie mediche appropriate e la messa a punto di adeguati meccanismi di controllo e di processo da parte degli operatori sanitari.

“Si fanno tagli alla Sanità con spending review, payback e rinegoziazioni, quando mettendo in atto buone pratiche come questa si otterrebbero risparmi notevoli e si garantirebbe ai pazienti un più elevato livello di sicurezza. Le infezioni ospedaliere –prosegue Boggio – giocano un ruolo di primo piano per la sicurezza del paziente e hanno un elevato impatto clinico ed economico, ma sarebbero evitabili con l’adozione di misure di provata efficacia, che Assobiomedica ha presentato, purtroppo inascoltata, a Governo e Regioni insieme ad altre proposte di risparmio alternative al payback. Sarebbe fondamentale promuovere un programma, insieme al Ministero della Salute e alle Regioni, in cui le imprese del settore dei dispositivi medici potrebbero impegnarsi in iniziative di sensibilizzazione e di formazione del personale medico-sanitario. Questo sarebbe un modo strategico e sostenibile di ottenere risparmi in alternativa a misure che non faranno altro che abbassare la qualità del servizio offerto ai cittadini”.

 

 

Torna su
Manager Asl, Consiglio di Stato: “Nomine siano ispirate a meritocrazia, no alla convenienza politica”

Sanità e Politica

 

 Manager Asl, Consiglio di Stato: “Nomine siano ispirate a meritocrazia, no alla convenienza politica”

Le indicazioni nel parere emesso sul decreto delegato in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Monito anche su trasparenza e imparzialità delle procedure. Non solo per i direttori generali, ma anche per direttori amministrativi, sanitari e dei servizi socio-sanitari

di Redazione Aboutpharma Online 6 maggio 2016

 

Sì alla meritocrazia, no ai giochi politici. Almeno per quanto riguarda la designazione dei vertici delle aziende sanitarie locali. A chiederlo è la Commissione speciale del Consiglio di Stato nel parere emesso sul decreto delegato in materia riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Nello specifico, la Commissione dà indicazioni su come rafforzare i principi di trasparenza e imparzialità nelle procedure di nomina, di verifica e di eventuale revoca dei direttori generali, nonché in quelle selettive delle altre figure dirigenziali (direttore amministrativo, direttore sanitario, direttore dei servizi socio-sanitari) previste dalla legislazione sanitaria nazionale e regionale.

Imparzialità e omogeneità di valutazione possono essere garantiti attraverso un procedimento bifasico, sottolinea il Consiglio di Stato. Serve innanzitutto la creazione, da parte di un’apposita Commissione, di un elenco nazionale di idonei cui viene attributo un punteggio da 75 a 100. E, in una seconda fase, una selezione su base regionale in cui la Commissione propone al Presidente della Giunta Regionale una terna di nomi.

L’ammissione all’elenco dei direttori generali potrà essere aperta anche a manager sanitari privati con alte capacità imprenditoriali ed un elevato bagaglio tecnico di professionalità. Si rimarca, quindi, la natura meritocratica e fiduciaria delle nomine, l’inammissibilità di scelte dettate da influenze politiche, così come la possibilità di revoca dei direttori generali solo in base al giusto procedimento e finalizzata ad evitare ogni forma,anche surrettizia, di spoils system.

 

Torna su
Troppi bisturi sulla tiroide: la chirurgia non è sempre indicata

 

·       

·         -

Medicina scienza e ricerca

Troppi bisturi sulla tiroide: la chirurgia non è sempre indicata

Gli esperti chiedono di migliorare l'inquadramento diagnostico per patologie sostanzialmente innocue. Presentata a Milano la Giornata mondiale della Tiroide in programma il 25 maggio. Sul fronte della prevenzione è ancora troppo basso il consumo di sale iodato

di Stefano Di Marzio 17 maggio 2016 

 

Troppe tiroidectomie in Italia: ricorrere al bisturi per patologie che potrebbero semplicemente essere controllate nel tempo (noduli ma anche alcuni tumori papillari poco aggressivi) potrebbe essere un intervento inappropriato. Serve piuttosto un più accurato inquadramento diagnostico da parte degli endocrinologi e maggior consenso da parte degli specialisti. Questo ha detto oggi a Milano Luciano Pezzullo, presidente dell’associazione che raggruppa le unità endocrinochirurgiche italiane (Club Uec) nel presentare insieme a numerosi colleghi la Giornata mondiale della Tiroide in programma il prossimo 25 maggio. “Nel 2014 sono stati eseguiti in Italia 37.217 interventi – ha spiegato Pezzullo – per un totale di 127.734 giornate di degenza. Nello stesso periodo negli Usa le tiroidectomie sono state 66 mila ma su una popolazione sei volte superiore a quella italiana. Qualcosa non va…”.
La patologia tiroidea tout court è considerata in forte ascesa in tutto il mondo (in Italia si registrano punte del 30% rispetto alla popolazione generale nelle aree che consumano meno iodio nella dieta). In tale ambito l’insorgenza di noduli e tumori è verosimilmente legata all’esposizione a radiazioni ionizzanti di varia origine ma all’epidemiologia occorre fare la tara. “Esiste un documentato effetto screening – dice Furio Pacini, presidente dell’
European Thyroid association (Eta) – legato al fatto che senza gli ecografi, trent’anni fa, tante anomalie non si vedevano. Comunque i tumori maligni sono il 5%-6% di tutti i noduli diagnosticati e solo il 5% di questi è rappresentato da forme realmente aggressive”.
La Giornata mondiale si svolge all’interno della Settimana mondiale della Tiroide, occasione privilegiata per parlare di prevenzione e fare informazione. Causa più frequente della patologia tiroidea è la carenza di iodio, cui occorre rispondere con un’adeguata alimentazione (pesce soprattutto) e ricorrendo al sale iodato sia in cucina, che nell’industria alimentare (es. panificazione). L’Italia si è dotata di uno specifico programma di prevenzione della carenza iodica (legge 55 del 2005) che però è largamente disatteso, come spiegato a Milano da Antonella Olivieri, responsabile scientifico dell’
Osservatorio nazionale per il monitoraggio della iodioprofilassi (Osnami) attivo presso l’Istituto superiore di Sanità. “L’obbligo di esposizione di sale iodato sugli scaffali nei punti vendita non è rispettato – spiega l’esperta – come pure quello delle tabelle informative sull’importanza dello iodio”. Risultato? Il sale iodato venduto in Italia è appena il 56% del totale sale acquistato dai cittadini. Per l’Oms l’obiettivo è il 90%”.

 

Torna su
Università Cattolica e policlinico Gemelli in prima linea nella ricerca su nutrizione e salute

 

 

Medicina scienza e ricerca

 

Università Cattolica e policlinico Gemelli in prima linea nella ricerca su nutrizione e salute

 

Il cibo come fonte di prevenzione e cura nel campo delle malattie del metabolismo, ma anche nelle condizioni di fragilità, nelle patologie del fegato e dei reni, nelle malattie neurologiche o in particolari condizioni come la gravidanza. Giovedì la Giornata per la Ricerca 2016

di Redazione Aboutpharma Online 19 maggio 2016

 

Il cibo può essere amico e nemico della nostra salute, dipende da ciò che mettiamo nel piatto. La Facoltà di Medicina e chirurgia dell’università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione policlinico universitario A. Gemelli sono impegnati in numerosi progetti di ricerca sul tema della nutrizione, dalla ricerca di base, con studi molecolari, alla ricerca preclinica e clinica sul cibo come fonte di prevenzione e cura nel campo delle malattie del metabolismo, quali diabete ed obesità, ma anche nelle condizioni di fragilità, quali l’invecchiamento, nelle patologie del fegato e dei reni, nelle malattie neurologiche o in particolari condizioni come la gravidanza.

Tutta la ricerca in questo ambito verrà presentata in occasione della quinta edizione della ‘Giornata per la Ricerca 2016’ di università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione policlinico universitario A. Gemelli, in programma il 26 maggio, a partire dalle 8,30, nell’Aula Brasca del Policlinico romano. Anche quest’anno il tema sarà ‘Il ruolo della nutrizione dalla prevenzione alla cura’.

“La Giornata per la ricerca si incentra anche quest’anno sul tema della nutrizione, su tutti i riflessi che la nutrizione ha sulla nostra salute, soprattutto perché riteniamo sia ancora poco o non correttamente conosciuto l’impatto che questa ha sulla prevenzione e cura delle malattie – afferma il preside di Medicina, Rocco Bellantone – Non tutti sanno, ad esempio, che l’efficacia delle cure per un paziente oncologico può essere potenziata se si sta più attenti alla sua alimentazione; altre malattie, come quelle cardiovascolari, metaboliche o neurologiche possono essere prevenute con una maggiore attenzione nutrizionale. L’intuizione geniale del nostro fondatore Padre Gemelli fu quella di creare un Policlinico universitario proprio nella convinzione che non si potesse fare una buona didattica senza accomunarla a una ricerca di altro livello. La ricerca è l’inizio di una buona assistenza. Non è possibile fare un’assistenza moderna, aggiornata se gli stessi operatori medici non sono coinvolti in ricerche di altissimo livello”.

Purtroppo “si investe molto poco in ricerca – continua Bellantone – e investendo poco siamo costretti ad acquistare da altre nazioni i risultati della ricerca, e questo comporta un ritardo nel somministrare cure d’avanguardia ai nostri pazienti e dal punto di vista economico ciò comporta costi molto superiori a quelli che avremmo se si investisse maggiormente in ricerca”.

“Fare buona ricerca è la condizione essenziale per poter poi garantire buone cure ai nostri pazienti – aggiunge Enrico Zampedri, direttore generale del Gemelli – Per noi fare ricerca etica è mettere la persona al centro delle nostre attenzioni. Questo è il principio generale che deve guidare chiunque, a maggior ragione una realtà come la nostra che è un ospedale di ispirazione cattolica”.

Con 253 nuovi progetti di ricerca no profit che ogni anno portano ad oltre 1.500 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali, oltre 19 milioni di euro di ricerca finanziata nel corso del 2015, 17 brevetti attivi e depositati, 15 Istituti della Facoltà di Medicina e chirurgia che hanno ottenuto finanziamenti europei, 142 sperimentazioni cliniche avviate e 329 sperimentazioni in corso nel 2016, l’università Cattolica è impegnatissima sul fronte della ricerca biomedica.

 

 

Torna su
Jim O’Neill: “Basta trattare gli antibiotici come caramelle”

Medicina scienza e ricerca

 

Jim O’Neill: “Basta trattare gli antibiotici come caramelle”

 

“Se non si agisce subito, entro il 2050 i superbatteri resistenti uccideranno una persona ogni tre secondi” stima una revisione appena conclusa dall’attuale ministro del governo britannico ed economista O’Neill. A conferma dell’emergenza uno studio pubblicato su Jama ha quantificato il numero di prescrizioni inappropriate di antibiotici negli Usa: circa il 30% annuo

di Redazione Aboutpharma Online 19 maggio 2016

 

Si torna a parlare di antibiotico resistenza e inappropriatezza prescrittiva. Questa volta con una revisione guidata dall’economista Lord Jim O’Neill, Responsabile commerciale del Tesoro nel Regno Unito ed ex presidente della Goldman Sachs Asset Management, “Tackling Drug-Resistant Infections Globally: final report and recommendations”,   e uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani del Centers for Disease Control and Prevention pubblicato su Jama, che hanno cercato di quantificare l’entità del problema, partendo dal presupposto che – come ricorda l’editoriale che accompagna lo studio, sempre su Jama,  – “se non si può misurare qualcosa, non si può migliorarla”. Lo studio rientra nel  National Action Plan for Combating Antibiotic-Resistant Bacteria, piano d’azione voluto dall’amministrazione Obama, che si pone come obiettivo, entro il 2020, di ridurre del 50% le prescrizioni inappropriate di antibiotici, per fronteggiare quella che sempre più appare come una minaccia globale e di difficile gestione. “La metodologia proposta – come spiega anche l’Aifa ­– potrà essere riprodotta per estendere l’indagine ad altri contesti nazionali, e rappresentare così un prezioso strumento per pianificare strategie più efficaci contro la diffusione dei superbatteri”.

Si stima che nel giro di circa 30 anni, se non si agisce subito, i “super-bug” arriveranno a uccidere una persona ogni tre secondi, secondo quanto emerge da lavoro di O’Neill, che oltre a rinnovare l’allarme propone anche un piano d’intervento dalla portata di miliardi di dollari di investimenti. Il problema si fonda su diverse questioni: la prima è che da tempo ormai non si sviluppano nuovi antibiotici, perché poco appeal per l’industria farmaceutica; la seconda che usiamo in maniera inappropriata quelli disponibili.  Dall’avvio della Review on Antimicrobial Resistence, a metà del 2014, oltre un milione di persone sono morte a causa dei super-bug, e nel frattempo i medici hanno anche identificato batteri in grado di resistere a un farmaco di ultima istanza, la colistina, fatto che ha incrementato gli allarmi sulla minaccia di un’era “post-antibiotica”. E il futuro non è certo dei migliori se si considera che secondo le stime 10 milioni di persone saranno destinate a morire ogni anno per infezioni resistenti ai farmaci entro il 2050, soprattutto in Asia e in Africa, ma anche nei Paesi occidentali (sono stati stimati circa 390 mila decessi l’anno in Europa). Non solo: il costo finanziario della resistenza ai farmaci arriverà a 100 trilioni di dollari a metà di questo secolo.

Tra le soluzioni il report raccomanda una campagna globale di sensibilizzazione urgente e massiccia sui rischi, l’istituzione un Global Innovation Fund da due miliardi di dollari per finanziare la ricerca in fase iniziale; migliorare l’accesso all’acqua pulita, ma anche i servizi igienico-sanitari e l’igiene in ospedale per prevenire la diffusione delle infezioni. E ancora: ridurre l’abuso di antibiotici in agricoltura, monitorare la diffusione della resistenza ai farmaci, finanziare con un miliardo di dollari le aziende per ogni nuovo antibiotico scoperto, ideare incentivi finanziari per sviluppare nuovi test ed evitare la somministrazione inutile degli antibiotici, promuovere l’uso di vaccini e alternative a farmaci.

A riprova dell’inappropriatezza prescrittiva di questi farmaci, lo studio pubblicato su Jama ha evidenziato come nel biennio 2010-1011 il 30% annuo delle prescrizioni ambulatoriali di antibiotici per via orale potrebbe essere stato inappropriato, con solo 353 prescrizioni su 506 ogni 1000 abitanti appropriata. “Una quota notevole dell’eccesso prescrittivo deriva dalla tendenza dei medici a sovradiagnosticare alcune patologie – si legga ancora sul sito dell’Aifa – come per esempio la faringite, per la quale i protocolli sanitari limitano il ricorso alla terapia antibiotica esclusivamente a quella da streptococco. L’efficacia delle strategie contro l’antibiotico-resistenza richiede non solo un’intensa attività di sensibilizzazione rivolta alla popolazione, ma anche l’impegno dei medici perché si diffonda e consolidi nel personale sanitario una gestione responsabile delle prescrizioni antibiotiche”.

“È ora di intervenire e smettere di trattare i nostri antibiotici come caramelle – ha concluso O’Neill – perché se non risolviamo il problema andremo incontro a tempi bui e moltissime persone moriranno”.

 

Torna su
In Usa primo caso di batterio resistente a tutti gli antibiotici

Medicina scienza e ricerca

 

In Usa primo caso di batterio resistente a tutti gli antibiotici

 

L’incolumità del batterio sembra dovuta al gene Mcr-1, già identificato in Cina, che aveva sollevato l'allarme della comunità scientifica. Neanche la colistina, usata per combattere i batteri definiti “da incubo” è servita per contrastare l’infezione

di Redazione Aboutpharma Online 27 maggio 2016

 

Neanche l’antibiotico usato per combattere i batteri definiti “da incubo” è servito per controllare l’infezione delle vie urinarie di una donna americana. L’allarme, lanciato dal Centers for Disease Control and Prevention, e ripreso dalla Reuters,  rappresenta il primo caso, registrato negli Stati Uniti, di batterio resistente a tutti gli antibiotici conosciuti, anche la colistina. L’incolumità dell’agente patogeno sembra dovuta a un gene, chiamato Mcr-1 – già scoperto lo scorso anno in Cina e che aveva  già sollevato l’allarme della comunità scientifica – che permette ai batteri di diventare resistenti.

Il caso è stato pubblicato sulla rivista Antimicrobial Agents and Chemotherapy’dell’American Society for Microbiology. Gli scienziati hanno sottolineano la forte preoccupazione per questa tipologia di superbatteri che potrebbero rappresentare un grave pericolo per combattere anche le infezioni di routine. “La scoperta annuncia la comparsa di batteri totalmente resistenti ai farmaci” ha spiegato Walter Reed del Medical National Military Center che ha condotto lo studio. “Da quanto ne sappiamo è il primo caso di Mcr-1 negli Stati Uniti”.

Gli autori dello studio hanno anche spiegato che continueranno la sorveglianza per determinare se la reale frequenza del gene nel Paese  è critica. “È molto pericoloso e può diffondersi rapidamente soprattutto in ambiente ospedaliero” ha spiegato  Gail Cassell, microbiologo e docente presso la Harvard Medical School. Che ha anche aggiunto come “la velocità potenziale della sua diffusione non potrà essere nota fino a quando non si saprà come è stata infettata la paziente della Pennsylvania e la prevalenza del superbatterio resistente alla colistina negli Stati Uniti e nel mondo”.

 

 

Torna su
'Superbatteri' resistenti a tutti i farmaci, anche in Italia

'Superbatteri' resistenti a tutti i farmaci, anche in Italia

Esperta Iss, da noi di tipo diverso da quello Usa

27 maggio, 20:19
  •  

  •  


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSAROMA - Anche in Italia ci sono già dei pazienti che si sono infettati con batteri che resistono a tutti gli antibiotici, anche se di tipo diverso da quello che ha colpito nei giorni scorsi la donna negli Stati Uniti. Lo afferma Annalisa Pantosti, ricercatrice dell'Istituto Superiore di Sanità, secondo cui la mortalità in questi casi può arrivare al 50%. 

"La gravità dell'impossibilità di trattare il paziente noi l'abbiamo già nel nostro paese - spiega Pantosti -, non per l'Escherichia Coli come nel caso statunitense ma per un'altra classe di batteri, le clebsielle pneumoniae resistenti ai carbapenemi, che nel 30-40% dei casi sono ormai resistenti anche alla colistina. In questi casi si ricorre ad antibiotici 'di fortuna', magari in disuso, oppure a combinazioni di più farmaci, ma la mortalità è molto alta, anche se difficile da quantificare perchè di solito i pazienti hanno anche altri problemi medici".

Per quanto riguarda il batterio Escherichia Coli, quello trovato nella paziente Usa, anche in Europa ci sono forme resistenti alla colistina. "Una volta che il gene che conferisce la resistenza è stato isolato in Cina lo abbiamo cercato un po' tutti - racconta l'esperta -. Anche da noi ci sono ceppi di Escherichia con questo gene, ma per fortuna non hanno altre resistenze. 

La scoperta in Usa però è preoccupante perchè la resistenza di quel tipo è facilmente trasmissibile ad altri batteri. Speriamo che queste scoperte spingano verso la ricerca di nuovi antibiotici, anche perchè ce ne serve più di uno per contrastare il fenomeno e al momento ci sono poche molecole allo studio. L'altra cosa da fare è limitare l'uso di quelli esistenti, anche se non sempre è possibile".

  •  

 

Torna su
Cuore, risonanza super veloce e in sette dimensioni

Medicina scienza e ricerca

Cuore, risonanza super veloce e in sette dimensioni

Scansioni dell'anatomia, della funzione e del flusso cardiaco a respiro libero in otto minuti e un’elaborazione delle immagini in tempo reale, basata su Cloud. La nuova tecnologia firmata GE Healthcare-Arterys

di Redazione Aboutpharma Online 30 maggio 2016 

 

Una risonanza magnetica del cuore in sette dimensioni – tre nello spazio, una nel tempo e tre in direzione della velocità – con scansioni dell’anatomia, della funzione e del flusso cardiaco a respiro libero in otto minuti e un’elaborazione delle immagini in tempo reale, basata su Cloud. Si tratta della soluzione cardiovascolare completa nata dalla collaborazione tra GE Healthcare, divisione medicale di General Electric, e Arterys, società specializzata nell’imaging medico intelligente, basato su piattaforme Cloud.

La nuova tecnologia estende gli esami cardiaci di risonanza magnetica oltre i confini dell’anatomia offrendo contemporaneamente tempi ridotti in maniera significativa rispetto alle scansioni convenzionali. È infatti in grado di eseguire un esame completo di risonanza magnetica del cuore in un tempo compreso tra i 10 e i 20 minuti, rispetto ai tempi canonici che possono variare da un’ora a un’ora e mezza. Inoltre, l’esame, è molto più fruibile e confortevole per il paziente perché l’esecuzione avviene a respiro libero senza la necessità delle fastidiose apnee respiratorie utilizzate per evitare che le immagini venissero compromesse.

Questo software applicativo, che mostra il flusso sanguigno del cuore visualizzato in modo cinematico e in movimento, può aiutare il personale clinico a distinguere il tessuto cicatrizzato o danneggiato da quello sano, non solo mostrando la contrazione dei ventricoli, ma anche consentendo di esaminare il percorso corretto del flusso sanguigno del cuore e del suo distretto vascolare. Per elaborare informazioni complesse, è dotato di una piattaforma di visualizzazione su Cloud in tempo reale, che fornisce dati quantitativi e referti strutturati. Un vantaggio sostanziale in un ambito clinico la cui velocità diagnostica è fondamentale, come nel caso dello studio cardiovascolare.

Torna su
Fondazione Gimbe: poco tempo per salvare il Ssn, ecco il nostro piano

Sanità e Politica

 

Fondazione Gimbe: poco tempo per salvare il Ssn, ecco il nostro piano

 

Il presidente Cartabellotta: "E' indispensabile un piano graduale di disinvestimento dagli sprechi", che nel 2015 sono stati 25 miliardi

di Redazione Aboutpharma Online

7 giugno 2016

 

Bisogna agire subito per salvare un Servizio sanitario (Ssn) ormai alla deriva, che nel 2025 farà registrare un fabbisogno di 200 miliardi di euro. A lanciare l’allarme è la Fondazione Gimbe, che oggi a Roma ha presentato il Rapporto sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale 2016-2025, che sintetizza i risultati di studi, consultazioni e analisi indipendenti condotti dal 2013 nell’ambito della campagna #salviamoSSN.

Secondo l’indagine della Fondazione Gimbe, quasi 25 miliardi di euro sono stati sprecati in sanità lo scorso anno, circa il 20% del totale della spesa, 112,408 miliardi secondo il consuntivo 2015. Le voci che hanno gravato di più sono l’eccessivo numero di prestazioni inefficaci, inappropriate o troppo costose rispetto ai benefici reali (7,4 mld) e la corruzione, male italico che si annida anche nel Ssn (4,9 mld). E’ su queste voci, dunque, che bisogna agire per recuperare risorse da investire nel Ssn.

Nel prossimo decennio, secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, “è indispensabile un piano graduale di disinvestimento dagli sprechi, non solo basato su azioni puntuali di spending review, ma che preveda interventi strutturali e organizzativi in grado di eliminarne definitivamente una componente”. Attuando questo piano di disinvestimento, stimano gli esperti, è possibile recuperare circa 100 miliardi di euro in 10 anni.

“L’attuale deriva del Servizio sanitario nazionale – afferma Cartabellotta – non consegue a un disegno occulto di smantellamento e privatizzazione, ma alla mancanza di un preciso disegno per salvaguardare una sanità pubblica, già sofferente prima della crisi economica, oggi agonizzante per la continua riduzione del finanziamento. Il nostro Rapporto affronta in maniera indipendente e con un prospettiva decennale il tema della sostenibilità del Ssn, ripartendo dal suo obiettivo primario, ovvero ‘promuovere, mantenere e recuperare la salute delle persone’, tenendo ben presente che la sanità rappresenta sia un considerevole capitolo di spesa pubblica da ottimizzare, sia una leva di sviluppo economico da sostenere”.

Analizzati i trend della spesa pubblica, della compartecipazione alla spesa e dell’incremento delle addizionali regionali Irpef ed esaminate le numerose criticità della sanità integrativa, il Rapporto aggiorna al 2015 l’impatto degli sprechi sulla spesa sanitaria pubblica: 24,73 miliardi di euro erosi da sovra-utilizzo, frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, sotto-utilizzo, complessità amministrative, inadeguato coordinamento dell’assistenza.

Cartabellotta sottolinea come “il Rapporto considera spreco tutto ciò che non migliora gli outcome di salute perché un sistema sanitario deve ottenere il massimo ritorno in termini di salute dalle risorse investite secondo il principio del value for money. Di conseguenza, abbiamo sviluppato un framework di sistema per guidare il processo di disinvestimento da interventi sanitari inefficaci, inappropriati e dal basso value e riallocare le risorse recuperate in interventi efficaci, appropriati e dall’elevato value sotto-utilizzati, causa di iniquità e diseguaglianze. Secondo le nostre stime nel 2025 il fabbisogno del Ssn sarà di 200 miliardi di euro, cifra che può essere raggiunta solo con l’apporto costante di tre ‘cunei di stabilizzazione’: l’incremento della quota intermediata della spesa privata, un piano nazionale di disinvestimento dagli sprechi e, ovviamente, un’adeguata ripresa del finanziamento pubblico”.

Per salvare il Ssn “abbiamo poco tempo – conclude il presidente – dopo aver raccolto per anni inequivocabili evidenze sulle diseguaglianze regionali, sulla scarsa qualità dell’assistenza, sulle iniquità di accesso alle prestazioni e sulla rinuncia dei cittadini alle cure, oggi iniziamo a vedere i primi disastrosi effetti anche sulla mortalità, un dato che dovrebbe muovere senza indugi coscienza sociale e volontà politica”.

Torna su
Liste d’attesa infinite: sale a 34,5 miliardi la spesa privata e 11 milioni di italiani rinunciano alle cure

Sanità e Politica

 

Liste d’attesa infinite: sale a 34,5 miliardi la spesa privata e 11 milioni di italiani rinunciano alle cure

 

Presentati oggi al Welfare Day i risultati di una ricerca Censis-Rbm. Aumenta la propensione dei cittadini alla sanità integrativa per spendere meno e accedere prima alle prestazioni. Appello di Marco Vecchietti (Rbm) al ministro Lorenzin: "Serve tavolo tecnico tra compagnie assicurative e fondi per costruire un 2° pilastro sanitario più equo”

di Redazione Aboutpharma Online 8 giugno 2016

 

Meno sanità pubblica, più sanità privata e in generale anche meno sanità. In estrema sintesi si possono riassumere così i risultati della ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute presentata oggi a Roma al VI Welfare Day. A causa delle lunghe liste d’attesa che caratterizzano oramai il nostro Ssn, infatti, è sempre più alta la quota di cittadini che nell’ultimo anno ha fatto ricorso ricorre alla sanità privata o all’intramoenia, rispettivamente dieci milioni (il 72,6% a causa delle liste) e sette milioni  (il 66,4%). Un fenomeno che ha fatto decollare la spesa privata che ha raggiunto quota 34,5 miliardi di euro negli ultimi due anni (+3,2% nel 2013-2015). Il dato è ancora più significativo se si considera che rappresenta il doppio dell’aumento della spesa complessiva per i consumi delle famiglie nello stesso periodo (pari a +1,7%). Da sottolineare anche che il 45,4% (+5,6% rispetto al 2013) ha pagato tariffe nel privato uguali o di poco superiori al ticket che avrebbe pagato nel pubblico. “Pagare per acquistare prestazioni sanitarie   è per gli italiani ormai un gesto quotidiano- ha commentato Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Assicurazione Salute – più sanità per chi può pagarsela. Il 30,2% si è rivolto alla sanità a pagamento anche perché i laboratori, gli ambulatori e gli studi medici sono aperti nel pomeriggio, la sera e nei weekend”.

Aumenta la sanità “negata”
Alla crescita del ricorso alla sanità privata, si affianca un altro fenomeno ancora più allarmante: la sanità “negata”. Solo nell’ultimo anno sono stati undici milioni gli italiani hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa delle difficoltà economiche nell’ultimo anno, non riuscendo più a pagarle di tasca propria. Ben due milioni in più rispetto al 2012. A essere maggiormente penalizzati sono stati in particolar modo gli anziani (2,4 milioni i rinunciatari) e i millennials (2,2 milioni) ovvero la generazione dei nati tra il 1980 ed il 2000.
Sale anche il malcontento sul Ssn, sopratutto al Sud: il 52% degli italiani considera inadeguato il servizio sanitario della propria regione, una percentuale che sale al 68,9% nel Mezzogiorno e al 56,1% al Centro, mentre è pari al 41,3% al Nord-Ovest e al 32,8% al Nord-Est. La qualità del servizio sanitario della propria regione è peggiorata negli ultimi due anni per il 45,1% degli italiani (+2,4% rispetto al 2015), mentre è rimasta inalterata per il 41,4% ed è addirittura migliorata per il 13,5%.
Più di cinque milioni di italiani hanno inoltre ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici inutili. Eppure il 64% si dichiara contrario al
decreto appropriatezza: per il 50,7% dei cittadini  solo il medico può decidere se la prestazione è effettivamente necessaria e il 13,3% giudica che le leggi sono motivate solo dalla logica dei tagli. Il 51,3% inoltre si dichiara contrario a sanzionare i medici che fanno prescrizioni inutili. E’ favorevole al decreto, invece, il 36% dei cittadini: il 21,9% ha dichiarato che in questo modo  è possibile definire quando una prestazione è realmente necessaria e il 14,1% perché lasciando al singolo medico ci sono troppe differenze.

Anche la Sanità integrativa avanza
In questo scenario si fa sempre più strada a livello nazionale la sanità integrativa. Sono ben 26 milioni i cittadini che oggi si dicono propensi a sottoscrivere una polizza sanitaria o ad aderire a un fondo sanitario integrativo. “La sanità integrativa è oramai un’esigenza per tutti gli italiani – ha commentato  Vecchietti – e non può più essere considerata un benefit per i lavoratori dipendenti o un lusso per i più abbienti”. In particolare, tra gli aderenti  il 30,7% ha dichiarato di aver scelto questa opzione perché spendeva troppo di tasca propria, il 25% perché la copertura è estendibile a tutta la famiglia e il 13,6% per poter accedere più velocemente alle prestazioni.  Il 46,9% dei cittadini è inoltre d’accordo con l’adozione dell’opting out nel nostro Paese, ovvero l’uscita di alcuni gruppi sociali  dalla copertura pubblica e l’acquisto di una polizza sostitutiva (e non integrativa). L’amministratore delegato di Rbm lancia quindi un appello al ministro Lorenzin: “Serve un tavolo tecnico che metta insieme compagnie assicurative e fondi Sanitari per costruire un secondo pilastro sanitario più equo, effettivo ed universalistico”.

 

Torna su
Sanità integrativa, una “busta blu” per informare i cittadini

Sanità e Politica

 

Sanità integrativa, una “busta blu” per informare i cittadini

 

al Welfare Day l'idea di un'iniziativa di comunicazione ispirata alla modalità scelta dall'Inps per le pensioni. Con l'obiettivo di spiegare agli italiani quali prestazioni il Ssn riesce a garantire nei fatti e a quanto ammonta la (crescente) spesa privata

di Redazione Aboutpharma Online 9 giugno 2016

 

Una “busta blu”, sulla scia di quella arancione per le pensioni ideata dall’Inps, per informare gli italiani sulla reale accessibilità alle cure garantite dai sistemi sanitari regionali e i costi aggiuntivi delle prestazioni a cui il cittadino dovrà provvedere di tasca propria. È la proposta che arriva a conclusione del Welfare Day e alla luce dei risultati dell’indagine Censis-Rbm sulla salute presentati ieri a Roma. Una “busta” come strumento per sensibilizzare cittadini e istituzioni sul ruolo della sanità integrativa. “Serve – commenta Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Assicurazione Salute – un tavolo tecnico presso il ministero della Salute, che individui soluzioni urgenti in materia di gestione della spesa sanitaria privata e ruolo della sanità integrativa in Italia, come secondo pilastro sanitario. Il Servizio sanitario nazionale, da solo non può più fare fronte ai nuovi bisogni di salute dei cittadini. Con un premio assicurativo – contributo pari al 70% dell’attuale spesa sanitaria privata pagata di tasca propria dagli italiani – la sanità integrativa sarebbe in grado di assorbire integralmente il costo delle cure private pagato dai cittadini”. Secondo Vecchietti, inoltre, bisognerebbe consentire l’adesione alle “forme sanitarie integrative (polizze salute e fondi Sanitari) anche su base volontaria ed individuale, magari estendendo il regime fiscale incentivante oggi riservato ai soli lavoratori dipendenti, perché oggi un secondo pilastro sanitario è una necessità per tutti”.

Per Isabella Mastrobuono, docente di Organizzazione sanitaria all’Università Luiss, la sanità italiana dovrebbe cominciare a ragionare su una scala di priorità: “Potrebbe essere utile – spiega – avviare un percorso a livello nazionale per la definizione delle priorità in sanità con la partecipazione attiva dei cittadini. Il processo è attivo da oltre 20 anni in molti Paesi europei come la Svezia, la Norvegia dove vigono servizi sanitari nazionali che di certo non sono stati smantellati. La risposta al fabbisogno crescente della popolazione sulla base di criteri etici di solidarietà consentirebbe di individuare classi di priorità sulle quali allocare le risorse finanziarie disponibili. Per le classi di priorità più bassa potrebbero essere inserite le forme integrative di assistenza in una ottica di cooperazione e di presa in carico del paziente su percorsi assistenziali condivisi”.

Per una buona sinergia tra sanità pubblica e integrativa bisognerebbe mettere in campo almeno tre azioni. Ne è convinto Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager:  “Va riordinata la normativa riguardante il secondo pilastro della sanità, che aspetta da tempo un intervento legislativo, sostenendo una politica fiscale di favore che induca le imprese, attraverso misure di defiscalizzazione, ad aderire a coperture sanitarie integrative previste a livello di contrattazione nazionale e/o aziendale. In secondo luogo, è bene che la prevenzione sia inserita nel novero delle prestazioni integrative, perché da questo possono derivare enormi benefici per il Servizio sanitario nazionale e per il diritto del cittadino ad accedere a prestazioni di qualità. Infine, bisogna incentivare l’azione di intermediazione che i Fondi sanitari integrativi svolgono rispetto alla spesa privata sostenuta dai cittadini di tasca propria”. Un’azione di intermediazione che, secondo Cuzzilla, si presenta anche come “un utile antidoto contro la spesa ‘sommersa’ pagata dai cittadini senza ottenere ricevuta alcuna”.

 

 

 

 

Torna su
Dagli Usa sette nuovi antibiotici contro i superbatteri

Medicina scienza e ricerca

Dagli Usa sette nuovi antibiotici contro i superbatteri

Grazie a programma federale istituito dal presidente Obama nel 2014, i costi condivisi tra governo e aziende hanno portato allo sviluppo di sette nuove molecole arrivate alle ultime fasi della sperimentazione clinica

di Redazione Aboutpharma Online 15 giugno 2016

 

Una buona notizia arriva dagli Stati Uniti dove sette nuove molecole attivi contro i “superbatteri” sono arrivate alle ultime fasi della sperimentazione clinica, anche grazie a un programma di incentivi federali. Ad affermarlo è Richard J. Hatchett, capo della Biomedical Advanced Research and Development Authority (Barda), come riporta il Wall Street Journal, durante un’audizione al congresso, a seguito della vicenda avvenuta qualche settimana fa sempre negli Stati Uniti, dove una donna, per la prima volta, aveva manifestato un’infezione resistente a tutti gli antibiotici.

Risultati resi possibile grazie a un programma istituito dal presidente Obama nel 2014 volto a combattere l’antibiotico resistenza, che ha permesso all’agenzia guidata da Hatchett, di condividere al 50% i costi di sviluppo con le aziende che hanno aderito. Collaborazione che per esempio ha portato a un finanziamento pubblico di 20 milioni di dollari per lo sviluppo del Ceftobiprole, una molecola attiva sia contro batteri gram positivi che gram negativi, che sta per iniziare la fase 3 della sperimentazione, quella conclusiva. “Abbiamo costruito un robusto portfolio di molecole attive contro i superbatteri – ha spiegato Hatchett durante l’audizione – un segno del successo del programma”.

Solo negli Usa sono 23mila i morti l’anno per le infezioni resistenti mentre in Europa sono circa 25mila. Secondo una revisione guidata dall’economista Lord Jim O’Neill, Responsabile commerciale del Tesoro nel Regno Unito ed ex presidente della Goldman Sachs Asset Management, nel 2050 i superbatteri causeranno più morti del cancro.  Per questo oltre agli Stati Uniti anche il Regno Unito ha già iniziato a prendere provvedimenti aderendo al National Action Plan for Combating Antibiotic-Resistant Bacteria, piano d’azione voluto dall’amministrazione Obama, che si pone come obiettivo, entro il 2020, di ridurre del 50% le prescrizioni inappropriate di antibiotici, per fronteggiare quella che sempre più appare come una minaccia globale e di difficile gestione.

 

Torna su
Codacons al ministro Lorenzin: “Investire sulle cellule staminali contro l’infarto”

Sanità e Politica

 

Codacons al ministro Lorenzin: “Investire sulle cellule staminali contro l’infarto”

 

La richiesta nel corso di un convegno oggi a Roma. L'associazione sta partecipando a un importante progetto di ricerca promosso dal premio Nobel per la medicina Luc Montagnier

di Redazione Aboutpharma Online 17 giugno 2016

 

Sbloccare la ricerca sulle cellule staminali e investire sui progetti per utilizzare le cellule staminali contro l’infarto. E’ il messaggio lanciato oggi dal Codacons al ministro Lorenzin nel corso di un convegno organizzato a Roma da Salvator Mundi International Hospital con la partecipazione del premio Nobel per la medicina, Luc Montagnier. “La nostra associazione partecipa a un importante progetto di ricerca promosso dal professor Montagnier e dal professor Livio Giuliani – spiega il presidente Carlo Rienzi – finalizzato a curare e prevenire gli infarti attraverso l’utilizzo di cellule staminali. Un trattamento che potrebbe salvare migliaia di vite umane, ma che ancora non ha ricevuto adeguata attenzione da parte del Ministero della salute. Per questo chiediamo oggi al Ministro Beatrice Lorenzin di sbloccare la ricerca accelerando gli studi sulla cura degli infarti con le staminali, perché le nuove possibilità offerte dalla scienza possono contribuire a migliorare la salute dei cittadini”.

 

Torna su
Nas nelle mense scolastiche, chiuse 37 in un anno

Nas nelle mense scolastiche, chiuse 37 in un anno

Tranne una tutte al Centro-Sud, poca igiene e alimenti nocivi

20 giugno, 13:07

 

Alimenti nocivi o conservati male, ma anche mancanza di igiene: sono 37 le mense scolastiche chiuse in seguito a controlli effettuati dai Carabinieri dei Nas nell'anno scolastico 2015-2016. E, tranne una, tutte nelle regioni del Centro-Sud Italia. E' quanto emerge dal Rapporto sui Controlli delle Mense Scolastiche presentato oggi al Ministero della Salute. Una su 4 delle mense scolastiche controllate dai Nas presenta irregolarità. In particolare nell'anno scolastico 215-16 sono state 2.678 le ispezioni effettuate (in continua crescita rispetto agli anni passati) e nel 25% dei casi presentavano una qualche irregolarità: da aspetti amministrativi o legati al tipo di fornitura fino ai casi più gravi di carenze d'igiene e cibi scaduti o ammuffiti. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Maturità,contro panico e memoria in tilt ecco 5 regole in vista esami

Maturità,contro panico e memoria in tilt ecco 5 regole in vista esami

Psicologa, importante anche mantenere costanti le ore di sonno

14 giugno, 16:55Paura, ansia, senso d'inadeguatezza, insonnia, irascibilità, astenia: sono spesso le sensazioni e i disturbi dei maturandi che vanno ad incidere negativamente sia sull'attenzione sia sulla capacità di memorizzare. Per superare questa fase basta però focalizzarsi su 5 aspetti, come consiglia la psicoterapeuta Paola Vinciguerra, presidente dell'Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico (Eurodap).


''L'anno di studio sulle spalle, il caldo e la paura di affrontare una prova carica di significati ed aspettative rendono difficile la concentrazione ed accrescono l'ansia di fallire proprio alla battuta d'arrivo'', spiega Vinciguerra. Da qui, alcune semplici regole per migliorare la memoria e sentirsi più sicuri in vista dell'esame: 1) Ripetere ad alta voce, meglio se in gruppo, permette di confrontarsi e sedimentare le informazioni in maniera più duratura. Inoltre, la collaborazione con i compagni stimola l'apprendimento.

2) Riassumere per iscritto e fare mappe concettuali, permette che il processo di apprendimento sia più profondo ed emerga in modo associativo nel momento in cui siamo messi alla prova.

3) Simulare la prova d'esame potrebbe permettere di non trovarsi impreparati rispetto a ciò che avverrà praticamente.

4) Verificare la preparazione utilizzando ad esempio le tracce degli esami precedenti, provando a svolgerle.

5) Mantenere costanti le ore di sonno poiché la fase REM è indispensabile per la sedimentazione delle informazioni acquisite durante le ore passate a studiare. Non dormire meno di 8 ore ma non più di 9. Inoltre, mantenere un'alimentazione sana e fare attività fisica permette di migliorare le proprie perfomance. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Tatuaggi, per uno su 10 infezioni e allergie

Tatuaggi, per uno su 10 infezioni e allergie

E in più della metà dei casi più di 4 mesi di cure

13 giugno, 19:48

 

 Il 10% di chi si fa un tatuaggio ha una reazione avversa, che in oltre metà dei casi diventa cronica e dura oltre quattro mesi. Lo afferma uno studio della Langone University di New York pubblicato da Contact Dermatitis, secondo cui i problemi vanno da semplici arrossamenti a reazioni allergiche che richiedono la rimozione del tattoo.

La ricerca è stata condotta su 300 persone fermate a caso a Central Park, a cui è stato chiesto se avevano mai avuto problemi con i loro tatuaggi. Circa il 10% ha affermato di avere avuto qualche complicazione, e sei su dieci in questo gruppo hanno riportato problemi che sono durati per più di quattro mesi. "Spesso il problema è un'infezione batterica, ma in alcuni casi quello che abbiamo trovato era sicuramente una allergia all'inchiostro - racconta Marie Leger, uno degli autori, al sito Livescience -, persone che si sono fatte un tatuaggio rosso senza problemi, poi dopo qualche anno ne hanno fatto un altro e all'improvviso entrambi hanno iniziato a prudere e a gonfiarsi".

Secondo uno studio tedesco pubblicato su Lancet il 5% dei tatuaggi genera un'infezione, mentre più recentemente una ricerca ha puntato il dito anche sui tattoos non permanenti per una sostanza chimica allergizzante spesso presente nell'henne'.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
In Italia 1,7 mln donatori, pochi giovanio

DA AGI SALUTE
SALUTE

In Italia 1,7 mln donatori, pochi giovani

Roma - Sono oltre 1.700.000 i donatori di sangue italiani, ma ancora troppo pochi sono i giovani. Questo e' uno dei dati relativi al 2015, presentati oggi all'Istituto superiore di sanita' in occasione della Giornata mondiale del donatore di sangue, che si celebra annualmente il 14 giugno. Nel 2015 in Italia sono stati prodotti 2.572.567 unita' di globuli rossi, 276.410 unita' di piastrine e 3.030.725 unita' di plasma. Sono stati trasfusi 8.510 emocomponenti al giorno e curati 635.690 pazienti (1.741 pazienti al giorno). "L'83 per cento dei donatori italiani dona in maniera periodica, non occasionale", ha spiegato Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue. "Questa fidelizzazione - ha continuato - e' fondamentale per via del legame molto stretto che esiste tra donazione volontaria, consapevole e non remunerata e qualita' del sangue in termini di sicurezza. Grazie ai donatori l'Italia e' un Paese autosufficiente gia' da diversi anni e normalmente esiste una situazione di bilancio positivo tra numero di unita' di sangue ed emocomponenti donate e fabbisogno a livello locale". La fascia d'eta' dalla quale proviene la maggioranza dei donatori e' rappresentata da persone in eta, compresa tra i 30 ed i 55 anni, una componente del corpo sociale destinata a ridursi in modo significativo nei prossimi decenni stando alle proiezioni demografiche. La percentuale di giovani che sul numero totale di donatori, nel 2015, si attesta al 31.67 per cento (13,39 per cento classe di eta' 18-25 anni, 18,28 per cento classe di eta' 26-35 anni) e' ancora troppo bassa. Se si considerano i dati sull'invecchiamento della popolazione, infatti, tra il 2009 e il 2020, la riduzione dei donatori e' stimata nel 4,5 per cento. .

 

 

 

Torna su
Torna l’allarme Zika in Portorico, ma la ricerca fa passi avanti

Medicina scienza e ricerca

 

Torna l’allarme Zika in Portorico, ma la ricerca fa passi avanti

 

Partono i primi test sugli esseri umani di un possibile vaccino contro il virus, e anche altri risultati sono attesi entro fine anno. Mentre la Roche e la Tib Molbiol hanno messo sul mercato un nuovo rapido test diasgnotico. Tutto questo mentre in Portorico aumentano in contagi e le previsioni non sono migliori

di Redazione Aboutpharma Online 20 giugno 2016 

 

Si continua a parlare di Zika, sia per l’ennesimo allarme che arriva da oltre oceano sia per alcune novità diagnostiche/preventive. Dal punto di vista dei trattamenti, buona notizie arrivano dagli Stato Uniti dove l’Autorità statunitense ha dato il via libera ai primi test sugli esseri umani di un possibile vaccino contro il virus. A darne l’annuncio è la stessa compagnia produttrice la Inovio Pharmaceuticals Inc, che dovrebbe iniziare a testare il prodotto sui primi 40 volontari sani nelle  prossime settimane. “Contiamo di avere i primi risultati parziali entro la fine dell’anno” ha spiegato in un comunicato la società.  Il test di fase 1 è condotto su volontari sani per verificare la sicurezza del vaccino e misurare la risposta immunitaria.  Sempre oggi la multinazionale farmaceutica svizzera Roche con la società tedesca Tib Molbiol hanno annunciato la disponibilità sil mercato di un nuovo dispositivo per rilevare la presenza del virus nei campioni di sangue in maniera rapida. Il test LightMix Modular Zika Virus Assay, presenta il marchio Ce, e potrà essere condotto nei pazienti che presentano i sintomi dell’infezione che vivono nelle zone colpite dal virus. “Il test fornisce agli operatori sanitari la possibilità immediata di rilevare il virus” spiega Uwe Oberlaender, capo di Roche Molecular Diagnostics. “Il processo completo, dalla preparazione del campione ai risultati per 96 campioni, può essere eseguito in appena 2 ore”. Il test sarà prodotto da Tib Molbiol e distribuito in esclusiva da Roche.

Tutto questo mentre in Portorico scoppia di nuovo l’allarme Zika, con un boom di contagi e la possibilità, nei prossimi mesi estivi e il conseguente diffondersi delle zanzare  portatrici del virus, che migliaia di donne incinte vengano  infettate dalla zanzara. A lanciare l’ennesimo preoccupato allarme questa volta sono i Centri per il controllo e la  prevenzione delle malattie Usa (Cdc), riferendosi agli ultimi  dati sulla presenza di Zika nel sangue dei donatori: più  dell’1% dei campioni di sangue analizzati nel periodo compreso dal 5 al 11  giugno a Portorico sono risultati infetti. Nel periodo precedente la percentuale di infezioni tra i donatori era  risultata dello 0.5%.    Secondo le stime dei Cdc, i contagi tra i donatori si traducono in un tasso di infezioni, nella popolazione in  generale, di almeno il 2%: “Ciò significa che nei prossimi mesi  è possibile che migliaia di donne incinte contraggano il  virus” ha riferito il direttore dei Cdc, Thomas Frieden. “E questo  può risultare in decine o centinaia di bimbi  che nasceranno con microcefalia.

Per quanto riguarda i vaccini però, sicuramente qualcosa dovrebbe emergere entro al fine dell’anno quando sono previsti i risultati di diversi test: in totale secondo l’Oms sono almeno 23 i progetti sui vaccini portati avanti da 14 gruppi in Usa, Brasile, India, Austria e Francia.

 

 

Torna su
Un italiano su tre teme la depressione, ma la patologia è spesso sottovalutata

Medicina scienza e ricerca

 

Un italiano su tre teme la depressione, ma la patologia è spesso sottovalutata

 

Secondo un'indagine Onda presentata oggi a Roma, il male di vivere si colloca al secondo posto dopo i tumori per impatto percepito sulla vita di chi ne soffre. Il 58% degli intervistati la considera una vera malattia alla stregua di quelle fisiche, ma 1 persona su 4 la ritiene invece una condizione mentale con cui si può solo convivere

di Redazione Aboutpharma Online 22 giugno 2016

 

E’ la patologia che spaventa di più dopo il cancro, a temerla è un italiano su tre. Eppure è troppo spesso sottovalutata, perché ritenuta una condizione mentale che non si può capire fino in fondo e con cui si può solo convivere. A descrivere il rapporto dei nostri connazionali con la depressione è l’indagine condotta dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) su un campione di 1.004 soggetti, 503 donne e 501 uomini, presentata oggi alla Camera dei Deputati insieme al primo ‘Libro Bianco sulla depressione’, che fotografa gli aspetti sociali, epidemiologi, clinico-diagnostici, terapeutici assistenziali ed economici della malattia.

Entrambe le iniziative, rese possibili grazie al contributo incondizionato di Lundbeck, evidenziano come la depressione maggiore sia un disturbo psichiatrico molto temuto, diffuso e in crescita nella popolazione, rappresentando uno dei principali problemi di salute pubblica mondiale con un costo totale pari a 800 miliardi di dollari e con circa il 56% dei pazienti che non riceve un trattamento adeguato, in Italia una persona con la malattia su tre secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

“La depressione entro il 2030 costituirà, secondo l’Oms, la malattia cronica più diffusa – ricorda Francesca Merzagora, presidente Onda – Sono quasi 4.500.000 le persone depresse in Italia e le donne, rispetto agli uomini, ne sono coinvolte in una proporzione di 2:1 sia come pazienti sia come caregiver. A ciò si aggiunge il profondo cambiamento del ruolo multitasking femminile – aumento della quantità di lavoro, maggiori carichi di responsabilità associati a ruoli professionali apicali, conciliazione, acquisizione di abitudini di vita scorrette-  che accentua ancor più lo stress fisico e psico-emotivo, considerato dalla maggioranza delle donne, il 57% secondo la nostra indagine, una delle principali cause della depressione”.

Secondo gli intervistati, la depressione si colloca al secondo posto (27%) dopo i tumori per impatto percepito sulla vita di chi ne soffre e il 58% la considera una vera malattia alla stregua di quelle fisiche, da diagnosticare precocemente e curare; 1 persona su 4 la ritiene invece una condizione mentale che non si può capire fino in fondo e con cui si può solo convivere. La depressione è inoltre uno dei disturbi dell’umore a più elevata comorbidità e rappresenta una delle principali cause di invalidità temporanea e permanente, comportando un costo molto elevato in termini di risorse economiche e umane. Sono molte le cause riconosciute dagli intervistati, la depressione non viene infatti considerata conseguenza diretta di un fattore univoco, ma viene percepita come il risultato di un insieme di fattori diversi. Traumi (69%) e stress (60%) sono riconosciuti come le cause principali della malattia da chi ha già ricevuto la diagnosi, mentre chi non ne ha avuto esperienza ritiene che la depressione sia originata principalmente da una personalità emotivamente fragile (67%).

Secondo il campione intervistato, i principali sintomi associati alla depressione sono di natura emotiva come i pensieri negativi (69%), la solitudine (67%) e la tristezza (63%). L’impatto della depressione sulla qualità di vita è drammatico per il paziente così come per tutta la famiglia, poiché incide sul funzionamento individuale e sociale della persona, riducendo la capacità di interpretare un ruolo ‘normale’ nelle diverse attività in ambito familiare, socio-relazionale e lavorativo. Per 1 intervistato su 3 anche i disturbi di natura cognitiva, come la difficoltà a prendere decisioni e a mantenere la concentrazione, provocano un forte impatto sulla qualità della vita.

“Il Libro Bianco presentato oggi – aggiunge Merzagora – testimonia e rinnova l’impegno di Onda nella lotta contro la depressione per sensibilizzare le Istituzioni e giungere, grazie anche al supporto della Società italiana di psichiatria, alla definizione di un Piano nazionale che garantisca a tutti i pazienti l’accesso a una diagnosi precoce, ad appropriati percorsi terapeutico-assistenziali e a un’efficace rete di servizi territoriali. L’avvio di un’indagine conoscitiva della Commissione Igiene e Sanità del Senato, come condiviso con la sua presidente, consentirebbe di avere un quadro preciso e aggiornato da cui partire”.

“La depressione costituisce la principale sfida per la salute globale del XXI secolo – afferma Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria – In un recente studio in via di pubblicazione, che ha coinvolto in 18 centri specializzati per la cura della depressione oltre 700 persone, è emerso che trascorrono 23 mesi tra comparsa dei primi sintomi e decisione di rivolgersi a un medico, mentre il tempo prima di ricevere una diagnosi è di 25,5 mesi. In Italia 4,5 milioni sono le persone colpite da depressione e le donne lo sono in particolare nei periodi di loro maggiore vulnerabilità: adolescenza, perinatale, climaterio ed età avanzata. La depressione ha riflessi sia sulla sfera dell’umore sia sulla sfera cognitiva peggiorando e diminuendo la qualità e la quantità di vita dei pazienti. Auspico l’avvio di un Piano nazionale di lotta alla depressione per dare risposte concrete a quella che l’Oms definisce la seconda causa di disabilità nel mondo”.

“Sebbene la depressione rappresenti un problema di salute di grande rilevanza sotto il profilo clinico, sociale ed economico, le evidenze mostrano come si tratti di una patologia fortemente sotto diagnosticata e sotto trattata – aggiunge Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari Altems dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – I risultati della nostra review sistematica sul costo sociale della depressione evidenziano un costo diretto per paziente compreso tra i 1.451 e gli 11.482 euro all’anno a seconda della severità e del contesto di riferimento. Il costo indiretto, invece, varia dai 1.963 ai 27.364 euro. Tra i costi diretti, lo sbilanciamento tra il peso delle ospedalizzazioni per complicanze rispetto alle prestazioni di diagnosi e ai trattamenti farmacologici, suggerisce che modelli di presa in carico globale del paziente e percorsi ad hoc, potrebbero sensibilmente migliorare la gestione della patologia”.

 

Torna su
ITALIA SPAGNA 2-0

                  ITALIA SPAGNA 2-0

                                     Lunedì 27 Giugno 2016 - Stade de France - Parigi                

Una grande Italia batte la Spagna 2-0 e si qualifica per i quarti di finale di Euro 2016, dove affronterà la Germania (sabato 2 luglio a Bordeaux). Allo Stade de France di Parigi gli azzurri al termine di una prestazione straordinaria eliminano i campioni d'Europa in carica con i gol di Chiellini al 33' del pt (sugli sviluppi di una punizione calciata da Eder) e di Pellè al 46' st (su assist di Darmian).

 CRONACA STATISTICHE e GRAFICI

Sampa Spagna, "E' la fine di un'era" - '"E' la fine di un'era". E' questa la frase che sintetizza il pensiero della stampa spagnola che, subito dopo il triplice fischio di Italia-Spagna, vinta dagli azzurri per 2-0, celebra il funerale sportivo della nazionale iberica, campione d'Europa in carica. Sui principali siti dei giornali sportivi spagnoli il leitmotiv è sempre lo stesso: "E' la fine di un ciclo", titola l'edizione on line del 'Marca', "E' la fine di un'era", gli fa praticamente eco il cugino 'As'. Grande risalto al crollo delle furie rosse anche sui giornali non sportivi. Per 'El Pais' "Un'Italia nettamente superiore ha eliminato la Spagna". Ancora più netta la bocciatura di 'El Mundo': "La squadra campione è morta stasera contro l'Italia". Spazio anche per il ct Del Bosque che potrebbe lasciare dopo questa eliminazione. "Un addio senza onore", si legge ancora sul sito di 'El Mundo' sotto la foto di Ramos e Piquè con le mani in faccia per coprire la cocente delusione.

 "Lo sapevo che sarebbe finita così. Questi ragazzi sono straordinari, hanno dentro qualcosa di speciale, fuori dall'ordinario. Dimostrato che Italia non è catenaccio: l'idea può battere talento''. Queste le parole a caldo ai microfoni della Rai del ct azzurro Antonio Conte dopo la vittoria con la Spagna per 2-0. "Adesso c'è da recuperare, ci aspetta un'altra partita dura, tosta, contro la Germania - ha detto ancora Conte ai microfoni di RaiSport -, ma abbiamo dimostrato che l'Italia non è solo catenaccio. Il più bel complimento ce l'ha fatto Xavi quando ha detto che l'Italia gli ricorda metà Atletico Madrid e metà Barcellona. Sabato sarà più dura di oggi, dispiace per Thiago Motta, che è il nostro dodicesimo".

Italia-Germania mi mette i brividi - "Adesso godiamoci questa vittoria e recuperiamo le forze perchè contro la Germania è una partita tosta, più difficile di questa con la Spagna". Antonio Conte è raggiante e ai microfoni di RaiSport pensa già alla sfida con la Germania ai quarti. "Solo a sentirlo Italia-Germania è una sfida che mette i brividi", ha aggiunto.

Giaccherini, è stata una vittoria di cuore  - "Avevamo preparato la partita nel minimo dettaglio, il ct ci ha dato le indicazioni giuste, ma per vincere oggi bisognava mettere tanto cuore. Lo abbiamo fatto e si è visto". Così l'azzurro Emanuele Giaccherini, ai microfoni di Sky Sport, dopo il successo sulla Spagna. "La nostra vittoria è stata legittima - dice ancora l'azzurro - perchè abbiamo avuto tante occasioni. Abbiamo sofferto la Spagna nel finale quando ci siamo abbassati. Però, lo ripeto, abbiamo avuto tante occasioni e potevamo chiuderla prima".

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Psoriasi, l’84% dei pazienti si sente emarginato e umiliato

Medicina scienza e ricerca

 

Psoriasi, l’84% dei pazienti si sente emarginato e umiliato

 

Lo rivela un sondaggio condotto a livello mondiale su oltre 8mila persone colpite dalla malattia, di cui 639 in Italia. Quasi la metà del campione si è sentita chiedere se la malattia fosse contagiosa e il 55% è pessimista sulla possibilità di avere una pelle libera o quasi da lesioni

di Redazione Aboutpharma Online 29 giugno 2016

 

Emarginati, vittime di pregiudizi e anche un po’ sfiduciati. Sono queste le sensazioni principali delle persone costrette a convivere con la psoriasi, malattia infiammatoria cronica della pelle né infettiva né contagiosa, secondo il più vasto sondaggio mai realizzato al livello mondiali. I risultati sono stati annunciati oggi dall’azienda farmaceutica Novartis, sponsor delle survey condotta dalla succursale svizzera della società di ricerche di mercato tedesca Gfk su un campione di 8.300 pazienti di 31 Paesi, fra cui l’Italia.

Secondo il sondaggio, l’84% dei pazienti con psoriasi da moderata a severa è vittima di discriminazioni e umiliazioni – molti di loro (40%) vengono insistentemente fissati in pubblico – a causa della loro condizione. Inoltre, quasi la metà degli intervistati (45%) si è vista chiedere se la malattia fosse contagiosa. L’indagine ha anche svelato gli effetti devastanti che la psoriasi può avere sulla vita personale e sulla salute mentale di chi ne è affetto: il 16% dei partecipanti ha infatti ammesso di “nascondersi dal mondo”. Questa carenza di speranza e di autostima si riflette nei risultati, con il 55% degli intervistati che afferma di non credere che la pelle libera o quasi libera da lesioni (clear skin) sia un obiettivo realistico.

Lo scenario italiano. In Italia l’indagine ha coinvolto 639 pazienti. Anche nel nostro Paese viene percepita come “remota” la possibilità di ottenere una pelle libera da lesioni. L’indagine ha infatti messo in luce l’importanza di ottenere questo risultato per il 39% del campione, anche se più della metà lo ritiene un obiettivo ancora non raggiungibile.

Dai dati, inoltre, emerge che il 53% considera la riduzione del prurito uno dei principali obiettivi del trattamento, mentre il 33% degli intervistati aspira solo a una riduzione della sensazione di dolore. Anche per il campione italiano la qualità di vita è fortemente influenzata dalla patologia, confermando il dato mondiale. L’84% dei pazienti ha infatti risposto di essere stato vittima di umiliazioni e discriminazioni, il 43% si sente osservato in pubblico e al 41% è stato chiesto se la malattia fosse contagiosa. Gli intervistati italiani hanno inoltre raccontato le proprie sensazioni associate alla patologia: circa il 40% si sente in imbarazzo; 1 paziente su 3 si vede poco attraente e si vergogna della propria pelle. Inoltre, per il 60% delle persone coinvolte nel sondaggio, la psoriasi ha un impatto sulla vita professionale, con 6 pazienti su 10 che hanno richiesto un giorno di permesso negli ultimi sei mesi.

La psoriasi influisce in maniera negativa anche sulle relazioni interpersonali: ne è convinto il 46% degli intervistati tra i quali, il 33% ritiene di non sopportare lo sguardo degli altri e ancora 1 paziente su 3 si sente inadeguato come partner. Infine le principali attività che i pazienti vorrebbero presto tornare a riprendere sono: andare al mare e prendere il sole (circa il 60%), e nuotare (circa il 48%).

“Nonostante i dati mostrati da questo sondaggio rivelino scetticismo nei confronti della possibilità di tornare ad avere una clear skin, tutti i pazienti ne hanno diritto. Il nostro compito di dermatologi è di stare a fianco dei pazienti esortandoli a pretendere di più e a non accontentarsi se non di una pelle libera da lesioni”, commenta Giampiero Girolomoni, presidente della Società italiana di dermatologia (Sidemast).

 

Torna su
Il caldo può danneggiare i farmaci, ecco le regole per una corretta conservazione

Medicina scienza e ricerca

 

Il caldo può danneggiare i farmaci, ecco le regole per una corretta conservazione

 

I consigli di Federfarma Verona per usare in tutta tranquillità i medicinali anche durante la stagione calda, al mare e in città

di Redazione Aboutpharma Online 30 giugno 2016

 

Il caldo può danneggiare i farmaci, per questo è necessario porre la massima attenzione al loro aspetto prima di utilizzarli, soprattutto se vengono tenuti in casa già da qualche mese. Bastano, infatti, anche poche giornate con temperature superiori ai 25 gradi per ridurre la data di scadenza. Qualora, dunque, l’aspetto del medicinale che si utilizza abitualmente appaia diverso dal solito o presenti dei difetti – particelle solide in sospensione o sul fondo, cambio di colore o odore, modifica di consistenza – si deve subito consultare il farmacista o il medico. E’ importante, inoltre, segnalare qualsiasi malessere, anche lieve, in concomitanza con una terapia farmacologica, perché non tutti i farmaci possono avere effetti facilmente correlabili al caldo. A mettere in guardia è Federfarma Verona, che in una nota offre consigli per il corretto utilizzo dei medicinali durante la stagione del grande caldo.

Le formulazioni liquide, contenendo acqua, sono in genere termolabili, cioè maggiormente sensibili alle alte temperature. Qualora le indicazioni per la conservazione non siano specificate vale la regola generale del luogo fresco e asciutto a una temperatura inferiore ai 25 gradi. Se si espongono i farmaci per un tempo esiguo (una o due giornate) a temperature superiori ai 25 gradi non se ne pregiudica la qualità, ma per un tempo più lungo, si riduce considerevolmente la data di scadenza. Se invece la temperatura di conservazione è specificamente indicata, non rispettarla potrebbe addirittura renderli dannosi per la salute.

Durante i viaggi si consiglia di trasportare i farmaci in un contenitore termico e di tenerli nell’abitacolo dell’auto evitando le alte temperature del bagagliaio. Si ricorda anche che il tradizionale portapillole, che non è adibito al trasporto, può surriscaldarsi o rilasciare sostanze nocive alterando le caratteristiche del prodotto.

Anche per chi resta in città, le insidie non mancano. Quando si acquista un farmaco ricordiamoci che non può stare per ore in auto al caldo mentre si fanno altre commissioni, in quel caso è opportuno procurarsi un contenitore termico. Anche farmaci comuni, infatti, possono produrre effetti potenzialmente dannosi se esposti a temperature troppo elevate, ma il discorso si accentua se si parla di patologie croniche come il diabete o di una malattia cardiaca: l’alterazione anche di una sola dose di un farmaco fondamentale, come l’insulina o la nitroglicerina, può essere rischiosa per la salute del paziente. Particolare attenzione va prestata anche con gli antiepilettici e gli anticoagulanti, piccole modificazioni in farmaci come questi possono fare una grande differenza per la salute. Alcune alterazioni che potrebbero verificarsi in antibiotici e aspirina possono causare danni ai reni o allo stomaco. Anche una crema a base di idrocortisone per effetto del calore potrebbe separarsi nei suoi componenti e perdere di efficacia. Le stesse precauzioni valgono per i farmaci in spray che non devono mai essere lasciati all’esposizione diretta dei raggi solari o a temperature elevate.

“Sono tantissime e tutte importanti le regole da seguire per la corretta conservazione di farmaci durante la stagione calda – spiega Marco Bacchini, presidente di Federfarma Verona – anche le strisce per test diagnostici, come ad esempio quelle per verificare i livelli di zucchero nel sangue, la gravidanza o l’ovulazione, soffrono l’elevata umidità, che potrebbe causarne l’alterazione fornendo una lettura non corretta del risultato. I farmaci per la tiroide, i contraccettivi e altri medicinali che contengono ormoni sono particolarmente sensibili alle variazioni termiche. E poi esiste anche il paradosso di pazienti che mettono i farmaci nel congelatore non sapendo che è una prassi estremamente dannosa per l’integrità dei principi attivi. Addirittura l’insulina e i farmaci in sospensione possono perdere la loro efficacia se congelati e non devono mai essere conservati a temperature inferiori ai 2°C”.

E in aereo? In questo caso “i farmaci devono essere portati nel bagaglio a mano e qualora la terapia preveda farmaci salvavita essi devono viaggiare con le relative ricette di prescrizione, poiché potrebbe essere necessario esibirle nelle fasi di controllo – continua Bacchini – È molto frequente, inoltre, riscontrare in estate problemi agli occhi con arrossamenti anche di grave entità per l’utilizzo di creme o pomate non idonee all’uso oftalmico. Infine è da segnalare il coretto utilizzo di gel/cerotti a base di ketoprofene o creme a base di prometazina (per punture di insetti o allergie cutanee) incompatibili con l’esposizione al sole che può provocare macchie e vere e proprie ustioni”.

 

Torna su
Sperimentazioni cliniche: aperte quattro consultazioni sul nuovo Regolamento europeo

Legal & Regulatory

 

Sperimentazioni cliniche: aperte quattro consultazioni sul nuovo Regolamento europeo

Ricercatori, stakeholder, pazienti e cittadini potranno esprimere il proprio parere entro il 31 agosto

di Redazione Aboutpharma Online 1 luglio 2016

 

Se l’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo sulla sperimentazione clinica dei medicinali (EU Regulation 536/2014 on Clinical Trials) sembra ancora lontana (è prevista per ottobre del 2018), c’è tempo solo fino al prossimo 31 agosto per esprimere il proprio parere su quattro consultazioni pubbliche che la Commissione europea ha indetto su alcuni documenti rilevanti collegati al nuovo regolamento. A darne notizia in un comunicato è l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).
La prima consultazione, aperta dalla Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza alimentare (Dg Sante), ha come oggetto il documento “
Risk proportionate approaches in clinical trials” e mira ad acquisire pareri e suggerimenti per implementare nei trials clinici approcci proporzionati al rischio.
La seconda consultazione ha lo scopo di supportare gli autori nella redazione della sintesi relativa a tutti gli aspetti della sperimentazione ( “
Summary of Clinical Trial Results for Laypersons”), ai sensi dell’art. 37 del Regolamento, in un linguaggio realmente comprensibile e accessibile per i non addetti ai lavori, della sintesi.
La terza consultazione verte sulla revisione del documento “
Definition of Investigational Medicinal Product (Imp) and use of Auxiliary Medicinal Products (AMPs)” per aggiornare il testo alle ultime novità scientifiche e diffondere best practices condivise sull’impiego di questi medicinali.
Ultima, ma non meno importante, la consultazione relativa al documento “
Ethical considerations for clinical trials on medicinal products conducted with minors”, sulle sperimentazioni cliniche sui pazienti pediatrici (art. 32 del nuovo Regolamento).

 

Torna su
La campagna ‘Stop alle Fratture’ non va in vacanza, ecco le sette regole d’oro per chi soffre di osteoporosi

Medicina scienza e ricerca

 

La campagna ‘Stop alle Fratture’ non va in vacanza, ecco le sette regole d’oro per chi soffre di osteoporosi

 

Gli esperti raccomandano di mantenere uno stile di vita sano e proseguire con la propria terapia, che non deve essere mai sospesa, soprattutto per chi ha avuto una diagnosi di osteoporosi severa e fragilità ossea

di Redazione Aboutpharma Online 4 luglio 2016

 

Evitare di cimentarsi in attività sportive nuove, non spostare valigie troppo pesanti e non dimenticare di prendere i farmaci. Sono solo alcuni dei consigli che gli specialisti della campagna ‘Stop alle Fratture’ mettono a disposizione di chi soffre di osteoporosi, patologia che colpisce il 30% di tutte le donne in menopausa, e di fragilità ossea, la sua forma più grave.

In vista delle partenze estive, il primo consiglio degli esperti alle donne che soffrono di osteoporosi e fragilità ossea è di porre una grande attenzione a uno spostamento e a un ambiente di soggiorno sicuri. “L’estate è un periodo durante il quale si tende tradizionalmente ad essere meno attenti ai problemi di salute – sottolinea Giovanni Minisola, presidente Emerito della Società italiana di reumatologia (Sir) – Ciò non può accadere per chi è affetto da fragilità ossea, una patologia che non va mai in vacanza e nei confronti della quale l’attenzione non deve mai diminuire”.

Ecco qui, allora, una serie di pratici consigli da tenere sempre a mente: * evitare posizioni, sforzi e movimenti che comportano sollecitazioni eccessive sulla colonna;

* non trasportare oggetti o valigie pesanti, distribuendo sempre il peso egualmente su entrambi   i lati;                                                                                                                                accertarsi che il letto sia quanto più possibile simile a quello che si ha a casa;

 * evitare attività   sportive alle quali non si è abituati; non camminare, e ancor meno correre,    sulla battigia perché il piano è inclinato e le vertebre vengono sollecitate in modo anomalo;  

* infine, non dimenticare di assumere i farmaci prescritti, accertandosi di portarne in vacanza il quantitativo necessario e di trasportarli rispettando le norme di conservazione previste.

“Chi è affetto da fragilità ossea – aggiunge Minisola – deve ricordare che le malattie non vanno in vacanza e che il periodo di riposo estivo deve servire per allentare la tensione ma non per distogliere l’attenzione rispetto alle nostre malattie. In ogni caso, i soggetti con osteoporosi più o meno severa, devono lasciarsi guidare dal buon senso ed evitare tutte le situazioni e le attività che possono rappresentare una condizione di rischio per le ossa in generale e per le vertebre in particolare”.

E’ fondamentale, inoltre, mantenere uno stile di vita sano e proseguire con la propria terapia, che non deve essere mai sospesa, soprattutto per chi ha avuto una diagnosi di osteoporosi severa e fragilità ossea.

Il pratico leaflet con sette consigli d’oro per chi abbia avuto una diagnosi di osteoporosi e fragilità ossea è scaricabile dal sito http://www.stopallefratture.it/.

 

Torna su
Antiepatite C, dati positivi in Italia ma occorre modificare i criteri di accesso alle cure

Antiepatite C, dati positivi in Italia ma occorre modificare i criteri di accesso alle cure

Sono diversi i pazienti attualmente esclusi dalle innovative terapie antivirali che utilizzano farmaci equivalenti importati dal mercato estero. Non senza escludere rischi. Per questo – secondo clinici e associazioni dei pazienti – è necessario rivedere i criteri di accesso alle cure. Ma non tutti sono d’accordo


Si torna a parlare di farmaci contro l’epatite C che ancora una volta fanno da pomo della discordia. Questa volta a fare da ago della bilancia sono i criteri di accesso – attualmente vigenti – alle innovative cure, che di fatto escludono una fetta di malati, che si trovano poi costrette a cercare un metodo alternativo per accedere agli antiepatite. Come far arrivare direttamente dall’India i farmaci generici a basso costo. Secondo un sondaggio condotto da Alleanza contro l’epatite – e presentato in occasione dell’incontro “Hcv 2016: accesso, risorse e prospettive future” organizzato dalla stessa – l’84% dei medici intervistati confida di essersi dovuto confrontare con pazienti attualmente esclusi dalla terapie alla ricerca del prodotto equivalente; mentre il 40% ha tra i suoi pazienti chi lo ha acquistato e 1 medico su 5 afferma di seguire almeno un paziente in cura con generici. “Per la prima volta abbiamo una conferma di quanto già si sapeva a proposito di questo fenomeno inedito, dilagante, sottostimato e frutto delle attuali limitazioni di accesso” ha commentato all’Adnkronos Salute Ivan Gardini, presidente dell’Associazione EpaC Onlus, che ormai da molti mesi denuncia i rischi legati all’acquisto di questi prodotti in Paesi esteri, senza controlli e senza la sicurezza che siano sicuri. “Secondo l’EpaC occorre rimuovere ogni limitazione di accesso oggi in vigore affinché i medici curanti possano programmare le terapie con tutti i loro pazienti, e non solo quelli con malattia grave o gravissima”. Partendo da questi presupposti EpaC ha avviato un’indagine rivolta ai medici dei centri autorizzati per scattare una fotografia sullo stato dell’arte in merito all’accesso ai nuovi farmaci innovativi per l’epatite C. Il sondaggio è stato lanciato il 15 giugno ed è tuttora aperto. Hanno risposto sinora 70 clinici autorizzati alla prescrizione, per un complessivo 25% delle strutture nazionali (21-31%), con un bacino di pazienti interessati dall’analisi di circa 41.000 individui

Dal sondaggio è emerso come il 63% dei medici prevede di riuscire a mettere in terapia tutti i pazienti che rientrano nei criteri Aifa entro fine anno e, sulla scorta di ciò, il 79% dei medici si dice favorevole alla totale eliminazione delle restrizioni di accesso, auspicando l’estensione del trattamento a tutti i pazienti, istituendo delle linee guida nazionali di priorità. Le informazioni raccolte, secondo le associazioni, portano dunque a una sola conclusione: già dai prossimi mesi molti centri autorizzati rischiano di restare con pochissimi pazienti da curare e quindi occorre urgentemente intervenire sui criteri di accesso, rimodulando il sistema in funzione delle esigenze emergenti. “Non lo chiedono solo i pazienti, ma ora anche i medici e il sistema è pronto al cambiamento” ha continuato Gardini.

Non tutti sono però d’accordo sul modificare i criteri di accesso alla terapia. Secondo Simona Montilla, dirigente Centro studi Agenzia italiana del farmaco (Aifa), c’è il pericolo che se fosse soddisfatta la richiesta delle associazioni di pazienti di avere un accesso universale a queste nuove, ma costose cure, “i pazienti più urgenti, il cui trend non è ancora in calo, inizierebbero ad avere difficoltà a ottenere le terapie. Più che rimuovere gli attuali criteri di accesso, ne andranno aggiunti di nuovi, che l’Agenzia ha comunque già pronti. L’Aifa al momento sta di nuovo negoziando i prezzi dei farmaci con le aziende, i prossimi mesi saranno fondamentali anche perché sono in arrivo nuove molecole e associazioni ancora più efficaci, che insieme ad altri prodotti innovativi, alcuni dei quali “miracolosi”, preoccupano dal punto di vista finanziario. I risparmi derivanti dalla cura dell’epatite C non si vedranno nel breve ma nel lungo termine, dunque le valutazioni non si possono basare su questo criterio”.   Punto che trova in disaccordo invece Antonio Gasbarrini, professore di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma: “La valutazione clinica che abbiamo fatto sui pazienti, soprattutto cirrotici, che hanno portato a termine il trattamento è risultata impressionante. Ed è un dato di fatto che i pazienti in cui la malattia viene eradicata poi ricorrono molto meno agli ambulatori, con conseguenti immediati risparmi per il Servizio sanitario nazionale”.

Oggi sono circa 51mila in Italia, i pazienti in cura con i nuovi anti virali, e di questi il 55% (27900) dei trattamenti risulta terminato. Nonostante non siano ancora disponibili dei dati, ci si attende però che siano tutti guariti come sottolinea la stessa Montilla. IN base a questi primi dati inoltre emerge un “riscatto” del Sud Italia che si conferma “eccellenza nella cura dell’epatite C” come ricorda Gasbarrini. “La Puglia, per esempio è la prima per trattamenti avviati per milione di abitanti (1.262), seguita subito dopo alla Campania (1.122). La Sicilia inoltre ha creato un database formidabile per i pazienti con 41 centri, grazie alla sinergia delle istituzioni e dei clinici garantisce equità di accesso alla diagnosi e alle terapie”. Uno strumento di programmazione continua per l’assessorato alla Salute che può così conoscere di quante risorse necessita nel prossimo futuro. “Ci sono 4.500 pazienti già registrati pronti a essere trattati appena termineranno i pazienti eleggibili, cosa presumibile entro l’anno in corso e non appena l’Aifa deciderà di aprire a nuovi pazienti che hanno una malattia meno grave”, precisa Fabio Cartabellotta, coordinatore del network Rete Hcv Sicilia e dirigente medico dell’Ospedale ‘Buccheri La Ferlà di Palermo.

 

Torna su
Epatiti killer peggiori: uccidono come Aids e Tbc

Medicina scienza e ricerca

 

Epatiti killer peggiori: uccidono come Aids e Tbc

 

In 20 anni i decessi sono aumentati del 60% secondo i dati di uno studio pubblicato su Lancet. Solo nel 2013 i morti per complicanze da epatite C sono stati 1 milione e 450 mila, più o meno quanto quelli per Aids e Tbc

di Redazione Aboutpharma Online 8 luglio 2016

 

Attenzione alle epatiti virali spesso sottovalutate ma che in realtà si sono rivelate essere uno dei killer più aggressivi. A lanciare l’allarme sono un gruppo di scienziati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, dell’Università di Washington, e Imperial College di Londra che hanno estrapolato i dati dallo studio Global Burden of Disease (Gbd) in modo da stimare morbilità e mortalità per l’epatite virale acuta, cirrosi e il cancro del fegato – causati sempre da epatite virale – in 183 paesi tra il 1990 e il 2013. Dallo studio – pubblicato su Lancet – è emerso che le epatiti a differenza di quanto si possa pensare nel corso di questi anni hanno ucciso come Aids e Tbc. Le complicazioni associate alle epatiti infatti hanno fatto 1 milione e 450 mila vittime nel 2013. Più o meno tante quanto l’Aids e la tubercolosi, con rispettivamente 1,2 milioni e 1,5 milioni di decessi nel 2014, secondo quanto riporta l’Organizzazione mondiale della sanità. In particolare tra il 1990 e il 2013, le morti per epatite virale a livello mondiale sono passate da 0,89 milioni a 1,45 milioni. Sempre nel 2013, inoltre, l’epatite virale si è posizionata settima tra le principale causa di morte nel mondo, mentre nel 1990 occupava la decima posizione.

Il numero di morti per epatiti è cresciuto del 60% negli ultimi 20 anni, in parte per l’aumento della popolazione globale, mentre i decessi per Aids e Tbc sono diminuiti. E benché il problema sia particolarmente grave in Asia orientale, in termini di vite umane il maggior prezzo lo pagano i Paesi ad alto e medio reddito.   Le epatiti sono causate da 5 diverse forme di virus: A, B, C, D, E, si legge sul lavoro. Alcune si trasmettono attraverso il contatto con fluidi corporei infetti (B, C, D), altre (A ed E) attraverso l’esposizione ad acqua o alimenti contaminati. La maggior parte delle morti che si registrano nel mondo sono riconducibili ai virus B e C, che provocano gravi danni al fegato e predispongono all’insorgenza di tumori epatici. Ma le prime fasi della malattia sono silenti, il che comporta un alto tasso di diagnosi tardive: si scopre di soffrire di epatite a danno d’organo ormai avvenuto.

“Nonostante esistano trattamenti efficaci e vaccini contro le epatiti virali – osserva Graham Cooke dell’Imperial College londinese e autore del lavoro – sono veramente basse le risorse economiche investite per favorire l’accesso dei pazienti a questi presidi. Sono disponibili vaccini anti-epatite A e B, e nuove terapie contro la C anche se i prezzi dei nuovi farmaci sono fuori alla portata di ogni Paese, povero o ricco”.

Gli autori dello studio evidenziano la necessità di concretizzare il piano d’azione definito dall’Oms, che fra gli obiettivi di propone la riduzione dei nuovi casi di epatiti B e C entro il 2020, con un -10% di mortalità. L’agenzia Onu per la sanità invita i singoli Stati e le organizzazioni competenti a espandere i programmi vaccinali, a concentrarsi sulla prevenzione della trasmissione dell’epatite C da madre a bambino, e a migliorare l’accesso ai nuovi trattamenti farmacologici.

 

Torna su
Esercizio fisico in gravidanza è sicuro e riduce ricorso a cesareo

Esercizio fisico in gravidanza è sicuro e riduce ricorso a cesareo

Anche meno rischi pressione alta e diabete gestazionale

08 luglio, 15:05)

 L'esercizio fisico durante la gravidanza e' sicuro e non aumenta il rischio di andare incontro a un parto pretermine. In più, le donne che praticano attività fisica hanno meno chances di fare un cesareo. E'quanto emerge da una ricerca della Thomas Jefferson University, negli Usa, pubblicata sulla rivista American Journal of Obstetrics and Gynecology. Gli studiosi hanno preso in esame i dati di nove studi, analizzando complessivamente 2059 donne in gravidanza, una metà circa delle quali (1022) aveva fatto esercizio per 35-90 minuti 3-4 volte a settimana per 10 settimane. Questo campione è stato messo a confronto con un altro gruppo che invece non aveva svolto attività fisica. Dai risultati e' emerso che non vi era un aumento significativo delle nascite pretermine, prima di 37 settimane di gestazione, nelle donne che si erano esercitate regolarmente. In più, vi era un minor ricorso al cesareo (17% rispetto a un 22% nel gruppo che non aveva fatto esercizio). Non solo: le donne più attive dal punto di vista fisico risultavano avere meno pressione alta, fattore di rischio per lo sviluppo di una condizione detta gestosi che può essere pericolosa, e sviluppavano meno diabete gestazionale.

''Ci sono molte ragioni per cui in gravidanza si rinuncia a fare esercizio fisico: disagio, sensazione di fiato corto, aumento della stanchezza - spiega uno degli autori della ricerca, Vincenzo Berghella -. Questo studio rafforza il dato che l'esercizio fisico fa bene alla mamma e al bambino e non aumenta il rischio di un parto pretermine''.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Sangue: al via Piano nazionale per maxi emergenze

Sanità e Politica

 

Sangue: al via Piano nazionale per maxi emergenze

 

Sancita un’intesa Conferenza Stato-Regioni per il supporto trasfusionale che sarà coordinato dal Centro nazionale sangue per garantire la disponibilità di scorte di sangue su tutto il territorio nazionale in caso di emergenze e lavora in stretto raccordo con le Strutture Regionali di Coordinamento per le attività trasfusionali e con le Associazioni e Federazioni dei donatori volontari di sangue

di Redazione Aboutpharma Online 13 luglio 2016

 

È stata sancita appena una settimana fa, il 7 luglio,  l’intesa di Conferenza Stato-Regioni sul “Piano strategico nazionale per il supporto trasfusionale nelle maxi emergenze”, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della Legge 5 giugno 2003, n. 131. Piano coordinato dal Centro Nazionale Sangue (Cns) che ha il compito istituzionale di fornire supporto tecnico e organizzativo affinché sia garantita la costante disponibilità di scorte di sangue su tutto il territorio nazionale in caso di emergenze e lavora in stretto raccordo con le Strutture Regionali di Coordinamento per le attività trasfusionali (Src) e con le Associazioni e Federazioni dei donatori volontari di sangue. Scopo del piano è la definizione di strategie e attività necessarie a gestire attività assistenziali di medicina trasfusionale da erogare in caso di maxi-emergenza, attraverso l’efficace coordinamento tra gli organismi istituzionali deputati alla gestione degli eventi e la rete trasfusionale nazionale. Eventi straordinari come il disastro ferroviario verificatasi in Puglia ieri, che possono avare un un impatto sul sistema sangue italiano e sulla disponibilità di emocomponenti, potendo variamente interferire con l’approvvigionamento, la lavorazione, il testing, la conservazione ed il trasporto degli stessi.

Il piano prevede che, al verificarsi dell’evento, il Cns definisca con la Regione direttamente coinvolta le necessità quali-quantitative di emocomponenti e, se necessario, ne coordini il trasferimento da altre Regioni al fine di supportare il fabbisogno straordinario delle aree coinvolte nell’emergenza. É previsto inoltre che il Cns supporti le Src al fine di incrementare, tramite azione sinergica con il livello nazionale delle Associazioni e Federazioni dei donatori volontari del sangue, l’attività di raccolta direttamente sul territorio interessato dall’evento.

Torna su
Ddl Concorrenza: Fofi, tetto “fantoccio” al 20% danneggia presìdi e concorrenza

Sanità e Politica

 

Ddl Concorrenza: Fofi, tetto “fantoccio” al 20% danneggia presìdi e concorrenza

 

Ordini sul piede di guerra: “Così basterebbero solo cinque società per detenere “a norma di legge” la totalità delle 20mila farmacie esistenti”.

di Redazione Aboutpharma Online 15 luglio 2016

 

Il Ddl Concorrenza nella versione che sta per approdare in aula a Palazzo Madama (S 2085) non può che condurre alla” subordinazione del sistema alla logica del profitto”, tradendo i principi cardine del servizio farmaceutico –  la capillarità della presenza e l’equo accesso al farmaco anche nelle aree svantaggiate geograficamente ed economicamente – e “mettendo a rischio l’indipendenza professionale del farmacista, e quindi il rispetto degli obblighi deontologici, e le prospettive occupazionali di tutta la categoria”.

Suona così la dura presa di posizione del Consiglio direttivo della Fofi riunitosi oggi per valutare le ricadute del testo pronto per l’esame dell’Assemblea del Senato e in particolare di quel tetto “fantoccio”  del 20%, a livello regionale, al possesso delle farmacie da parte di ciascuna società di capitali che “apre alla possibilità di formazione di un oligopolio che renderebbe residuale il ruolo delle farmacie rette dai professionisti”.

Di seguito il testo integrale del documento – approvato all’unanimità dall’assemblea dei Delegati regionali – che chiude sollecitando” la convocazione di un tavolo tecnico-politico di tutte le componenti della professione, che elabori proposte concrete su tutti gli aspetti sui quali è ormai indispensabile un intervento, a cominciare dall’istituzione del numero chiuso nelle facoltà di farmacia, dal futuro dei colleghi che operano negli esercizi di vicinato, all’attuazione del modello della farmacia dei servizi”.

Il documento Fofi.

La Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, alla vigilia dell’approdo nell’Aula del Senato del Ddl Concorrenza (S 2085) ribadisce la sua netta opposizione alle misure ivi contenute sul servizio farmaceutico. Come già rappresentato con estrema chiarezza nel corso delle audizioni parlamentari, la Fofi conferma la sua contrarietà all’ingresso delle società di capitali nella gestione delle farmacie per l’impatto che questo può avere sulla continuità del servizio offerto fino a oggi ai cittadini dalla rete delle farmacie indipendenti, sull’autonomia professionale e le prospettive occupazionali dei farmacisti  e infine perché controproducente ai fini dello stesso concetto di concorrenza.

La Federazione ritiene che l’ingresso dei capitali nella gestione della farmacia avrebbe dovuto, in via subordinata, avvenire sulla base di quanto previsto dal nostro ordinamento per le altre società di professionisti, ovvero con una quota minoritaria che lasci la gestione nel controllo della componente professionale, a tutela in primo luogo delle finalità socio-assistenziali connaturate all’esercizio della farmacia quale primo presidio sanitario sul territorio. L’assetto disegnato dall’attuale testo di legge non può che condurre alla subordinazione del sistema alla logica del profitto che, come dimostrano le esperienze estere, non coincide con principi cardine quali la capillarità della presenza e l’equo accesso al farmaco anche nelle aree svantaggiate geograficamente ed economicamente. L’emendamento 48.100, al di là delle controversie sulla sua interpretazione, nell’indicare un tetto del 20%, a livello regionale, al possesso delle farmacie da parte di ciascuna società di capitali apre alla possibilità di formazione di un oligopolio che renderebbe residuale il ruolo delle farmacie rette dai professionisti. Si tratta, quindi, di un tetto che è tale soltanto di nome, in quanto cinque sole società potrebbero detenere “a norma di legge” la totalità delle 20mila farmacie italiane oggi esistenti.

In questo quadro vengono messe a rischio l’indipendenza professionale del farmacista, e quindi il rispetto degli obblighi deontologici, e le prospettive occupazionali di tutta la categoria. Un farmacista che si trovi ad agire come una sorta di assistente alla vendita inserito in una logica di marketing viene meno ai valori della professione che vedono al primo posto la risposta al bisogno di salute del cittadino che non passa necessariamente attraverso la dispensazione di un medicinale o la vendita di un prodotto. Inoltre, stante l’attuale fragilità economica di una parte significativa delle farmacie, la formazione di grandi concentrazioni volte a massimizzare la remunerazione del capitale investito, non può che accentuare la tendenza al ridimensionamento in termini di personale e investimenti nella struttura cui si assiste ormai da tempo, come la Federazione ha puntualmente denunciato. E’ quindi fonte di sgomento e preoccupazione il fatto che in  questo scenario si assiste al perdurare dello squilibrio tra il numero dei farmacisti che Servizio sanitario e comparto del farmaco possono assorbire e i professionisti laureati ogni anno, che determina un saldo di oltre tremila unità destinate a costituire un esercito di disoccupati disposti ad accettare condizioni di lavoro al ribasso. Anche in questo caso non mancano esempi negli altri Paesi europei.

La concorrenza, dalla quale può e deve scaturire la corsa al miglioramento dell’offerta al cittadino e l’aumento dell’occupazione, viene tradita se si mettono in competizione modelli di attività differenti per finalità e possibilità economiche e se il solo riferimento è il prezzo del bene ceduto. A maggior ragione quando si tratta della tutela della salute, si può instaurare un circolo virtuoso soltanto avendo come obiettivo la messa in campo di servizi e prestazioni imperniati sulle capacità del professionista e sull’evidenza scientifica, mettendo al centro non il mercato ma la persona e i suoi bisogni soprattutto ora che la domanda  di salute è sempre più ampia e complessa. Per questo la Federazione degli Ordini ritiene necessario proseguire con rinnovato impegno la promozione del ruolo professionale del farmacista in materia di aderenza alle terapie e di monitoraggio sull’uso del farmaco al fine di sostenere l’efficientamento della terapia e il maggior governo della spesa.

 E’ questa anche la via per contrastare la disoccupazione, come abbiamo indicato fin dal documento federale sulla professione del 2006.

Di fronte alla gravità della situazione è indispensabile la convocazione di un tavolo tecnico-politico di tutte le componenti della professione, che elabori proposte concrete su tutti gli aspetti sui quali è ormai indispensabile un intervento, a cominciare dall’istituzione del numero chiuso nelle facoltà di farmacia, dal futuro dei colleghi che operano negli esercizi di vicinato, all’attuazione del modello della farmacia dei servizi.

 

Torna su
Farmaci: gli anziani non li assumono correttamente secondo uno studio

Medicina scienza e ricerca

 

Farmaci: gli anziani non li assumono correttamente secondo uno studio

 

Nel campione in esame solo il 17% dei pazienti in politerapia li assumeva in maniera corretta. Nei restanti casi si verificava un abuso o erano sottoutilizzati con, di conseguenza, un maggior rischio di morire o di avere bisogno di essere ricoverati in ospedale 

di Redazione Aboutpharma Online 18 luglio 2016

 

La maggior parte degli anziani in politerapia assume i farmaci in maniera inappropriata. Senza dubbio è un problema che inizia a essere noto alla comunità scientifica, ma uno studio condotto in Belgio e pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology ha provato a quantificare il problema. Ne è emerso che nella maggior parte dei casi i medicinali non vengono assunti nel modo corretto e che esiste un legame fra il sottoutilizzo – cioè la mancata assunzione di medicinali essenziali – e un aumento del rischio di morire o di avere bisogno di essere ricoverati in ospedale.

Maarten Wauters e i suoi colleghi della Ghent University che hanno condotto la ricerca, per esaminare i modelli di prescrizione di farmaci negli anziani, hanno studiato 503 cittadini di età uguale o superiore a 80 anni per un periodo di 18 mesi. I ricercatori hanno scoperto che più della metà (il 58%) stava assumendo 5 o più medicinali al giorno. Ma davvero pochi pazienti sembravano prenderli a dovere: il sottoutilizzo si verificava nel 67% dei casi e l’abuso fra il 56% dei pazienti (con una certa sovrapposizione tra questi due gruppi). Solo il 17% della popolazione studiata risultava seguire correttamente le prescrizioni. Nel corso del periodo di studio, il sottoutilizzo dei farmaci è stato associato con il 39% di aumento del rischio di mortalità e con il 26% in più di possibilità di dover essere ricoverati in ospedale. Non è emersa chiaramente un’associazione con l’abuso di medicinali.

“Prendere troppi farmaci, o farmaci non sicuri, causa effetti negativi per la salute. Tuttavia abbiamo dimostrato che anche non assumere prodotti essenziali, farmaci benefici, è più frequente e può essere anche più fortemente associato con danni sanitari” ha commentato Wauters.

 

Torna su
Aids: via libera Ue a primo farmaco per la prevenzione

Medicina scienza e ricerca

 

Aids: via libera Ue a primo farmaco per la prevenzione

 

Il Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp) dell’Ema ha approvato un’estensione dell’indicazione di Truvada, terapia già usata per i sieropositivi che si è dimostrata in grado di abbassare il rischio di contagio

di Redazione Aboutpharma Online 22 luglio 2016

Si apre una nuova fase nella lotta all’Aids in Europa: l’Agenzia europea dei medicinali (Ema) dà il via libera all’uso dei farmaci antiretrovirali per la prevenzione del contagio, approvando l’estensione dell’indicazione di Truvada (emtricitabine / tenofovir disoproxil), una terapia già usata per i sieropositivi che in diversi studi si è rivelata in grado di abbassare notevolmente il contagio per persone non infette ma in gruppi a rischio, usata quindi come profilassi pre-esposizione (Prep). L’ok è arrivato dal Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp) dell’agenzia regolatoria. Ora la parola passa alla Commissione Europea.

Alla base dell’approvazione ci sono studi condotti sia su omosessuali o transgender che hanno comportamenti a rischio che su eterosessuali che hanno un partner fisso sieropositivo. Proprio queste ricerche sono citate dall’agenzia, che ha quindi dato il via libera all’uso della Prep in Europa, mentre negli Usa sono già in corso alcuni progetti che prevedono la somministrazione agli omosessuali, e anche alcuni paesi africani hanno dichiarato di voler adottare la profilassi, ad esempio nel caso di coppie in cui uno dei partner è sieropositivo. “Una volta che sarà garantita l’estensione – si legge nel comunicato dell’Ema -, ogni Stato membro potrà prendere una decisione sul prezzo e il rimborso basata sul potenziale ruolo di questo farmaco nel contesto dei sistemi sanitari nazionali”.

Torna su
Studio sfata mito che rinunciare a sigarette porti a bere di più

Smettere di fumare diminuisce anche l'assunzione di alcol

Studio sfata mito che rinunciare a sigarette porti a bere di più

25 luglio, 14:18

 

I vizi vanno a braccetto e si combattono anche insieme. Secondo una ricerca dell'University College di Londra, infatti, le persone che cercano di smettere di fumare sono più propense, rispetto agli altri fumatori, anche a bere meno alcol ed evitare le abbuffate alcoliche.

Precedenti ricerche hanno dimostrato che la dipendenza dal tabacco e il consumo di alcol sono strettamente correlati. Lo studio ha coinvolto 6.287 persone rappresentative della popolazione adulta inglese, che hanno riferito di fumare tra marzo 2014 e settembre 2015. Di questi, 144 avevano iniziato a smettere di fumare nella settimana prima dell'indagine. Gli intervistati sono stati sottoposti a un questionario specifico, da cui è emersa l'associazione tra tentativi di ridurre il tabacco e quantità di alcol assunto. "Questi risultati vanno contro l'opinione diffusa che le persone che smettono di fumare tendono a bere di più per compensare", commenta l'autore Jamie Brown. Tuttavia lo studio, pubblicato sulla rivista open access BMC Public Health, è di tipo osservazionale, ovvero non può dimostrare causa ed effetto del fenomeno individuato. "Ulteriori ricerche - aggiunge il ricercatore - sono necessarie per capire se i tentativi di smettere di fumare precedano quelli di limitare il consumo di alcol o viceversa. Sarà inoltre necessario escludere altri fattori che rendono entrambi più probabile", come ad esempio la diagnosi di un problema di salute che causa i tentativi di ridurre entrambi.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Epatite C, nelle sedi Cdi test salivare Hcv gratis

Medicina scienza e ricerca

 

Epatite C, nelle sedi Cdi test salivare Hcv gratis

 

Il 28 luglio, in occasione della Giornata mondiale contro l’epatite

di Redazione Aboutpharma Online 26 luglio 2016

 

Anche il Centro diagnostico italiano (Cdi) aderisce alla Giornata mondiale contro l’epatite, dando la possibilità di effettuare il test salivare Hcv per la diagnosi dell’epatite C nelle sedi di Milano, Legnano, Cernusco, Varese e Pavia. Sarà possibile effettuare il test a risposta rapida giovedì 28 luglio, dalle 10 alle 12.

Il test, che consiste in un semplice prelievo salivare, richiede un digiuno assoluto di almeno 30 minuti e offre risposta in soli venti minuti; in caso di positività, verrà effettuato un prelievo ematico per confermare la diagnosi. Per sottoporsi allo screening occorre prenotare al numero 02-48317444.

E non è tutto. Nelle giornate dell’1 e 2 agosto sarà attivo il servizio di consulenza telefonica gratuita per approfondire l’esito del test. Dalle 14.30 alle 15.30, al numero 02-48317684, un medico epatologo del Cdi sarà a disposizione dei partecipanti all’iniziativa per fornire maggiori informazioni su questa malattia.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss) nel nostro Paese si stima che i pazienti portatori cronici del virus dell’epatite C siano oltre un milione, di cui 330.000 con cirrosi. Le cause principali della diffusione del virus sono infezioni contratte per inadeguata sterilizzazione e per carenza d’igiene: piercing, tatuaggi, trattamenti estetici o un semplice intervento dal dentista in condizioni di rischio si trasformano in possibili occasioni di contagio.

 

Torna su
In Olanda uomini più alti al mondo, Lettonia vince tra donne

In Olanda uomini più alti al mondo, Lettonia vince tra donne

Italiani intorno al trentesimo posto, cresciuti in un secolo di 10 cm

26 luglio, 11:37
  •  

  •  

(ANSA) - ROMA, 26 LUG - Sono gli olandesi gli uomini più alti al mondo, mentre la maggior percentuale di 'stangone' si trova in Lettonia. A stilare la classifica è stato uno studio pubblicato dalla rivista Elife, che ha analizzato le cifre dei nati dal 1896 al 1996. L'Italia sta scalando le classifiche, sottolinea lo studio, pur restando intorno al trentesimo posto, un segno del miglioramento delle condizioni di salute.

Gli autori hanno analizzato quasi 150 studi sull'altezza in 200 paesi. I più alti del mondo sono risultati gli olandesi, con 183 centimetri di media, seguiti da belgi ed estoni. Tra le donne le lettoni guidano con 170 centimetri di media, seguite da olandesi ed estoni. I più bassi al mondo sono gli abitanti di Timor Est, 160 centimetri, mentre le donne del Guatemala sono in ultima posizione arrivando a malapena a 160. Gli uomini italiani secondo lo studio sono passati dal posto 57 al mondo al 29, con un'altezza media di un metro e 75 cresciuta di 10 centimetri nel periodo considerato, mentre le donne sono passate dal 55 al 32, crescendo di circa 7 centimetri fino a un metro e 63.

"Circa un terzo della spiegazione del fenomeno dell'aumento dell'altezza - scrivono gli autori della NCD Risk Factor Collaboration, un network di 800 scienziati coordinati dall'Imperial College di Londra - è dovuto ai geni, mentre il resto è influenzato da fattori ambientali come un buon sistema sanitario e una nutrizione ottimale"

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Donazioni volontarie, al via il nuovo marchio per i farmaci derivati da sangue o plasma nazionali

 

 

 

Sanità e Politica

 

Donazioni volontarie, al via il nuovo marchio per i farmaci derivati da sangue o plasma nazionali

 

Il decreto ministeriale è stato pubblicato da pochi giorni in Gu. Il pittogramma potrà essere applicato dai titolari sulle confezioni dei prodotti derivati dal sangue o dal plasma nazionale provenienti da donazione volontaria, periodica, responsabile, anonima e gratuita

di Redazione Aboutpharma Online 27 luglio 2016

 

Una goccia e un cuore parzialmente sovrapposto, racchiusi entrambi in un cerchio. E’ il nuovo pittogramma che le aziende produttrici di farmaci derivati dal sangue o da plasma umani raccolti, su base volontaria, sul territorio italiano e destinati all’esclusivo utilizzo nazionale potranno apporre esternamente sulle confezioni dei medicinali. A stabilirlo è il decreto ministeriale “Misure per lo sviluppo della produzione e dell’utilizzazione dei prodotti derivati dal sangue o dal plasma umani provenienti da donazioni volontarie e non remunerate” pubblicato da pochi giorni in Gazzetta Ufficiale. La proposta di apporre un marchio ai medicinali emoderivati per ricordarne la provenienza da donatori anonimi, volontari e non retribuiti era stata più volte avanzata dall’Associazione volontari italiani sangue (Avis) ed è stata accolta dal ministero della Salute che lo scorso gennaio ha emanato il bando di concorso per la progettazione del logo. Scopo dell’iniziativa è di incoraggiare la donazione volontaria, periodica, responsabile, anonima e gratuita del sangue umano e dei suoi componenti e di sviluppare la produzione e l’utilizzazione dei prodotti derivati dal sangue o dal plasma umani provenienti da queste donazioni. “La goccia infatti rappresenta il sangue (plasma) – recita il decreto – mentre il cuore simboleggia la solidarietà, segno del gesto volontario e gratuito dei donatori”. I titolari di autorizzazione all’immissione in commercio (Aic) dei farmaci potranno ora apporre il pittogramma ma solo sui lotti di medicinali derivati da plasma nazionale. “Il rappresentante legale delle aziende titolari di Aic,- spiega il decreto, dovranno comunicare all’Agenzia italiana del farmaco l’elenco dei medicinali, la data di inizio di apposizione del pittogramma e la dichiarazione che quest’ultimo è conforme all’allegato del presente decreto.

 

(NdR)

​EMA-ROMA, è particolarmente favorevole a questa iniziativa, tanto che, pur non producendo prodotti emoderivati ma migliaia di sacche di sangue, quale risultato della propria attività costante volta a promuovere la donazione volontaria, sarebbe lieta di avvalersi del "Pittogramma" che simbolizza efficacemente questa iniziativa,da apporre nella propria documentazione ufficiale, a dimostrazione di appartenere attivamente al "movimento sangue".  

 

 

 

Torna su
Zika, la lotta al virus diventa hi-tech: software e app per mappare l’evoluzione dell’epidemia

Aziende

 

Zika, la lotta al virus diventa hi-tech: software e app per mappare l’evoluzione dell’epidemia

 

Da Ibm un aiuto tecnologico per monitorare la diffusione del virus, anche attraverso social network e dati sui viaggiatori. Mentre un supercomputer virtuale in crowdsourcing consente uno screening su milioni di composti chimici per individuare sostanze candidate a sviluppare trattamenti

di Redazione Aboutpharma Online 28 luglio 2016

 

Mappare l’evoluzione del virus Zika, seguirne le tracce anche attraverso i dati dei social network e quelli ufficiali sui viaggiatori. Ma anche passare al setaccio, attraverso un’applicazione digitale, milioni di composti chimici per individuare le sostanze candidate a sviluppare i trattamenti per combattere il virus. È, in sintesi, il contributo che il colosso informatico Ibm sta offrendo nella lotta al virus Zika, mettendo a disposizione risorse, tecnologia e competenze per aiutare gli scienziati, i servizi sanitari nazionali e le agenzie umanitarie.

Ibm, ad esempio, fornisce la tecnologia e le competenze alla Oswaldo Cruz Foundation (Fiocruz) in Brasile, istituto di ricerca affiliato al ministero della Salute brasiliano, impegnato a mappare la diffusione di Zika utilizzando la tecnologia sviluppata da Ibm, gli indizi sui social media e i dati ufficiali sui viaggiatori.

I ricercatori dei laboratori di ricerca di Ibm a San Jose, in California e in Brasile insegneranno agli scienziati di Fiocruz ad utilizzare Stem (Spatiotemporal Epidemiological Modeler), un software che modella e visualizza la diffusione delle malattie infettive analizzando fattori come la geografia, la meteorologia, il trascorrere del tempo, i modelli di viaggio, le strade e gli aeroporti. La piattaforma è stata utilizzata per studiare e aiutare a prevedere la diffusione di malattie infettive come l’influenza ed Ebola, ma anche quelle trasmesse dalle zanzare come la malaria e la febbre dengue.

Si cercherà anche di comprendere le preoccupazioni dei cittadini, attraverso l’analisi dei tweet in lingua portoghese su Zika, Dengue e Chikungunya, ma anche la comparsa della zanzara Aedes aegypti, la specie principale responsabile di queste malattie. Fa parte dell’impegno contro Zika il progetto OpenZika attivo sull’Ibm World Community Grid, il supercomputer virtuale in crowdsourcing. Un’applicazione gratuita disponibile per il download fornisce automaticamente ai ricercatori la potenza di calcolo inutilizzata proveniente dai computer o dai dispositivi android dei volontari. Grazie a questa iniziativa filantropica, gli scienziati in Brasile e gli Stati Uniti hanno ora la possibilità di fare lo screening di milioni di composti chimici per individuare le sostanze candidate a sviluppare i trattamenti per combattere il virus. Non solo: Ibm Research e l’Istituto di Bioingegneria e Nanotecnologia di Singapore hanno recentemente annunciato di aver identificato una macromolecola che potrebbe aiutare a prevenire le infezioni virali come Zika.

Torna su
Disabili costretti a slalom strade, un'App contro le barriere

Disabili costretti a slalom strade, un'App contro le barriere

Associazione Coscioni, disattesa legge contro discriminazioni

29 luglio, 19:08

 

ROMA - Marciapiedi dissestati o senza scivolo per farvi accedere una sedia a rotelle, ascensori non funzionanti, luoghi pubblici, come le questure, accessibili solo attraverso scalini. Roma non è un Paese per disabili e non lo sono neanche la maggior parte delle città italiane. Costrette quotidianamente ad affrontare un vero e proprio percorso a ostacoli però le persone con disabilità ora hanno un''arma' per segnalare le barriere architettoniche e ricevere aiuto per abbatterle. Dopo un periodo sperimentale, debutta ufficialmente la App "No-Barriere", iniziativa lanciata dall'Associazione Luca Coscioni, presentata oggi con una dimostrazione dal vivo, lungo un "percorso a ostacoli"ßnelle vie del centro storico della capitale. In Italia infatti è "quasi ovunque disattesa la Legge del 2006 per la tutela contro le discriminazioni", denuncia Marco Cappato, tesoriere dell'associazione.

Scaricabile gratuitamente su smartphone e tablet, per utenti Android e iOs, la App èßdedicata non solo ai tanti che ogni giorno fanno i conti in prima persona con gli ostacoli disseminati lungo le strade delle nostre città, ma anche a chiunque voglia attivarsi per contribuire a segnalare le barriere architettoniche. Basta scattare una foto, inserire una breve descrizione del problema e attivare la geolocalizzazione.

La segnalazione viene automaticamente visualizzata online e permette di avere una mappatura delle 'anomalie'. Ma allo stesso tempo la notifica viene inviata all'associazione Luca Coscioni, che la valuta e fornisce indicazioni al cittadino su come denunciare la barriera al sindaco del comune di riferimento. "Se non se ne fa carico - spiega Rocco Berardo, dirigente dell'associazione - entro tempi ragionevoli, si può procedere per vie legali per rivendicare il proprio diritto a non essere discriminati".

"Le pubbliche amministrazioni potrebbero adottare l'App perché consente un dialogo diretto con i cittadini e un modo per avere una percezione immediata dei problemi che incontrano", commenta il segretario dell'Associazione Luca CoscionißFilomena Gallo.(ANSA).

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

Da AGI

·                                       SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

Washington - I bambini che si succhiano il pollice o si mangiano le unghie hanno meno probabilita' di sviluppare sensibilita' allergiche. E quelli che hanno entrambe le "cattive abitudini" hanno ancora meno probabilita' di essere allergici a cose come ad acari della polvere, erba, gatti, cani, cavalli o funghi dispersi nell'aria. Queste sono le conclusioni di uno studio della Dunedin School of Medicine, in Nuova Zelanda, e della McMaster University, in Canada. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Pediatrics. I ricercatori hanno coinvolto nello studio oltre mille bambini in Nuova Zelanda con 5, 7, 9 e 11 anni d'eta'. I ricercatori hanno misurato la sensibilizzazione atopica dei soggetti tramite test cutanei sia a 13 che a 32 anni d'eta'. I ricercatori hanno trovato che i 31 per cento del campione si succhiava il pollice o mangiava le unghie di frequente. Tra tutti i bambini di 13 anni d'eta', il 45 per cento ha mostrato una sensibilizzazione atopica, ma tra quelli con una di queste abitudini, solo il 40 per cento ha avuto allergie. Questa tendenza si e' mantenuta anche in eta' adulta e non sono state rilevate differenze tra chi vive in casa con fumatori o con gatti e cani, ecc. "I nostri risultati sono coerenti con la teoria dell'igiene, secondo la quale l'esposizione precoce alla sporcizia o ai germi riduce il rischio di sviluppare allergia", hanno spiegato i ricercatori. "Anche se non e' consigliabile incoraggiare queste abitudini, ci sembra che esse abbiano un lato positivo", hanno concluso. (AGI) .

 

Torna su
SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

 

·               SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

Washington - I bambini che si succhiano il pollice o si mangiano le unghie hanno meno probabilita' di sviluppare sensibilita' allergiche. E quelli che hanno entrambe le "cattive abitudini" hanno ancora meno probabilita' di essere allergici a cose come ad acari della polvere, erba, gatti, cani, cavalli o funghi dispersi nell'aria. Queste sono le conclusioni di uno studio della Dunedin School of Medicine, in Nuova Zelanda, e della McMaster University, in Canada. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Pediatrics. I ricercatori hanno coinvolto nello studio oltre mille bambini in Nuova Zelanda con 5, 7, 9 e 11 anni d'eta'. I ricercatori hanno misurato la sensibilizzazione atopica dei soggetti tramite test cutanei sia a 13 che a 32 anni d'eta'. I ricercatori hanno trovato che i 31 per cento del campione si succhiava il pollice o mangiava le unghie di frequente. Tra tutti i bambini di 13 anni d'eta', il 45 per cento ha mostrato una sensibilizzazione atopica, ma tra quelli con una di queste abitudini, solo il 40 per cento ha avuto allergie. Questa tendenza si e' mantenuta anche in eta' adulta e non sono state rilevate differenze tra chi vive in casa con fumatori o con gatti e cani, ecc. "I nostri risultati sono coerenti con la teoria dell'igiene, secondo la quale l'esposizione precoce alla sporcizia o ai germi riduce il rischio di sviluppare allergia", hanno spiegato i ricercatori. "Anche se non e' consigliabile incoraggiare queste abitudini, ci sembra che esse abbiano un lato positivo", hanno concluso. (AGI) .

 

Torna su
Auto, d’estate guidare con le infradito può costare caro

Auto, d’estate guidare con le infradito può costare caro

Dopo incidente assicurazione può rivalersi per danni

(Di Damiano Bolognini Cobianchi)  

02 AGOSTO 201612:25

 

Auto, d’estate guidare con le infradito può costare caro © ANSA/Ansa

ROMA - Un salto in spiaggia per la tintarella o per un tuffo in mare può costare caro se ci si va in auto e si indossano infradito, zoccoli, ciabatte aperte o, addirittura, si guida a piedi nudi. In caso di incidente, infatti, l'assicurazione potrebbe rifiutarsi di pagare o, successivamente, chiedere indietro i soldi spesi per rimborsare il sinistro. Ci si potrebbe, così, ritrovare a saldare personalmente il conto di carrozzeria e meccanico della controparte e, persino, delle spese mediche. Se, poi, sul posto interviene la Polizia e sul rapporto gli agenti indicano che chi guidava indossava calzature inappropriate o era scalzo, allora il salasso è praticamente assicurato e questo sebbene dal 1993 il Codice della Strada non preveda più divieti in merito alle calzature da indossare alla guida.

Quindi in caso di controllo di una pattuglia non si rischiano sanzioni da infradito. Sempre il Codice, però, impone che siano gli stessi automobilisti a regolarsi sull'abbigliamento in modo che questi non sia d'intralcio alla guida, come risulta chiaro dalla lettura combinata degli articoli 140 e 141. A questi punti, infatti, prevede che ''gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione e che in ogni caso sia salvaguardata la sicurezza stradale'' e che ''Il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l'arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile''. In caso di incidente, quindi, il piede scivolato dai pedali per la calzatura inadeguata potrebbe essere considerata una concausa del sinistro e, appunto, per il guidatore vi potrebbero essere conseguenze economiche per il risarcimento dei danni, a meno che non abbia firmato nel contratto RC Auto la clausola di rinuncia alla rivalsa. Se, poi, a seguito dello scontro il danneggiato dovesse subire danni fisici importanti, per delle infradito si rischierebbe di rientrare nelle previsioni elencate dalla legge sull'omicidio stradale, ritiro della patente in primis.

Andare in giudizio? Se vi sono indicazioni a verbale o testimonianze di terzi sulle calzature inappropriate si rischia solo di aggiungere le spese legali a quelle per il risarcimento.

Come sottolineato sin dal lontano 1978 dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 6401 del 24/5/78): ''Lo slittamento del piede dal pedale del freno non costituisce caso fortuito, ma imperizia del conducente e quindi trattasi di condotta sicuramente colposa''. Insomma, per evitare d'estate noie alla guida senza rinunce alla comodità di girare con le infradito meglio, quindi, tenere un paio di scarpe comode sotto il sedile, così da indossarle durante la guida. Le si tengano, però, in un sacchetto chiuso, per evitare che rotolando in curva o in frenata possano finire tra i pedali e diventare, a loro volta, causa di incidente.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Meningite: Lorenzin, Ministero vigila, vaccinare bambini

Meningite: Lorenzin, Ministero vigila, vaccinare bambini

'Nel piano nazionale si consiglia vivamente di farlo'

04 agosto, 16:39

"Il Ministero sta vigilano su tutti i contatti avuti dalla ragazza. A queste persone si fa una profilassi antibiotica di due giorni". Nel nuovo Piano Nazionale Vaccini "sono consigliati anche quelli per la meningite e questo l'unico modo che si ha per difendersi, quindi si consiglia vivamente di far vaccinare di bambini". Così Ministro della Salute Beatrice Lorenzin a margine dell'incontro oggi in Conferenza delle Regioni commenta il caso di meningite che ha provocato la morte di una ragazza romana che aveva partecipato alla Giornata Mondiale della Gioventù. Il tema della meningite, "come dico da anni, è un tema molto serio", ha sottolineato. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

  •  

 

Torna su
Dieta mediterranea potente arma anti tumore

Dieta mediterranea potente arma anti tumore

Meno rischio cancro anche per quelli della testa e del collo

10 agosto, 11:14
  •  

  •  

La dieta mediterranea protegge dai tumori della testa e del collo, tra i più frequenti.

Più si è fedeli ai precetti della nostra tradizione gastronomica, più si riduce il rischio di questo cancro.

Sono i risultati di una ricerca pubblicata sull'European Journal of Cancer Prevention, svolta presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e condotta da Stefania Boccia e Gabriella Cadoni del Policlinico A. Gemelli.

I tumori della testa e del collo sono localizzati principalmente a livello della laringe, della faringe e della bocca. Nel 2015 sono stati diagnosticati in Italia circa 9.200 nuovi casi. Considerando l'intera popolazione maschile, quelli della testa e del collo sono i tumori più frequenti dopo il cancro della prostata (35.200), del polmone (29.400), del colon retto (29.100) e della vescica (21.100). Il rapporto fra maschi e femmine per questo tumore è 4 a 1. Il fumo e il consumo di alcolici sono i principali fattori di rischio. La dieta mediterranea è un modello alimentare che prevede il consumo quotidiano di cereali, frutta, ortaggi e verdura, legumi, latte e yogurt, olio di oliva; il consumo frequente di uova e alimenti quelli di origine animale (pesce e carni bianche); il consumo moderato di dolci e carne rossa. Prevede, infine, il consumo di moderate quantità di vino durante i pasti.

I ricercatori hanno analizzato le abitudini alimentari di circa 500 casi di tumore della testa e del collo e di oltre 400 soggetti senza patologie tumorali (gruppo di controllo). E' emerso che seguire la tradizionale dieta mediterranea riduce il rischio di tumori della testa e del collo: in particolare si è visto che gli individui più fedeli alla dieta mediterranea avevano un rischio di questi tumori del 50% minore rispetto agli individui meno fedeli allo stile alimentare nostrano. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Si dimezzano i limiti colesterolo cattivo, non deve superare 100

Si dimezzano i limiti colesterolo cattivo, non deve superare 100

Nuove indicazioni dai cardiologi europei. Prima il limite era fissato a 190

30 agosto, 18:46

 

Il valore di colesterolo 'cattivo' (Ldl) che tutti dovrebbero avere, indipendentemente dal rischio, non dovrebbe superare i 100. Lo raccomandano le nuove linee guida presentate al congresso della Società Europea di Cardiologia (Esc) presentate a Roma al congresso della società.

"Le nuove linee guida sanciscono che avere un target di colesterolo entro 70-100 è fondamentale, non ci sono più controversie su questo punto - spiega il presidente della Società Italiana di Cardiologia Francesco Romeo -. Questo vale per tutti, anche per quei soggetti che hanno valori di norma molto alti per ipercolesterolemia familiare". Fino ad ora le indicazioni variavano a seconda del rischio personale legato alla familiarita' alle malattie cardiache e al proprio stato di salute. Il colesterolo cosiddetto cattivo non doveva comunque mai superare i 190. "Per abbassarlo il primo fattore è l'alimentazione - spiega l'esperto -. Poi si possono usare le statine, e infine, per chi non riesce ci sono i nuovi farmaci, gli anticorpi anti PCSK9, che hanno grande potenzialità".

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Una nuova legge per la donazione e distribuzione dei farmaci

Sanità e Politica

 

Una nuova legge per la donazione e distribuzione dei farmaci

 

Entrerà in vigore il 14 settembre la legge numero 166 del 19 agosto 2016 – Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi – pubblicata il 30 agosto sulla Gazzetta Ufficiale

di Redazione Aboutpharma Online 5 settembre 2016

 

Entrerà in vigore il 14 settembre il provvedimento “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”. La legge numero 166 del 19 agosto 2016 – pubblicata il 30 agosto sulla Gazzetta Ufficiale – contiene in particolare una serie di modifiche al decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, anch’esso emanato in materia di raccolta di medicinali non utilizzati o scaduti e donazione di medicinali.

La norma in particolare sancisce che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della disposizione “dovranno essere individuate le modalità che rendono possibile la donazione di medicinali non utilizzati a organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus); e l’utilizzazione dei medesimi medicinali da parte di queste, in confezioni integre, correttamente conservati e ancora nel periodo di validità, in modo tale da garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia originarie”. Esclusi tutti i medicinali che devono essere conservati in frigorifero a temperature controllate, quelli che contengono sostanze stupefacenti o psicotrope e quelli che sono dispensabili solamente all’interno di strutture ospedaliere.

“Con il medesimo decreto – dispone la legge 166/2016 – sono definiti anche i requisiti dei locali e delle attrezzature idonei a garantirne la corretta conservazione e le procedure necessarie per garantire la tracciabilità dei lotti dei medicinali ricevuti e distribuiti. È inoltre consentita alle Onlus, la distribuzione gratuita di medicinali non utilizzati direttamente ai soggetti indigenti o bisognosi, dietro presentazione di prescrizione medica, ove necessaria, a condizione che dispongano di personale sanitario ai sensi di quanto disposto dalla normativa vigente. Gli enti che svolgono attività assistenziale sono equiparati, nei limiti del servizio prestato, al consumatore finale rispetto alla detenzione e alla conservazione dei medicinali. È vietata qualsiasi cessione a titolo oneroso dei medicinali oggetto di donazione”.

 

Torna su
Da Agenzia Usa stop a vendita saponi antibatterici

Da Agenzia Usa stop a vendita saponi antibatterici

Per quelli con triclosano e altre 18 sostanze,no prove sicurezza

05 settembre, 20:27

Stop dalla Food and Drug Administration (Fda) alla vendita negli Stati Uniti di saponi antibatterici per il lavaggio di mani e corpo, contenenti triclosano e altre 18 sostanze. Pubblicizzati come strumento per prevenire malattie e il diffondersi di infezioni, più efficace del semplice lavarsi le mani con acqua e sapone, in realtà, dice l'Agenzia Usa che regola i farmaci, per queste sostanze non è statq dimostrata la sicurezza a lungo termine di un uso giornaliero, né che sono più efficaci di acqua e normale sapone.

La decisione è contenuta in un documento appena pubblicato, spiega l'Fda sul suo sito, e alcune aziende hanno già eliminato queste sostanze dai loro prodotti. Si tratta di 19 componenti attivi, di cui i più comuni sono triclosano e triclocarban. La decisione non riguarda però i disinfettanti per le mani, salviette, o i prodotti antibatterici usati nelle strutture sanitarie. ''I consumatori possono essere indotti a pensare che i lavaggi con saponi antibatterici siano più efficaci nel prevenire la diffusione di germi, ma non ci sono prove scientifiche che siano migliori del semplice acqua e sapone.

Anzi, "alcuni dati suggeriscono che le sostanze antibatteriche possano fare più male che bene nel lungo periodo", commenta Janet Woodcock, dell'Fda. La decisione dell'agenzia federale americana è arrivata dopo che nel 2013, sulla scorta di alcuni dati che indicavano possibili rischi per la salute, come resistenza batterica ed effetti sugli ormoni con l'uso dei saponi antibatterici, aveva chiesto alle aziende produttrici di presentare nuovi dati sulla loro sicurezza ed efficacia. Dati che però non sono arrivati o sono stati insufficienti. Lavarsi le mani con l'acqua corrente e il normale sapone, conclude l'Fda, sono uno dei metodi migliori per evitare di ammalarsi ed evitare il diffondersi di batteri.

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
VACANZE, LE REGOLE D'ORO PER UN BUON RIENTRO

 

Il rientro è inoltre l'occasione per riprendere le buone abitudini:  "dallo sport all'aperitivo, fino al caffè con le amiche, gli impegni gioiosi combattono la tristezza e aiutano a non vanificare la carica positiva conquistata con le vacanze".

E poi i buoni propositi: "Per noi settembre è una sorta di Capodanno" continua Montorsi. "E' il periodo in cui inizia un nuovo anno di lavoro e si pensa già alle vacanze di Natale. E' il momento giusto per iniziare qualcosa di innovativo tutto per sè. Come quel corso che ci piaceva tanto". Ecco le regole d'oro per sopravvivere a quella che può diventare una vera e propria 'sindrome' con mal di testa, problemi digestivi, sbalzi d'umore e dolori muscolari:

TEMPO PER SE' - Se proprio non vi potete concedere uno o due giorni di  'decompressionè tra il ritorno in città e la ripresa del lavoro, ritagliatevi del tempo libero senza imbottirvi subito le giornate di impegni. Riprendete i ritmi lavorativi e di vita con gradualità, modificando qualche vecchia abitudine e mettendo subito in atto qualche buon proposito maturato nelle vacanze. Se durante le ferie avevamo qualche passatempo o hobby, cerchiamo di di non abbandonarlo del tutto.

BASTA STRAVIZI - è consigliata una dieta corretta e bilanciata dopo gli eccessi delle vacanze, moderazione su alcol e fumo 

PENSIERI POSITIVI - Evitate di alimentare le vostre ansie con pensieri negativi e concentratevi su pensieri positivi. è importante darsi degli obiettivi precisi per ottimizzare il proprio tempo e le proprie energie. Mantenete i contatti con le persone conosciute in vacanza.

CURA DEL CORPO - In vacanza vi siete abituati al movimento, non smettete!  Fate sport ed attività fisica, con un po' di jogging e magari iscrivendovi a una palestra o a una piscina. Cercate di riprendere un sonno regolare con le necessarie ore di riposo notturno.

STARE ALL'ARIA APERTA - Passegiate e cene all'aperto sono consigliate per non perdere le sane abitudine della vacanze, evitate di sprofondarvi sul divano e davanti alla tv appena tornati a casa.

IL PROSSIMO VIAGGIO - Cominciate a programmare una nuova vacanza, anche solo un weekend lungo per guardare avanti con fiducia e non voltarsi troppo indietro a rimpiangere l'ultima vacanza. (AGI) 

 

Torna su
Zika, negli Usa test molecolari su sangue donato. Iss: in Italia misure di prevenzione già sufficienti

Zika, negli Usa test molecolari su sangue donato. Iss: in Italia misure di prevenzione già sufficienti

Il Centro nazionale sangue spiega in un comunicato le ragioni che hanno spinto l’Fda a rafforzare la prevenzione e chiarisce la situazione italiana, dove per l’assenza di casi autoctoni il livello di allarme rimane più basso


Queste ultime sono basate sul rafforzamento della sorveglianza anamnestica del donatore (con particolare riferimento ai viaggi) e sull’applicazione del criterio di sospensione temporanea per i donatori che abbiano soggiornato nelle aree dove si sono registrati casi autoctoni di infezione o che riferiscano un rapporto con partner sessuale a rischio di infezione da Zika virus oppure con infezione probabile o confermata”.

Negli Stati Uniti, contro la minaccia del virus Zika, la Food and Drug Administration (Fda) chiede il rafforzamento delle misure per prevenire la trasmissione attraverso le donazioni di sangue, raccomandando l’esecuzione del del test molecolare (Nucleic Acid Testing – NAT). Una precauzione che in Italia – secondo il Centro nazionale sangue (Cns) che fa capo all’Istituto superiore di sanità (Iss) – non è necessaria in quanto il nostro Paese è “da considerarsi area non endemica” poiché non sono stati registrati casi autoctoni d’infezione.

“Sulla base della situazione epidemiologica attuale ed in linea con quanto raccomandato dall’European centre for disease prevention and control (Ecdc) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns – confermiamo la validità delle misure di prevenzione della trasmissione trasfusionale dell’infezione da Zika virus già introdotte in Italia. Queste ultime sono basate sul rafforzamento della sorveglianza anamnestica del donatore (con particolare riferimento ai viaggi) e sull’applicazione del criterio di sospensione temporanea per i donatori che abbiano soggiornato nelle aree dove si sono registrati casi autoctoni di infezione o che riferiscano un rapporto con partner sessuale a rischio di infezione da Zika virus oppure con infezione probabile o confermata”.

Diversa la situazione negli Stati Uniti, dove a causa del crescente numero di casi di infezione acquisiti localmente in alcune aree (Florida, Puerto Rico, American Samoa, U.S. Virgin Islands), è aumentato il livello del rischio di trasmissione di questo virus. “Per questo motivo, l’Fda ha raccomandato l’esecuzione sulle donazioni di sangue ed emocomponenti ad uso trasfusionale autorizzando le banche del sangue americane ad utilizzare test non ancora completamente validati per la qualificazione biologica del sangue donato”, spiega una nota diffusa da Iss e Cns.

 

 

Torna su
Un italiano su cinque è scettico sulla sicurezza dei vaccini

Sanità e Politica

Un italiano su cinque è scettico sulla sicurezza dei vaccini

A dirlo è una ricerca pubblicata sulla rivista EBioMedicine, condotta su un campione di quasi 66mila persone in 67 Paesi. A livello globale, il 12% della popolazione li giudica poco sicuri. Francesi in testa con il 41%

di Redazione Aboutpharma Online 9 settembre 2016 

 

In Italia circa il 20% della popolazione non crede alla sicurezza dei vaccini. Quasi il doppio della media globale (12%) e la metà rispetto alla Francia, che con il 41% è il Paese con il più alto tasso di scetticismo al mondo. È la fotografia che emerge da una ricerca condotta da esperti del Vaccine Confidence Project presso la London School of Hygiene & Tropical Medicine, in collaborazione con l’Imperial College di Londra e la National University of Singapore. I risultati – che riguardano non solo la sicurezza, ma anche l’importanza, l’efficacia e la compatibilità con le diverse fedi religiose – sono stati pubblicati nei giorni scorsi sulla rivista EBioMedicine.

Nel nostro Paese, di fronte all’affermazione “i vaccini sono sicuri”, il 5,7% dei rispondenti si è detto “fortemente in disaccordo”, mentre il 14,9% “tendenzialmente in disaccordo”. In totale gli scettici sono poco più del 20%, mentre il 72% è convinto del contrario e circa il 7% risponde “non so”.

Dall’analisi emerge un primato negativo per l’Europa: si trovano nel Vecchio Contenente ben sette dei dieci Paesi con il tasso più alto di scetticismo sulla sicurezza delle vaccinazioni, tra cui Bosnia Erzegovina (36%), Russia (28%), Grecia e Ucraina (25%). Una “posizione sconsiderata” che alimenta i non pochi casi di focolai di malattie prevenibili col vaccino come il morbillo, sottolineano gli autori dell’indagine. Nella top ten anche Mongolia (27%) e Giappone (25%).

 

Torna su
Quasi 23mila medici 'a lezione' per parlare con pazienti

Quasi 23mila medici 'a lezione' per parlare con pazienti

Da Fnomceo un corso a distanza per migliorare relazione di cura

16 settembre, 12:56

 

Sempre più medici a lezione per imparare a parlare meglio con i pazienti. "Sono quasi 23mila, in un solo anno, quelli che hanno aderito al corso di formazione continua a distanza che abbiamo organizzato per far apprendere al meglio le tecniche comunicative col paziente e la sua famiglia". A spiegarlo all'ANSA è Roberta Chersevani, presidente della Federazione dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Fnomceo.

Dialogo, empatia, scambio, relazione. Sono le chiavi di volta per migliorare la comunicazione tra medico e paziente, esigenza sempre più sentita dagli uni come dagli altri. A sancire che "il tempo di comunicazione è tempo di cura" è lo stesso codice deontologico medico. Non sempre però ci si riesce, a volte per mancanza di tempo, altre per mancanza di sensibilità, altre ancora per mancanza di tecniche. Quando invece avviene, le ricadute positive sono molte. "Una buona relazione aiuta a sviluppare un rapporto di fiducia tra medico e paziente - spiega Chersevani - e se il paziente si fida del medico è anche più predisposto a seguirne le indicazioni terapeutiche e meno incline a una relazione conflittuale, che può sfociare in un aumento anche delle denunce. In ultimo, una buona comunicazione riduce l'impatto della medicina difensiva che ha un costo altissimo per la sanità pubblica". Nello, specifico a giugno 2015 a giugno 2016, ben 22.700 medici hanno fatto il primo modulo del corso a distanza organizzato insieme al Ministero della Salute. 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Fondazione Gimbe: “Basta tagli, è arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani”

Sanità e Politica

Fondazione Gimbe: “Basta tagli, è arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani”

Il presidente Cartabellotta: “Di fronte al Pil che cresce meno del previsto e a un sistema sanitario ormai allo stremo, ostinarsi a utilizzare la sanità come un bancomat al portatore è da parte del Governo una scelta autodistruttiva"

di Redazione Aboutpharma Online 19 settembre 2016

 

È arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani. A lanciare il monito al Premier Matteo Renzi e al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan è la Fondazione Gimbe, il cui presidente, Nino Cartabellotta, afferma: “Di fronte al Pil che cresce meno del previsto e a un sistema sanitario ormai allo stremo, ostinarsi a utilizzare la sanità come un bancomat al portatore è da parte del Governo una scelta autodistruttiva. Perché piuttosto non giocare la carta della tutela della salute, offrendo a 60 milioni di cittadini un segnale concreto di voler finalmente rimettere al centro dell’agenda politica il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e l’intero sistema di welfare? Perché anzi non investire più dei 2 miliardi di euro previsti, parametrando l’incremento del finanziamento pubblico con la capacità delle Regioni di recuperare risorse da sprechi e inefficienze?”.

Ancora una volta, alla vigilia della Legge di Stabilità, le stime sul finanziamento del Ssn vengono progressivamente riviste al ribasso dalle irrealistiche previsioni del Def 2016, l’incremento è sceso ai 2 miliardi di euro richiesti dalle Regioni e promessi dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sino a una ulteriore riduzione ipotizzata alla luce delle ultime stime sul Pil rese pubbliche dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – si legge in una nota Gimbe – Il Premier Renzi ha immediatamente smentito l’ipotesi di nuovi tagli, senza tuttavia fornire alcuna certezza sull’entità delle risorse che il Governo metterà sul piatto nella Legge di Stabilità, mentre la Lorenzin ribadisce la certezza dei 113 miliardi di euro per il 2017.

“In questo contesto di progressivo definanziamento della sanità pubblica – continua Cartabellotta – accanto al crescente disagio di cittadini, pazienti, professionisti e operatori sanitari si sono consolidate inequivocabili evidenze sulle diseguaglianze regionali, sulla scarsa qualità dell’assistenza, sulle difficoltà di accesso alle prestazioni, sulla rinuncia dei cittadini alle cure e, per la prima volta in Italia, si è ridotta l’aspettativa di vita”.

Tagli e mancati aumenti hanno fatto rotolare l’Italia sempre più giù nel confronto con gli altri Paesi: la percentuale del Pil destinata alla sanità è inferiore alla media dei paesi Ocse; la spesa sanitaria pubblica è inferiore a quella di Finlandia, Regno Unito, Francia, Belgio, Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Olanda; tra i Paesi del G7 siamo ultimi per spesa pubblica e spesa totale, ma secondi solo agli Usa per spesa out-of-pocket. “Questi dati – continua il presidente Gimbe – testimoniano che negli anni, per legittime esigenze di finanza pubblica, i Governi hanno progressivamente ridotto il finanziamento del Ssn e scaricato la spesa privata sui cittadini, ignorando le raccomandazioni dell’Ocse che richiamava il nostro Paese a garantire che gli sforzi in atto per contenere la spesa sanitaria non intaccassero la qualità dell’assistenza”.

 

Torna su
Vicino l'addio a ricette rosse, in Italia l'80% è digitale

Vicino l'addio a ricette rosse, in Italia l'80% è digitale

Almeno 250mln risparmi annui per il Ssn e vantaggi per cittadini

25 settembre, 16:35

 

Chi prima chi dopo, chi più velocemente e chi a stento, tutte le Regioni hanno ormai introdotto la ricetta elettronica, portando in Italia la quota delle prescrizioni digitali all'80%. Tanto che l'addio alle ricette rosse potrebbe diventare realtà entro fine 2016, sostituite da un semplice promemoria cartaceo accompagnato da un codice digitale. Un risultato che porterà milioni di risparmi alla sanità pubblica, anche se difficili da calcolare. "Se si considera che in un anno di impegnative per farmaci se ne fanno circa 600 milioni e che ognuna costa 40 centesimi solo per la stampa e la carta fornita dal Poligrafico di Stato (con filigrana antifalsificazione), il risparmio per il solo 2017 potrebbe essere di almeno 250 milioni. A cui aggiungere i risparmi nel trasporto per portare i ricettari da Roma verso il resto d'Italia e quelli che derivano dal controllo informatizzato delle ricette al posto di quello manuale", chiarisce all'ANSA Daniele D'angelo, direttore di Promofarma, società di informatica di Federfarma.

"Questo traguardo costituisce un grande risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale, ma anche per gli italiani - sottolinea la presidente di Federfarma Annarosa Racca - perché la ricetta digitale vale su tutto il territorio del Paese.

Quindi i cittadini possono andare con l'impegnativa del proprio medico in qualsiasi farmacia italiana e avere il farmaco dispensato, pagando il ticket della propria regione di appartenenza. Spesso la gente ancora non lo sa".

In base agli ultimi dati di Promofarma, relativi a luglio, la media italiana di ricette digitali rispetto al totale di quelle emesse è del 77%. Le regioni però non procedono affatto di pari passo, ma con qualche sorpresa rispetto al solito. In cima alla classifica delle virtuose, infatti, troviamo la Campania e il Veneto con l'89,5% delle ricette dematerializzate, seguite da Molise (88,4%) e Sicilia (87,8%). In coda la Calabria (26,7%) e la provincia autonoma di Bolzano (2,6%) partite per ultime, rispettivamente a luglio e giugno, ma che negli ultimi due mesi hanno già fatto molti progressi. "Visto che i dati sono relativi a luglio, pensiamo sia realistico arrivare al 90% di ricette elettroniche in tutta Italia entro fine anno", commenta D'Angelo. Questo infatti era l'obiettivo previsto dall'Agenda Digitale, "perché anche quando il sistema sarà completamente a regime resterà sempre una quota pari a circa il 10% di farmaci per i quali continuerà ad essere utilizzata la ricetta rossa, come per i farmaci in distribuzione per conto e quelli contenenti sostanze psicotrope''.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Contraffazione dei farmaci: all’Europa costa 10,2 miliardi di euro all’anno

Sanità e Politica

 

Contraffazione dei farmaci: all’Europa costa 10,2 miliardi di euro all’anno

 

A stimare le vendite perse per il comparto è l'Ufficio europeo per la Proprietà Intellettuale (Euipo) nella relazione "Il costo economico della violazione dei diritti di proprietà intellettuale (Dpi) nel settore farmaceutico" pubblicata oggi. Per l'Italia le perdite sarebbe di oltre 1,59 mld (5% delle vendite) e di 3.945 posti di lavoro diretti

di Redazione Aboutpharma Online 29 settembre 2016

 

Ogni anno il 4,4 % delle vendite legittime di prodotti farmaceutici sfuma in Europa a causa della contraffazione. Mancate vendite che si traducono in una perdita di 10,2 miliardi di euro per l’Europa e di 37.700 posti di lavoro nel settore farmaceutico. Un bilancio negativo a cui si aggiungono altri 53.200 posti, prendendo in considerazione anche gli effetti a catena anche sugli altri altri settori dell’economia Ue. A stimare l’impatto economico della contraffazione farmaceutica in Europa è una nuova relazione dell’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (Euipo), pubblicata oggi, dal titolo “Il costo economico della violazione dei diritti di proprietà intellettuale (Dpi) nel settore farmaceutico“.
Secondo le stime contenute nella pubblicazione, le mancate vendite del settore farmaceutico causerebbero in Italia ogni anno perdite fino a 1,59 miliardi di euro, pari al 5% delle vendite dell’industria italiana dei medicinali, cui si aggiunge la perdita di 3.945 posti di lavoro diretti. La perdita delle vendite si attesterebbe a 2,9% per la Germania (più di 1 miliardo), 3% per la Francia (oltre un miliardo), 5,9% per la Spagna (1,17 miliardi) e 3,3% (605 milioni) per il Regno Unito.In termini di entrate pubbliche totali, nell’Ue-28 la perdita annuale complessiva dovuta ai farmaci contraffatti è stimata in 1,7 miliardi di euro tra imposte sul reddito delle famiglie, contributi previdenziali e prelievo fiscale sulle imprese.
“Sappiamo, in base alle analisi svolte dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la falsificazione riguarda sia i farmaci generici sia i medicinali innovativi  – ha dichiarato António Campinos, direttore esecutivo dell’Euipo – e interessa prodotti che vanno dagli antitumorali agli antidolorifici di costo modico. I medicinali contraffatti possono essere tossici e costituire un grave pericolo per la salute. La nostra relazione segnala anche pesanti ripercussioni sull’economia e sui posti di lavoro. L’obiettivo che ci proponiamo con i nostri dati e i nostri studi, basati su elementi oggettivi, è quello di aiutare i decisori politici nell’elaborazione di misure con cui contrastare la contraffazione dei farmaci”.
Euipo è un’agenzia decentrata dell’Unione europea con sede ad Alicante, in Spagna, che gestisce la registrazione dei marchi dell’Unione europea e dei disegni o modelli comunitari registrati e da giugno del 2012 ’Osservatorio europeo sulle violazioni dei diritti di proprietà intellettuale. La relazione odierna è la nona di una
serie di studi effettuati dall’Euipo in merito all’impatto economico della contraffazione nei settori industriali dell’Ue.

IL REPORT

 

Torna su
Hiv scomparso del tutto in un uomo grazie a una nuova terapia

Medicina scienza e ricerca

 

Hiv scomparso del tutto in un uomo grazie a una nuova terapia

 

Il trattamento combina l'uso delle terapie antiretrovirali standard con un farmaco che riattiva il virus dormiente nel sangue, insieme a un vaccino che induce il sistema immunitario a distruggere le cellule infette. È stato testato su 50 persone nel Regno Unito e nella prima persona che ha completato la cura il virus non è più rilevabile nel sangue, anche se il risultato definitivo del test non arriverà prima di cinque anni

di Redazione Aboutpharma Online 3 ottobre 2016

virus hiv

È ancora presto per parlare di vittoria, ma il primo grande passo verso la cura completa dell’Hiv è stato fatto. L’infezione, mortale fino ad appena 35 anni fa, oggi grazie alle più recenti (e costose) terapie antiretrovirali può essere gestita come una qualsiasi malattia cronica. Quello che stanno provando a fare cinque università del Regno Unito, come riporta il Guardian, è debellare del tutto il virus, obiettivo in cui tutti finora hanno fallito. L’Università di Oxford, Cambridge, l’Imperial College, l’University College London e il King’s College di Londra hanno unito le forze ­– con il supporto del National Health Service (Nhs) – e ideato una terapia, ancora del tutto sperimentale, che mette insieme la terapia antiretrovirale – in grado di impedire al virus di replicarsi ma non di sradicarlo completamente – un farmaco in grado di riattivare il virus dormiente e infine un vaccino che induce il sistema immunitario a distruggere le cellule infette. La terapia in sostanza funziona in due fasi: nella prima il vaccino che aiuta l’organismo a riconoscere le cellule infette e a eliminarle; nella seconda, un farmaco chiamato vorinostat attiva le cellule virali dormienti in modo che possano essere captate e combattute dal sistema immunitario. Ed è proprio questa seconda parte che, se si verificherà completamente, potrebbe rappresentare l’ottenimento della prima cura completa contro l’Hiv: finora infatti sono state proprio le tracce di virus nascoste a riuscire a sfuggire ai trattamenti con farmaci antiretrovirali e a rappresentare la sfida principale da vincere.

Per ora sono stati sottoposti a sperimentazione 50 pazienti, di cui un uomo di 44 anni che non presenta più tracce dell’infezione nel sangue. “Sarebbe bello se questa cura fosse un successo – ha spiegato alla stampa l’uomo – il mio ultimo test del sangue è stato effettuato un paio di settimane fa e non c’erano livelli di virus rilevabili. Ho preso parte al trial per aiutare anche gli altri come me. Sarebbe un risultato enorme se, dopo tutti questi anni di prove, si trovasse davvero una cura. Il fatto che io faccia parte di questo tutto per me è incredibile”.

“Si tratta di uno dei primi seri tentativi di una cura completa per l’Hiv – ha dichiarato Mark Samuels, direttore del National Institute for Health Research – si sta esplorando la reale possibilità di curare l’infezione, una sfida enorme. È ancora presto per il raggiungimento dell’obiettivo, ma si tratta di un notevole progresso”.   “Questa terapia è stata progettata specificamente per cancellare dal corpo di tutti i segni di virus Hiv, compresi quelli dormienti” ha spiegato Sarah Fidler, consulente medico dell’Imperial College di Londra. “Ha funzionato in laboratorio e ci sono buone prove sugli esseri umani, ma dobbiamo sottolineare che siamo ancora molto lontani da qualsiasi terapia reale. Continueremo con i test medici per i prossimi cinque anni”.

Nel 2013 aveva suscitato molte speranze il cosiddetto “Mississippi baby”, una bambina nata sieropositiva curata aggressivamente fin dalle prime ore di vita, ma anche in questo caso il virus, che sulle prime sembrava sparito, è tornato qualche mese dopo aver interrotto il trattamento. Lo scorso anno i medici del Necker di Parigi hanno invece presentato il caso di una diciottenne anch’essa nata sieropositiva e curata con la terapia antiretrovirale fino ai sei anni. Nel sangue della ragazza, hanno spiegato i medici pur restando molto cauti sulle prospettive, il virus non è rilevabile ormai da 12 anni.

 

Torna su
Pronto soccorso al collasso, in attesa anche oltre 48 ore

Pronto soccorso al collasso, in attesa anche oltre 48 ore

Tdm-Simeu, solo in 13% strutture spazi per malati terminali

06 ottobre, 14:55

 

ROMA - Sovraffollamento, tempi di attesa per il ricovero in reparto che possono superare le 48 ore, adeguata attenzione alla terapia del dolore solo in sei strutture su 10 ma in modo differente a seconda delle realtà regionali, spazi dedicati al malato in fase terminale solo nel 13% delle strutture. E' questa la fotografia sullo stato di salute dei Pronto soccorso italiani scattata dal monitoraggio presentato oggi dal Tribunale per i Diritti del Malato di Cittadinanzattiva e la Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu).

Secondo il monitoraggio, oltre due giorni di attesa per il ricovero in reparto si registrano nel 38% dei Dipartimenti di emergenza urgenza (Dea) II livello e nel 20% nei Pronto Soccorso (l'attesa è fino a 48 ore nel 40% dei Pronto soccorso). L'attesa massima è stata invece di 7 giorni (168 ore) nei reparti Osservazione breve intensiva, nuove strutture previste dal Regolamento sugli Standard qualitativi sull'assistenza ospedaliera.

E ancora: il 30% dei pazienti in pronto soccorso non ha visto preservarsi privacy e riservatezza, e la procedura di rivalutazione del dolore in tutto il percorso del paziente al pronto soccorso viene svolta da poco più del 60% delle strutture monitorate. Altro problema resta la disomogeneità della 'salute' dei Pronto soccorso a seconda delle regioni: la situazione, rileva il monitoraggio, appare infatti ''ancora oggi molto diversa fra strutture del Nord del Centro e del sud, soprattutto come conseguenza di un'organizzazione dei servizi di emergenza non ancora standardizzata sul territorio nazionale''.

Il monitoraggio fotografa 93 strutture di emergenza urgenza; dà voce a 2944 tra pazienti e familiari di pazienti intervistati; misura accessi, ricoveri e tempi di attesa di 88 strutture di emergenza urgenza. La rilevazione è stata svolta tra il 16 maggio ed il 30 novembre 2015 attraverso un questionario rivolto a familiari e pazienti. Tdm e Simeu hanno anche promosso una Carta dei Diritti al Pronto Soccorso, che definisce in otto punti i diritti irrinunciabili di tutti i cittadini, pazienti e operatori sanitari.

 

Pronto soccorso, oltre 1 italiano su 2 soddisfatto assistenza

ROMA - Oltre su due si dice soddisfatto dell'assistenza ricevuta in pronto soccorso e questo nonostante i problemi e le criticità che caratterizzano la maggioranza delle strutture di emergenza degli ospedali italiani. Il dato emerge dal monitoraggio sullo stato di salute dei pronto soccorso italiani presentato oggi da Cittadinanza Attiva insieme alla Società Italiana di Medicina-Urgenza. 

Se da un lato gli italiani intervistati denunciano varie criticità, dalle lunghe attese all'assenza del rispetto della privacy, tuttavia in oltre un caso su due si dicono ad ogni modo soddisfatti dell'assistenza ricevuta e del fatto che il pronto soccorso sia comunque una struttura sempre presente in grado di dare una risposta. Tanto che, un cittadino su tre ha affermato di essersi rivolto al pronto soccorso poiché si fida solo dell'ospedale. 

Per i cittadini, ha rilevato il coordinatore nazionale di Cittadinanzattiva, Tonino Aceti, "il pronto soccorso resta un presidio fondamentale del Servizio Sanitario Nazionale, in cui si ha una grande fiducia. Tuttavia molte e gravi sono le criticità emerse dal monitoraggio, a partire dalla scarsa trasparenza della gestione dei posti letto: addirittura, il 53% dei pronto soccorso non conosce in tempo reale i posti letto disponibili nella struttura e solo il 13% dei pronto soccorso italiani ha una funzione di 'bad management' per gestire in modo ottimale i posti letto ed evitare così attese estenuanti e sovraffollamento". 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Attenzione soggetti a rischio, consiglio anche a sanitari

Influenza: medici famiglia, sarà più pesante, vaccinatevi

Attenzione soggetti a rischio, consiglio anche a sanitari

07 ottobre, 13:43

 

ROMA - L'influenza quest'anno sarà più pesante del previsto e per questo ''è più che mai necessario vaccinarsi presto''. L'invito arriva dai medici di famiglia riuniti a Chia Laguna per il Congresso nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg). ''L'arrivo in anticipo del virus e alcune sue mutazioni minacciano infatti una sua più vasta diffusione anche nella fascia di età 50-60 anni. Per questo è più che mai consigliato vaccinarsi tra fine ottobre e primi di novembre", raccomanda Silvestro Scotti vice segretario nazionale vicario della Fimmg.

Il nuovo virus influenzale del ceppo A/H3 quest'anno minaccia di mettere in anticipo a letto sei milioni di italiani. A far prevedere un'ondata influenzale più pesante del solito sono due fattori, spiega Tommasa Maio, che è Segretario nazionale Fimmg Continuità assistenziale: ''Il primo è il largo anticipo con il quale quest'anno, già a fine agosto, è stato isolato il virus in un bambino nato in Marocco e proveniente dalla Libia. Fatto questo che ne prefigura una più ampia diffusione, soprattutto tra le persone non ancora vaccinate. In secondo luogo, i virus A/Hong Kong (H3N2) e B/Brisbane, isolati dall'Istituto superiore di sanità, contengono piccole mutazioni che predispongono a una maggiore circolazione dell'influenza. Questo perché né i bambini, né le persone a rischio che solitamente si vaccinano possiedono gli anticorpi che fungono da barriera alla malattia".

Ogni anno, le complicanze dell'influenza provocano la morte di ottomila persone, soprattutto anziani e dunque ''quest'anno - afferma Maio - è più che mai necessario vaccinarsi per tempo, soprattutto se si appartiene a una categoria a rischio: ultrasessantacinquenni, diabetici, immunodepressi, cardiopatici, malati oncologici, donne al secondo e terzo trimestre di gravidanza''. Ma la prevenzione è consigliata anche alle persone sane: il nuovo 'Calendario della vita' presentato la scorsa settimana da Fimmg, Federazione dei pediatri Fimp e Società di Igiene Siti, consiglia infatti quest'anno la vaccinazione anche per le persone sane tra i 50 e i 60 anni, che a causa della mutazione del virus saranno a breve più colpite dall'influenza.

Il vaccino è consigliato pure per i bambini sani, visto che l'influenza da 0 a 4 anni colpisce 10 volte più che tra gli anziani, ed 8 volte in più tra i 5 e i 14 anni. (ANSA).

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Disponibile in Italia un nuovo farmaco immunosoppressivo contro il rigetto post-trapianto

Disponibile in Italia un nuovo farmaco immunosoppressivo contro il rigetto post-trapianto

Si tratta di Envarsus, il medicinale di Chiesi Farmaceutici che utilizza la tecnologia MeltDose, in grado di assicurare un rilascio continuo e prolungato. La mono-somministrazione giornaliera, inoltre, facilita l’aderenza alla terapia

di Redazione Aboutpharma Online 11 ottobre 2016

 

Torna su
In una vita 3 miliardi di battiti del cuore

In una vita 3 miliardi di battiti del cuore

Il primo ad appena 16 giorni dal concepimento

12 ottobre, 16:38

 

Il primo dei tre miliardi di battiti del cuore di una vita umana media inizia presto, a 16 giorni dal concepimento. Prima di quanto si pensasse in precedenza, perché il limite era fissato a 21 giorni. E' quanto emerge da una ricerca guidata dall'Università di Oxford, nel Regno Unito, pubblicata sulla rivista eLife. Gli studiosi hanno lavorato sullo sviluppo del cuore di un topolino, scoprendo che il muscolo ha iniziato a contrarsi in una fase iniziale di sviluppo, che si forma 7 giorni e mezzo dopo il concepimento, che equivalgono a 16 giorni nell'embrione umano. Prima invece si credeva che il cuore iniziasse a battere quando il muscolo appariva come un tubo lineare, a otto giorni dal concepimento nei topolini, che nell'embrione umano equivalgono a 21. Con l'aggiunta di marcatori fluorescenti alle molecole di calcio all'interno dell'embrione animale, il team è stato in grado di osservare esattamente in quale momento il calcio da' l'impulso alle cellule del muscolo cardiaco per contrarsi e quindi diventare abbastanza coordinate per produrre un battito cardiaco.

I ricercatori hanno anche scoperto che questo inizio del battito cardiaco è essenziale perché il cuore si sviluppi correttamente e che una proteina chiamata NCX1 svolge un ruolo chiave nella generazione dei 'segnali' di calcio necessari per produrre il battito cardiaco. La speranza degli studiosi è che comprendere sempre meglio i meccanismi alla base della formazione del cuore e del battito cardiaco possa aiutare a prevenire condizioni che si presentano quando il feto si sviluppa, come le malattie congenite, che nel solo Regno Unito vengono diagnosticate in media a 4000 bimbi ogni anno.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Ricreato femore con omero donato, 1/o caso su bimbo

Ricreato femore con omero donato, 1/o caso su bimbo

A Città della Salute di Torino, dopo 2 anni di cure il piccolo paziente sta bene

13 ottobre, 11:36

 

Era affetto da un osteosarcoma primitivo, un tumore delle ossa letale, il bambino di sei anni a cui la Chirurgia oncologica ortopedica della Città della Salute di Torino ha ricostruito e sostituito il femore con un omero rovesciato, un osso di banca da donatore proveniente dalla Banca dei tessuti.

L'intervento è stato il primo in Italia su un paziente così piccolo e nella letteratura mondiale non risultano precedenti.

Il paziente, che ora ha otto anni e ha terminato le cure oncologiche, è tornato a una vita normale.

L'eccezionale intervento è stato eseguito dall'equipe di Raimondo Piana, direttore di Chirurgia oncologica ortopedica della Città della Salute di Torino.

Il bimbo era affetto da un tumore molto raro, con una incidenza di circa 150 casi all'anno in Italia. I medici hanno proceduto con l'asportazione della parte distale del femore, l'articolazione del ginocchio. L'utilizzo di un omero, in alternativa al femore, si è resa necessaria per l'età e le piccole dimensioni del ginocchio. Il tutto è stato collegato al femore del paziente con una placca e al ginocchio ricostruendo la capsula e tutti i legamenti, preservando la tibia del paziente.

I tumori dell'osso in età pediatrica sono tumori rari. Grazie ad un approccio multidisciplinare - chemioterapia, radioterapia e chirurgia - hanno una prognosi più favorevole rispetto al passato. I bambini in età evolutiva presentano inoltre la problematica riguardante la ricostruzione che deve crescere per non determinare una differenza di lunghezza delle gambe in futuro.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
Nasce Mastermind, per sconfiggere la depressione con la telemedicina

Medicina scienza e ricerca

 

Nasce Mastermind, per sconfiggere la depressione con la telemedicina

 

Sono stati trattati oltre sei mila depressi: da una prima analisi dei dati ricavati da 2845 pazienti, si rileva che il 90% ha effettuato il trattamento da casa propria e al termine il 45% non presentava più sintomi depressivi

di Redazione Aboutpharma Online 13 ottobre 2016

 

Cinquanta ricercatori di 22 centri europei provenienti da 11 paesi da ieri sono riuniti a Torino per il coordinamento del “Progetto europeo Mastermind per la cura della depressione con strumenti di Telemedicina”. Il progetto ha comportato il trattamento di oltre 6.290 pazienti affetti da depressione lieve o moderata di Danimarca, Groenlandia, Germania, Estonia, Olanda, Turchia, Spagna, Scozia, Galles, Norvegia, oltre all’Italia che ha partecipato con i centri dell’USSL di Treviso, il CSI Piemonte e l’ASL TO3. Da una prima analisi dei dati ricavati da 2845 pazienti, si rileva che il 90% ha effettuato il trattamento da casa propria e al termine il 45% non presentava più sintomi depressivi. Nel 30% dei casi il trattamento non è stato completato per questioni tecniche determinate dalla connessione o dalla poca familiarità dello strumento. Nei centri italiani sono stati trattati circa 300 pazienti con lo strumento di terapia cognitivo comportamentale computerizzata “I-Fight Depression” (Io combatto la depressione). Il periodo di arruolamento dei pazienti in Piemonte è durato un anno (settembre 2015- settembre 2016) durante il quale i pazienti affetti da depressione lieve o moderata segnalati dai medici sono stati indirizzati ai ricercatori del progetto MasterMind dell’ASL TO3. Durante tutto il periodo i pazienti hanno potuto usufruire del supporto psicologico degli operatori dell’ASL TO3 via e-mail, via video conferenza o direttamente con appuntamenti programmati. Il gruppo di progetto del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL TO3- coordinato dal dottor Enrico Zanalda- ha trattato 156 pazienti con la psicoterapia cognitivo comportamentale computerizzata, di cui 61 anche con la videoconferenza.

 

Torna su
Nasce Mastermind, per sconfiggere la depressione con la telemedicina

Medicina scienza e ricerca

 

Nasce Mastermind, per sconfiggere la depressione con la telemedicina

 

Sono stati trattati oltre sei mila depressi: da una prima analisi dei dati ricavati da 2845 pazienti, si rileva che il 90% ha effettuato il trattamento da casa propria e al termine il 45% non presentava più sintomi depressivi

di Redazione Aboutpharma Online 13 ottobre 2016

 

Cinquanta ricercatori di 22 centri europei provenienti da 11 paesi da ieri sono riuniti a Torino per il coordinamento del “Progetto europeo Mastermind per la cura della depressione con strumenti di Telemedicina”. Il progetto ha comportato il trattamento di oltre 6.290 pazienti affetti da depressione lieve o moderata di Danimarca, Groenlandia, Germania, Estonia, Olanda, Turchia, Spagna, Scozia, Galles, Norvegia, oltre all’Italia che ha partecipato con i centri dell’USSL di Treviso, il CSI Piemonte e l’ASL TO3. Da una prima analisi dei dati ricavati da 2845 pazienti, si rileva che il 90% ha effettuato il trattamento da casa propria e al termine il 45% non presentava più sintomi depressivi. Nel 30% dei casi il trattamento non è stato completato per questioni tecniche determinate dalla connessione o dalla poca familiarità dello strumento. Nei centri italiani sono stati trattati circa 300 pazienti con lo strumento di terapia cognitivo comportamentale computerizzata “I-Fight Depression” (Io combatto la depressione). Il periodo di arruolamento dei pazienti in Piemonte è durato un anno (settembre 2015- settembre 2016) durante il quale i pazienti affetti da depressione lieve o moderata segnalati dai medici sono stati indirizzati ai ricercatori del progetto MasterMind dell’ASL TO3. Durante tutto il periodo i pazienti hanno potuto usufruire del supporto psicologico degli operatori dell’ASL TO3 via e-mail, via video conferenza o direttamente con appuntamenti programmati. Il gruppo di progetto del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL TO3- coordinato dal dottor Enrico Zanalda- ha trattato 156 pazienti con la psicoterapia cognitivo comportamentale computerizzata, di cui 61 anche con la videoconferenza.

 

Torna su
Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

Medicina scienza e ricerca

 

Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

 

Affiancato al Psa (antigene prostatico specifico), potrebbe portare a una diagnosi più precisa del tumore arrivando a evitare quasi il 60% delle biopsie

di Redazione Aboutpharma Online 17 ottobre 2016

Un nuovo test da affiancare al Psa (antigene prostatico specifico), per diagnosticare con più precisione il tumore alla prostata ed evitare biopsie ed esami invasivi inutili. È l’ultima novità nel campo dell’urologia, presentata al congresso della Società italiana di urologia (Siu), in corso a Venezia. Il 4K Score – questo il nome – è un test del sangue attraverso cui vengono dosate quattro callicreine, molecole della famiglia del Psa e che secondo un recente studio potrebbe evitare fino al 60% delle biopsie attualmente realizzate in seguito all’esame del Psa.  “Il nuovo test può aumentare la capacità diagnostiche dell’attuale test del Psa – spiega Vincenzo Mirone, segretario generale Siu – vengono misurati i livelli del Psa totale, il Psa libero, il Psa intatto e la callicreina 2, e i dati raccolti, associati ai risultati della visita digito-rettale e alla valutazione della familiarità per tumore alla prostata, consentono di individuare la percentuale di rischio di avere un carcinoma aggressivo prima di eseguire una biopsia. Uno studio condotto su oltre 740 uomini nell’ambito della più ampia indagine europea sul carcinoma prostatico, sottoposti a biopsia ma non a test del Psa, ha dimostrato che il 60% delle biopsie si sarebbe potuto evitare sottoponendosi al 4K Score”.

Il test per il momento non è stato ancora validato per l’uso su vasta scala e viene eseguiti solo in alcuni laboratori all’estero, di cui due in Europa. Il più vicino all’Italia è in Spagna e inviare il campione e ricevere il risultato in 4-5 giorni costa 300 euro. “L’ulteriore precisione fornita dall’esame potrebbe aiutare a superare i limiti dell’analisi del solo Psa totale – precisa Mirone – e individuare con maggior chiarezza se il tumore c’è, e soprattutto se sia o meno aggressivo”. Molti tumori infatti sono “indolenti” e non serve intervenire; mentre quelli più pericolosi possono essere riconosciuti grazie alla biopsia, che però è un esame invasivo. Il 4K Score permette di avere maggiori elementi sul tipo di tumore in esame, individuando i pazienti in cui la probabilità di una forma aggressiva è più alta. In questo senso il test permette una selezione più ristretta dei pazienti da sottoporre a biopsia, riuscendo a evitarla in molti casi con un risparmio di sofferenze e di risorse economiche.

I candidati ideali per il 4K Score sono i pazienti che non hanno mai fatto una biopsia e hanno una visita digito-rettale non sospetta ma un Psa costantemente elevato di cui non si riesce a spiegare l’origine, oppure chi ha una biopsia negativa associata a un Psa elevato e una visita digito-rettale dubbia, per capire se sia opportuno sottoporsi di nuovo al test invasivo.

In attesa che il futuro prenda piede, gli urologi sottolineano l’importanza del “vecchio” test del Psa evidenziando che non è solo un marcatore utile per individuare il tumore alla prostata, ma anche un indicatore dell’ipertrofia prostatica benigna. “Chi è contrario all’uso del Psa – conclude Mirone –  sottolinea come un uomo su 5 abbia questo valore al di sopra del range di normalità. Certamente il test da solo non può bastare e va saputo interpretare in modo corretto, altrimenti il rischio è trovare neoplasie indolenti che non daranno mai problemi clinici e aggredirle con interventi che potrebbero essere evitati. Tuttavia c’è sostanziale accordo sul fatto che un buon programma di prevenzione preveda una valutazione del Psa di base, seguita da test ripetuti con una periodicità decisa sulla base delle caratteristiche del singolo soggetto. Il primo test è consigliabile attorno ai 40 anni per chi ha avuto un padre o un fratello con tumore, mentre si può ritardare a circa 50 anni se non c’è familiarità per il carcinoma prostatico”.

Torna su
Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

Medicina scienza e ricerca

 

Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

 

Affiancato al Psa (antigene prostatico specifico), potrebbe portare a una diagnosi più precisa del tumore arrivando a evitare quasi il 60% delle biopsie

di Redazione Aboutpharma Online 17 ottobre 2016

 

Un nuovo test da affiancare al Psa (antigene prostatico specifico), per diagnosticare con più precisione il tumore alla prostata ed evitare biopsie ed esami invasivi inutili. È l’ultima novità nel campo dell’urologia, presentata al congresso della Società italiana di urologia (Siu), in corso a Venezia. Il 4K Score – questo il nome – è un test del sangue attraverso cui vengono dosate quattro callicreine, molecole della famiglia del Psa e che secondo un recente studio potrebbe evitare fino al 60% delle biopsie attualmente realizzate in seguito all’esame del Psa.  “Il nuovo test può aumentare la capacità diagnostiche dell’attuale test del Psa – spiega Vincenzo Mirone, segretario generale Siu – vengono misurati i livelli del Psa totale, il Psa libero, il Psa intatto e la callicreina 2, e i dati raccolti, associati ai risultati della visita digito-rettale e alla valutazione della familiarità per tumore alla prostata, consentono di individuare la percentuale di rischio di avere un carcinoma aggressivo prima di eseguire una biopsia. Uno studio condotto su oltre 740 uomini nell’ambito della più ampia indagine europea sul carcinoma prostatico, sottoposti a biopsia ma non a test del Psa, ha dimostrato che il 60% delle biopsie si sarebbe potuto evitare sottoponendosi al 4K Score”.

Il test per il momento non è stato ancora validato per l’uso su vasta scala e viene eseguiti solo in alcuni laboratori all’estero, di cui due in Europa. Il più vicino all’Italia è in Spagna e inviare il campione e ricevere il risultato in 4-5 giorni costa 300 euro. “L’ulteriore precisione fornita dall’esame potrebbe aiutare a superare i limiti dell’analisi del solo Psa totale – precisa Mirone – e individuare con maggior chiarezza se il tumore c’è, e soprattutto se sia o meno aggressivo”. Molti tumori infatti sono “indolenti” e non serve intervenire; mentre quelli più pericolosi possono essere riconosciuti grazie alla biopsia, che però è un esame invasivo. Il 4K Score permette di avere maggiori elementi sul tipo di tumore in esame, individuando i pazienti in cui la probabilità di una forma aggressiva è più alta. In questo senso il test permette una selezione più ristretta dei pazienti da sottoporre a biopsia, riuscendo a evitarla in molti casi con un risparmio di sofferenze e di risorse economiche.

I candidati ideali per il 4K Score sono i pazienti che non hanno mai fatto una biopsia e hanno una visita digito-rettale non sospetta ma un Psa costantemente elevato di cui non si riesce a spiegare l’origine, oppure chi ha una biopsia negativa associata a un Psa elevato e una visita digito-rettale dubbia, per capire se sia opportuno sottoporsi di nuovo al test invasivo.

In attesa che il futuro prenda piede, gli urologi sottolineano l’importanza del “vecchio” test del Psa evidenziando che non è solo un marcatore utile per individuare il tumore alla prostata, ma anche un indicatore dell’ipertrofia prostatica benigna. “Chi è contrario all’uso del Psa – conclude Mirone –  sottolinea come un uomo su 5 abbia questo valore al di sopra del range di normalità. Certamente il test da solo non può bastare e va saputo interpretare in modo corretto, altrimenti il rischio è trovare neoplasie indolenti che non daranno mai problemi clinici e aggredirle con interventi che potrebbero essere evitati. Tuttavia c’è sostanziale accordo sul fatto che un buon programma di prevenzione preveda una valutazione del Psa di base, seguita da test ripetuti con una periodicità decisa sulla base delle caratteristiche del singolo soggetto. Il primo test è consigliabile attorno ai 40 anni per chi ha avuto un padre o un fratello con tumore, mentre si può ritardare a circa 50 anni se non c’è familiarità per il carcinoma prostatico”.

 

Torna su
Visite, farmaci, ospedali e Asl: disagi per 4 pazienti su 10

Visite, farmaci, ospedali e Asl: disagi per 4 pazienti su 10

Tre su 4 vorrebbero trovare in farmacia medicinali e presidi

 

22 ottobre, 18:49

 

ROMA - Liste d'attesa troppo lunghe per i controlli dopo un ricovero, un'odissea avere in tempi brevi i medicinali per la terapia: per 4 pazienti italiani su dieci avere rapporti con un ospedale o una Asl territoriale per gestire la propria malattia è fonte di disagi e difficoltà. Così il 67% dei cittadini e ben il 75% (3 su 4) di coloro che hanno ha già un problema di salute accoglierebbe con sollievo il passaggio alla farmacia del territorio di molti dei servizi gestiti da Asl e ospedali, prima fra tutte la distribuzione dei medicinali erogati finora solo in ospedale.

Lo dimostra un'indagine condotta da Datanalysis su 2.000 cittadini e 500 persone con patologie croniche come diabete di tipo 2, artrite reumatoide, broncopneumopatia cronica ostruttiva, presentata a un convegno organizzato da Federfarma Servizi e Federfarma.Co. a Napoli.

Un italiano su quattro vorrebbe trovare in farmacia anche altri servizi, come una gestione integrata con ospedale e medico di famiglia, l'assistenza ad anziani, disabili e pazienti con malattie croniche, l'accesso a servizi infermieristici e fisioterapici, la possibilità di prenotare visite ed esami. La farmacia si conferma perciò un punto di riferimento essenziale, tanto che uno su tre vorrebbe un canale di comunicazione più facile e diretto, magari attraverso i social media o whatsapp.

"I distributori di farmaci e le cooperative di farmacisti sono pronti a rispondere alle esigenze e si propongono di distribuire alle farmacie territoriali anche quei farmaci e quei presidi attualmente distribuiti soltanto dalle Asl-spiega Giancarlo Esperti, direttore generale di Federfarma Servizi- grazie al nostro sistema distributivo capillare possiamo già oggi assicurare la consegna su tutto il territorio". 

 

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 

Torna su
ARRIVA L'INFLUENZA ! PREVISTI 7 MILIONI DI CASI ECCO QUALI SONO I SINTOMI

Da Agenzia AGI

 

ARRIVA L'INFLUENZA !

PREVISTI 7 MILIONI DI CASI

ECCO QUALI SONO I SINTOMI

 

di Paolo Giorgi

Roma - "Debutta" ufficialmente la stagione influenzale che secondo le previsioni metterà a letto sette milioni di italiani, due in più dell'anno scorso. Scatta da oggi il protocollo di monitoraggio InfluNet, gestito dall'Istituto Superiore di Sanità, per raccogliere le segnalazione dei casi da parte di medici di famiglia e pediatri. Terminerà ad aprile 2017 e si preannuncia una stagione "calda" per i virus: secondo gli infettivologi, mentre la scorsa stagione l'influenza è stata relativamente lieve e solo l' 8% della popolazione ha contratto l'infezione, quest'anno sarà più severa. Secondo gli esperti dell'Amcli - Associazione microbiologi clinici italiani - i due virus (A/Hong Kong e B/Brisbane) hanno subito mutazioni rispetto ai ceppi che circolavano l'anno scorso e l'immunità nei loro confronti è bassa.

I SINTOMI: TOSSE, MAL DI GOLA E FEBBRE ALTA

I sintomi sono più o meno i soliti: infezioni alla vie respiratorie, con tosse e mal di gola, febbre anche alta, mal di testa e dolori alla articolazioni. Tutte cose che la passata stagione hanno fatto passare in media sei giorni a letto a chi è stato colpito all'influenza. Ma che ogni anno, secondo stime dell'Iss, provocano la morte di ottomila persone, soprattutto anziani, per le complicazioni, come polmonite e broncopolmonite, insorte dopo aver contratto il virus. "Per questo - invita Tommasa Maio, responsabile area vaccini dell'associazione Medici di famiglia - quest'anno è più che mai necessario vaccinarsi per tempo, soprattutto se si appartiene a una categoria a rischio: ultrasessantacinquenni, diabetici, immunodepressi, cardiopatici, malati oncologici, donne al secondo e terzo trimestre di gravidanza, solo per citare quelle più numerose".

Ma non c'é solo il virus influenzale: il fatto di essere vaccinati non esclude che nei mesi freddi si possa incorrere in infezioni respiratorie anche graviin quanto altri agenti patogeni respiratori (virali e batterici) sono i responsabili di oltre il 30% degli eventi, soprattutto tra i bambini. Per la terapia dei pazienti e ai fini epidemiologici, auspicano i microbiologi, è importante che si arrivi alla precisione diagnostica che viene condotta nei laboratori di Microbiologia clinica. Da alcuni lavori di ricerca condotti presso le Microbiologie degli ospedali di Torino, Napoli, Milano, e Roma, che saranno presentati a Rimini in occasione del XLV Congresso nazionale Amcli in programma dal 6 al 9 novembre, emergono dati interessanti. Si conferma una notevole presenza di Virus respiratorio sinciziale nei bambini sotto i 5 anni (Milano e Roma); sono in crescita le infezioni causate da Metapneumovirus (Napoli); frequenti le confezioni con due virus diversi o con un virus e un batterio e purtroppo spesso ad un agente virale si associa Bordetella pertussis sia negli adulti che nei bambini (Torino, Napoli, Milano, e Roma).

L'IMPORTANZA DI VACCINARSI

"Questi studi confermano l'assoluta necessità di sottoporre a vaccinazione antipertosse i nostri bambini" ricorda Pierangelo Clerici presidente Amcli e direttore di Microbiologia dell'azienda sanitaria Ovest Milanese. "Per definire con precisione quale agente patogeno è il responsabile di una infezione respiratoria, è indispensabile ricorrere ai laboratori di microbiologia clinica che hanno a disposizione metodi sempre più accurati e a largo spettro per poter arrivare rapidamente ad una diagnosi. Una diagnosi etiologica accurata è importante non solo per la cura del paziente ma anche per sorvegliare la diffusione di questi agenti nel nostro Paese" conclude Clerici. "L'identificazione di Bordetella pertussis nei materiali di origine respiratoria prevenienti da pazienti con gravi infezioni respiratorie, che era rarissima fino a non molti anni fa, sta aumentando esponenzialmente. Si tratta di una diagnosi da fare con la massima urgenza, soprattutto se sono coinvolti bambini piccoli, per permettere la corretta terapia farmacologica" dichiara Tiziana Lazzarotto, docente di microbiologa a Bologna e componente del Direttivo Amcli. (AGI)

Torna su
In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Medicina scienza e ricerca

 

In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Una combinazione di contraccettivi ormonali da somministrare tramite iniezione è stata testata in un trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, su 320 uomini sani, con buoni risultati. Unico problema il tasso di eventi avversi: depressione e altri disturbi dell'umore

di Redazione Aboutpharma Online 28 ottobre 2016

 

Pari condizioni anche per la contraccezione. Presto infatti potrebbe essere disponibile un anticoncezionale maschile in grado di prevenire gravidanze indesiderate. Si tratta di una combinazione di contraccettivi ormonali – ancora da perfezionare – da somministrare tramite iniezione. Per ora il farmaco è stato testato in un trial clinico di fase Il coordinato da esperti di numerose università sotto la supervisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

“Lo studio – spiega Mario Philip Reyes Festin, dell’Oms – ha rilevato che è possibile somministrare un contraccettivo ormonale agli uomini per ridurre il rischio di gravidanze non pianificate nelle partner. I nostri risultati hanno confermato l’efficacia di questo metodo, già precedentemente osservata in piccoli studi”.

Il trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, ha testato la sicurezza e l’efficacia dei contraccettivi iniettabili in 320 uomini sani, fra i 18 e 45 anni d’età, tutti impegnati da almeno un anno in relazioni monogame con partner di sesso femminile dai 18 ai 38 anni. Gli uomini sono stati sottoposti a test per assicurarsi che avessero un normale numero di spermatozoi all’inizio dello studio. Ciascun volontario ha ricevuto iniezioni di 200 milligrammi di un progestinico a lunga durata d’azione chiamato noretisterone enantato e 1.000 milligrammi di un androgeno chiamato testosterone undecanoato, per 26 settimane. L’obiettivo era tentare di azzerare gli spermatozoi. Le iniezioni sono state somministrate a distanza di otto settimane, per 56 settimane in tutto. I risultati hanno confermato che gli ormoni sono efficaci nel ridurre il numero di spermatozoi a meno di 1 milione/ml entro 24 settimane in 274 dei partecipanti. Il metodo contraccettivo è stato efficace, dunque, in quasi il 96% dei volontari. Solo quattro gravidanze si sono verificate durante la fase di test di efficacia del metodo.

Gli esperti hanno però smesso di arruolare nuovi partecipanti allo studio a causa del tasso di eventi avversi, in particolare depressione e altri disturbi dell’umore. Nonostante gli effetti negativi, oltre il 75% ha riferito di essere disposto a usare questo metodo di contraccezione. “Anche se le iniezioni sono apparse efficaci nel ridurre il tasso di gravidanza, la combinazione di ormoni deve essere studiata di più per arrivare a un migliore equilibrio tra efficacia e sicurezza” ha concluso il gruppo di ricerca.

 

Torna su
In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Una combinazione di contraccettivi ormonali da somministrare tramite iniezione è stata testata in un trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, su 320 uomini sani, con buoni risultati. Unico problema il tasso di eventi avversi: depressione e altri disturbi dell'umore

moody-di-spalle

Pari condizioni anche per la contraccezione. Presto infatti potrebbe essere disponibile un anticoncezionale maschile in grado di prevenire gravidanze indesiderate. Si tratta di una combinazione di contraccettivi ormonali – ancora da perfezionare – da somministrare tramite iniezione. Per ora il farmaco è stato testato in un trial clinico di fase Il coordinato da esperti di numerose università sotto la supervisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

“Lo studio – spiega Mario Philip Reyes Festin, dell’Oms – ha rilevato che è possibile somministrare un contraccettivo ormonale agli uomini per ridurre il rischio di gravidanze non pianificate nelle partner. I nostri risultati hanno confermato l’efficacia di questo metodo, già precedentemente osservata in piccoli studi”.

Il trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, ha testato la sicurezza e l’efficacia dei contraccettivi iniettabili in 320 uomini sani, fra i 18 e 45 anni d’età, tutti impegnati da almeno un anno in relazioni monogame con partner di sesso femminile dai 18 ai 38 anni. Gli uomini sono stati sottoposti a test per assicurarsi che avessero un normale numero di spermatozoi all’inizio dello studio. Ciascun volontario ha ricevuto iniezioni di 200 milligrammi di un progestinico a lunga durata d’azione chiamato noretisterone enantato e 1.000 milligrammi di un androgeno chiamato testosterone undecanoato, per 26 settimane. L’obiettivo era tentare di azzerare gli spermatozoi. Le iniezioni sono state somministrate a distanza di otto settimane, per 56 settimane in tutto. I risultati hanno confermato che gli ormoni sono efficaci nel ridurre il numero di spermatozoi a meno di 1 milione/ml entro 24 settimane in 274 dei partecipanti. Il metodo contraccettivo è stato efficace, dunque, in quasi il 96% dei volontari. Solo quattro gravidanze si sono verificate durante la fase di test di efficacia del metodo.

Gli esperti hanno però smesso di arruolare nuovi partecipanti allo studio a causa del tasso di eventi avversi, in particolare depressione e altri disturbi dell’umore. Nonostante gli effetti negativi, oltre il 75% ha riferito di essere disposto a usare questo metodo di contraccezione. “Anche se le iniezioni sono apparse efficaci nel ridurre il tasso di gravidanza, la combinazione di ormoni deve essere studiata di più per arrivare a un migliore equilibrio tra efficacia e sicurezza” ha concluso il gruppo di ricerca.

 

Torna su
Come funziona l’effetto placebo? Trovati i neuroni responsabili

Medicina scienza e ricerca

 

Come funziona l’effetto placebo? Trovati i neuroni responsabili

Identificati, grazie alla risonanza magnetica, i neuroni che si attivano quando l’effetto placebo funziona. Valutando l'intensità di attivazione dei "neuroni placebo", gli scienziati potrebbero in futuro, predire, quali pazienti possono essere curati solo con un placebo

di Redazione Aboutpharma Online 28 ottobre 2016

 

Come funziona l’effetto placebo? Da tempo la comunità scientifica se lo chiede e di recente uno studio pubblicato su PLOS Biology ha evidenziato qualche elemento in più. Grazie al lavoro condotto dai ricercatori della Northwestern Medicine and the Rehabilitation Institute of Chicago (RIC), infatti, per la prima volta è stata localizzata nel cervello l’area in cui ha origine l’effetto placebo contro il dolore. Si tratta di una parte del “giro frontale” che con la sua attività conferisce un effetto terapeutico antidolorifico tangibile a una pillola di placebo. La scoperta apre le porte alla possibilità di eseguire una risonanza per stabilire a priori se un paziente potrà essere curato semplicemente con un placebo, nel caso in cui il suo cervello reagisca intensamente a esso.

Gli esperti hanno osservato il cervello di due gruppi di pazienti con dolore cronico al ginocchio a causa di osteoartrite. Uno dei due gruppi è stato trattato con un analgesico “finto” – un placebo – mentre agli altri è stato somministrato un vero antidolorifico. La risonanza magnetica ha mostrato che quando un paziente del gruppo placebo riferiva una riduzione significativa del dolore (quindi quando il placebo aveva funzionato bene), nel giro frontale si accendeva un gruppo di neuroni che si potrebbero quindi battezzare “neuroni del placebo antidolorifico”.

Per confermare la validità di questa scoperta, i ricercatori hanno coinvolto altri due gruppi di pazienti ed hanno studiato le reazioni del loro cervello in risposta al placebo. Solo vedendo l’intensità di attivazione dei neuroni placebo, gli scienziati hanno potuto predire con un’accuratezza del 95% quali pazienti avrebbero riferito una riduzione del dolore in seguito alla “cura finta”. In questo modo potrebbe davvero divenire possibile selezionare quei pazienti che possono essere curati anche solo con un placebo.

 

Torna su
Antibioticoresistenza, 29 mosse per evitare le infezioni durante le operazioni. Ecco le linee guida dell’Oms

Medicina scienza e ricerca

 

Antibioticoresistenza, 29 mosse per evitare le infezioni durante le operazioni. Ecco le linee guida dell’Oms

Si va da semplici precauzioni, come far sì che pazienti facciano la doccia prima di andare sotto i ferri, al modo migliore per disinfettare le mani strofinandole per bene, al consiglio di utilizzare suture antibatteriche. Gli antibiotici vanno usati prima e durante l'operazione, non dopo.

di Redazione Aboutpharma Online 3 novembre 2016

 

Ventinove mosse per evitare le infezioni da super batteri in sala operatoria e ridurle del 39% in tutto il mondo. Doccia prima dell’intervento, niente rasoio, antibiotici solo prima e dopo l’operazione. Queste sono alcune delle raccomandazioni che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha diffuso contro la proliferazione dei superbugs nelle sale operatorie. Queste linee guida in ventinove punti pubblicate ieri su The Lancet infection diseases sono state redatte da venti dei maggiori esperti mondiali in materia. Che siano dovute a interventi chirurgici, trapianti di organi, parti cesarei o protesi, le infezioni causate da batteri che penetrano nelle incisioni fatte durante le operazioni minacciano la vita di milioni di pazienti ogni anno e contribuiscono alla diffusione della temuta resistenza agli antibiotici, che sta mettendo a rischio le conquiste della medicina moderna. Nei paesi a basso e medio reddito, l’11% dei pazienti che si sottopongono a intervento chirurgico contrae infezioni, con conseguenti ricoveri più lunghi, maggiori costi medici e aumento della mortalità. Ma il problema riguarda anche i paesi ricchi: negli Stati Uniti, ad esempio, i pazienti, a causa delle infezioni post operatorie, spendono complessivamente 400 mila giorni in più in ospedale ogni anno per un costo complessivo di 900 milioni di dollari.

L’Oms vuole fare chiarezza e avviare una campagna seria contro le infezioni ospedaliere. Queste linee guida sono il primo tentativo organico, a livello internazionale, di mettere a sistema le conoscenze scientifiche sul tema. Comprendono 13 raccomandazioni per il periodo che precede l’intervento chirurgico e 16 per la prevenzione durante e dopo l’operazione. Si va da semplici precauzioni, come far sì che pazienti facciano la doccia prima di andare sotto i ferri, al modo migliore per disinfettare le mani strofinandole per bene, al consiglio di utilizzare suture antibatteriche. Rasare peli è fortemente sconsigliato e, se non si può fare a meno di tagliare i capelli, meglio usare le forbici. Una raccomandazione importante riguarda l’uso degli antibiotici. Da usare solo prima e durante l’intervento, non dopo. L’utilizzo prolungato porterebbe ad un rafforzamento dei ceppi batterici e al peggioramento dello stato clinico del paziente.

 

Torna su
Infezioni, in Italia un nuovo antibiotico contro i “super batteri”

 

 

Infezioni, in Italia un nuovo antibiotico contro i “super batteri”

Da Msd una nuova arma contro i gram-negativi resistenti ai farmaci: ceftozolano/tazebactam ha ottenuto la rimborsabilità per il trattamento di pielonefriti acute e infezioni complicate intra-addominali e delle vie urinarie

di Redazione Aboutpharma Online 10 novembre 2016

 

La guerra ai super batteri e il contrasto all’antibiotico-resistenza, che sempre più preoccupa governi e organizzazioni internazionali, può contare su un’arma in più­: arriva in Italia un nuovo antibiotico (ceftozolano/tazebactam) che aggredisce i batteri gram-negativi resistenti alle terapie già disponibili e responsabili dell’insorgenza di molte infezioni ospedaliere. È quanto ha annunciato oggi l’azienda Msd in una conferenza stampa, dopo che il farmaco (nome commerciale Zerbaxa) ha ottenuto nelle scorse settimane la rimborsabilità in classe H da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per il trattamento di infezioni intra-addominali complicate, pielonefrite acuta e infezioni complicate delle vie urinarie.

Il nuovo antibiotico, spiega l’azienda, è composto da ceftolozano, una nuova cefalosporina, e tazobactam, un inibitore delle beta-lattamasi dall’uso ben consolidato nella pratica clinica. Ceftolozano colpisce l’integrità della parete cellulare dei batteri Gram-negativi sensibili, eludendo inoltre i molteplici meccanismi di resistenza messi in atto dai patogeni, mentre tazobactam protegge ceftolozano, facendo sì che non venga inattivato da parte degli enzimi beta-lattamasi prodotti dai batteri Gram-negativi.

Oltre a garantire una risposta efficace a molte infezioni, il nuovo antibiotico – rappresentando una valida opzione per i clinici – può contribuire a preservare le terapie disponibili, razionalizzando l’uso dei farmaci carbapenemici, riducendo così il rischio di sviluppare resistenze. “E’ il primo di una serie di nuovi antibiotici – spiega Pierluigi Viale, ordinario di Malattie Infettive all’Università di Bologna – è in grado di rispondere ai criteri dell’antimicrobial stewardship: il suo spettro d’azione molto mirato, quasi chirurgico, permette di utilizzarlo nei confronti di specifici profili di resistenza massimizzando quindi l’efficacia della terapia, evitando cosi l’ulteriore selezione di specie resistenti”. Ridurre l’uso dei carbapenemici, aggiunge Carlo Tascini –  direttore della 1° Divisione di Malattie Infettive a indirizzo Neurologico dell’Ospedale Cotugno di Napoli – significa limitare l’azione “dei selettori più potenti di germi Gram-negativi multiresistenti nell’intestino dei pazienti fragili, ricoverati a lungo in ospedale”.

Da tempo i clinici segnalano l’importanza di nuove, potenti opzioni terapeutiche in grado di contrastare le infezioni causate dai batteri Gram-negativi, in rapido aumento in tutto il mondo. Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa rappresentano il 70% di tutti i patogeni Gram-negativi, causa più comune di infezioni di grande impatto clinico ed epidemiologico come le infezioni intra-addominali e le infezioni del tratto urinario. In Italia le infezioni correlate all’assistenza (ICA) colpiscono ogni anno circa 284.100 pazienti con circa 4.500-7.000 decessi.

Con il nuovo antibiotico Msd conferma l’impegno continuo nella lotta, cominciata 125 anni fa, alle malattie infettive: “La nostra ambizione è quella di essere riconosciuti come il partner di riferimento della sanità pubblica nella lotta all’antibiotico-resistenza, con la nostra offerta olistica di valore che parte dalla prevenzione attraverso i vaccini e arriva fino alla cura sia della salute umana che degli animali”, commenta Nicoletta Luppi, presidente e amministratore delegato dell’azienda.

Torna su
Papillomavirus, online le storie dei pazienti per diffondere l’importanza dei vaccini

Papillomavirus, online le storie dei pazienti per diffondere l’importanza dei vaccini

Al via il progetto “Ho una storia da raccontare” promosso dalla Favo, la federazione delle associazioni di volontariato in oncologia. Oggi 9 Regioni vaccinano gratuitamente maschi e femmine al 12esimo anno di età. Il nuovo Piano Nazionale punta a rendere omogenea l’offerta su tutto il territorio


“Ho una storia da raccontare”. Si chiama così il progetto di sensibilizzazione lanciato oggi dalla Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo), con il supporto non condizionante di Sanofi Pasteur Msd, per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della vaccinazione contro il Papillomavirus umano (Hpv). Le storie sono quelle di pazienti che hanno sperimentato sulla propria pelle l’infezione da Hpv. Testimonianze che saranno raccolte su un sito web dedicato, accanto a contenuti informativi affidabili.

Il Papillomavirus virus, spiegano i promotori dell’iniziativa, si trasmette tramite il contatto cute-cute, soprattutto attraverso i rapporti sessuali. È il secondo agente patogeno responsabile di cancro nel mondo. È causa di lesioni, condilomi, infertilità e può essere causa di varie forme di cancro, come il carcinoma del collo dell’utero o della cervice uterina, il primo tumore riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità come totalmente riconducibile a un’infezione.  “È importante sapere e far sapere che i nostri figli possono prevenire il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di tumore con una semplice vaccinazione, un piccolo gesto che si trasforma in un investimento in salute”, spiega Elisabetta Iannelli, segretario generale della Favo.

I vaccini disponibili. In Italia sono già disponibili i vaccini bivalente e quadrivalente (efficaci rispettivamente su 2 e 4 tipi di Hpv), mentre il vaccino nonovalente (contro 9 sierotipi di Hpv) sarà disponibile a breve. Se per la prevenzione secondaria del tumore del collo dell’utero esistono il Pap-test e l’Hpv-test, la vaccinazione è l’unico strumento di prevenzione primaria in grado di prevenire le lesioni precancerose e cancerose dovute al Papillomavirus e potenzialmente pericolose per la vita.

Oggi, in Friuli Venezia Giulia, Liguria, Veneto, Provincia Autonoma di Trento, Puglia, Molise, Calabria, Sardegna (ASL di Sassari e Olbia) e Sicilia, la vaccinazione anti-Hpv è offerta gratuitamente sia alle femmine che ai maschi nel 12° anno di età. Il nuovo Piano nazionale di prevenzione vaccinale 2016-2018 punta a estendere l’offerta in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale.

 

 

Torna su
Il supercomputer Watson diventa tutor per gli studenti di medicina

Medicina scienza e ricerca

Il supercomputer Watson diventa tutor per gli studenti di medicina

La tecnologia di Ibm entra all’Humanitas University: offrirà piattaforme di studio personalizzato attraverso la scelta di contenuti, simulazioni, commenti e approfondimenti basati sul livello di conoscenze del singolo studente

di Redazione Aboutpharma Online 15 novembre 2016 

Il supercomputer Watson diventa tutor degli studenti e assistente dei docenti, con la prima applicazione in Europa del cognitive computing Ibm ai percorsi di formazione di una facoltà di medicina. È quanto prevede un progetto di collaborazione sottoscritto tra Ibm, Humanitas University e Humanitas Research Hospital.

L’iniziativa prevede la creazione e la sperimentazione di un tutor Cognitivo per assistere sia i medici sia gli studenti di medicina. Alimentato da Watson Developer Cloud, il tutor offrirà piattaforme di studio personalizzato attraverso la scelta di contenuti, simulazioni, commenti e approfondimenti basati sul livello di conoscenze del singolo studente, mediante una semplice interfaccia quale può essere un’app. Il progetto risponde alla necessità di Humanitas University di rendere più efficiente ed efficace il percorso formativo degli studenti di Medicina del 3° anno di studi, nel loro passaggio dalla teoria alla pratica clinica. Attualmente il ruolo di tutor è affidato ai medici dell’ospedale, e al loro lavoro in reparto a fianco degli studenti chiamati ad affrontare i primi casi e le prime diagnosi.

Il Medical Cognitive Tutor è una piattaforma di studio personalizzabile in base al livello di conoscenza del singolo studente attraverso la scelta di contenuti, simulazioni, commenti e approfondimenti. Partendo quindi da un caso con dati di pazienti reali non identificabili dovranno definire gli elementi utili per arrivare a una diagnosi: quali sono i sintomi e categorizzarli con attributi medici, quali i fattori temporali, fare un’anamnesi per poi formulare diverse ipotesi diagnostiche. Il sistema fornisce poi un feedback personalizzato e “intelligente” per ogni studente. Il sistema consente una rivalutazione continua delle ipotesi diagnostiche basate su nuove informazioni cliniche. Watson consente di monitorare la progressione degli studenti, gli errori e le aree di miglioramento durante il processo di apprendimento.

Humanitas University mette a disposizione degli studenti il suo patrimonio di dati di casi reali fatto di cartelle mediche anonime, referti, immagini, test di laboratorio ed esami e procedure diagnostiche, oltre che la letteratura scientifica più aggiornata, che saranno immagazzinati in Watson. Come avviene per tutte le soluzioni cognitive in campo medico, il sistema non sostituisce i docenti di medicina, ma li assiste nella loro attività attraverso una selezione ragionata di casi e per mezzo di un pannello che permette il controllo sulle scelte e sulle misure adottate dagli studenti.

“L’innovazione continua è uno dei nostri principali obiettivi da sempre  sia in ambito medico sia in quello educativo. Riteniamo molto interessante e sfidante questa collaborazione con  Ibm” commenta Giorgio Ferrari, Consigliere Delegato Humanitas University. “Questo accordo è una ulteriore dimostrazione della nostra volontà di continuare a investire nella formazione dei medici di domani utilizzando strumenti e approcci sempre più all’avanguardia, fondamentali in un  settore cruciale come la sanità”.

Il progetto viene sviluppato da personale medico di Humanitas che ha collaborato con i ricercatori di Ibm Italia e del Research Center Ibm di Zurigo. “La collaborazione con Humanitas è per noi preziosa perché ci permette di mettere in campo, primo caso in Europa, una soluzione che utilizza la tecnologia cognitiva applicata al settore della salute. Nel contempo ciò testimonia il valore del nostro impegno dedicato ai processi di digitalizzazione del Paese che, va detto, non si limita alle partnership con organizzazioni di eccellenza di questa portata”, commenta l’amministratore delegato di Ibm Italia, Enrico Cereda.

 

(NDR). Ci conforta apprendere che l’Italia partecipa ad un progetto così straordinario.

La Redazione del sito di EMA-ROMA

 

Torna su
Asl e ospedali, ecco la commissione che selezionerà i futuri direttori generali

Sanità e Politica

Asl e ospedali, ecco la commissione che selezionerà i futuri direttori generali

Il ministro Lorenzin ha firmato il decreto di nomina. Il primo compito sarà quello di costituire l’albo degli idonei. Poi le Regioni, attingendo all’elenco, potranno selezione le figure di vertice in base alle competenze

di Redazione Aboutpharma Online 17 novembre 2016 

Nasce la commissione che selezionerà, secondo criteri di merito e competenza, i direttori generali delle aziende sanitarie locali, degli ospedali pubblici e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha firmato il decreto di nomina dell’organismo che selezionerà i soggetti idonei a ricoprire l’incarico.

“Con la nomina della Commissione – spiega il ministero in una nota – ha inizio la procedimentalizzazione del reclutamento delle figure di vertice degli enti del Servizio sanitario nazionale, volta ad agganciare ad un’attenta valutazione di profilo tecnico la selezione delle professionalità ritenute maggiormente competenti a ricoprire l’incarico. La Commissione procederà, previa pubblicazione di apposito avviso pubblico di selezione per titoli, a formare un elenco nazionale di idonei all’incarico di direttore generale. Le Regioni potranno, quindi, nominare i vertici delle proprie aziende sanitarie unicamente attingendo all’elenco nazionale di idonei”.

La Commissione sarà composta da Gabriella Palmieri, vice avvocato generale dello Stato; Roberta Siliquini, presidente del Consiglio superiore di sanità (Css); Francesco Bevere, direttore generale dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas); e dai due componenti designati dalla Conferenza Stato-regioni (Giancarlo Ruscitti e Claudio Costa).

 

 

Torna su
L’Ocse promuove la sanità italiana, ma lancia l’allarme su diseguaglianze e antibiotico-resistenza

Sanità e Politica

 

L’Ocse promuove la sanità italiana, ma lancia l’allarme su diseguaglianze e antibiotico-resistenza

Nel report “Health at glance: Europe 2016” luci e ombre. Aspettativa di vita e qualità dell’assistenza oltre la media. Preoccupano invece i bisogni sanitari insoddisfatti tra i redditi bassi, l’uso eccessivo di antimicrobici, il ricorso limitato ai generici. Quanto alla spesa sanitaria, il divario con Francia e Germania ancora troppo ampio

di Redazione Aboutpharma Online 23 novembre 2016

Gli indicatori sullo stato di salute degli italiani e sulla qualità dell’assistenza rimangono fra i migliori in Europa. Attenzione, però, alle diseguaglianze crescenti, agli investimenti in sanità che non tengono il passo di Paesi come Francia e Germania, al limitato utilizzo dei farmaci generici e al consumo eccessivo e inappropriato di antibiotici. Si può riassumere così il messaggio che l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, invia oggi al nostro Paese con il report “Health at glance: Europe 2016”.

Assistenza di qualità.  Secondo l’Ocse, fiore all’occhiello dell’Italia è in particolare l’assistenza sanitaria per alcune condizioni potenzialmente letali. Il report mostra, per esempio, che il tasso di mortalità a seguito di un ricovero ospedaliero per infarti e ictus è significativamente ridotto in Italia, ed è fra i più bassi in Ue nel 2013. Ma ci sono anche stati miglioramenti nella gestione di condizioni croniche come l’asma e l’insufficienza cardiaca congestizia, misurati dalla riduzione in ricoveri ospedalieri negli ultimi anni.

Aspettativa di vita. Assistenza di qualità che, secondo gli esperti Ocse, è tra i fattori che contribuiscono alle buone performance del nostro Paese per quanto riguarda l’aspettativa di vita. Un parametro – sottolinea il report – per cui l’Italia rimane salda al secondo posto in Europa, dopo la Spagna. Nel 2014 l’aspettativa di vita alla nascita ha raggiunto la media 83.2 anni maggiore di oltre due anni rispetto media pesata europea (80.9). A questo proposito, il report ricorda in una nota come l’Istat abbia recentemente riportato una riduzione nell’aspettativa di vita in Italia nel 2015. Un calo che “è stato attribuito ad un aumento ciclico (temporaneo) del tasso di mortalità fra gli over 75, che non dovrebbe avere effetti a lungo termine”.

Diseguaglianze. L’elogio all’Italia però si ferma qui. L’analisi dell’Ocse passa alle criticità: la percentuale di popolazione che riporta esigenze di cure mediche e dentali non soddisfatte è in crescita, in particolare per i gruppi a basso reddito, con un conseguente potenziale aumento delle disuguaglianze nel settore sanitario. I cittadini con “esigenze insoddisfatte” – a causa di “costi eccessivi, distanza geografica e tempi di attesa” – erano il 5% nel 2009 e sono diventati il 7% nel 2014. Ma la percentuale è doppia nei gruppi a reddito più basso (14%). Ancora più numerosi coloro che hanno rinunciato al dentista: dal 7% nel 2009 al 10% del 2014, con numeri molto più alti anche in questo caso nei gruppi a basso redito (20% nel 2014).

Spesa sanitaria. Anche sul fronte degli investimenti in sanità si può fare di più: la spesa sanitaria totale rappresenta il 9.1% del PIL italiano nel 2015, meno della media pesata della Ue di 9.9%, e significativamente meno di Germania (11.1%), Svezia (11.1%) e Francia (11%). Più di tre quarti (76%) della spesa sanitaria in Italia sono finanziati pubblicamente, poco meno della media Ue (79%).

Farmaci. Infine, un’attenzione particolare è dedicata al capitolo farmaci. In primo luogo ai generici e al loro potenziale per la sostenibilità del sistema sanitario. La quota del mercato dei farmaci generici in Italia – sottolinea l’Ocse – rimane relativamente bassa, rappresentando il 18% del volume del consumo farmaceutico totale (per un valore di 9%) nel 2014, rispetto a una media Ue di 52% del volume (per un valore di 24%).

Bocciati anche sul consumo di antibiotici. “L’insuccesso degli sforzi volti a ridurre la prescrizione di antibiotici in Italia nell’ultimo decennio è preoccupante”, scrive l’Ocse. Il consumo di antibiotici in Italia nel 2014 è superiore del 25% alla media Europea (il quinto consumo più alto). Un dato allarmante, anche alla luce della rilevanza mondiale che sempre più assume il fenomeno dell’antibiotico-resistenza. Con il suo fardello in termini di costi per la salute dei pazienti e per il sistema.

 

Torna su
Il 45% degli italiani è insoddisfatto del Ssr, aumentano quelli che rinunciano a curarsi

Sanità e Politica

 

Il 45% degli italiani è insoddisfatto del Ssr, aumentano quelli che rinunciano a curarsi

Lo rivela la ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute presentata oggi a Venezia, in occasione dell'evento ‘Secondo pilastro sanitario e bilateralità territoriale nella prospettiva della Riforma del Titolo V° della Costituzione'.

di Redazione Aboutpharma Online 24 novembre 2016

Gli italiani non sono soddisfatti dei servizi sanitari regionali. Per il 45% dei connazionali (+2,4% rispetto al 2015) si è registrato un netto peggioramento negli ultimi due anni. E sono sempre di più quelli che rinunciano alle cure: oltre 2 milioni in Campania, un milione e 700 mila in Sicilia, un milione e mezzo nel Lazio, 1 milione in Lombardia, e a seguire Puglia, Calabria e Piemonte. Lo rivela la ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute presentata oggi a Venezia, in occasione dell’evento ‘Secondo pilastro sanitario e bilateralità territoriale nella prospettiva della Riforma del Titolo V della Costituzione’.

Secondo lo studio, i più insoddisfatti sono i cittadini del Sud e delle isole. La motivazione dello scontento deriva per lo più dalle lunghe liste d’attesa, dalla lunghezza delle code nelle varie strutture e dalla mancanza di coordinamento tra strutture, servizi e personale, che costringe a girare da un ufficio all’altro. “In 5 anni, dal 2011 al 2016, gli italiani che rinunciano alle cure sono passati da 9 milioni a 11 milioni – ricorda Carla Collicelli, Advisor Censis – così abbiamo assistito al boom della spesa sanitaria privata, arrivata a oltre 34 milioni di euro. Sono, infatti, 10,2 milioni gli italiani che hanno aumentato rispetto a qualche anno fa il ricorso al privato”.

Tra i dati più interessanti emersi ci sono i tempi di attesa per le visite specialistiche: per effettuare una colonscopia senza biopsia si devono aspettare 143 giorni, per una risonanza magnetica 75 giorni e per una mammografia 66. Se non si accede, quindi, alla sanita privata si corre il rischio che malattie gravi non vengano diagnosticate in tempo. “Oggi siamo abituati a un sistema in cui gli erogatori del Servizio sanitario nazionale (Ssn) sono affiancati da erogatori privati, che spesso lavorano in convenzione, però è un sistema di monofinanziamento, il finanziamento è quello delle tasse, pagate dal cittadino, che sostengono il Ssn – sottolinea Marco Vecchietti, Consigliere delegato Rbm Assicurazione Salute – Quando in realtà le strutture del Ssn o del privato in convenzione non sono in grado di erogare il servizio, ciascuno di noi apre il portafoglio, ovviamente chi i soldi li ha. Noi diciamo: affianchiamo a questo sistema che è doppio in offerta, anche un sistema di finanziamento doppio, via fiscalità generale e uno che organizzi la spesa privata del cittadino, ottenendo una riduzione dei costi unitari delle prestazioni. Chi si convenziona con noi, la stessa prestazione sanitaria privata che vende al cittadino, a noi la vende ad un prezzo più basso, ma è naturale perché noi acquistiamo per 7 milioni di persone, è ovvio che non possa fare lo stesso prezzo che fa al singolo. Perché quindi non lavoriamo insieme per spiegare ai cittadini che questa alleanza serve, che sarebbe a beneficio di tutti?”.

Nel contesto del Ssn che indietreggia, il settore industria prevede un primo livello di protezione per i dirigenti e per i loro familiari con il Fasi e l’integrazione di secondo livello con Assidai. “Fasi e Assidai costituiscono un modello di sanità integrativa eccellente per governance, solidità finanziaria e per la scelta di politiche sanitarie che puntano a prevenzione, assistenza socio-sanitaria e copertura di tutto il nucleo familiare – evidenzia Stefano Cuzzilla, presidente Federmanager – La detassazione del welfare che è presente nella Legge di Bilancio 2017 va nella giusta direzione: se si incentivano gli imprenditori e il sistema produttivo diventa consapevole che la produttività del business dipende anche dalla salute dei propri lavoratori, si può raggiungere una massa critica sufficiente a estendere la platea di beneficiari. La leva fiscale può far funzionare il sistema sanitario in una logica di collaborazione pubblico-privato che abbatte la spesa che i cittadini sostengono di tasca propria, quando ci riescono e non sono, invece, costretti a rinunciare alle cure”.

Dal Canto suo, il Veneto è una Regione che vanta un’esperienza di bilateralità in campo assistenziale e sanitario, in particolare l’esperienza recentemente abbracciata con Sani. Il Veneto dimostra l’importanza della sanità integrativa che parla con il territorio e intercetta i bisogni di prossimità dei lavoratori e dei cittadini. “Noi immaginiamo un ruolo sempre più importante per i Fondi sanitari territoriali, a prescindere da quale sarà il risultato del referendum sulla riforma costituzionale, che ridisegna le competenze in materia di sanità tra Stato e Regioni – dichiara Gerardo Colamarco, segretario generale Uil Veneto – Promuoviamo insieme a Confartigianato Imprese, Cna, Casartigiani, Cgil e Cisl un Fondo sanitario integrativo regionale per i lavoratori delle imprese artigiane del Veneto, il ‘Sani.In.Veneto’, che ha l’obiettivo di mettere a disposizione dei lavoratori dipendenti delle aziende aderenti trattamenti e prestazioni socio-sanitarie integrative e complementari al Ssr.  ‘Sani.In.Veneto’ vuole porsi come una ‘seconda gamba’ strutturale del Servizio sanitario del Veneto contribuendo a garantire più elevati livelli assistenziali. Si tratta di un’importante opportunità anche perché prevede, a differenza di quella nazionale, l’inclusione di tutti i settori (nessuno escluso, dopo l’adesione del settore edile) e di tutte le forme di rapporto di lavoro”.

Presente anche la Confcommercio Veneto che ha siglato un accordo con Rbm grazie al quale si potrà garantire in Veneto agli imprenditori associati a Confcommercio un Piano sanitario analogo a quello che la Contrattazione collettiva nazionale riserva ai lavoratori dipendenti delle imprese del terziario.

 

Torna su
Le meningi sono una fonte di nuovi neuroni per il cervello

Medicina scienza e ricerca

Le meningi sono una fonte di nuovi neuroni per il cervello

Un lavoro dell’Università di Verona pubblicato su Cell Stem Cell ha messo in luce come le cellule staminali neuronali si trovino anche nelle membrane che avvolgono il sistema nervoso centrale. Lo studio potrebbe avere un significato molto importante per lo sviluppo di terapie per la cura delle malattie neurodegenerative

di Redazione Aboutpharma Online 25 novembre 2016

Una nuova fonte di cellule staminali neurali per anni trascurata e sottovalutata. Sono le meningi, membrane che avvolgono il sistema nervoso centrale, che uno studio condotto dall’Università di Verona, ha portato alla ribalta. Negli ultimi decenni con la scoperta che il cervello non è statico ma in grado di crescere svilupparsi, ripararsi e adattarsi ai cambiamenti, la plasticità cerebrale è stata oggetto di approfonditi studi scientifici. Ricerche che hanno evidenziato il ruolo chiave delle cellule staminali in questo processo, pensando però che si trovassero solo all’interno del tessuto cerebrale e non nelle membrane che lo ricoprono.

Lo studio, pubblicato su Cell Stem Cell, ha invece mostrato come in realtà le cellule staminali neuronali si trovino anche in questa zona del cervello, fino a oggi considerata solo un “rivestimento” senza alcuna rilevanza neurologica. “Le cellule staminali identificate nelle meningi in un precedente studio del 2012 sono in grado di generare nuovi neuroni funzionali in vivo nel cervello dopo la nascita” spiega Ilaria Decimo del dipartimento di Diagnostica e Sanità Pubblica dell’Università di Verona, una delle ideatrici dello studio multicentrico svolto in collaborazione con Francesco Bifari dell’università Statale di Milano . “Originano durante lo sviluppo embrionale e, dopo la nascita, migrano dalle meningi verso l’interno del cervello.  Qui danno origine a nuovi neuroni della corteccia encefalica capaci di connettersi e comunicare con i circuiti neuronali già esistenti. Il nostro studio aggiunge un importante tassello nella comprensione degli eventi che contribuiscono alla formazione dei neuroni del cervello, rivelando che dopo la nascita le meningi aggiungono nuovi neuroni nella corteccia cerebrale”.

La dimostrazione della presenza di staminali neurali nelle meningi potrebbe assumere un significato molto importante per lo sviluppo di terapie per la cura delle malattie neurodegenerative. Il prossimo passo della ricerca sarà quello di studiare il ruolo delle cellule staminali delle meningi nelle malattie in cui i neuroni sono danneggiati, come la lesione del midollo spinale, l’ictus, l’Alzheimer, la sclerosi multipla e altre malattie neurodegenerative.

“Ora dobbiamo capire come possiamo sfruttare questa loro capacità di formare nuovi neuroni per riparare il cervello e il midollo spinale danneggiato dalle malattie neurodegenerative” ha concluso la ricercatrice.

 

Torna su
Aterosclerosi in pazienti con malattia coronarica: regressione significativa della placca con evolocumab

Aziende

 

Aterosclerosi in pazienti con malattia coronarica: regressione significativa della placca con evolocumab

 

A dirlo i risultati completi dello studio di Fase III GLAGOV sull’anticorpo monoclonale in aggiunta alla terapia statinica ottimizzata annunciati da Amgen all’ultimo congresso dell’American hearth association (Aha) e pubblicati su Jama

di Redazione Aboutpharma Online 28 novembre 2016

 

Evolocumab, in aggiunta alla terapia statinica ottimizzata, determina una regressione della placca aterosclerotica statisticamente significativa in pazienti con malattia coronarica. A dirlo sono i risultati completi dello studio di Fase III GLAGOV, che utilizza l’imaging dell’ultrasonografia intravascolare, presentati dall’azienda Amgen al congresso dell’American heart association (Aha) 2016 e contemporaneamente pubblicati sul Journal of the American Medical Association (Jama). Evolocumab – spiega l’azienda – è un anticorpo monoclonale completamente umano che inibisce la proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9), una proteina deputata alla degradazione dei recettori LDL che, quindi, riduce la capacità del fegato di eliminare il colesterolo LDL, il cosiddetto colesterolo “cattivo”, dal sangue. L’anticorpo monoclonale si lega alla proteina PCSK9 impedendole di legarsi a sua volta ai recettori delle LDL sulla membrana epatica. In assenza della PCSK9, sulla membrana epatica sono presenti più recettori delle LDL in grado di eliminare il colesterolo LDL dal sangue.

Lo studio GLAGOV ha valutato se il trattamento con evolocumab, indicato per il trattamento di particolari popolazioni di pazienti con livelli di colesterolo LDL elevati, sia in grado di modificare l’accumulo di placca aterosclerotica nelle coronarie di pazienti già in terapia statinica ottimizzata, utilizzando l’imaging dell’ultrasonografia intravascolare (IVUS), al basale e alla settimana 78.

Lo studio ha raggiunto il suo endpoint primario dimostrando che il trattamento con evolocumab ha determinato una regressione statisticamente significativa rispetto al basale del volume percentuale dell’ateroma (PAV), ovvero la percentuale del lume dell’arteria occupata dalla placca. Inoltre, l’aggiunta di evolocumab ha prodotto una regressione della placca in PAV in una percentuale di pazienti maggiore rispetto a quelli in trattamento con placebo.

“Lo studio GLAGOV rappresenta una pietra miliare per il trattamento dell’ipercolesterolemia, i cui risultati sono estremamente interessanti – commenta Furio Colivicchi, direttore Uoc  di Cardiologia, ACO San Filippo Neri (Roma) –  non solo è il primo studio nel quale sono stati raggiunti livelli di colesterolemia LDL così bassi (36mg/dL), ma è anche il primo studio nel quale si è dimostrata una regressione importante della placca aterosclerotica con un inibitore del PCSK9 rispetto alla terapia statinica ottimizzata. Sebbene conoscessimo l’efficacia terapeutica di questo farmaco in termini di riduzione dell’ipercolesterolemia, fino ad oggi non avevamo nessun dato sugli effetti vascolari”.

Lo studio GLAGOV ha confermato il profilo di sicurezza di evolocumab. L’incidenza degli eventi avversi emergenti correlati al trattamento è stata comparabile nei due gruppi (rispettivamente 67.9% evolocumab, 79.8% placebo).

Torna su
Esami di laboratorio, 3 su 10 inutili o addirittura dannosi

Esami di laboratorio, 3 su 10 inutili o addirittura dannosi

Biochimici clinici, rischio sovradiagnosi e 'sindrome Ulisse' per pazienti

Redazione ANSA ROMA 

30 novembre 201615:03

 

Spesso inutili se non, addirittura, dannosi. Ben tre esami di laboratorio su 10 sono infatti inappropriati, generando anche un notevole spreco in termini di risorse economiche. A mettere in guardia dall'eccesso di test è il presidente della Società di medicina di laboratorio (Società italiana di biochimica clinica e biologia molecolare Sibioc), Marcello Ciaccio, sottolineando come il rischio sia quello di falsi positivi, come per la funzionalità della tiroide, di sovradiagnosi e di un moltiplicarsi confuso di esami.
    "Se si continua così - avverte Ciaccio in occasione del convegno nazionale Sibioc al ministero della Salute - il Servizio sanitario nazionale non potrà più essere garantito".
    Gli esami di laboratorio sono fondamentali perché influenzano fino al 70% delle diagnosi mediche e dei successivi trattamenti, ma ne va definito il ruolo in rapporto diretto col clinico, affermano gli esperti della Sibioc. Prendiamo i test di funzionalità tiroidea: "L'opinione diffusa - rileva Renato Tozzoli del Presidio Ospedaliero S. Maria degli Angeli, Pordenone - è che più esami si fanno, meglio è. E' vero invece il contrario: più profili di test vengono effettuati maggiore è la possibilità di risultati discordanti, il che complica la diagnosi per il medico e si concretizza la cosiddetta 'sindrome di Ulisse' del malato che, come fece Ulisse per il Mediterraneo - conclude - è costretto ad un viaggio continuo per fare altri test, non perché sia veramente malato, ma perché sono stati prescritti test non adeguati". 

In altre aree, invece, i test genetici diventano prioritari. È il caso della celiachia (oggi il laboratorio è in grado di effettuare diagnosi senza biopsia intestinale, con grande vantaggio per il malato) e della malattia renale cronica, che colpisce in Italia circa 2,2 mln di persone. La medicina di laboratorio svolge, in quest'ultimo caso, un ruolo centrale per l'identificazione dei fattori di rischio e la diagnosi precoce. Ma l'appropriatezza, avvertono gli esperti della Sibioc, entra in campo soprattutto in cardiologia e oncologia. Nel caso del dolore toracico acuto, per esempio, alcuni esami risultano ormai obsoleti e va invece scelto, affermano gli specialisti, "il solo esame appropriato, la troponina cardiaca, che permette di dimostrare che il 30% dei pazienti con dolore cardiaco senza segni elettrocardiografici ha un infarto ben definito. E nel cancro, i marcatori tumorali devono essere richiesti in modo adeguato". E proprio per favorire una maggiore appropriatezza degli esami, la Sibioc 'punta' sui medici di base, ai quali saranno destinati vari corsi gratuiti di formazione a distanza sui test in alcune grandi patologie croniche.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Torna su
Sangue artificiale, dagli States arriva un globulo rosso sintetico

Medicina scienza e ricerca

 

Sangue artificiale, dagli States arriva un globulo rosso sintetico

Si chiama ErythroMer e lo studio, ancora in fase preclinica, è stato condotto dalla Washington University School of Medicine di St. Louis. Non sostituirà in toto il sangue vero, ma permetterà a medici e paramedici di intervenire più in fretta in casi di emergenza, sia a seguito di incidenti stradali che in zone di guerra.

di Redazione Aboutpharma Online 5 dicembre 2016

 

Un sangue artificiale in polvere per le emergenze? Ora forse sì, o almeno è quello che sperano gli studiosi della Washington University School Medicine di St.Louis che stanno conducendo le sperimentazioni.

Il team ha creato infatti dei globuli rossi artificiali che effettivamente ‘catturano’ l’ossigeno nei polmoni e lo rilasciano ai tessuti dell’organismo. Non solo. Questo sangue artificiale, chiamato ErythroMer, può essere liofilizzato, rendendo più facile per i medici di guerra, quelli di pronto soccorso e i paramedici di averlo a disposizione, come ha dichiarato Allan Doctor, specialista di terapia intensiva alla Washington University School of Medicine di St. Louis, che ha presentato la ricerca al meeting annuale della Società americana di ematologia a San Diego. “È una polvere secca che sembra paprika, in sostanza”, ha detto Doctor alla stampa americana. “Può essere conservata in un sacchetto di plastica che il medico può portare con sé in ambulanza o in uno zaino, per un anno o più. Quando c’è bisogno di usarlo, si può riempire il sacchetto con acqua sterile, mescolare”, e il sangue artificiale “è pronto per essere infuso”.

Il globulo rosso artificiale, più piccolo di un normale globulo rosso, è costituito da proteine di emoglobina umana purificata rivestite con un polimero sintetico. L’emoglobina è il componente dei globuli rossi che trasporta l’ossigeno attraverso il corpo. La ricerca di un sostituto del sangue è in corso da più di ottant’anni, ma i tentativi precedenti erano sempre falliti. Il rivestimento polimerico sintetico di questo globulo rosso artificiale, che avrebbe risolto i problemi incontrati in precedenza dagli studiosi, è stato sviluppato dal ricercatore principale dello studio, Dipanjan Pan, dell’University of Illinois a Urbana-Champaign. I test di laboratorio su topi e ratti hanno dimostrato che i globuli rossi artificiali sono in grado di fornire in modo efficace l’ossigeno ai tessuti, assicurano i ricercatori. “Abbiamo sostituito il 70% del volume di sangue del topo” con il sangue artificiale. “Questi topi erano indistinguibili da quelli che avevano ricevuto una trasfusione da un altro animale”, spiega Doctor.

I globuli rossi artificiali non potranno mai sostituire completamente quelli naturali. Anche perché sono in grado di liberare solo ossigeno e non hanno le altre funzioni del sangue, ricordano gli studiosi. Ma occorrerà del tempo prima che questo prodotto della ricerca sia disponibile. Secondo Doctor, bisogna passare prima ai test su conigli e scimmie, e poi sull’uomo. Insomma, potrebbero “volerci 10 anni per avere una risposta definitiva e capire se” i globuli rossi artificiali funzionano sull’uomo.

 

Torna su
Influenza: a letto già mezzo milione di italiani. L’allarme: il 45% degli anziani non si vaccina

Sanità e Politica

 

Influenza: a letto già mezzo milione di italiani. L’allarme: il 45% degli anziani non si vaccina

 

Secondo il bollettino di sorveglianza InfluNet dell’Istituto di superiore di sanità 500mila italiani sono stati colpiti dal virus in meno di due mesi. L’appello di Happy Ageing per la prevenzione tra gli over 65

di Redazione Aboutpharma Online 9 dicembre 2016

 

L’influenza stagionale ha messo ko mezzo milione di italiani in meno di due mesi, con un’incidenza lievemente superiore rispetto alle stagioni precedenti. È il bilancio fornito da InfluNet, il bollettino di sorveglianza epidemiologica delle sindromi influenzali coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss).

I dati. Nella settimana dal 28 novembre al 4 dicembre 2016 l’incidenza settimanale (numero di casi per 1.000 assistiti rapportati all’intera popolazione italiana), sono stati circa 115mila, cioè 20mila in più della settimana precedente e per un totale di circa 469mila casi a partire dall’inizio della sorveglianza stagionale. Il valore dell’incidenza totale è pari a 1,89 casi per mille assistiti. Ma tra i bimbi sotto i 4 anni, la fascia più colpita, si registrano quasi 6 casi su mille. Le regioni con più segnalazioni sono state Piemonte, P.A. di Trento, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Lazio e in Campania, in cui sono stati registrati 3 casi per mille assistiti. Tuttavia, sottolinea il bollettino, “l’incidenza osservata in alcune regioni è fortemente influenzata dal ristretto numero di medici e pediatri che hanno inviato, al momento, i loro dati”.

Anziani e vaccini. C’è ancora tempo per proteggersi dall’influenza e dalle sue complicanze, grazie ai vaccini. Armi di prevenzione fondamentali per i soggetti a rischio e per gli anziani ancora sottoutilizzate. A lanciare l’allarme è HappyAgeing, l’Alleanza italiana per l’invecchiamento attivo: il 45% degli anziani non si vaccina contro l’influenza. E tra gli over 50 solo il 10% è vaccinato contro la polmonite pneumococcica, malattia infettiva che “provoca decessi di oltre 20 volte superiori di quelli provocati dall’influenza con oltre 9 mila morti l’anno”.

In Italia – osserva HappyAgeing, citando i dati Ocse sul confronto tra le vaccinazioni antinfluenzali tra gli over 65 nel 2004 e nel 2014- si è verificato un calo di circa il 10%. L’Italia occupa il 18simo posto, Messico e Corea del Sud sono i più virtuosi con percentuali dell’80%. Degli oltre 9 mila adulti intervistati, di cui oltre mille nel nostro Paese solo il 20% sa che esiste un vaccino contro la polmonite. L’1% sa che la malattia è responsabile di più del doppio dei decessi rispetto agli incidenti d’auto. Il 95% conosce la malattia a livello superficiale e il 36% ignora che alcune forme di polmonite possano essere contagiose.

 

Torna su
Scompenso cardiaco, dal 2017 un nuovo farmaco per ridurre la mortalità

Medicina scienza e ricerca

 

 Scompenso cardiaco, dal 2017 un nuovo farmaco per ridurre la mortalità

 

Con il 2017 sarà disponibile un nuovo farmaco a base di sacubitril e valsartan che ridurrebbe del 15% la mortalità della patologia. Il medicinale è un inibitore del recettore dell'angiotensina e della neprilisina e riduce la fibrosi miocardica

di Redazione Aboutpharma Online 9 dicembre 2016

 

“Nei prossimi mesi sarà disponibile un nuovo farmaco che ridurrà il rischio di mortalità di questi pazienti del 15%”. A fare il punto sulle persone affette da scompenso cardiaco è Ciro Inolfi, direttore del dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell’Università Magna Grecia di Catanzaro ad AdnKronos Salute.
“All’inizio del 2017 sarà disponibile un farmaco a base di sacubitril e valsartan, un inibitore del recettore dell’angiotensina e della neprilisina. Una novità assoluta – sottolinea Inolfi – già passata
al vaglio di un grande studio condotto su migliaia di pazienti, lo studio Paradigm, che ne ha sancito sia la sicurezza che l’efficacia”. Il medicinale “può essere prescritto a meno che non si sia in presenza di ipotensione o di iperpotassiemia. Rispetto ai farmaci tradizionali – continua – provoca l’aumento dei livelli di Anp (Peptide natriuretico atriale) con l’effetto benefico di far perdere acqua e sodio e di ridurre la fibrosi miocardica”.

La patologia colpisce oltre un milione di italiani l’anno, ovvero l’1,5% della popolazione. Percentuale che sale al 6-10% dopo i 65 anni. Lo scompenso cardiaco rappresenta una delle prime causa di morte in Italia e spiega l’esperto, è responsabile di oltre centonovantamila ricoveri l’anno. È la seconda causa di ricovero dopo il parto naturale e la prima tra gli over 65. Sempre secondo i dati forniti dal cardiologo, la spesa totale per la patologia in Italia “ammonta a tre miliardi di euro l’anno circa (il 2% della spesa sanitaria complessiva). Mentre la spesa media per la gestione di un paziente è di quasi dodicimila euro l’anno (l’85% della spesa è rappresentata dai costi di ricovero)”. Nel mondo, invece, per lo scompenso cardiaco si spendono ogni anno cento miliardi di euro. Cifra destinata a raddoppiare entro il 2030.

 

Torna su
Appello alla responsabilità sociale in difesa del Ssn

Sanità e Politica

 

Appello alla responsabilità sociale in difesa del Ssn

 

Presentato all'Ospedale di Monza un documento in cinque punti per la tenuta del sistema universalistico. Francesco Longo (Bocconi): "Servono scelte dolorose che i medici in primis dovrebbero spiegare ai cittadini" a partire dalla riconversione degli ospedali inutili e pericolosi

di Stefano Di Marzio 13 dicembre 2016

 

Nessuno si senta escluso. Per difendere la tenuta del Servizio sanitario nazionale serve un grande atto di responsabilità sociale che accomuni politica, amministratori pubblici, professionisti e cittadini e renda condivise anche le scelte più dolorose, come ad esempio la chiusura e la riconversione dei piccoli ospedali, in nome dell’appropriatezza e della sicurezza, prima ancora che dei conti economici. Un atto, quindi, che nasca dalla diffusa consapevolezza (e conseguenti comportamenti a tutti i livelli) che in tutto il mondo e anche in Italia le cose congiurano per un pericoloso default. Quali? Arcinote e in ordine sparso: i bisogni di salute sono crescenti (aumento cronicità, invecchiamento popolazione etc.); un Ssn fin troppo “sobrio” ha tagliato tutto il tagliabile, razionando le prestazioni soprattutto nelle aree più deboli del Paese; già oggi ampie fette di popolazione italiana, socialmente deprivate, scontano l’effetto di un diffuso undertreatment in termini di minore aspettativa di vita (dai 2 ai 4 anni in meno al Sud); la spesa per il welfare non aumenterà né sul breve né sul lungo periodo; la povertà e l’esclusione sociale sono in aumento dappertutto; nuove, efficaci e costose terapie si affacciano sul mercato. E molto altro ancora.
Come si reagisce? Con quali armi? All’ospedale San Gerardo di Monza è stato presentato oggi il documento
“5 W per la sostenibilità del sistema sanitario”, nel corso di un convegno cui hanno preso parte l’assessore regionale al Welfare della Lombardia Giulio Gallera; il vice presidente della Giunta lombarda Fabrizio Sala; Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità; Matteo Stocco, Direttore generale Asst di Monza; Cristina Messa, Rettore dell’Università di Milano Bicocca; Francesco Longo, docente di Economia delle Aziende Sanitarie all’Università Bocconi; Eugenio Anessi Pessina, docente di Public Management all’Università Cattolica di Milano; Sergio Harari, Direttore dell’Unità di Pneumologia dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Il quadro è a tinte fosche ma qualcosa si deve tentare. Se è vero che è sempre più difficile garantire efficacia e sicurezza con meno risorse (Stocco) e che i dati di contesto economico sono “deprimenti” (Ricciardi sintetizza il freschissimo
rapporto di Openpolis ripreso oggi dalla stampa), lo è altrettanto il fatto che le leggi regionali possono tentare di riallocare al meglio, ad esempio verso le cure intermedie, l’investimento sugli ospedali (Gallera schematizza la Riforma lombarda in atto da poco più di un anno). Uno dei temi più scottanti toccati a Monza è però quello della produttività delle strutture sanitarie. Ne parlano Anessi Pessina e Francesco Longo. Che non usa mezzi termini: “Il 36% degli ospedali italiani non possiede i requisiti minimi per la clinical competence: non hanno casistiche sufficienti che giustifichino la presa in carico di pazienti. Sarebbe necessario riallocare le risorse, concentrare tecnologia, spostare le persone, sia i professionisti che i malati verso ospedali Hub e riconvertire le strutture piccole e inutili. Sono scelte certamente dolorose, dovrebbero essere i medici in primis a sostenerle e spiegarle all’opinione pubblica. Purtroppo sono quasi sempre i professionisti a contrastare le misure che invece servirebbero”.

 

Torna su
Rapporto Sic, l’allarme di Senior Italia sulla spesa sanitaria a carico delle famiglie: 110 euro al mese sono troppi

Aziende

 

Rapporto Sic, l’allarme di Senior Italia sulla spesa sanitaria a carico delle famiglie: 110 euro al mese sono troppi

 

Presentato oggi a Roma il decimo rapporto “Sanità in cifre”: per i cittadini aumenta “pesantemente” la spesa destinata a farmaci e prestazioni. Preoccupazione anche per la carenza di personale sanitario

di Redazione Aboutpharma Online 15 dicembre 2016

 

“La sanità ci è costata, di tasca nostra, il 15% in più, passando da una media di 95 euro a 110 euro mensili. Cifre estremamente pesanti”. È questa la preoccupazione principale che emerge dal decimo “Rapporto Sic: la sanità in cifre 2015” secondo Roberto Messina, presidente di Senior Italia-Federanziani. I costi, prima di tutto, e poi le carenze organizzative della sanità pubblica: “Siamo spaventati perché avremo meno medici e operatori. Solo in un anno abbiamo perso, non sostituiti, 26mila dipendenti del Servizio sanitario nazionale”.

Out of pocket. Le famiglie italiane, secondo i dati del Rapporto dell’Istat sulla “Spesa per i consumi delle famiglie” citato nel report di Senior Italia, spendono di più per le prestazioni sanitarie e i servizi che riguardano la salute. Nel 2014 si è speso in media 109,45 euro al mese contro i 95,63 euro del 2013, con un aumento pari al 15%, passando da circa 1.147,5 a 1.313,4 euro all’anno, ben 166 euro in più. Il 4,4% della spesa totale delle famiglie è destinato ai servizi sanitari e alle spese per la salute, in crescita dal 3,9% di un anno prima.

Ssn ridimensionato. Quanto all’organizzazione della sanità pubblica, i dipendenti del Servizio sanitario nazionale sono scesi di 16.523 unità tra il 2010 e il 2012. Dato evidentemente legato alle politiche di contenimento della spesa e al blocco del turn over.

La spesa sanitaria. Ampio spazio è dedicato nel Rapporto Sic alle dinamiche della spesa sanitaria. Nello specifico, la spesa sanitaria corrente di Conto Economico è passata da 96.137 a 111.186 milioni di euro dal 2005 al 2015, con un incremento in valore assoluto pari a 15.049 milioni ed un tasso di crescita medio annuo dell’1,5%. Negli ultimi anni la spesa sanitaria ha continuato a crescere, ma i ritmi di questo incremento hanno subito rallentamenti: si tratta – sottolinea Senior Italia- dei “ primi risultati del processo di responsabilizzazione attuato per vincere la sfida dei sistemi sanitari nell’assicurare un’offerta sanitaria adeguata alle esigenze della popolazione sempre più longeva”. La maggior parte delle risorse viene assorbita dalle prestazioni sociali in natura (beni e servizi da produttori market) per il 35,4%, e dai redditi da lavoro dipendente per il 31,3%.

I farmaci. Nel 2015 la spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) è stata pari a 28,9 miliardi di euro, di cui quasi il 76,3% rimborsato dal Ssn. La spesa farmaceutica privata è aumentata del 13,45% in 5 anni, passando da 6.046 nel 2010 a 6.859, mentre l’aumento tra il 2014 e il 2015 è stato quasi del 3%.
L’aumento ha interessato tutte le categorie di farmaci acquistabili out of pocket: i medicinali di classe A (+3,1%) acquistati privatamente, classe C acquistati con ricetta (+2,1%), e automedicazione (+4,7%). In altre parole la razionalizzazione della spesa pubblica ricade inesorabilmente sul cittadino privato, e questo potrebbe avere effetti anche sugli esiti clinici associati alle terapie farmacologiche.
Le fasce di età superiori ai 64 anni evidenziano una spesa pro capite per i medicinali a carico del Ssn fino a 3 volte superiore al valore medio nazionale. Inoltre, per ogni cittadino “senior” il Ssn deve affrontare una spesa farmaceutica oltre 6 volte superiore rispetto alla spesa media sostenuta per soggetti più giovani.

Lo scenario demografico. Infine, uno sguardo ai processi demografici che inevitabilmente generano ricadute sul sistema sanitario. Se la popolazione appare in lieve diminuzione, molto marcato è il processo di invecchiamento della stessa, con un aumento della speranza di vita alla nascita e dell’indice di vecchiaia. In Italia, a fronte di una diminuzione della popolazione, che al 31 dicembre del 2015 risulta essere diminuita di 130.061 unità rispetto allo stesso periodo del 2014, prosegue l’inesorabile processo di invecchiamento, con la speranza di vita alla nascita che per i maschi è pari a 80,2 anni (era 79,8 nel 2013), mentre quella delle femmine è pari a 84,9 anni (84,6 anni nel 2013). L’indice di vecchiaia, dato dal rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni, l’indicatore che meglio sintetizza il grado di invecchiamento della popolazione, al 31 dicembre 2014 è pari al 157,7 per cento, ancora in crescita rispetto all’anno precedente (154,1). L’età media degli italiani nel 2014 è 44,4 anni. L’aumento della proporzione di popolazione anziana determina una serie di cambiamenti dal punto di vista epidemiologico, come l’aumento di incidenza e prevalenza di patologie croniche e tumori.

 

Torna su
Ipertensione: lo studio “Escape” sdogana il “vecchio” canrenone

Medicina scienza e ricerca

 

Ipertensione: lo studio “Escape” sdogana il “vecchio” canrenone

 

I risultati dello studio - condotto da ricercatori italiani e pubblicato sulla rivista britannica Cardiovascular Therapeutics - sono stati presentati nel corso di un incontro organizzato in occasione del 77° Congresso della Sic, in corso a Roma

di Redazione Aboutpharma Online 17 dicembre 2016

Ipertensione

E’ come dire “due piccioni con una fava”.

Fatto uno: uno studio italiano ha trovato la quadra del mix di terapie che serve a bloccare l’“escape” dell’aldosterone, ovvero quel meccanismo difensivo dell’organismo per cui dopo alcuni mesi di terapie antiipertensive di prima linea l’organismo torna a produrre l’ormone – l’aldosterone, appunto –  che oltre ad essere coinvolto nell’ipertensione ha il brutto vizio di ispessire e danneggiare vasi cuore e reni.

Fatto due: in base ai risultati ottenuti della miscela antiipertensiva perfetta entra a far parte a pieno titolo un farmaco – il canrenone – di vecchia data, a basso costo (circa 80 euro per un anno di terapia= pochi centesimi al giorno), metabolicamente neutro, ingiustamente escluso dai trattamenti perché mal utilizzato in precedenza. Insomma un asso rimasto ingiustamente nascosto nella manica dei cardiologi, che oggi ne riscoprono la validità, rivedendo anche le tradizioni terapeutiche dell’ultimo decennio.

A “sdoganare” il canrenone sono i risultati dello studio Escape – condotto da ricercatori italiani su 175 pazienti ipertesi e pubblicato sulla rivista britannica Cardiovascular Therapeutics – presentato oggi alla stampa nel corso di un incontro organizzato in occasione del 77° Congresso della Società Italiana di Cardiologia (Sic), in corso a Roma.

Il killer silenzioso

Dell’ipertensione si parla tanto che alla fine siamo tutti convinti di saperne abbastanza, ma non è così. Non a caso gli esperti parlano di “killer silenzioso”: l’iperteso, in genere –  finché non ha sintomi, ovvero finché non è vittima di un brutto evento – “si sente” benissimo. Il problema è che quando l’evento c’è il danno è fatto. E  in genere è sufficientemente grave da richiedere un ricovero ospedaliero e lasciare strascichi. Mai come in questo caso la parola chiave  è “prevenzione”. Eppure se ne fa poca o non abbastanza. Anche se basterebbe misurare un po’ di più la pressione per individuare il campanello d’allarme che fa scattare controlli e terapie.

Ciò acquisito, secondo gli esperti gli italiani colpiti da ipertensione arteriosa sono 17 milioni. E non c’è questione di quote “rosa”: il disturbo coinvolge il 33% degli uomini, il 31% delle donne, in entrambi i sessi è causa scatenante di un numero elevatissimo di complicanze cardiovascolari come ictus, infarto, insufficienza renale cronica e determina ogni anno a livello mondiale 7.5 milioni di decessi.

Prevenzione insufficiente, dicevamo. Ma insufficienti pare siano anche le cure attualmente praticate: quasi l’80% dei pazienti in trattamento con i farmaci di prima linea – Ace-Inibitori o Sartani – non raggiungono il corretto livello di pressione arteriosa. Il danno e la beffa, insomma: assumono farmaci ma non raggiungono l’obiettivo; la loro ipertensione è “sottotrattata”. E’ questo che ha indotto gli esperti a rivedere i percorsi terapeutici inaugurati una quindicina d’anni fa con lo sviluppo degli antiipertensivi individuando un nuovo approccio terapeutico che consente di ridurre ulteriormente e in modo significativo sia la pressione sistolica che la pressione diastolica esercitando in contemporanea un’azione di protezione per salvaguardare gli organi bersaglio del “killer silenzioso”: cuore, vasi e reni.

Lo studio Escape

Condotto interamente nel nostro Paese da ricercatori italiani col supporto della società farmaceutica belga Therabel, lo studio Escape (Efficacy and Safety of Canrenone as Add-on in Patients With Essential Hypertension) ha valutato utilizzo ed efficacia del canrenone, in aggiunta agli Ace-Inibitori o Sartani più diuretico, nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, arruolando 175 pazienti ipertesi (età media 57 anni) divisi in due gruppi: uno trattato con canrenone 50 mg e l’altro con canrenone 100 mg. In entrambi i casi la posologia era di una volta al giorno, per tre mesi.

All’inizio e dopo tre mesi di trattamento sono stati valutati, tra gli altri, pressione arteriosa (sistolica e diastolica), frequenza cardiaca, profilo glicemico, profilo lipidico e l’aldosterone, ovvero il principale responsabile della genesi e dell’ingravescenza dell’ipertensione. Dalla ricerca è emerso – in entrambi i gruppi, per entrambi i dosaggi – che il farmaco riduce in modo significativo la pressione sistolica e   diastolica, esercitando un’azione di protezione dai danni che possono essere generati dall’aldosterone (aumento dei valori pressori, irrigidimento dei vasi, ispessimento del cuore e problemi a livello renale).

“Abbiamo confrontato i risultati del canrenone a 50 mg e a 100 mg e verificato anche la sicurezza dal punto di vista metabolico – spiega Giovanni Vincenzo Gaudio, dirigente medico dell’AO di  Gallarate (Varese), coordinatore nazionale dello studio Escape. –  Non solo è ben tollerato, ma rispetto ad altre terapie, con l’uso del canrerone si contrasta la possibilità di una ‘fuga’ dell’aldosterone, bloccando a valle il sistema renina-angiotensina-aldosterone (ras)”.

Come già accennato, il blocco del sistema renina-angiotensina-aldosterone con le terapie di prima linea (antiipertensivo e associato al diuretico) determina, inizialmente, una riduzione dei livelli di aldosterone che, dopo alcuni mesi tendono, però, a risalire nuovamente fino a superare in molti casi i valori pre-trattamento. Questo fenomeno è dovuto al fatto che l’organismo attiva meccanismi alternativi che inducono, comunque, alla produzione dell’ormone. In questi pazienti l’uso di un antagonista recettoriale dell’aldosterone potrebbe aiutare ad ovviare a questo problema.

“Controllare i valori pressori vuol dire evitare danni a diversi distretti del corpo umano – spiega Giuseppe Derosa, Responsabile Dipartimento Diabete e Malattie Metaboliche del Policlinico San Matteo di Pavia.  – In particolare, l’aumento della pressione arteriosa produce danni a livello delle arterie dei vari organi (cuore, cervello, rene, retina) a causa del sommarsi di ripetuti microtraumi alla parete vascolare protratti per mesi o anni”. “Anche il cuore viene danneggiato da elevati valori pressori – prosegue Derosa – come tutti i muscoli, quando viene sottoposto ad un lavoro maggiore, diventa ipertrofico. A livello renale, invece, l’ipertensione può produrre una progressiva riduzione di volume e della funzionalità renale con perdita di proteine nelle urine fino ad arrivare all’insufficienza renale. A livello oculare, infine, l’ipertensione può determinare negli anni, la cecità”.

L’obiettivo ora è quello di far arrivare il messaggio ai medici di Medicina generale – vero front office dell’ipertensione e spesso troppo “attendisti” nella modifica del percorso terapeutico –  spiegando loro che l’associazione è una tappa obbligata per il trattamento corretto della patologia e che almeno il 50% dei pazienti che finiscono  in ospedale per un evento cardiovascolare grave avrebbe potuto evitarselo se fosse stato ben compensato.

 

Torna su
Dall’Ema nuovo invito a monitorare l’epatite B con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C

Dall’Ema nuovo invito a monitorare l’epatite B con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C

L'Ema suggerisce di fare lo screening per l'epatite B su tutti i pazienti prima di iniziare il trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l'epatite C, e continuare a monitorare i malati affetti da entrambe le forme di epatite


Continua il monitoraggio dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) sui nuovi farmaci antivirali per l’epatite C in seguito alla riattivazione dell’epatite B tramite gli antivirali di ultima generazione. Le ultime indicazioni dell’Ema dicono ricordano infatti di fare lo screening per l’epatite B su tutti i pazienti prima di iniziare il trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C, e continuare a monitorare i malati affetti da entrambe le forme di epatite secondo le attuali linee guida.
I nuovi superfarmaci per l’epatite C, venduti in Europa, sono quelli che contengono come principio attivo daclatasvir, dasabuvir, ledipasvir, simeprevir, sofusbuvir, paritaprevir, ombitasvir e ritonavir. Il Comitato di farmacovigilanza e valutazione del rischio (Prac) dell’Ema, sulla base della revisione dei casi, pensa che la riattivazione dell’epatite B in persone trattate con questi antivirali sia dovuta alla riduzione del virus dell’epatite C (nei casi di co-infezione il virus dell’epatite B viene soppresso) per via del farmaco, e la mancanza di azione dell’antivirale sul virus dell’epatite B. Da qui la raccomandazione di mettere un avviso sul foglio informativo dei farmaci sulla riattivazione dell’epatite B e su come minimizzarla, e l’invito alle aziende farmaceutiche a fare uno studio per valutare il rischio di tumore al fegato nei pazienti con epatite C cronica e cirrosi trattati con tali farmaci. Il parere del Prac, avallato anche dal Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp), sarà ora valutato dalla Commissione Europea, che dovrà prendere una decisione vincolante per tutta l’Ue.

 

Torna su
WwfWbkOMgXgbXknCCC

82817

Torna su
Tempo di bilanci: gli avvenimenti principali del 2016 in sanità

Sanità e Politica

 

Tempo di bilanci: gli avvenimenti principali del 2016 in sanità

 

Dal decreto taglia esami, ai nuovi Lea, i vaccini, il calo degli aborti, passando per Fertility day e l’approvazione di leggi importanti come “Dopo di noi”, le principali vicende del 2016 in sanità

di Redazione Aboutpharma Online 23 dicembre 2016

 

Fine anno e tempo di bilanci. Anche per la sanità che durante il 2016 ha fatto i conti con decreti e campagne di sensibilizzazione contestate ma anche con l’approvazione di leggi importanti e la firma dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza. Da gennaio a dicembre, le tappe più importanti dell’anno che sta per concludersi:

TAGLIA ESAMI: Il 20 gennaio entra in vigore il decreto “taglia-esami”, la stretta su 200 prestazioni accusate si essere usate spesso in maniera inappropriata. Dopo molte polemiche, a luglio viene superato e le sanzioni lasciano il posto a senso della responsabilità.

RESPONSABILITA’ MEDICA: Il 28 gennaio la Camera da il via libera al Ddl sulla responsabilità professionale del personale sanitario. Il testo depenalizza l’atto medico e introduce assicurazione obbligatoria di professionisti e strutture. Atteso da un decennio, sarà approvato definitivamente dal Senato nel 2017.

DOPO DI NOI: Il 14 giugno viene approvata la legge sul Dopo di noi, a favore dell’assistenza delle persone con disabilità quando i genitori non ci saranno più. Prevede più case famiglia e meno istituti, maggior peso alla volontà della persona disabile, detrazioni fiscali e uno stanziamento di 270 milioni in tre anni.

ADDIO A MAX E EUTANASIA: Il 20 luglio l’addio a Max Fanelli, malato di Sla che invano aveva chiesto l’eutanasia. Sarebbero almeno un centinaio ogni anno, secondo l’associazione Coscioni, gli italiani “costretti ad andare all’estero a morire”.

LEGGE SCREENING: Il 4 agosto, diventa legge l’estensione degli screening neonatali a tutte le Regioni. Una quarantina di esami potranno essere effettuati alla nascita attraverso un unico prelievo di sangue per individuare malattie metaboliche ereditarie che, se curate per tempo, possono consentire una vita normale.

FERTILITY DAY: A fine agosto esplode la polemica per il Fertility Day. Le locandine scelte per promuovere la giornata del 22 settembre scatenano le ire degli italiani sui social.

CESSATO ALLARME ZIKA: Il 18 novembre l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara che l’epidemia del virus Zika, non è più un’emergenza di sanità internazionale. In Italia sono stati registrati circa 60 casi importati e nessun contagio autoctono.

AIFA ED EPATITE C: Il 19 ottobre cambio al vertice Aifa: Mario Melazzin succede a Luca Pani e diventa il nuovo direttore. Spetterà a lui, già presidente, il compito di ricontrattare i prezzi dei farmaci innovativi contro l’epatite C. A fine 2016 intanto sono 63.602 i trattamenti avviati.

VACCINI: Il 23 novembre la regione Emilia Romagna approva una legge che prevede l’obbligo vaccinale per i bimbi che si iscrivono al nido. Accolta con entusiasmo dal mondo della scienza e della politica, trova molte regioni pronte a seguirne l’esempio. Ma il Codacons la ritiene “incostituzionale” e avvia una class action.

FARMACI INNOVATIVI: Con l’approvazione della Legge bilancio 2017 viene confermato, dopo mesi di battaglie, il Fondo Sanitario a 113 miliardi per il 2017. Tra le tante novità, tra cui un fondo di 500 milioni annui vincolato ai farmaci innovativi per l’Epatite c e altri 500 mln per gli oncologici innovativi.

LORENZIN TER: Il 12 dicembre viene presentato il nuovo Governo Gentiloni. Tra le conferme, quella di Beatrice Lorenzin al Ministero della Salute. Per lei, è il terzo mandato. Era stata nominata da Enrico Letta nel 2013 e confermata nel 2014 da Renzi.

CALANO ABORTI: La nuova relazione al Parlamento sull’aborto evidenzia un calo di quasi il 10% annuo rispetto al 2015, in buona parte merito, sottolinea il Ministero della Salute, del maggiore utilizzo di pillola contraccettiva dei 5 giorni dopo.

BIOTESTAMENTO: Il 20 dicembre ricorrono i 10 anni dal giorno in cui il medico Mario Riccio staccò il respiratore di Piergiorgio Welby. L’Italia ancora non ha una legge sul fine vita e il testo in discussione alla Camera rischia di non essere approvato per tempo. Ma il 3 novembre il Tribunale ha autorizzato a staccare i macchinari che tenevano in vita Walter Piludu.

NUOVE CURE IN ARRIVO: Il 21 dicembre Lorenzin firma i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza, attesi da 15 anni. Il testo prevede, su tutto il territorio italiano, cure gratuite per fecondazione assistita, endometriosi, autismo e un centinaio di nuove malattie rare, oltre a nuovi vaccini.

 

Torna su
Il grafene entra in sala operatoria contro i super-batteri

Il grafene entra in sala operatoria contro i super-batteri

Ricercatori italiani studiano l'applicazione di un idrogel antimicrobico a ferri chirurgici e protesi


La lotta ai super-batteri si fa anche in sala operatoria. Ad esempio rivestendo i ferri chirurgici e le protesi con sostanze antimicrobiche. Una di queste è l’ossido di grafene le cui proprietà sono state sperimentate da un gruppo di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dell’Università Sapienza di Roma e dell’Università degli Studi dell’Aquila. Gli scienziati hanno pubblicato un lavoro sulla rivista Scientific Reports che prende le mosse dagli allarmanti dati sull’antibiotico-resistenza (400 mila persone infettate in Europa dal 2009 a oggi). “Abbiamo realizzato un rivestimento con un idrogel a base di ossido di grafene – spiega Massimiliano Papi dell’Università Cattolica – la cui azione antibatterica è dovuta alla struttura in fogli, in grado di tagliare la membrana della cellula batterica o di avvolgerne la superficie, contrastando così lo sviluppo di batteri resistenti ai farmaci”.

 

Torna su
Meningite, tavolo tecnico al ministero: nessuna emergenza, vaccini disponibili senza problemi

Sanità e Politica

Meningite, tavolo tecnico al ministero: nessuna emergenza, vaccini disponibili senza problemi

Ricciardi (Iss): “Non c'è nessuna emergenza meningite. La richiesta dei vaccini è aumentata, ma la situazione è assolutamente tranquilla". Esclusi problemi di approvvigionamento

di Redazione Aboutpharma Online 5 gennaio 2017 

 

Non c’è “alcuna evidenza di emergenza di sanità pubblica relativa alla meningite a livello nazionale”.  Escluse anche “difficoltà di reperimento dei vaccini nel Paese” o interruzioni “nell’approvvigionamento degli stock”. È quanto afferma il ministero della Salute in un comunicato diffuso dopo una riunione tecnica convocata oggi dalla Direzione generale della Prevenzione sanitaria a cui hanno partecipato anche referenti dell’Istituto superiore di sanità (Iss), dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), del Comando dei Nas, di Farmindustria e della Regione Toscana. Ovvero i soggetti già da tempo coinvolti in un tavolo per il monitoraggio della meningite in Toscana.

“Non c’è nessuna emergenza meningite”, commenta all’Adnkronos Salute il presidente dell’Iss, Walter Riccairdi. La richiesta dei vaccini – aggiunge – “è aumentata, ma la situazione è assolutamente tranquilla”. Dal ministero, infine, l’invito a seguire il calendario vaccinale e a consultare il proprio medico in merito all’opportunità e alle tempistiche delle vaccinazioni.

 

Torna su
Sanità, oltre 2 euro su 10 vengono sprecati: indispensabile recuperarli

 

Sanità e Politica

Sanità, oltre 2 euro su 10 vengono sprecati: indispensabile recuperarli

A lanciare l’allarme la rivista The Lancet e l’Ocse: il sovra-utilizzo e il sotto-utilizzo di servizi e interventi sanitari hanno raggiunto proporzioni epidemiche, mettendo a rischio la sopravvivenza dei sistemi sanitari di tutto il mondo

di Redazione Aboutpharma Online 10 gennaio 2017

 

TAC e RMN per lombalgia e cefalea, antibiotici per infezioni virali delle vie respiratorie, densitometria ossea, test pre-operatori (ECG, Rx torace, ecostress) in pazienti a basso rischio, antipsicotici negli anziani, nutrizione artificiale in pazienti con demenza in fase avanzata e in pazienti oncologici terminali, catetere vescicale a permanenza, imaging cardiaco in pazienti a basso rischio, screening oncologici di efficacia non documentata (PSA, CA-125), tagli cesarei senza indicazioni cliniche.
Sono solo alcune degli esempi di sovra-utilizzo riportati da una serie di articoli “Right Care” pubblicati su The Lancet, in cui vengono messi in luce esempi di sprechi in sanità, sia in termini di sovra-utilizzo di interventi sanitari di efficacia non dimostrata e sotto-utilizzo di interventi sanitari efficaci. A fare eco anche il report dell’OCSE Tackling Wasteful Spending on Health, con esempi che convivono in tutti i sistemi sanitari a livello di popolazioni, percorsi assistenziali e singoli pazienti, che peggiorano esiti clinici, psicologici e sociali, determinando una impropria allocazione di risorse e generando sprechi evitabili.

Il messaggio è unanime: “I fenomeni di overuse e underuse di servizi e interventi sanitari (farmaci, test diagnostici, procedure chirurgiche, etc.) costituiscono oggi una vera e propria pandemia: oltre a mettere a rischio la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari, sovra- e sotto-utilizzo non riflettono l’etica della medicina e della sanità, in quanto minano la possibilità di una copertura sanitaria equa e sostenibile e del diritto universale all’assistenza sanitaria”.
A ricordarlo è la Fondazione Gimbe che lo scorso giugno aveva presentato in Senato il Rapporto sulla sostenibilità del SSN 2016-2025: “La serie di The Lancet e il rapporto OCSE – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – sono perfettamente in linea con quanto riportato dal nostro rapporto. Secondo le nostre stime, infatti, in Italia circa 11 miliardi di euro l’anno vengono erosi da sovra- e sotto-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie, a cui si aggiungono oltre 13 miliardi di euro relativi a frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, complessità amministrative e inadeguato coordinamento dell’assistenza”.

In particolare dal report Ocse emerge come la spesa sanitaria abbia ripreso a crescere nella maggior parte dei Paesi dell’Ocse, e che ogni 10 euro spesi in sanità sino a 2 vengono sprecati, in quanto non migliorano la salute e il benessere delle persone o addirittura li peggiorano: un’enorme opportunità dunque per recuperare preziose risorse ed aumentare il value for money. “Considerato che la maggior parte degli interventi sanitari si colloca in un’area grigia, dove il profilo rischio/beneficio non è così netto – continua Cartabellotta – è indispensabile prendere in considerazione le preferenze dei pazienti. Ecco perché è impossibile migliorare l’appropriatezza degli interventi sanitari senza un coinvolgimento di cittadini e pazienti attraverso il processo decisionale condiviso, strategia di efficacia documentata per ridurre sprechi, aspettative irrealistiche di malati e familiari e contenzioso medico-legale. Il processo di disinvestimento e riallocazione suggerito dal nostro Rapporto viene legittimato come strategia irrinunciabile per garantire la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari, che richiede una vera e propria “chiamata alle armi” di tutti gli stakeholders del Ssn”.

 

 

Torna su
Mai tante donazioni di organi come nel 2016. E si accorciano le liste d’attesa per i trapianti

Medicina scienza e ricerca

Mai tante donazioni di organi come nel 2016. E si accorciano le liste d’attesa per i trapianti

I donatori sono stati 1.596 contro i 1.489 del 2015. Più di tremila i pazienti trapiantati. Finora tre casi di "donazione samaritana". Ecco i nuovi dati presentati oggi dal Centro Nazionale Trapianti al ministero della Salute

di Redazione Aboutpharma Online 10 gennaio 2017

 

Un anno eccezionale per le donazioni di organi e i trapianti in Italia. Nel 2016 abbiamo avuto 1.596 donatori contro i 1.489 dell’anno precedente e 1.282 di dieci anni fa. Ed è cresciuto del 13% il numero di pazienti trapiantati: 3.736 contro i 3.327 del 2015. Sono questi i dati principali forniti oggi dal Centro nazionale trapianti (Cnt) durante la presentazione del report di attività 2016 al ministero della Salute. La regione più ‘generosa’ si conferma la Toscana, con in generale il Nord che supera il sud per donatori pro capite. Al contrario le “opposizioni” alla donazioni (stabili intorno a una media nazionale del 30%) sono presenti di più nel Mezzogiorno.

I numeri dei trapianti. Il trend positivo è confermato anche dall’aumento dei “donatori utilizzati”, che superano per la prima volta quota 1.300 contro i 1.165 del 2015. Quanto ai trapianti effettuati, l’incremento di attività vale un po’ per tutti gli organi, che si attestano su questi dati: 2.086 per il rene, 1.235 per il fegato, 267 per il cuore, 154 per il polmone e 69 per il pancreas. Tra i “donatori utilizzati” si registrano “finalmente – sottolinea il Cnt – diverse donazioni dopo accertamento di morte con criteri cardiocircolatori, cioè con una modalità che potrebbe ulteriormente sviluppare le donazioni ed i trapianti in Italia, come sta avvenendo nelle principali nazioni europee”. Le donazioni a “cuore fermo (DCD)” sono passate da 9 a 21 tra il 2015 e il 2016, mentre i trapianti da 6 a 13.

Liste d’attesa. Tra le buone notizie, i numeri sulle liste d’attesa: per la prima volta la lista del rene e quella del polmone sono in diminuzione rispetto all’anno precedente (circa 300 pazienti in meno nel primo caso). Al 31 dicembre 2016, i pazienti in lista di attesa sono 8.856: la maggior parte di questi per ricevere un trapianto di rene (6.598); 1.041 di fegato, 742 di cuore e 346 di polmone.

Donazioni “samaritane”. Nel 2016 – spiega il ministero – sono state realizzate anche due catene di trapianti di rene da vivente in modalità cross-over innescate da una “donazione samaritana”. L’ultima catena si è sviluppata tra dicembre 2016 e gennaio 2017: grazie al terzo donatore samaritano nel nostro Paese, sono state coinvolte 5 coppie donatore/ricevente incompatibili tra loro. I centri trapianto che hanno sviluppato questa catena di solidarietà sono stati 4 (Vicenza- Ospedale San Bartolo, Palermo- Ospedale Civico, Pisa- Ospedale di Cisanello e Parma- Ospedale Riuniti), in collaborazione la Polizia di Stato.

Donatori di midollo osseo. Cresce anche l’attività di donazione e trapianto di cellule staminali emopoietiche: nel 2016, gli iscritti al Registro italiano donatori di midollo osseo (Ibmdr) sono stati 498mila contro i 469mila del 2015. I trapianti da donatore volontario adulto sono stati 742 (contro i 704 del 2015) mentre i trapianti da donatore familiare semi-compatibile (noto come trapianto aploidentico) sono stati 360 (mentre nel 2015 erano 338).

L’impegno continua. Con il nuovo anno, ministero e Cnt puntano a rafforzare l’impegno sul fronte della comunicazione. Il primo obiettivo sarà sicuramente di provare a ridurre quel 30% di opposizioni alla donazione. Ai cittadini sarà ancora chiesto di esprimere il consenso alla donazioni di organi e tessuti in occasione del rinnovo della carta d’identità: con questa modalità, hanno detto “sì” 380mila cittadini in 1.350 comuni italiani. Infine, proseguirà la campagna “Diamo il meglio di noi”, iniziativa dedicata alle grandi organizzazioni pubbliche e private per diffondere tra i propri dipendenti la cultura del dono e aumentare il numero delle dichiarazioni di volontà. Con l’obiettivo di coinvolgere le Regioni e moltiplicare le iniziative sul territorio.

 

Nota della Redazione del Sito

Naturalmente siamo molto soddisfatti dai notevoli risultati conseguiti dalle organizzazioni Ospedaliere, con una delle quali, che opera presso l'Azienda Ospedaliera S. Camillo di Roma abbiamo un rapporto di collaborazione, aiutate da efficenti Associazioni di Volontariato, così come EMA-ROMA da sempre collabora con alcuni Trasfusionali di Roma.

Ma a questa soddisfazione si contrappone la grande delusione causata dai risultati che invece da molti anni caratterizzano il settore "Donazioni di Sangue", tanto che da anni si parla di Emergenza Sangue. Risultato - i Trasfusionali degli Ospedali del Lazio e di Roma attualmente sono senza scorte di sangue, tanto che molti interventi chirurgici vengono rinviati.

Perchè tanta differenza tra enti simili? Quali i motivi? Perchè manca costantemente un organo così vitale come il sangue destinato alla salute dei cittadini?

Per inefficienza, disinteresse e scarsa professionalità dei responsabili. Esistono altri motivi quando le cose non funzionano? E come ricorrono ai ripari i responsabili, tra l'altro  ignorando la prevenzione che da anni invochiamo? Acquistando in continuazione importanti quantità di sacche e spendendo somme notevoli versate dai contribuenti, arricchendo i bilanci di altre Regioni meglio organizzate e meglio dirette! Formula non più facilmente praticabile, poichè anche altrove oggi esistono difficoltà di approvvigionamento.

Da anni e con tutte le amministrazioni che si sono susseguite EMA-ROMA ha chiesto un incontro tra competenti, per affrontare il problema ed esaminare la proposta che abbiamo presentato più volte, l'unica che a nostro avviso può risolvere il problema e cioè, quella di coinvolgere in modo corretto e assiduo i circa sei milioni di abitanti residenti nel Lazio. Se da questo calcolo eliminiamo i non maggiorenni, coloro che hanno superato l'età che gli consente di donare (60 anni e 65 per i donatori abituali) coloro che non godono di buona salute, i timorosi, gli indifferenti, ecc, resta un serbatoio di candidati che, se infornati in modo corretto, possono garantire cisterne di sangue!

Abbiamo persino inviato una copia del  "Piano annuale di Comunicazione" da noi proposto, dove elenchiamo i media da utilizzare e persino alcuni spot pubblicitari idonei. Consigliando persino l'utilizzo di un numero telefonico adatto (Es. il 060606 del Comune di Roma) dotandolo di un gingle particolare, che fornisca solo le prime nozioni importantie, quali - dove risiede e dove svolge la sua attività colui o colei che chiede chiarimenti, fornire gli indirizzi e gli orari di esercizio e le coordinate telefoniche dei Trasfusionali più vicini e quelli delle Associazioni di volontariato. In anni di attività abbiamo appurato che molti candidati che intendono intervenire non sanno neppure a chi rivolgersi e come muoversi!

E' solo un inizio, ma è indispensabile e urgente iniziare. Esistono molteplici esempi della Solidarietà umana che gli italiani dimostrano ogni giorno aiutando il prossimo. Vogliamo ignorarlo?

La Redazione del Sito 

 

 

 

Torna su
Rapporto Aiop 2016: Ssn in difficoltà, serve una “manutenzione straordinaria”

 

 

 

 

 

 

 

 

Rapporto Aiop 2016: Ssn in difficoltà, serve una “manutenzione straordinaria”

Presentato oggi a Roma il 14esimo report dell'Associazione italiana ospedalità privata, in cui è descritto un “sistema sanitario in deflazione”, che arretra sul piano degli investimenti, ha un deficit di efficienza, penalizza il privato e costringe una famiglia su 5 a rimandare le cure o a rinunciarvi


Un sistema sotto-finanziato, incapace di riorganizzarsi e di liberare risorse combattendo le inefficienze. Un’offerta di servizi meno adeguata, costi per gli utenti in aumento e un serio problema di equità: il 26% delle famiglie italiane rinvia le cure o vi rinuncia per ragioni economiche. È, a grandi linee, il ritratto del Servizio sanitario nazionale (Ssn) tracciato dal 14esimo rapporto annuale “Ospedali&Salute” presentato oggi a Roma dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) e realizzato da Ermeneia-Studi & Strategie di Sistema. Il report descrive un sistema sanitario “in deflazione”, in cui la capacità di risposta ai bisogni di salute si contrae, la spesa pubblica in sanità arranca rispetto agli altri Paesi europei, le inefficienze non vengono aggredite come si dovrebbe e troppo poco spazio – dice l’Aoip – è lasciato all’iniziativa privata. Con il cittadino che, alla fine, paga il conto, in termini economici ma anche sul piano dei diritti.

Risorse insufficienti. Dalle analisi condotte e dal confronto con gli altri Paesi europei – spiega Aiop – emerge innanzitutto un processo di “deflazione da sottofinanziamento. Nel triennio 2012-2014, infatti, la spesa sanitaria pubblica risulta ancorata al 6,8% del Pil, mentre risulta in crescita quella degli altri Paesi G7 (8,2%). Anche la spesa ospedaliera pubblica complessiva è ferma nel nostro Paese al 3,9% del Pil.

Macchina inefficiente. Emerge poi una “deflazione da inefficienza della macchina ospedaliera pubblica”. Tradotto: gli ospedali pubblici dovrebbero, ma non la fanno ancora, rivedere “in maniera significativa le modalità organizzative e gestionali” per liberare risorse da re-investire. Il report Aiop dedica ampio spazio a questo tema, concentrandosi quest’anno sui “sovraricavi” degli ospedali italiani (l’anno scorso, invece, sui “sovracosti”). Per “sovraricavi”- spiega Aiop – si intendono “quelle forme di riconoscimento talvolta troppo ampie di ricavi ‘impropri’ che, come tali, contribuirebbero inevitabilmente al ripiano implicito delle perdite”. Nel dettaglio, l’analisi fa riferimento alle “attività a funzione”, ovvero quelle attività assistenziali che non hanno una copertura a tariffa predefinita per DRG (es. Pronto Soccorso, programmi di assistenza ad alto tasso di personalizzazione, programmi sperimentali, trapianti ecc…). Secondo l’analisi di Aiop, i “sovraricavi” oscillano tra 1,4 e 1,7 miliardi di euro per le aziende ospedaliere, a cui si aggiunge una cifra tra 1,2 e 1,5 miliardi di euro per gli ospedali a gestione diretta. Nel complesso, un valore tra i 2,6 e i 3,2 miliardi di euro. “Una maggiore trasparenza dei bilanci – incalza Aiop – aiuterebbe a misurare il livello di efficienza delle strutture”.

Meno servizi. Il report segnala poi “una deflazione da razionamento di fatto dei servizi offerti nell’ambito dell’ospedalità pubblica”. La causa di questo fenomeno è riconducibile “all’impatto generato dai provvedimenti di spending review, intrapresi nel quadro delle politiche di austerità degli ultimi 5 anni”. Dal 2009 al 2014 – segnala Aiop – si riduce il numero dei posti letto (-9,2%), il numero di ricoveri (-18,3%), delle giornate di degenza (-14,0%), del personale (-9,0% tra il 2010 e il 2014); dal 2009 al 2015, aumentano in parallelo gli oneri per gli utenti, con i ticket per le prestazioni che crescono del 40,6%, le visite intramoenia a pagamento presso gli ospedali pubblici del 21,9% e i ticket per i farmaci del 76,7%. Una contrazione dei servizi della sanità pubblica che “spinge i pazienti a cercare soluzioni alternative presso le strutture private, accreditate e non; a ricorrere a strutture ospedaliere presenti in altre regioni rispetto a quella di residenza; addirittura a rimandare o a rinunciare alle cure”. Da un’indagine sui caregiver condotta nel 2016 da Aiop emerge come il 16,2% delle famiglie italiane abbia rimandato una o più prestazioni e che il 10,9% delle famiglie abbia rinunciato a curarsi.

Il ruolo del privato. Secondo Aiop “la difficoltà dell’ospedalità pubblica nel fare un’effettiva ristrutturazione e riorganizzazione” alimenta a sua volta una “deflazione dovuta al trasferimento di oneri economici e normativi sul comparto ospedaliero privato accreditato nel suo complesso”. Trasferire “sistematicamente” oneri economici aggiuntivi sulla componente privata finirebbe – sottolinea Aiop – con “innescare anche per quest’ultima un processo di erosione dei servizi forniti ai pazienti”. La spesa ospedaliera riconosciuta al privato accreditato – sottolinea Aiop – si è ridotta del 9,4% tra il 2010 e il 2014, contro una diminuzione pari a meno della metà per le strutture ospedaliere pubbliche (-4,1%).

Una “manutenzione straordinaria”. Il trend descritto dal report Aiop mette in discussione “il principio universalistico e solidale del nostro Ssn”. Per questo, sottolinea l’associazione, diventa necessario “procedere a una manutenzione straordinaria” del sistema. “Serve – afferma il presidente di Aiop, Gabriele Pellissero – un percorso evolutivo che conduca verso forme di neo-welfare, in cui far convergere le responsabilità e le risorse del pubblico con a fianco le responsabilità e risorse dei cittadini, delle aziende, del mondo della rappresentanza degli interessi e di quello del terzo settore. Tutto questo, allo scopo di ridisegnare un sistema di protezione e promozione della salute che rispetti il principio universalistico e solidale, ma che sia anche compatibile con le condizioni che viviamo oggi e che vivremo domani”.
Al mondo del privato, un messaggio del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: “Da una corretta interazione tra il settore pubblico e privato in sanità può derivare una risposta più completa e omogenea ai bisogni di salute della nostra collettività”, si legge in una nota.

Il Rapporto in sintesi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

14° Rapporto Annuale “Ospedali & Salute/2016” Sintesi  
 
 
Il giorno 12 gennaio 2017, alle ore 10.00, presso il Senato della Repubblica – Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari – Via della Dogana Vecchia 29, Roma, viene presentato il 14° Rapporto Annuale “Ospedali & Salute/2016”, promosso dall’AIOP – Associazione Italiana Ospedalità Privata e realizzato dalla società Ermeneia – Studi & Strategie di Sistema di Roma (sotto la direzione di Nadio Delai). La predisposizione di un Rapporto con cadenza annuale permette di individuare e interpretare i fenomeni che caratterizzano gli ultimi dodici mesi. Ma consente anche di cogliere quei processi di fondo che, alimentati dai problemi non risolti nel corso del tempo, provocano dei fenomeni di vero e proprio “accumulo”, i quali influenzano il sistema sanitario e ospedaliero, non solo come si presenta oggi, ma anche come può diventare nel medio periodo. 1. Il processo analizzato quest’anno è riportabile ad una sostanziale deflazione di sistema, in quanto risulta in grado di investire più ambiti contemporaneamente.  Esiste innanzitutto una deflazione da sottofinanziamento che non data certo da oggi, ma che risulta evidente ormai da tempo come emerge dal confronto con altri Paesi, per ciò che riguarda la spesa pubblica destinata alla salute. Tanto per esemplificare (cfr. tabella 1), nel quadriennio 2011-2014 la spesa sanitaria pubblica prima si contrae e poi resta bloccata, per il nostro Paese, al 6,8% del PIL e quella ospedaliera pubblica e accreditata si attesta al 3,9% del PIL. E questo mentre gli altri Paesi del G7 passano, nello stesso periodo, dal 7,9% all’8,2% nel primo caso e dal 4,1% al 3,5% nel secondo caso. Ma bisogna anche considerare che il segno “-” del PIL italiano è diventato (lievemente) positivo solamente nel 2015, con un +0,4%, e quindi il rapporto spesa/PIL oltre che essere costante nel tempo nel caso italiano, viene ad essere calcolato su una base stabilmente decrescente nel triennio 2012-2014. A questo si aggiunga che la spesa sanitaria e la spesa ospedaliera pubblica (a prezzi costanti) diminuiscono nel nostro Paese, tra il 2010 e il 2014, rispettivamente del -3,7% e del 5,8%. 
2. Esiste poi una deflazione derivante dall’inefficienza della “macchina” ospedaliera pubblica, in quanto quest’ultima non riesce a “liberare” risorse come potrebbe, qualora fosse in grado di rivedere in maniera significativa le proprie attuali modalità organizzative e gestionali. Il che permetterebbe di investire le risorse così recuperate sul miglioramento delle strutture, delle attrezzature e dei servizi per gli utenti.  A tale proposito è stata effettuata anche quest’anno un’articolata stima che ha riguardato quelli che sono stati definiti come “Sovraricavi” (mentre l’anno scorso si erano stimati i “Sovracosti”), con riferimento ad una voce specifica, quella delle attività “a funzione”, la cui valorizzazione “reale” è stata calcolata a partire da quanto esposto nei Conti Economici consuntivi 2015 delle Aziende Ospedaliere, mentre successivamente è stato stimato l’analogo valore per gli Ospedali a gestione diretta. Tali Sovraricavi, prudentemente valutati, risultano compresi tra 1,4 e 1,7 miliardi di euro per le Aziende Ospedaliere, a cui si possono aggiungere tra 1,2 e 1,5 miliardi di euro per gli Ospedali a gestione diretta: in totale si sarebbe dunque davanti ad un valore complessivo compreso tra i 2,7 e i 3,2 miliardi di euro, su cui bisognerebbe procedere con un’operazione combinata di efficientamento e di maggiore trasparenza (cfr. tabella 2). Ma queste cifre potrebbero ulteriormente aumentare a seguito dei criteri che saranno adottati per poter applicare un riconoscimento forfetario delle suddette attività “a funzione”, in base a quanto disposto da un apposito Decreto Ministeriale sul tema1. 3. La difficoltà dell’ospedalità pubblica nel fare effettiva ristrutturazione e riorganizzazione secondo una logica di maggiore efficienza alimenta a sua volta una deflazione dovuta al trasferimento di oneri economici e normativi sui soggetti di offerta dei servizi ospedalieri privati accreditati nel loro complesso. Si ricordi a tale proposito che la spesa ospedaliera riconosciuta al privato accreditato nel suo complesso si contrae tra il 2010 e il 2014, a prezzi costanti (cfr. tabella 3), nella misura del -9,4%, contro una diminuzione pari a meno della metà per le strutture ospedaliere pubbliche (4,1%). Senza contare che le strutture private accreditate nel loro complesso assorbono il 13,8% della spesa ospedaliera pubblica totale contro l’86,2% delle strutture pubbliche a cui – come appare ovvio – dovrebbe far capo un impegno proporzionalmente maggiore dal punto di vista dell’efficientamento e quindi con un adeguato risparmio di spesa (tanto più che le strutture private accreditate col suddetto 13,8% di spesa loro riconosciuta forniscono il 28,2% delle giornate di degenza complessive, garantendo il 23,3% dei ricoveri per acuti a livello nazionale), come evidenzia sempre la tabella 3. 
                                               
 1 D.M. di attuazione dell’Art. 1, comma 526 della Legge di Stabilità 2016, sulla base dell’Art. 8-sexies del D.lgs 502/1992 e successive modificazioni. 
Si tenga poi presente che l’obiezione – talvolta avanzata – circa il presunto basso livello di complessità delle prestazioni fornite dalle strutture accreditate nel loro complesso2 non sembra corrispondere per nulla ai dati oggettivi. È stato infatti calcolato che l’incidenza delle prestazioni di alta complessità che fanno capo agli Ospedali privati accreditati è pari – come media nazionale – al 17,5% contro il 13,9% degli ospedali pubblici, ma tale differenza in favore dei primi si ripete in tutte le circoscrizioni geografiche e per quasi tutte le Regioni, come evidenzia la tabella 4. 4. E infine esiste una deflazione da razionamento di fatto dei servizi offerti nell’ambito dell’ospedalità pubblica. L’origine in questo caso del fenomeno ha a che fare con l’impatto dei provvedimenti di spending review, intrapresi nel quadro delle politiche di austerità, il quale per le strutture pubbliche ha evidenziato la difficoltà di rispondere sul piano dell’efficientamento profondo del proprio modo di operare, anche per le ben note rigidità che presenta il sistema pubblico. Ma il risultato è stato inevitabilmente quello di una riduzione e di un progressivo peggioramento dei servizi rivolti ai pazienti. Tanto per esemplificare (cfr. tabella 5): − nel periodo 2009-2014 si riduce il numero dei posti letto (-9,2%), il numero di ricoveri (-18,3%) e delle giornate di degenza (-14,0%), tendenze queste che comprendono certamente anche uno sforzo di maggiore appropriatezza delle prestazioni e di riconduzione delle dotazioni a standard internazionali, ma a ciò si è affiancata la contrazione, il ritardo o il peggioramento delle prestazioni fornite, accentuato anche dalla progressiva riduzione del personale (-9,0% tra il 2010 e il 2014); − aumentano in parallelo gli oneri per gli utenti, visto che nel periodo 2009-2015 i ticket per le prestazioni crescono del 40,6%, quelle per le visite intramoenia a pagamento presso gli Ospedali pubblici del 21,9% e quelli dei ticket per i farmaci del 76,7%; mentre le addizionali Irpef crescono con costanza (almeno fino al 2015) raggiungendo, salvo un paio di Regioni, incrementi tra il 23,6% e il 124,0%; − col risultato che la percezione del logoramento del Sistema Sanitario Nazionale raggiunge nel 2016 il 67,2% dei care-giver (ma con un incremento rispetto all’anno prima pari al 5,5%), mentre i pazienti cercano soluzioni alternative presso le strutture private (accreditate e non), a cui si aggiunge la spinta ad utilizzare strutture ospedaliere presenti in altre Regioni rispetto a quella di residenza: il tutto portando inevitabilmente anche a fenomeni di rimando e/o di rinuncia alle prestazioni.                                                
 2 Esse comprendono Policlinici privati, Irccs privati e Fondazioni private, Ospedali classificati, Presidi USL, Enti di ricerca, Case di cura private. 
Si ricorda anche come i Piani di Rientro abbiano spesso peggiorato la deflazione da razionamento in quanto, applicando una logica essenzialmente di tipo economico-finanziario (con l’obiettivo esplicito di ridurre i costi), hanno finito col ridurre (ma non col tutelare abbastanza) quantità e qualità dei servizi. In particolare a proposito di rimandi e rinunce alle cure, fenomeni che sono ormai emersi da qualche anno, si è voluto sollevare il tema delle conseguenze di tali fenomeni sull’outcome di salute degli italiani in una prospettiva di medio periodo. Pur sapendo come sia difficile misurare in maniera appropriata la correlazione che può esistere tra tali fenomeni oggi e l’impatto che essi potranno avere domani sullo stato di salute dei cittadini. E tuttavia si è voluto ragionare attorno ad alcune stime, costruite sui dati ottenuti dall’apposita indagine sui care-giver di quest’anno, che non solo ha rilevato i fenomeni di rimando e di rinuncia nel 2016, ma ha anche approfondito il relativo processo di accumulo, mettendo in relazione i rimandi e le rinunce sperimentate in precedenza nel 2015 e addirittura nel 2014. Il risultato (cfr. tabella 6) è che il 16,2% delle famiglie italiane ha rimandato una o più prestazioni nel 2016 (fenomeno che ha coinvolto tra 4 e 8 milioni di persone) e che il 10,9% delle famiglie ha invece rinunciato, sempre nell’anno 2016 (con 2,7-5,4 milioni di persone interessate): il tutto con una differenziazione – come è ovvio – tra disagi gravi e disagi leggeri, come viene esplicito nella tabella richiamata. Se poi si considerano le famiglie che hanno rimandato e/o rinunciato a una o più prestazioni nel 2015 e nel 2014, si vede come tale processo di accumulo interessi rispettivamente il 41,6% delle famiglie per quanto riguarda il 2015 (pari a 1,1-2,2 milioni di persone) e il 40,2% per il 2014 (pari ancora a 1,12,2 milioni di persone). L’intreccio tra rimandi e rinunce nel singolo anno solare e quello presente negli anni che lo precedono serve a ricordarci inoltre come le esigenze di controllo e di riduzione della spesa – pure necessarie – corrono il rischio tuttavia di avere delle ripercussioni negative non solo sull’outcome di salute dei cittadini tra qualche anno (anche a seguito del processo di progressivo invecchiamento della popolazione), ma anche di trasformarsi in costi aggiuntivi da un possibile aggravamento delle condizioni dello stato di salute, che in qualche modo vengono “spostati” in avanti ma non “eliminati”. 5. Bisogna dunque prendere atto che il sentiero si sta facendo stretto, in quanto non si può ragionevolmente ritenere di mantenere un modello basato su un processo di tipo deflattivo che negli anni finisce inevitabilmente per ipotecare il principio universalistico e solidale che, almeno formalmente, si ribadisce essere alla base del nostro Sistema Sanitario Nazionale. Diventa 
perciò necessario procedere ad una “manutenzione straordinaria” di quest’ultimo che deve tener conto della forbice (inevitabile): − tra la crescita (ben nota) della domanda di servizi e la non parallela disponibilità di risorse; − tra strutture ospedaliere di punta, caratterizzate da un’elevata qualità delle prestazioni e strutture di tipo intermedio che invece non sempre riescono a garantire una qualità accettabile e mediamente diffusa in tutte le Regioni italiane; − e tra significative differenze interne alle strutture ospedaliere (siano esse di alto o di medio livello) quanto a capacità di permanente efficientamento sul fronte gestionale e a capacità di tenuta, in parallelo, dei servizi per i pazienti. La conseguenza è che bisognerà far crescere l’abilità delle strutture di “fare di più e meglio con meno”, riuscendo così a liberare risorse oggi bloccate dalla difficoltà di procedere ad una ristrutturazione e riorganizzazione sostanziale delle strutture pubbliche. E in questo una maggiore trasparenza dei bilanci aiuterebbe a misurare, anno per anno, gli impegni di revisione gestionale effettivamente messi in atto, potendo così meglio confrontare il livello di efficienza delle diverse strutture all’interno del pubblico e tra strutture pubbliche e private accreditate. In realtà la manutenzione straordinaria richiamata evoca l’esigenza di ripensare lo stesso Patto con i Cittadini per quanto riguarda la tutela e la promozione della salute, di cui peraltro i cittadini stessi sono ben consapevoli, visto che già l’anno scorso il 77% dei care-giver intervistati riconosceva che ormai “non sarà più possibile dare tutto a tutti” e il 71% ribadiva l’esigenza di “promuovere un nuovo sistema di welfare, in cui possano convergere coperture pubbliche, coperture assicurative private (individuali, collettive, aziendali, di categoria o di territorio) allo scopo di creare una situazione di migliore equilibrio tra esigenze crescenti delle persone e possibilità di dare risposte eque e solidali nel loro insieme”. Bisogna dunque uscire dalla trappola deflattiva richiamata, la quale oggi finisce col punire gli utenti più deboli e col delegittimare il sistema attraverso il suo progressivo logoramento nei fatti e nella relativa percezione da parte di utenti e cittadini. 
 
 
Torna su
Carenze di sangue in nove Regioni, appello ai donatori

 

 

Carenze di sangue in nove Regioni, appello ai donatori

Nel Lazio la situazione più critica. Secondo il Centro nazionale sangue (Cns), maltempo e malanni di stagione hanno scoraggiato l’afflusso ai centri trasfusionali. Le associazioni in campo per promuovere le donazioni


Mancano scorte di sangue in nove Regioni italiane, soprattutto nel Lazio, ma anche in Abruzzo, Toscana, Campania, Basilicata, Liguria, Umbria, Marche, e Puglia. In totale, mancano all’appello 2.600 unità di globuli rossi. Per quali ragioni? Probabilmente a causa dell’epidemia influenzale che tiene a letto molti italiani e del maltempo che sta scoraggiando l’accesso ai centri dove è possibile donare. È questo, in sintesi, il quadro descritto dal Centro nazionale sangue (Cns), che ha inviato alle Strutture regionali per il coordinamento delle attività trasfusionali (Src) un invito “a coordinarsi con le associazioni di donatori per far fronte all’emergenza”.

“La mobilitazione – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro Nazionale Sangue – deve riguardare però tutte le regioni, non solo quelle che hanno carenze; l’autosufficienza per quanto riguarda il sangue, infatti, è sovraziendale e sovraregionale e in questi casi diventa vitale la compensazione coordinata tra regioni”.

La carenza di sangue può mettere a rischio l’esecuzione di interventi chirurgici e di terapie per pazienti con malattie come la talassemia che necessitano di continue trasfusioni. L’invito per tutti i donatori è contattare l’associazione di appartenenza o il Servizio Trasfusionale di riferimento per programmare una donazione. “Le associazioni e federazioni dei donatori di sangue – sottolinea Aldo Ozino Caligaris, portavoce del Civis (Coordinamento interassociativo volontari italiani sangue) – devono intensificare la chiamata dei donatori periodici e associati sulla base di quanto concordato con le Src attraverso una programmazione straordinaria per cercare di sopperire alle necessità contingenti. È inoltre fondamentale il coinvolgimento di nuovi volontari che possano garantire in maniera costante la disponibilità di emocomponenti, al fine di assicurare la necessaria terapia trasfusionale ai cittadini che ne hanno bisogno”.

Nota della Redazione

E noi continuiamo ad affermare da anni che............. Senza il coinvolgimento dei residenti nel Lazio grazie ad una campagna annuale di informazione e di sensibilizzazione......Non risolviamo il problema!!!!!!! E questo è compito delle istituzioni!!!

E senza un parco adeguato di Autoemoteche regionali capaci ed efficenti, da anni costituito da 3 mezzi di cui uno da soli due lettini, non si aiutano le Raccolte esterne! Per far fronte a questa deficenza EMA-ROMA ne ha acquistata una affrontando una spesa importante!

 

 

 

Torna su
Morbo di Alzheimer, una molecola sintetica può bloccarne i danni

Morbo di Alzheimer, una molecola sintetica può bloccarne i danni

Nel mirino la proteina tau, che contribuisce al normale funzionamento dei neuroni del cervello, ma che può portare alla formazione di grovigli tossici. I ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis hanno dimostrato che i livelli della proteina tau possono essere ridotti


Speranze contro il morbo di Alzheimer da uno studio americano. Nel mirino la proteina tau, che contribuisce al normale funzionamento dei neuroni del cervello. In alcune persone, però, si raccoglie in grovigli tossici che danneggiano le cellule cerebrali, tipici appunto dell’Alzheimer. Ora i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis hanno dimostrato che i livelli della proteina tau possono essere ridotti – invertendo addirittura alcuni dei danni neurologici provocati dai ‘grovigli’ – da una molecola sintetica che ha come bersaglio le istruzioni genetiche necessarie per produrre la proteina tau. Lo studio, condotto su topi e scimmie, è pubblicato su ‘Science Translational Medicine’. I risultati suggeriscono che la molecola sintetica – un oligonucleotide antisenso – potrebbe trattare le malattie neurodegenerative caratterizzate da anomalie della tau. “Abbiamo dimostrato che questa molecola abbassa i livelli della proteina tau, prevenendo e in alcuni casi invertendo il danno neurologico”, ha detto Timothy Miller, docente di neurologia e autore senior dello studio. “Questo composto è il primo ad aver dimostrato di invertire i danni legati al cervello e ad avere anche il potenziale per essere usato nei pazienti”.

Miller e colleghi hanno studiato topi geneticamente modificati che producono una forma mutante di tau umana, che si accumula facilmente. I ricercatori hanno somministrato una dose di oligonucleotide anti-tau o un placebo a topi di nove mesi ogni giorno per un mese, e hanno poi misurato gli accumuli di proteina nel cervello quando i topi avevano dodici mesi. Ebbene, i risultati mostrano delle importanti riduzioni dei livelli di proteina, suggerendo che il trattamento non solo ha fermato, ma ha anche invertito i danni da accumulo di tau. Gli animali trattati sono vissuti più a lungo degli altri, mostrando migliori capacità cognitive e mnemoniche. Trattamenti con oligonucleotidi recentemente sono stati approvati dalla Food and Drug Administration per due malattie neuromuscolari: Duchenne e atrofia muscolare spinale (Sma). L’oligonucleotide per la Sma è stato scoperto da Ionis Pharmaceuticals, che ha collaborato con il team di Miller per sviluppare il trattamento al centro di questo studio. La Washington University detiene brevetti congiunti con Ionis Pharmaceuticals per l’uso di oligonucleotidi mirati a ridurre i livelli di tau.
I ricercatori hanno trattato inoltre gruppi di scimmie, rilevando importanti benefici. “Si tratta di un promettente nuovo approccio, ma dobbiamo condurre ulteriori test” prima di passare alla sperimentazione sull’uomo, conclude Miller.

 

Torna su
Mal di schiena cronico, dati real life promuovono ossicodone/naloxone contro dolore neuropatico

Aziende

Mal di schiena cronico, dati real life promuovono ossicodone/naloxone contro dolore neuropatico

Nello studio OXYNTA, condotto su 261 pazienti, la combinazione si è rivelata superiore del 55,5% al tapentadolo nel procurare sollievo dal dolore, ridurre la disabilità e migliorare la qualità di vita, a fronte di una buona tollerabilità

di Redazione Aboutpharma Online 26 gennaio 2017

 

Dati “real life” provenienti da uno studio su 261 pazienti con mal di schiena cronico associato a dolore neuropatico promuovono la combinazione ossicodone/naloxone. A confronto con tapentadolo, altro farmaco appartenente alla classe degli oppioidi, l’associazione si è rivelata superiore del 55,5% nel procurare sollievo dal dolore, ridurre la disabilità e migliorare la qualità di vita, a fronte di una buona tollerabilità. Lo spiega l’azienda Mundipharma in una nota, illustrando i dati dello studio OXYNTA.

Lo studio – spiega Mundipharma – è stato condotto per 12 settimane in condizioni di vita “reale” su di età compresa tra 20 e 71 anni, inseriti nel German Pain Registry e affetti da lombalgia cronica con componente neuropatica e dolore moderato-severo, che non avevano tratto beneficio o avevano avuto effetti collaterali da precedenti trattamenti con altri analgesici. Sono stati randomizzati in cieco 128 pazienti al trattamento con ossicodone-naloxone e 133 hanno ricevuto tapentadolo. L’endopoint primario prevedeva una valutazione combinata di 6 parametri: 3 relativi all’efficacia (miglioramento del 30% del dolore, della disabilità e della qualità di vita) e 3 relativi alla tollerabilità (assenza di eventi avversi a livello del sistema nervoso centrale, no abbandono della terapia per effetti collaterali e funzionalità intestinale nella norma). Ossicodone/naloxone ha raggiunto l’endpoint primario combinato, dimostrandosi superiore a tapentadolo (39,8% contro 25,6%), con un incremento del 55,5% nel tasso di risposta dei pazienti. Questi risultati sarebbero riconducibili alla sua maggiore attività analgesica, che ha consentito di ottenere miglioramenti più significativi sul dolore, la disabilità e la qualità di vita. I profili di tollerabilità dei due farmaci sono stati sostanzialmente sovrapponibili.

“I risultati dello studio – riassume Stefano Masiero, ordinario di Medicina Fisica e Riabilitativa, Università degli Studi di Padova – hanno evidenziato che l’associazione ossicodone/naloxone non solo si è dimostrata non inferiore a tapentadolo e ben tollerata ma ha avuto un’efficacia analgesica superiore per quanto riguarda il miglioramento del dolore, della disabilità ad esso correlata e della qualità di vita. L’auspicio è che questi dati contribuiscano in futuro a ridurre abitudini prescrittive poco corrette e l’abuso di farmaci, soprattutto FANS, talvolta responsabili di serie complicanze, come quelle gastroenteriche o cardiovascolari”.

“La lombalgia costituisce uno dei motivi più frequenti di ricorso al medico di medicina generale e determina da un minimo di 3,5 prestazioni a settimana a 2 visite al giorno”, aggiunge Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia. “Se in molti casi – aggiunge – può esserci, nella prima fase, una forma infiammatoria che giustifica l’uso per breve tempo di FANS o COXIB, in presenza di una componente neuropatica la terapia deve rapidamente orientarsi verso altri farmaci. Gli analgesici oppioidi sono stati a lungo ghettizzati a un utilizzo nel solo dolore da cancro. Negli ultimi anni, grazie alle semplificazioni introdotte dalla Legge 38 e a una maggiore cultura in materia, è cresciuta la fiducia verso questi farmaci da parte dei medici di famiglia, complice anche la disponibilità di nuove formulazioni, più maneggevoli e meglio tollerate, come l’associazione che unisce all’ossicodone il suo antagonista naloxone”.

La lombalgia cronica – ricorda la nota di Mundipharma – è una tra le più comuni e invalidanti condizioni dolorose, colpisce quasi un adulto su quattro. Nel 20-35% dei casi, può presentare una componente neuropatica, dovuta alla compressione o lesione di un nervo, che rende particolarmente difficile la gestione del problema, richiedendo un approccio specifico con terapie in grado di agire su un dolore più intenso e di natura più complessa. “È fondamentale offrire ai pazienti soluzioni terapeutiche che siano efficaci contro il dolore e, al tempo stesso, ben tollerate. L’impegno di Mundipharma va da sempre in questa direzione”, sottolinea Amedeo Soldi, Medical Director Mundipharma Pharmaceuticals.

 

 

Torna su
Salute sul web, molti italiani si fidano delle prime informazioni che trovano. Arriva il decalogo anti-bufale

Sanità e Politica

Salute sul web, molti italiani si fidano delle prime informazioni che trovano. Arriva il decalogo anti-bufale

Più dell’88% degli italiani s’informa in rete, ma il 44% non presta attenzione all’affidabilità delle fonti. Da Ibsa Foundation una guida per documentarsi online in sicurezza

di Redazione Aboutpharma Online 26 gennaio 2017

 

Quasi nove italiani su dieci consultano il web per ricerca informazioni sulla salute. Non tutti si fidano, ma ben il 44% ritiene che rivolgersi a “dottor Google” sia “poco o per nulla rischioso”. È quanto emerge da un sondaggio commissionato da Ibsa foundation for scientific research e presentato oggi a Roma in occasione del workshop “E-Health tra bufale e verità: le due facce della salute in rete”, promosso insieme a Cittadinanzattiva.

“L’enorme possibilità offerta dalla rete in tema di disponibilità di informazioni può trasformarsi in un pericolo se gli utenti non sono in grado di valutare l’affidabilità di quello che trovano – spiega Silvia Misiti, direttore della Ibsa foundation for scientific research – Questo è tanto più vero quanto più sono delicate le aree oggetto delle ricerche. La decisione di iniziare dalle associazioni di pazienti è scaturita dal fato che rappresentano un anello di congiunzione sempre più prezioso tra il mondo dei medici e la necessità dei pazienti che rappresentano”.

Incrociando i dati relativi alla frequenza dell’utilizzo del web nella ricerca di informazioni sulla salute e il grado di fiducia della rete stessa, emerge che gli intervistati della fascia di età 24-34 anni vedono nella rete un “supporto” ma sono più “diffidenti” rispetto ai 45-54enni. “Diffidenti a priori” (usano poco il web e lo percepiscono come fonte “ad alto rischio”) sono, invece, gli ultra 65enni. Notevoli anche le differenze rispetto al titolo di studio: a ricorrere alla rete in cerca di informazioni sulla salute è il 96% dei laureati contro il 24,5% di chi non è andato oltre la licenza elementare. Scarsa anche l’attenzione verso le fonti: il 44% si affida per abitudine ai primi risultati della pagina con una differenza rilevante tra i 18-24enni (55%) e gli ultra 65enni (22,7%).

“È soprattutto quando il cittadino è a caccia di informazioni sulla salute sul web, e questo accade sempre più spesso, che le nozioni di base diventano l’unica arma per difendersi da informazioni parziali o scorrette – spiega Antonio Gaudioso, segretario generale Cittadinanzattiva – ma quando parliamo di “health literacy” non ci riferiamo solo a questo: maggiori competenze significano anche un migliore rapporto tra medico e paziente. Un circolo virtuoso che spesso si traduce in una terapia più efficace e quindi una salute migliore. È una materia di cui in Italia si parla ancora troppo poco ma che ha e avrà una rilevanza sempre maggiore”.

Per imparare a difendersi dalle bufale in rete arriva anche il primo decalogo sulla “health literacy”. Tra i consigli, prestare massima attenzione alle fonti, privilegiando le pagine ufficiali di organizzazioni riconosciute e affidabili; fare attenzione a forum e blog, fonti “insidiose” che suscitano empatia ma non è detto abbiano affidabilità scientifica; controllare la data di pubblicazione dei contenuti che potrebbero non essere più attuali; non cercare solo conferme; fare attenzione all’effetto paura quando cerchiamo sul web sintomi (veri o presunti). E ancora: non vergognarsi di chiedere al medico di ripetere, se parla rapidamente o con termini troppo tecnici; farci accompagnare da qualcuno nelle visite più importanti; ripetere quello che si è capito rispetto alla patologia e al percorso di cura prima di congedarci dal medico; capire a cosa servono i farmaci che si prendono. Infine, diffidare dai siti che dicono come curarci ma confrontarsi con un professionista da cui ricevere informazioni e le cure adatte alla sua condizione.

IL DECALOGO

Torna su
Pediatria, negli anni mancheranno sempre più medici dei bambini

Persone e Professioni

Pediatria, negli anni mancheranno sempre più medici dei bambini

Secondo il segretario regionale del Lazio della Federazione italiana medici pediatri, Teresa Rongai, tra il 2020 e 2025 ci saranno circa 4.600 pediatri in meno. Il mancato ricambio generazionale rischia di mettere a rischio la sostenibilità del sistema

di Redazione Aboutpharma Online 1 febbraio 2017

 

In Italia mancano i pediatri. A lanciare l’allarme è Teresa Rongai, segretario regionale Fimp (Federazione italiana medici pediatri) per il Lazio ad AdnKronos Salute. “A Roma, ma anche in molte altre città d’Italia, i pediatri attivi hanno raggiunto il massimale di ottocento bambini assistiti in convenzione. Una quota a cui si possono aggiungere ottanta piccoli pazienti in deroga – spiega l’esperta – tra fratellini di assistiti e neonati entro 3 mesi di età. Si calcola che nel 2010-15 abbiamo “perso” 1.750 pediatri, mentre in base ai dati anagrafici tra il 2015 e il 2020 ne andranno in pensione 3.630“.
Un’emorragia di dottori dei bambini “che la Fimp prevedeva e segnalava già dal 2014. E che nel 2015 ha visto un record di 7-800 pediatri pensionati in tutta Italia. Ma che non è destinata a fermarsi – avverte Rongai – Tra il 2020 e 2025 avremo ben 4.600 pediatri in meno. C’è, insomma, un problema di sostenibilità del sistema, con il quale i genitori italiani sono costretti a fare i conti. Ci chiamavamo pediatri di libera scelta perché le famiglie potevano scegliere liberamente lo specialista di fiducia vicino casa. Ora, di fatto, questa possibilità di scelta in molti casi non c’è più”.
E la situazione rischia di peggiorare visto il mancato ricambio generazionale. “Oggi sono circa undicimila i pediatri di libera scelta attivi, mentre ne servirebbero almeno tremila in più. Dalla nostra specialità escono però solo 280 giovani l’anno, troppo pochi per sanare le uscite”, chiarisce l’esperta.
Secondo il segretario regionale Fimp Lazio, insomma, è arrivato il momento di ripensare la programmazione. “E bisogna farlo in fretta, anche perché la gobba pensionistica avrà il suo apice nel 2020-30”, ricorda Rongai.

 

Torna su
Spesa farmaceutica, ospedaliera fuori controllo: a ottobre 2016 tetto sfondato per 1,55 miliardi

Spesa farmaceutica, ospedaliera fuori controllo: a ottobre 2016 tetto sfondato per 1,55 miliardi

Ecco i nuovi dati dell’Agenzia italiana del farmaco, relativi ai primi dieci mesi dell’anno scorso. In rosso tutte le Regioni, tranne la P.A. di Trento. Territoriale con i conti in ordine grazie a fondo innovativi e payback. Convenzionata in calo e ticket in aumento

di Redazione Aboutpharma Online 6 febbraio 2017

 

Nei primi dieci mesi del 2016 la spesa farmaceutica ospedaliera – che pesa circa 4,77 miliardi di euro – ha sfondato il tetto programmato (3,5% sul totale del Fondo sanitario nazionale) per oltre 1,55 miliardi. Uno scostamento dell’1,7%, solo in lieve miglioramento rispetto al dato di settembre (1,8%). È quanto emerge dal monitoraggio dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) relativo al periodo gennaio-ottobre 2016. A livello regionale, la spesa farmaceutica in corsia ha superato l’asticella del 3,5% in tutte le Regioni, con la sola eccezione della Provincia Autonoma di Trento.

Diverso lo scenario per la spesa territoriale, che si attesta al di sotto del tetto programmato (11,35%) per 49,5 milioni di euro. Un dato, spiega Aifa, al netto delle stime sull’impatto del fondo per i farmaci innovativi e del payback dovuto dalle aziende alle Regioni. Senza il calcolo di queste voci si avrebbe uno sforamento di circa 1,53 miliardi.

Quanto alla spesa complessiva (ospedaliera e territoriale), la media nazionale si è attestata al 16,49% (15,16 miliardi) rispetto al tetto programmato del 14,85%, con uno scostamento assoluto pari a circa 1,5 miliardi. Anche nel caso della spesa complessiva la maggior parte delle Regioni è in rosso, con l’eccezione di Veneto, Valle D’Aosta, Trento e Bolzano.

Il confronto tra il periodo gennaio-ottobre 2016 e lo stesso arco di tempo dell’anno precedente conferma il trend in discesa per la spesa convenzionata in farmacia: quella netta (senza sconti a carico della filiera e ticket) si riduce a 6.842 milioni di euro, con una flessione del 3,6% (256 milioni in valore assoluto). Cresce, invece, la spesa a carico dei cittadini, intesa come somma del ticket per ricetta e dell’eventuale quota di compartecipazione sul prezzo del farmaco a brevetto scaduto rispetto a quello di riferimento: in aumento dell’1,1% rispetto ai primi dieci mesi del 2015. In aumento, a doppia cifra, la spesa per la distribuzione diretta di fascia A: raggiunge quota 4,55 miliardi di euro, con un balzo del 16,1 per cento.

 

Torna su
Papillomavirus, uno sconosciuto per circa un terzo dei giovani under24

Papillomavirus, uno sconosciuto per circa un terzo dei giovani under24

Tra i ragazzi italiani (12-24 anni), c’è ancora bisogno di informazione: il 36% non ne ha mai sentito parlare. Ecco cosa è emerso da un’indagine del Censis sulle malattie sessualmente trasmesse


Il 36,4% dei giovani italiani di 12-24 anni non ha mai sentito parlare del Papillomavirus umano (Hpv). Una minoranza rispetto al restante 63,6% che dice di saperne qualcosa, ma che rimanda comunque alla necessità di fare uno sforzo in più sul piano dell’informazione. È uno dei dati che emerge dall’indagine “Conoscenza e prevenzione del Papillomavirus e delle patologie sessualmente trasmesse tra i giovani in Italia” realizzata dal Censis con il supporto di Sanofi Pasteur-Msd e distribuita da Msd Italia.

Tra le ragazze – spiega il Censis – la quota di chi dice di aver sentito parlare del virus sale all’83,5%, mentre tra i maschi si riduce al 45%. Rispetto alle modalità di trasmissione dell’Hpv, la gran parte cita i rapporti sessuali completi (82%), ma una quota inferiore sa che l’Hpv si può trasmettere anche attraverso rapporti sessuali non completi (58%). Per il 64,6% il preservativo è uno strumento sufficiente a prevenire la trasmissione del virus, ma solo il 18% è consapevole del fatto che non è possibile eliminare i rischi di contagio se si è sessualmente attivi. L’80,0% degli “informati” sa che si tratta di un virus responsabile di diversi tumori, soprattutto di quello al collo dell’utero; il 62,4% sa che si stratta di un virus che causa diverse patologie dell’apparato genitale, sia benigne che maligne ma che molto spesso rimane completamente asintomatico; il 37,1% sa invece che l’Hpv è responsabile di tumori che riguardano anche l’uomo, come quelli anogenitali. Infine, un terzo pensa che questo virus colpisca solo le donne e il 26,4% sa che si tratta di un virus responsabile dei condilomi genitali.

Estendendo lo sguardo alla totalità delle infezioni e malattie sessualmente trasmesse, soltanto il 6,2% non ne ha mai sentito parlare, ma il dato sale 18,7% nella fascia di età 12-14 anni. È l’Aids la patologia che viene citata più spesso (89,6%). Solo il 23,1% indica la sifilide, il 18,2% la candida. Con percentuali tra il 15% e il 13% vengono citate la gonorrea, le epatiti e l’herpes genitale. Tra le fonti di informazione, prevale l ruolo dei media (tv, riviste, internet), utilizzate dal 62,3%. Poi viene riconosciuto come significativo il contributo della scuola (53,8%), ma con differenze rilevanti tra le diverse aree geografiche del Paese: si passa da oltre il 60% al Nord al 46% al Centro e al 48% al Sud.

Più in generale, l’indagine esplora il rapporto tra giovanissimi e sessualità. L’età media al primo rapporto sessuale è di 16,4 anni. Sale a 17,1 quella del primo “rapporto completo”. Il 74,5% si protegge sempre per evitare infezioni e malattie a trasmissione sessuale. La distinzione tra contraccezione e prevenzione non è sempre chiara tra i giovani: il 70,7% usa il profilattico come strumento di prevenzione, ma il 17,6% dichiara di ricorrere alla pillola anticoncezionale, collocandola erroneamente tra gli strumenti di prevenzione piuttosto che tra i mezzi di contraccezione.

 

Torna su
Si può licenziare un dipendente per incrementare i profitti aziendali?

Legal & Regulatory

Si può licenziare un dipendente per incrementare i profitti aziendali?

La decisione della Cassazione sulla liceità del licenziamento per incrementare i profitti aziendali mette l'Italia in linea con altri Paesi europei, tra cui Paesi Bassi e Regno Unito. La Francia, invece, considera legittimo il licenziamento solo se intimato a fronte di crisi aziendale

di Antonella Negri e Arianna Colombo, membri del Focus Team Healthcare e Life sciences di BonelliErede 16 febbraio 2017

 

La recentissima Cass. n. 25201 del 7 dicembre 2016, in contrasto con il prevalente orientamento giurisprudenziale, ha ammesso la possibilità di licenziare un dipendente anche con l’unica finalità di riorganizzare l’impresa per incrementarne i profitti, a prescindere dalla sussistenza di una crisi o di una sfavorevole situazione aziendale o, comunque, della necessità di sostenere spese straordinarie.
Nella libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. – argomenta la Corte – rientra anche la facoltà per il datore di lavoro di optare per una ristrutturazione aziendale che abbia l’effetto di snellire l’organico aziendale con l’unico fine di ottenere una maggiore efficienza gestionale e produttiva o incrementare la redditività di impresa (e quindi il profitto).
Resta fermo il limite del divieto di un uso strumentale del licenziamento, che dovrà comunque poggiare su una effettiva soppressione della posizione: continua, dunque, ad essere vietata, sottolinea la Corte, la mera sostituzione del lavoratore licenziato con un dipendente neo-assunto, meno retribuito e adibito alle medesime mansioni.
E resta confermata  la verifica dell’effettività e non pretestuosità dei motivi indicati nella lettera di licenziamento e del nesso causale tra questi motivi e il licenziamento stesso. È necessario, dunque, prestare particolare attenzione, nel redigere la lettera di licenziamento, evitando di  menzionare  motivi diversi da quelli effettivi (quali, ad esempio, situazioni sfavorevoli, crisi o cali di fatturato inesistenti) o a rappresentare situazioni aziendali non rispondenti alla realtà o non coerenti con essa. L’impossibilità di dimostrare in giudizio i motivi addotti e il nesso con l’intimato licenziamento condurrebbe, infatti, alla illegittimità del licenziamento per mancanza di veridicità o per pretestuosità delle ragioni addotte dall’imprenditore.

La recente decisione della Cassazione è in linea con la disciplina vigente in altri paesi europei in materia di licenziamento per motivi economici.
Ad esempio, sia in Regno Unito sia nei Paesi Bassi, il licenziamento è legittimo anche in assenza di una crisi economica dell’impresa. Secondo il diritto inglese, infatti, il datore di lavoro può legittimamente licenziare un dipendente qualora ritenga che l’attività svolta da quest’ultimo non sia sufficientemente redditizia, fermo il rispetto di alcuni requisiti procedurali (es. consultazioni sindacali).
Anche nei Paesi Bassi è ammesso il licenziamento al fine di incrementare il profitto, purchè il datore di lavoro riceva dalla competente agenzia governativa l’autorizzazione al licenziamento.
Più stringente la disciplina in Francia, dove il licenziamento di un lavoratore per incrementare il profitto non è invece ammesso. La legge francese, infatti, considera legittimo il licenziamento solo se intimato a fronte di crisi aziendale, di cessazione dell’attività, di cambiamenti tecnologici o di riorganizzazione per salvaguardare la competitività dell’azienda.

 

A cura di Antonella Negri e Arianna Colombo, membri del Focus Team Healthcare e Life sciences di BonelliErede

Torna su
Se i farmaci veterinari costano 10 volte di più di quelli umani

Sanità e Politica

Se i farmaci veterinari costano 10 volte di più di quelli umani

La denuncia sulla distorsione del prezzo arriva dall’associazione Codici, che aggiunge come sia necessaria “una contrattazione del prezzo che porti a una politica su o equa e controllata

di Redazione Aboutpharma Online 15 febbraio 2017

 

Farmaci che costano anche 90-100 volte in più rispetto quelli per uso umano seppure identici. È il caso del ketoprofene per uso veterinario che seppure identico raggiunge cifre esorbitanti. La denuncia sulla distorsione del prezzo arriva dall’associazione Codici, che aggiunge come sia necessaria “una contrattazione del prezzo che porti a una politica su o equa e controllata. “Non è più accettabile che anche quando le molecole per uso veterinario siano uguali a quelle utilizzate per gli umani, arrivino a costare così tanto”. L’Associazione è intervenuta in Commissione Igiene e Sanità nell’ambito dell’esame delle due proposte di legge n. 499/2013 e 500/2013. Per Codici, le Pdl “non avvicinano affatto la normativa dei farmaci veterinari a quelli utilizzati nel trattamento umano; e meno che mai garantiscono pari tutela di salute a condizioni decisamente economiche, sia per gli utenti che per il sistema sanitario veterinario nel suo complesso”.

Il problema dei farmaci veterinari inizia a farsi sentire anche nel nostro Paese dove, sempre secondo l’associazione, ci troviamo di fronte a una vera e propria distorsione del mercato dei farmaci veterinari, con prodotti raggiungono in media costi superiori anche di 10 volte rispetto a quelli umani. “I costi delle cure per gli animali non sono più accettabili – aggiunge Codici – e pongono l’obbligo per le autorità nazionali di garantire la tutela della salute degli animali, anche per prevenire eventuali trasmissioni di malattie agli umani. È al vaglio della Commissione europea il nuovo Regolamento europeo dei farmaci veterinari, che consentirà, molto probabilmente, l’uso in deroga dei farmaci veterinari non più a “cascata” ma a “ventaglio”, dando piena possibilità di scelta al veterinario di una qualsiasi altra opzione terapeutica disponibile, in caso di mancanza di farmaco veterinario”.

“A nostro avviso – continua – il nuovo Regolamento europeo dei farmaci veterinari regolamenta in modo più soddisfacente per i consumatori la commercializzazione dei farmaci generici veterinari. Prevedendo l’identificazione del farmaco con il nome del principio attivo e non più gli attuali nomi commerciali e sarà imposta la dicitura “medicinale generico”, per una più facile e immediata identificazione da parte dei consumatori”.

Il problema però non riguarda solo i proprietari di animali d’affezione, ma anche Asl e Comuni che gestiscono numeri rilevanti di randagi e anche chi per esempio utilizza i cani nel lavoro (forze dell’ordine, protezione civile, non vedenti, pastori). L’elevato costo dei farmaci veterinari impedisce l’effettiva tutela della salute degli animali, rendendo impossibile per molte persone acquistare i farmaci necessari.

Nel frattempo aumentano anche le proteste dei consumatori, soprattutto tramite la sottoscrizione di petizioni promosse da alcune associazioni animaliste, con l’obiettivo di scuotere il ministero della Salute che finora sembra essersi disinteressato del problema. I medicinali veterinari non hanno alcun meccanismo di regolamentazione dei prezzi contrariamente a quanto avviene per quelli umani, che sono rimborsabili dal Ssn. “I prezzi – conclude Codici – sono determinati dalle dinamiche del mercato, in relazione a costi di produzione, autorizzazione all’immissione in commercio e rapporto domanda-offerta, caratterizzato da un mercato di dimensioni inferiori rispetto a quello dei medicinali umani e ripartito fra poche imprese, che sembra abbiano ogni interesse a tenere prezzi alti”.

 

Torna su
Dispositivi medici difettosi, anche gli organismi notificati sono responsabili nell’immissione in commercio

Dispositivi medici difettosi, anche gli organismi notificati sono responsabili nell’immissione in commercio

In cosa si incorre quando un medical device viene immesso in commercio e non risponde ai criteri previsti dalle normative comunitarie


Con la sentenza del 16 febbraio 2017, nella causa C-219/15, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato un importante principio, che sancisce la responsabilità degli organismi notificati per inadempimento colpevole, qualora non abbiano posto in essere gli adempimenti necessari in presenza di indizi che portino a ritenere che un dispositivo medico possa non essere conforme ai requisiti stabiliti dalle disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione europea che disciplinano la materia.
Come è noto, l’
articolo 2 della Direttiva 93/42 stabilisce che gli “Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché i dispositivi possano essere immessi in commercio e/o messi in servizio unicamente qualora rispondano alle condizioni prescritte dalla presente direttiva, siano correttamente forniti ed installati, siano oggetto di un’adeguata manutenzione e siano utilizzati in conformità della loro destinazione”. È altrettanto noto che per i dispositivi ad alto rischio (di classe III), come le protesi mammarie al silicone, il fabbricante, al fine dell’apposizione della marcatura CE, deve seguire la procedura di valutazione di conformità che richiede l’intervento di un organismo notificato. L’organismo notificato, previa verifica della conformità del prodotto ai requisiti indicati dalla direttiva, rilascia un certificato di conformità, effettuando successivamente controlli attraverso ispezioni e valutazioni periodiche per accertarsi che il fabbricante applichi il sistema di qualità approvato. Attraverso una procedura di rinvio pregiudiziale promossa dalla Corte federale tedesca (Bundesgerichtshof), alla Corte viene chiesto di interpretare se la disposizioni introdotte dalla direttiva 93/42 impongano all’organismo notificato incaricato della revisione (audit) del sistema di qualità di operare a tutela di tutti i potenziali pazienti e quindi se, in caso di violazione colposa degli obblighi posti a suo carico, esso possa essere chiamato a rispondere direttamente e illimitatamente nei confronti dei pazienti interessati. Alla Corte viene chiesto inoltre di precisare se, sempre in sede di interpretazione delle norme contenute nella direttiva (rectius del suo allegato II), venga posto a carico degli organismi notificati un obbligo generale o quantomeno circostanziato di controllo dei dispositivi nonché di visionare la documentazione aziendale del fabbricante e o di compiere ispezioni impreviste. Nella fattispecie all’origine della controversia pendente davanti al giudice nazionale, una paziente (la sig.ra Schmitt) si era fatta applicare in Germania delle protesi mammarie fabbricate in Francia. Tale fabbricante, successivamente fallito, era stato assoggettato negli anni precedenti a ripetute visite (preannunciate) da parte dell’organismo notificato (la TÜV Rheinland) senza peraltro che lo stesso provvedesse mai all’esame della documentazione commerciale o al controllo dei dispositivi. Ad esito dell’accertamento da parte delle autorità francesi della non conformità agli standard di qualità delle protesi mammarie a base di silicone industriale impiantate sulla signora Schmitt, quest’ultima decise di farsele rimuovere chiedendo la condanna della TÜV Rheinland al pagamento di quarantamila euro per non aver adempiuto in modo sufficiente ai propri obblighi.
La Corte, dopo aver rilevato come la direttiva sia volta a proteggere i destinatari finali dei dispositivi medici e come spetti in primis al fabbricante garantire la conformità del dispositivo medico ai requisiti posti dalla direttiva 93/42, constata come analoghi obblighi siano posti a carico anche degli Stati membri e degli organismi notificati, con particolare riferimento alle attività di sorveglianza del mercato.
Alla luce di quanto sopra, la Corte, rilevato come l’intervento dell’organismo notificato sia volto a proteggere i destinatari finali dei dispositivi medici, conclude nel senso che un inadempimento colpevole, da parte di detto organismo degli obblighi ad esso incombenti, in forza della direttiva nell’ambito della procedura relativa alla dichiarazione di conformità CE, può far sorgere la sua responsabilità nei confronti di tali destinatari, nel rispetto delle condizioni stabilite dal diritto nazionale.

A cura di Vincenzo Salvatore, membro Focus Team Healthcare e Life sciences di BonelliErede 

“Home page Brexit e il futuro europeo“

 

Torna su
Governance, risorse economiche e meno sprechi, ecco i tre passi per un miglior Ssn

Sanità e Politica

Governance, risorse economiche e meno sprechi, ecco i tre passi per un miglior Ssn

Al convegno Innovazione e Sostenibilità organizzato a Roma hanno parlato i big dell'healthcare italiano. La rotta tracciata è quella di seguire una governance che sappia far fruttare le qualità del sistema Italia riducendo al minimo i costi inutili

di Redazione Aboutpharma Online 22 febbraio 2017

 

Attenzione alle risorse economiche, governance, misurazione degli sprechi. Ecco i tre passi per garantire le migliori cure ai pazienti e investire in ricerca e innovazione. Quanto è emerso durante l’evento “Innovazione e Sostenibilità” organizzato ieri a Roma, indica la strada da seguire.
“Il Convegno di oggi ha l’obiettivo di sensibilizzare l’intera comunità del mondo della Salute sul notevole sviluppo che stanno avendo a livello mondiale le nuove terapie innovative. Il nostro compito sarà quello di garantire il più rapido accesso alle nuove terapie e, in particolar modo – ha detto Francesco Rossi, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e Past President della Società Italiana di Farmacologia (Sif) – ai nuovi farmaci biologici/biotecnologici, che attualmente ricoprono un ruolo chiave nel trattamento di numerose patologie gravi e invalidanti, come quelle di natura neoplastica e autoimmunitaria.
“Nonostante il momento di crisi economica che sta attraversando il nostro Paese oramai da tempo, bisogna auspicare a una sempre maggiore partnership pubblico-privato, senza però trascurare di valorizzare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica”, ha spiegato Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto superiore di Sanità.
Alessandro Aiuti, Direttore UO di Pediatria Immunoematologica, Ospedale San Raffaele, Milano, ha aggiunto che “la terapia genica è un approccio di medicina personalizzata che potrebbe offrire un trattamento curativo per alcune forme di malattie genetiche ereditarie e tumori. I risultati degli studi clinici sono molto promettenti”. Inoltre, secondo Aiuto, l’alleanza tra accademia, no profit ed industria sarà essenziale per accelerare il percorso di sviluppo clinico di questi farmaci innovativi.
Alla base di questo ottimismo c’è una sorta di rinascimento della ricerca. Massimo Scaccabarozzi, Presidente Farmindustria, spiega che “nel giro di poche decine di anni gli scenari per il trattamento delle patologie sono totalmente cambiati. Oggi sono settemila i farmaci in sviluppo nel mondo. Ecco perché una nuova e buona governance, unita alla certezza e alla prevedibilità delle regole, è necessaria per garantire il sistema e rendere l’Italia sempre più attrattiva e competitiva”.
Durante l’incontro si è parlato anche dell’aumento della domanda legata all’evoluzione demografica e alla cronicizzazione di molte patologie. Per rispondere alle nuove esigenze, l’arrivo dei generici, secondo Enrique Häusermann, Presidente di Assogenerici, è stato provvidenziale. “Questo meccanismo virtuoso rappresenta il valore distintivo delle nostre aziende. Generici equivalenti e biosimilari sono un’occasione di cui anche in futuro il Servizio sanitario nazionale ed il Paese non potranno permettersi di fare a meno”.
Häusermann snocciola i dati. “Tra il 2006 ed il 2016, grazie al filgastrim biosimilare, il numero dei pazienti trattati è aumentato di oltre il 53%. Le nostre sessanta aziende, per metà a capitale italiano, che danno lavoro a diecimila addetti investendo cento milioni di euro l’anno con un fatturato di 2,7 miliardi, sono pronte a dare il loro contributo. Ma per farlo serve un patto di stabilità pluriennale che non può che essere il frutto di un dialogo trasparente tra tutte le parti interessate. Le soluzioni giuste – continua il numero uno di Assogenerici – vanno trovate al tavolo della governance e vanno trovate in fretta, prima che l’avvento di nuovi farmaci innovativi attesi dai nostri pazienti esponga il sistema all’obbligo di “selezioni” insopportabili o imponga ai cittadini nuove rinunce alla cura”.
Infine l’evoluzione digitale, quella con la quale ogni aziende deve e dovrà fare i conti nell’immediato futuro. “In un mondo sempre più digital – sottolinea Andrea Mantovani, Country Market Access Head, Sanofi, Milano – è impensabile immaginare un rimborso dei farmaci che non tenga conto della Real World Evidence (esperienza clinica che il paziente vive ogni giorno al di fuori dello studio clinico). Allo stesso modo è fondamentale tenere conto del reale impatto sulla qualità di vita del paziente e degli outcome clinici anche in relazione alle condizioni di accesso già negoziate in precedenza”.

Torna su
Diabete, dieta “mima-digiuno” resetta le cellule del pancreas

 

 

Diabete, dieta “mima-digiuno” resetta le cellule del pancreas

Con un piano alimentare che simula gli effetti positivi ottenibili con sola acqua riattiverebbe le cellule beta per secernere insulina e tenere sotto controllo i livelli di glucosio. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cella dagli scienziati del laboratorio di Valter Longo


Una particolare dieta detta ‘mima-digiuno’ (Dmd) potrebbe essere usata per sconfiggere il diabete: infatti è risultata capace di riprogrammare cellule adulte del pancreas e ripristinare la funzione dell’organo, ovvero la produzione dell’ormone insulina che serve per regolare la quantità di zucchero nel sangue (glicemia). Lo rivela uno studio italiano condotto nel laboratorio di Valter Longo, lo scienziato che lavora tra la University of Southern California di Los Angeles e l’Ifom di Milano, e che ha ideato questo speciale piano alimentare che mima gli effetti positivi ottenibili col digiuno (solo acqua), ma senza digiunare e quindi senza troppe difficoltà e soprattutto senza rischi. La nuova ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cell e mostra le potenzialità della dieta di Longo sia sul diabete giovanile (di tipo 1 in cui le cellule produttrici di insulina non ci sono più perché hanno subito un attacco da parte del sistema immunitario) sia per il diabete più diffuso, di tipo 2 o insulino-resistente, quello legato anche all’obesità.
La Dmd è caratterizzata da alcuni giorni al mese di alimentazione con poche calorie e cibi ben selezionati (ad esempio pochi zuccheri, pochi grassi saturi, poche proteine etc) mentre per il resto del tempo si può seguire un’alimentazione normalissima. In questo lavoro Longo ha mostrato che la Dmd promuove la crescita di nuove cellule produttrici di insulina riducendo i sintomi del diabete di tipo 1 e tipo 2 nei topi. Gli stessi effetti sono stati ottenuti in provetta su cellule di pancreas umano. In pratica la dieta riaccende dei geni embrionali e trasforma cellule pancreatiche non adibite alla produzione di insulina in ‘cellule beta’, il cui lavoro è appunto quello di produrre l’ormone. Gli sviluppi di questo studio hanno una portata enorme perché potrebbero condurre in futuro a una cura del diabete di tipo non farmacologico ma solo attraverso questa particolare alimentazione.

 

 

 

Torna su
Morbillo, a gennaio un nuovo picco epidemico

Regioni

Morbillo, a gennaio un nuovo picco epidemico

I dati del bollettino Morbillo&rosolia news dell'Istituto superiore di sanità (Iss) certificano nuovi casi in quindici regioni italiane. I focolai sono stati in tutto 238. Piemonte, Lombardia, Lazio e Toscana le aree più colpite

di Redazione Aboutpharma Online 24 febbraio 2017

 

Il morbillo torna a colpire. Nel mese di gennaio è stato registrato un nuovo picco epidemico, con un aumento dei casi rispetto ai mesi precedenti e a gennaio 2016. Sono stati segnalati infatti 238 casi in quindici regioni, di cui la maggior parte (83,2%) concentrati in Piemonte, Lombardia, Lazio e Toscana. Nessun caso di rosolia invece è stato segnalato lo scorso mese. A segnalarlo è il bollettino Morbillo&rosolia news dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Per quanto riguarda il morbillo, i focolai di gennaio sono stati segnalati in ospedale, nelle scuole (incluso un asilo nido) e nelle famiglie. L’età media delle persone colpite è stata di ventisei anni, con un 24,8% di casi tra bambini con meno di cinque anni (di cui sedici bambini sotto l’anno di età). Il 46,7% è stato ricoverato e un ulteriore 12,6% è andato al Pronto soccorso. Il 27,3% ha avuto almeno una complicanza, tra cui stomatite, diarrea, cheratocongiuntivite, polmonite, otite, epatite, insufficienza respiratoria, encefalite e convulsioni. Dall’inizio del 2013 sono stati segnalati 5.312 casi di morbillo di cui 2.258 nel 2013, 1.696 nel 2014, 258 nel 2015, e 862 nel 2016. Prima di quest’ultimo picco, ce n’erano stati altri a gennaio e marzo 2014. Dal secondo semestre del 2014 avevano ripreso a calare per poi aumentare di nuovo da novembre 2015. Sulla rosolia il bollettino segnala che dall’inizio del 2013 sono stati segnalati 130 casi, di cui 65 nel 2013, 26 nel 2014, 15 nel 2015 e 24 nel 2016.

Torna su
Farmaci veterinari, Roberto Del Maso al vertice di Boehringer Ingelheim Animal Health in Italia

Aziende

Farmaci veterinari, Roberto Del Maso al vertice di Boehringer Ingelheim Animal Health in Italia

Guiderà la nuova business unit nata dopo un scambio di asset con Sanofi che ha portato all’acquisizione di Merial, di cui è stato amministratore delegato in Italia negli ultimi cinque anni

di Redazione Aboutpharma Online 6 marzo 2017

Roberto Del Maso ha assunto la guida di Boehringer Ingelheim Animal Health nel nostro Paese, ovvero della nuova business unit nata all’interno dell’azienda tedesca dopo l’acquisizione di Merial da Sanofi. Milanese, 58 anni, medico veterinario, Del Maso ha lavorato in Merial per oltre vent’anni, ricoprendo ruoli di sempre maggiore responsabilità fino a diventare amministratore delegato dell’azienda in Italia per gli ultimi 5 anni. “Sono orgoglioso di essere stato chiamato ad assumere la guida di Boehringer Ingelheim Animal Health in Italia – commenta Del Maso – un’unica grande realtà, nata dalla forza di due, che offre grandi opportunità ai nostri clienti e partner, e un’ampia gamma di soluzioni e risorse sia per gli animali da compagnia, sia per quelli da reddito”.
La nascita di Boehringer Ingelheim Animal Health è frutto di uno scambio di asset
annunciato l’anno scorso e chiuso definitivamente a inizio 2017: Sanofi ha ceduto il business della salute animale (Merial, appunto) in cambio dell’attività di Consumer Healthcare di Boehringer Ingelheim.

Torna su
Arriva in Italia un sensore impiantabile per monitorare la glicemia

Medicina scienza e ricerca

Arriva in Italia un sensore impiantabile per monitorare la glicemia

Il dispositivo messo a punto da Roche Diabetes Care, rileva la glicemia fino a 90 giorni e viene inserito durante una seduta ambulatoriale di pochi minuti a livello sottocutaneo sulla parte superiore del braccio. Finora trattati cinque pazienti

di Redazione Aboutpharma Online 7 marzo 2017

 

Pazienti diabetici un po’ “cyborg” grazie al nuovo sistema impiantabile per monitorare la glicemia. Si tratta di un nuovo dispositivo messo a punto da Roche Diabetes Care, in grado di rilevare la glicemia fino a 90 giorni senza necessità di sostituzione del sensore ogni settimana. Un passo avanti rispetto rispetto ai 7 o 14 giorni dei sistemi non impiantabili disponibili sul mercato fino a questo momento. Eversense, questo il nome, viene inserito durante una seduta ambulatoriale di pochi minuti. Il sensore viene impiantato a livello sottocutaneo sulla parte superiore del braccio, con un’incisione millimetrica. I pazienti impiantati nella prima settimana di marzo sono in tutto 5. Tre sono stati seguiti a Padova dal team dell’Unità operativa complessa di Malattie del metabolismo e 2 sono stati impiantati a Olbia presso il Centro di Diabetologia dell’Ospedale San Giovanni di Dio, diretto da Giancarlo Tonolo.  “L’impianto di per sé è molto semplice, fatto in anestesia locale con un taglio microscopico, la procedura occupa solo qualche minuto – afferma Tonolo – si tratta di un’evoluzione molto interessante. Lo strumento è molto preciso, rispetto ai sistemi tradizionali ha il vantaggio che il sensore non rischia di staccarsi in quanto è impiantato sotto cute. A mio avviso l’evoluzione del sistema permetterà in un prossimo futuro di condurre una vita ancora migliore”.

Il dispositivo inoltre invia allarmi, avvisi e notifiche relativi ai valori del glucosio visibili in qualsiasi momento su una app. “Gli algoritmi predittivi avvertono il paziente di probabili episodi di ipo o iperglicemia. Il paziente – spiega l’azienda in una nota – può condividere questi dati con il proprio diabetologo in ogni momento attraverso il portale dedicato”.

“Stiamo assistendo ad una vera e propria trasformazione nella gestione del diabete – aggiunge Massimo Balestri, General Manager di Roche Diabetes Care Italy – questa tecnologia garantisce un livello elevato di accuratezza delle rilevazioni. I primi riscontri da parte dei pazienti, recentemente impiantati, ci dicono che abbiamo imboccato la strada giusta”.

 

Torna su
Passi avanti per il vaccino contro l’ebola

Medicina scienza e ricerca

Passi avanti per il vaccino contro l’ebola

I risultati finali di fase 1 pubblicati su JAMA indicano che il regime vaccinale prime-boost contro l’ebola ha indotto una risposta immunitaria mantenuta nel 100% dei volontari sani sino ad almeno un anno dalla vaccinazione

di Redazione Aboutpharma Online 20 marzo 2017

 

Cento percento. È la risposta immunitaria indotta dal regime vaccinale prime-boost contro l’ebola, sul totale dei partecipanti allo studio clinico di Fase I a un anno dalla vaccinazione. I risultati delo studio sono stati pubblicati sul The Journal of the American Medical Association (JAMA) come ha reso noto Johnson & Johnson, gruppo di cui fa parte la società Janssen che ha sviluppato il vaccino.

Lo studio di Fase 1 è stato condotto dall’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford sul regime vaccinale prime-boost contro l’Ebola sviluppato da Janssen Vaccines & Prevention B.V. e basato sulla tecnologia AdVac® di Janssen e sulla tecnologia MVA-BN® di Bavarian Nordic A/S. Volontari sani hanno ricevuto una dose di vaccino (prime) per attivare la risposta del sistema immunitario e, successivamente, l’altro vaccino (booster) per rafforzare la risposta immunitaria. Sono in corso ulteriori studi di Fase 1, 2 e 3 per confermare questi risultati.

“Il mondo ha bisogno di un vaccino che aiuti a prevenire o mitigare future epidemie di Ebola e idealmente offra una protezione duratura alle popolazioni a rischio” ha dichiarato Paul Stoffels, Chief Scientific Officer di Johnson & Johnson. “Siamo impegnati ad aiutare la comunità internazionale per portare a termine lo sviluppo di un vaccino preventivo contro l’Ebola”

Evidenze recenti, che mostrano la persistenza del virus dell’Ebola nei fluidi corporei e la possibile trasmissione sessuale del virus fra coloro che sono sopravvissuti, rafforzano l’importanza di un vaccino potente che offra una protezione duratura contro questa malattia.

“La nostra Tecnologia AdVac® è composta da vettori virali, basati su virus appartenenti alla famiglia degli adenovirus, trasformati in modo tale da non risultare patogeni per l’uomo” ha spiegato Maria Grazia Pau, Senior Director Area Malattie Infettive e Vaccini, Ricerca e sviluppo, Janssen Vaccines B.V. “In altre parole, non provocano malattie, perché non possono moltiplicarsi nelle cellule umane; servono, invece, per trasportare le informazioni geniche fondamentali per indurre il sistema immunitario a combattere contro i virus. Tra questi, l’Ebola, dove siamo riusciti a modificare un vettore, che si basa appunto sull’adenovirus tipo 26, per fargli trasportare un gene della malattia in grado di codificare una glicoproteina del virus. Si tratta dell’antigene più importante per generare una risposta immunitaria efficace contro Ebola”.

Lo studio di Fase 1 è stato condotto a Oxford, Regno Unito, e ha arruolato volontari sani di età compresa fra i 18 e i 50 anni. Dei 75 soggetti che hanno ricevuto il vaccino attivo, 64 si sono presentati al follow-up al 360esimo giorno, ovvero l’ultima analisi in ordine temporale. Dal 240esimo al 360esimo giorno non sono stati osservati eventi avversi seri associati al vaccino. Tutti i soggetti che hanno ricevuto il vaccino attivo hanno mantenuto una risposta anticorpale specifica per il virus dell’Ebola (immunoglobulina G) dalla prima analisi post-vaccinazione sino all’ultima al 360esimo giorno. Come riferito da Matthew Snape, principale sperimentatore dello studio, “si tratta del periodo più lungo di follow-up su un regime vaccinale eterologo prime-boost contro l’Ebola per cui, ad oggi, ci siano risultati pubblicati”.

Ci sono in totale 10 studi clinici condotti in parallelo negli Stati Uniti, in Europa e in Africa a sostegno dell’eventuale futura registrazione del regime vaccinale contro l’Ebola. Il primo studio sul regime vaccinale in un paese dell’Africa Occidentale colpito dalla recente epidemia di Ebola è stato avviato in Sierra Leone a ottobre 2015

“I due componenti del nostro regime contro l’Ebola vengono utilizzati in tempi diversi: la prima vaccinazione viene svolta con il vettore Janssen, la seconda con quello Bavarian Nordic A/S. Abbiamo dimostrato che, grazie a questa combinazione, induciamo il sistema immunitario a produrre una risposta più potente rispetto al singolo componente” ha affermato ancora Pau. “Un approccio definito Heterologous prime-boost vaccination, che sta mostrando di portare anche a una risposta immunitaria duratura”.

Lo scorso settembre 2016, Janssen ha completato la richiesta di Valutazione e Approvazione all’Uso per le Emergenze (Emergency Use Assessment and Listing, Eual) all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per il suo regime vaccinale sperimentale prime-boost per la prevenzione dell’Ebola. La Eual è una procedura speciale che può essere applicata quando si verifica un’epidemia di una malattia che presenta alti tassi di morbilità o mortalità e per la quale non esistono opzioni terapeutiche o di prevenzione approvate. Se l’Oms concederà l’autorizzazione, questo accelererà la messa a disposizione del regime vaccinale sperimentale di Janssen per la comunità internazionale nell’eventualità che si verifichi un’altra epidemia di ebola.

 

Torna su
Nuovi Lea, Omar: “Sono un punto di partenza, ma i bisogni dei cittadini non sono ancora soddisfatti”

Nuovi Lea, Omar: “Sono un punto di partenza, ma i bisogni dei cittadini non sono ancora soddisfatti”

I nuovi Livelli essenziali di assistenza sono in Gazzetta ufficiale dal 18 marzo ma non tutte le prestazioni saranno garantite dal primo giorno. Per esempio, l'elenco delle nuove 110 patologie rare sarà operativo da settembre. Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore Osservatorio Malattie Rare: "Da oggi bisognerà vigilare sull'applicazione uniforme del decreto"


I nuovi Lea sono finalmente in Gazzetta ufficiale ma c’è già chi dubita della reale applicabilità in tutto il territorio nazionale del decreto diventato operativo dal 19 marzo, giorno successivo alla pubblicazione. I Livelli essenziali di assistenza aggiornati sono sì entrati in vigore, ma non tutte le prestazioni saranno immediatamente disponibili ai cittadini. Per esempio, lo stesso decreto prevede che l’elenco che include 110 patologie rare in più – tra le quali anche la fibrosi polmonare idiopatica e la sarcoidosi – sarà operativo solo sei mesi dopo la pubblicazione in Gazzetta, quindi a settembre.

“La pubblicazione dei Lea in Gazzetta – commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di Omar – Osservatorio Malattie Rare – è l’ultimo passo di un iter di approvazione lungamente atteso. Occorre però non confondere un successo della politica e il formale completamento di un iter con la reale soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Ciò che i malati rari, e come loro tanti cittadini attendono, non è il perfezionamento di un atto ma l’applicazione dei contenuti. Attendono di vedersi erogare prestazioni dalle proprie Asl, di vedere i figli neonati sottoposti a screening neonatale metabolico allargato indipendentemente dal luogo di nascita, aspettano impazienti gli ausili necessari a una vita migliore. Rispetto alla soddisfazione di questi bisogni di salute la pubblicazione in Gazzetta rappresenta solamente il punto zero, la base di partenza, non il punto di arrivo”.

Inoltre, la definizione di criteri uniformi per individuare modalità di erogazione di una serie di prestazioni demandate alle regioni e alle province autonome, spetterà a una serie di accordi Stato-Regioni, ancora tutti da realizzare. “Per la comunità dei malati rari è un giorno di festa – conclude Ilaria Ciancaleoni Bartoli – ma è anche il momento a partire dal quale sarà necessario vigilare sulla corretta e uniforme applicazione. Osservatorio Malattie Rare sarà al loro fianco in quest’opera di monitoraggio, in particolar modo sul tema degli screening neonatali. Non bisogna lasciare che accada quello che è già avvenuto con lo screening per la fibrosi cistica, che a 20 anni di distanza non veniva ancora fatto in tutte le Regioni”.

 

Torna su
Scoperta l’origine dell’Alzheimer nell’area dell’umore

Medicina scienza e ricerca

Scoperta l’origine dell’Alzheimer nell’area dell’umore

Una ricerca italiana ha dimostrato che all’origine della patologia non sarebbe coinvolto l'ippocampo, area cerebrale da cui dipendono i meccanismi del ricordo ma l'area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell'umore

di Redazione Aboutpharma Online 4 aprile 2017

 

Cambio di rotta, o per meglio dire di aerea cerebrale, per gli studi sull’Alzheimer. Una ricerca tutta italiana ha infatti dimostrato che all’origine della patologia non sarebbe coinvolto l’ippocampo, area cerebrale da cui dipendono i meccanismi del ricordo ma l’area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell’umore. La degenerazione dei neuroni dopaminergici provocherebbe il mancato arrivo di dopamina nell’ippocampo, mandandolo in “tilt” e portando a una perdita della memoria. Il lavoro condotto da Marcello D’Amelio, professore associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma è stato pubblicato su Nature Communications.

“Questo lavoro getta nuova luce sui meccanismi all’origine della malattia – racconta D’Amelio all’AdnKronos Salute – e spiega perché le sperimentazioni di terapie mirate alle placche beta-amiloidi hanno fallito e offre una nuova direzione alla ricerca per trattare l’Alzheimer. Abbiamo effettuato un’accurata analisi morfologica del cervello scoprendo che quando vengono a mancare i neuroni dell’area tegmentale ventrale, che producono la dopamina, il mancato apporto di questo neurotrasmettitore provoca il conseguente malfunzionamento dell’ippocampo, anche se tutte le cellule di quest’ultimo restano intatte. L’area tegmentale ventrale rilascia dopamina anche nell’area che controlla la gratificazione. Per cui, con la degenerazione dei neuroni dopaminergici, aumenta anche il rischio di andare incontro a una progressiva perdita di iniziativa”.

L’ipotesi è stata confermata in laboratorio, somministrando su modelli animali con Alzheimer, due diverse terapie: una con un amminoacido precursore della dopamina (L-Dopa), l’altra a base di un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, si è registrato il recupero della memoria insieme a un pieno ripristino della motivazione. “Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione”. I cambiamenti dell’umore associati alla malattia non sarebbero quindi conseguenza dell’Alzheimer, ma un campanello d’allarme del suo inizio. Pur essendo ancora lontana una cura, i risultati suggeriscono che terapie future, tanto per l’Alzheimer che per il morbo di Parkinson – anch’esso causato dalla diminuzione dei neuroni che producono dopamina – potrebbero concentrarsi su un obiettivo comune.

I dati sperimentali hanno chiarito anche perché i farmaci cosiddetti inibitori della degradazione della dopamina si rivelino utili solo per alcuni pazienti: funzionano unicamente nelle fasi iniziali della malattia. Con la morte di tutte le cellule di quest’area, la dopamina smette del tutto di essere prodotta e il farmaco non è più efficace. “L’altra sostanza somministrata in laboratorio, la L-Dopa – aggiunge specifica Annalisa Nobili, prima firma dello studio – non può essere data ai pazienti se non nelle ultime fasi della malattia perché, come emerso anche nei casi di Parkinson, provoca fenomeni di particolare tossicità che possono aggravare le loro condizioni”.

Il prossimo passo sarà la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. “Pur essendo lontana una cura efficace per l’Alzheimer, i risultati della ricerca fanno luce sull’origine della malattia – conclude D’Amelio – aprendo una nuova strada per arrivare ad un trattamento”.

 

Torna su
“Siamo cittadini, non solo pazienti”. L’appello di 16 associazioni per un cambio di rotta nella sanità

“Siamo cittadini, non solo pazienti”. L’appello di 16 associazioni per un cambio di rotta nella sanità

Firmata una Carta in cinque punti per chiedere alle istituzioni un impegno comune su welfare, innovazione e integrazione, a partire dal coinvolgimento delle associazioni come parte attiva nei tavoli decisionali


Rivendicano il diritto a essere considerati “cittadini e persone”, e non soltanto “pazienti”. Chiedono “un coraggioso e necessario percorso di cambiamento in ambiti come welfare, informazione, accesso all’innovazione e processi decisionali in materia sanitaria”. E lanciano una Carta in cinque punti per la qualità del sistema salute. In sintesi è questo il messaggio che arriva da un incontro che ha riunito ieri a Milano 16 associazioni nell’ambito del progetto “Persone non solo pazienti”, iniziativa promossa da Roche.

“Persone non solo Pazienti nasce nel 2015 dall’esigenza condivisa di un gruppo di Associazioni, con storie e profili differenti, di crescere e acquisire nuove competenze, attraverso la formazione, ma anche la condivisione e il confronto – spiega Annamaria Mancuso, presidente di Salute Donna. Tra i punti cardine della Carta “l’informazione e il dialogo” che con vive la malattia ogni giorno. “Affinché le associazioni possano affiancare le istituzioni e i decisori nel legiferare secondo le reali esigenze dei cittadini – sottolinea Antonella Celano, presidente di Apmar – è necessario acquisire professionalità e competenze per avere un ruolo attivo nei processi decisionali, in modo da mettere in luce esigenze e priorità e guidare il sistema salute verso un miglioramento del livello di qualità ed efficienza”.

Associazioni e persone diventano quindi esperti di riferimento per orientare le decisioni in materia sanitaria. “La partecipazione dei pazienti esperti, attraverso le relative associazioni, nei processi di valutazione del valore delle nuove tecnologie e del loro posto nella gestione della patologia, è molto importante – spiega Claudio Jommi, docente di Economia Aziendale all’Università del Piemonte Orientale e Ricercatore Cergas-Bocconi – Nell’ambito del Progetto Persone non solo Pazienti è stato attivato presso SDA Bocconi un percorso di formazione sul ruolo dei pazienti nella valutazione delle nuove disponibilità diagnostiche e terapeutiche (farmaci e tecnologie sanitarie) e sulle potenzialità di un loro contributo fattivo e collaborativo nelle diverse fasi di accesso delle tecnologie stesse “.

La Carta è una “call to action” che punta al coinvolgimento dei principali attori del sistema salute. “I cinque punti della carta prendono forma dalla visione condivisa da tutte le associazioni e vogliono essere lo spunto per un’azione di coinvolgimento a livello istituzionale – sottolinea Daniele Preti, direttore esecutivo di FedEmo – Crediamo nella possibilità di realizzare un cambiamento e di contribuire a concreti miglioramenti del funzionamento del sistema salute. Sappiamo che il processo non sarà breve, ma contiamo sull’ispirazione e sulla forza che ci danno ogni giorno i milioni di italiani che supportiamo nella loro lotta contro la malattia”.

“Siamo orgogliosi di avere sostenuto questo progetto sin dalla sua nascita e siamo felici di averlo visto crescere mese dopo mese, forte della partecipazione e della condivisione di esperienze e competenze, nell’ottica di un empowerment comune – commenta Luisa De Stefano, Head of Patient Advocacy di Roche – Abbiamo assistito a tanti risultati concreti che ciascuna associazione ha raggiunto e oggi condividiamo appieno i cinque punti della Carta di Persone non solo Pazienti. La Persona e il suo fondamentale bisogno di salute è al centro del nostro impegno costante per scoprire, produrre e mettere a disposizione nuovi farmaci e tecnologie diagnostiche che possano cambiare il corso di gravi patologie. Ci auguriamo che la prospettiva delineata dalla Carta diventi presto una realtà concreta in tutti gli ambiti in cui vengono affrontati e gestiti i bisogni delle tante persone che affrontano ogni giorno una malattia”.

LA CARTA E TUTTE LE SIGLE

 

Torna su
Tumori del sangue: dall’immunoterapia una nuova arma contro la leucemia linfoblastica acuta

Tumori del sangue: dall’immunoterapia una nuova arma contro la leucemia linfoblastica acuta

Arriva in Italia blinatumomab, l’anticorpo monoclonale bi-specifico che aiuta il sistema immunitario a riconoscere gli “invasori”. Sviluppato da Amgen, è il capostipite di una nuova classe di immunoterapici che si avvale della tecnologia BiTE (Bispecific T-cell Engager)edazione Aboutpharma Online 5 aprile 2017

 

Un “bacio della morte” che neutralizza le cellule maligne. È questa la suggestione, forte ma efficace, a cui l’azienda Amgen ricorre oggi per presentare l’arrivo in Italia di una nuova arma terapeutica contro la leucemia linfoblastica acuta (LLA), un tumore del sangue raro e molto aggressivo. Si tratta di blinatumomab, un anticorpo monoclonale bi- specifico che aiuta il sistema immunitario a riconoscere gli “invasori”. Il nuovo farmaco, ora rimborsabile nel nostro Paese, è destinato ai pazienti adulti affetti da “LLA da precursori delle cellule B recidivante o refrattaria, negativa per il cromosoma Philadelphia”, ovvero una delle diverse forme in cui può presentarsi la patologia.

La leucemia linfoblastica acuta coinvolge il sangue e il midollo osseo. Si verifica quando all’interno di una cellula del midollo osseo avviene una mutazione o un errore nella duplicazione del Dna che ne altera i normali processi di proliferazione e differenziazione. Nei pazienti si determina un accumulo incontrollato di globuli bianchi immaturi e maligni (blasti) che toglie spazio alle cellule sane del midollo osseo, compromettendo le normali funzioni ematopoietiche.

“Nei pazienti adulti – spiega Alessandro Rambaldi, direttore dell’Unità strutturale complessa di Ematologia dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo – si registrano circa 7-10 nuovi casi all’anno per milione di abitanti. Per questo motivo la leucemia acuta linfoblastica dell’adulto è da considerare una malattia rara. Negli Stati Uniti, per esempio, nel corso del 2015 il numero di casi stimati è stato di circa 6.000. In Europa e in Italia i dati di incidenza sono del tutto analoghi e quindi la stima di nuovi casi di pazienti adulti nel nostro paese è di circa 300 nuovi casi all’anno”.

Blinatumomab – spiega Amgen – rappresenta una strategia terapeutica rivoluzionaria per il trattamento dei pazienti affetti da questa patologia per la quale fino a oggi le opzioni terapeutiche sono state molto limitate. E’ il primo e unico anticorpo monoclonale bi-specifico, che si avvale della tecnologia BiTE (Bispecific T-cell Engager) sviluppata dall’azienda. Gli anticorpi bispecifici BiTE agiscono legandosi a due bersagli contemporaneamente: da una parte le cellule T del sistema immunitario e dall’altra le cellule B maligne. Le cellule T sono globuli bianchi speciali che rivestono un ruolo centrale nel sistema immunitario, essendo deputate a riconoscere e annientare le cellule tumorali iniettando al loro interno tossine che ne causano la morte. Le cellule tumorali, però, possono eludere il sistema immunitario evitando di essere attaccate e distrutte. Blinatumomab crea un ponte tra il CD3, recettore espresso sulla superficie delle cellule T, e il CD19, recettore presente sulla superficie delle cellule B. In questo modo stimola il sistema immunitario a riconoscere le cellule maligne e combatterle.

Diversi studi di fase Fase I e II condotti nel corso degli anni hanno restituito risultati incoraggianti. Al punto da spingere Fda ed Ema a concedere a blinatumomab una revisione accelerata e un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. Di recente, Fda, integrando i risultati dello studio TOWER, ha convertito l’autorizzazione da condizionata a totale. Il TOWER è uno studio di Fase III, il primo trial clinico condotto su un’immunoterapia che ha dimostrato un beneficio in termini di sopravvivenza globale quasi raddoppiandola: dai 4 mesi con la terapia standard ai 7,7 mesi con blinatumomab.

“I risultati dello studio TOWER – spiega Robin Foà, direttore dell’Ematologia del Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma – sono stati rilevanti perché hanno dimostrato che, rispetto alla terapia convenzionale, blinatumomab ha permesso di ottenere percentuali di remissione completa di malattia significativamente più elevate e ha praticamente raddoppiato la sopravvivenza globale, rispetto alla chemioterapia standard. Risultati mai osservati con un singolo farmaco e recentemente pubblicati sulla più prestigiosa rivista di medicina, il New England Journal of Medicine”.

Oggi – spiega Francesco Di Marco, amministratore delegato di Amgen Italia – blinatumomab è l’unica alternativa alla chemioterapia per i pazienti affetti da LLA. “ Come azienda – sottolinea il manager – abbiamo compiuto un grande sforzo per fare in modo che i pazienti potessero beneficiarne anche prima della conclusione dell’iter registrativo, sia attraverso la sperimentazione clinica arruolando 45 pazienti in 13 Centri solo per lo studio TOWER, sia avviando un programma di uso compassionevole grazie al quale in un anno siamo riusciti a dare il farmaco in maniera gratuita a 67 pazienti”. Grazie alla piattaforma BiTE, Amgen è al lavoro anche su tre nuove molecole per il trattamento della leucemia mieloide cronica e del mieloma multiplo.

Torna su
Corruzione, nell’ultimo anno illeciti in un’azienda sanitaria su quattro

Sanità e Politica

Corruzione, nell’ultimo anno illeciti in un’azienda sanitaria su quattro

Oggi la Giornata nazionale contro la corruzione in sanità. Ecco i dati del report realizzato Transparency International Italia, Censis, Ispe Sanità e Rissc. Farmaci e sperimentazioni cliniche tra le aree più a rischio

di Redazione Aboutpharma Online 6 aprile 2017

 

La corruzione continua a infettare la sanità italiana. Con il suo fardello di inefficienze, ingiustizie, immoralità e risorse sprecate, che resiste anche ai notevoli progressi compiuti in questi anni sia dal punto di vista normativo che in termini di coscienza e consapevolezza. Parlano i numeri: nell’ultimo anno in Italia un’azienda sanitaria su quattro ha registrato almeno un episodio di corruzione.  È questo, in sintesi, il messaggio che arriva dalla seconda “Giornata nazionale contro la corruzione”, celebrata oggi a Roma dai partner del progetto “Curiamo la corruzione”, l’iniziativa coordinata da Transparency International Italia, in collaborazione con Censis, Ispe Sanità (Istituto per la promozione dell’etica in sanità) e Rissc (Centro ricerche e studi su sicurezza e criminalità), e finanziata nell’ambito della Siemens Integrity Initiative.

A fotografare lo stato di integrità della sanità italiana è il rapporto “Curiamo la corruzione 2017” presentato oggi e articolato in tre analisi: un’indagine sulla percezione del fenomeno da parte dei responsabili della prevenzione della corruzione, realizzata dal Censis tra il 2016 e il 2017;  l’analisi di sprechi e inefficienze che emergono dalla valutazione dei Conti Economici 2013 delle Asl e delle aziende ospedaliere elaborata da Ispe Sanità; la valutazione dei rischi e delle contromisure contenute nei Piani triennali di prevenzione della corruzione 2016-2018 (Ptpc) delle strutture sanitarie, condotta da Rissc.

Secondo l’indagine Censis, basata su un campione di 136 strutture, nell’ultimo anno il 25,7% delle aziende sanitarie italiane ha registrato almeno un episodio di corruzione. Un dato medio nazionale, con punte più alte al Sud: nel Meridione, infatti, il malaffare ha colpito più di un’azienda su tre (37,3%). I settori ritenuti più a rischio sono quello degli acquisti e delle forniture, le liste d’attesa e le assunzioni del personale.

Ma quanto costa la corruzione? Sulla base dell’analisi dei conti economici delle aziende, Ispe Sanità stima che circa il 6% delle spese correnti annue del Servizio sanitario nazionale siano riconducibili a sprechi e corruzione. Più concretamente, secondo i numeri presentati dall’economista Francesco Saverio Mennini, la corruzione genera un impatto che oscilla tra un “minimo” di 4,3 miliardi e un massimo di 9,2 miliardi di euro all’anno. Ma i numeri crescono se si considera “l’ammontare delle potenziali inefficienze nell’acquisto di beni e servizi sanitari del Ssn” – ovvero gli sprechi a 360 gradi –  stimato in circa 13 miliardi di euro.

Esaminando, invece, i risultati dell’analisi – condotta su tutte le aziende sanitarie e non soltanto sul campione Censis – dei Piani anticorruzione realizzata da Rissc, emerge un altro dato preoccupante: il 51,7% delle strutture non ha adottato piani anticorruzione adeguati. Ma il report “Curiamo la corruzione 2017” non restituisce solo ombre. Qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta: il 96% delle aziende sanitarie ha già reso disponibili dei sistemi di raccolta delle segnalazioni di corruzione (whistleblowing) e il 44% lo ha fatto utilizzando delle piattaforme informatiche. Il 79% delle strutture ha adottato i Patti di integrità, da sottoscrivere con le aziende che partecipano agli appalti e il 90% ha intrapreso percorsi di formazione rivolti al personale sui temi dell’etica e della legalità. Sono proprio la formazione e la sensibilizzazione dei dipendenti ad essere ritenute le misure più efficaci per contrastare la corruzione dal 52% dei responsabili della prevenzione, più dell’aumento dei controlli sulle spese (45%) e sulle procedure di appalto (37%): solo nelle Regioni del Sud i responsabili della prevenzione mettono al primo posto i controlli sulle spese.

Dall’analisi sui Piani triennali di prevenzione anche una “top five” sui “rischi di corruzione più elevati”, cinque aree critiche dove si contrano i pericoli più gravi. Se al quinto, quarto e terzo posto figurano – in ordine – “segnalazioni di decessi alle imprese funebri; favoritismi ai pazienti provenienti dalla libera professione e violazioni dei regolamenti di polizia mortuaria”, le posizioni più rilevanti sono occupate dalla “iper-prescrizione di farmaci per favorire gli sponsor” e dalla “sperimentazione clinica condizionata”, rispettivamente seconda e prima in classifica. Un campanello d’allarme che la stessa industria del farmaco non sottovaluta: “Il miglior modo per curare la corruzione non è combatterla, ma prevenirla. E noi facciamo tanto per la prevenzione”, commenta il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, ricordando “il codice deontologico dell’associazione che è più rigido e rigoroso delle leggi”, così come le iniziative per “la trasparenza delle transazioni economiche tra industria e operatori sanitari”.

 

Torna su
Def 2017, “profondo rosso” per la sanità pubblica?

Sanità e Politica

Def 2017, “profondo rosso” per la sanità pubblica?

 L'allarme della Fondazione Gimbe: “Nel 2019 alla sanità solo il 6,4% del Pil, saremo al di sotto della soglia di allarme dell’Oms”

di Redazione Aboutpharma Online 19 aprile 2017Prende oggi il via in Commissione Igiene e Sanità del Senato l'esame del Documento di Economia e Finanza.

 

Alla sanità italiana sarà destinato il 6,7% del Pil nel 2017, il 6,5% nel 2018 e il 6,4% nel 2019. Nel giro di pochi anni il nostro Paese si collocherà al di sotto della “soglia di allarme” dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui con un rapporto tra spesa sanitaria e Pil inferiore al 6,5% si riducono qualità dell’assistenza e anche aspettativa di vita delle persone. È l’allarme lanciato oggi dalla Fondazione Gimbe sul Documento di Economia e Finanza (Def) 2017 che oggi approda alla Commissione Igiene e Sanità del Senato.

Secondo il Def, nel triennio 2018-2020 il Pil nominale dovrebbe crescere in media del 2,9% per anno, mentre l’incremento della spesa sanitaria dovrebbe attestarsi su tasso medio annuo dell’1,3%. In termini finanziari – spiega la Fondazione in una nota – per la sanità pubblica significherebbe passare dai 114,138 miliardi di euro stimati per il 2017 a 115,068 miliardi nel 2018, a 116,105 nel 2019 e € 118,570 nel 2020.

Ma sulle cifre assolute è “meglio non farsi troppe illusioni”, commenta Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che ricorda: “Negli ultimi anni la sanità ha sempre ricevuto molto meno di quanto previsto dal Def. Clamoroso l’esempio del 2016: i 117,6 miliardi stimati dal Def 2013 si sono ridotti a  116,1 con il Def 2014, quindi a 113,4 con il Def 2015, per arrivare con la Legge di Stabilità 2016 a un finanziamento reale di 111 miliardi, comprensivi di 800 milioni da destinare ai nuovi Lea”.

Secondo la Fondazione esiste una sola chiave di lettura per le stime del Def su andamento di Pil e spesa sanitaria: crescendo meno del PIL nominale, la spesa sanitaria non coprirà nemmeno l’aumento dei prezzi. In altre parole – sottolinea Gimbe – nel prossimo triennio la sanità pubblica potrà disporre delle stesse risorse in termini di potere di acquisto solo se la ripresa economica del Paese sarà in linea con previsioni più che ottimistiche, visto che la crescita stimata del Pil è del 2,2% nel 2017 e del 2,9% nel 2018 e nel 2019.

“Il DEF 2017 – conclude Cartabellotta – conferma ulteriormente le perplessità già espresse dalla Fondazione sulla sostenibilità dei nuovi Lea, che da grande traguardo politico rischiano di trasformarsi in illusione collettiva con gravi effetti collaterali: allungamento delle liste d’attesa, aumento della spesa out-of-pocket, sino alla rinuncia alle cure. Infatti, la necessità di estendere oltre ogni limite il consenso ha generato un inaccettabile paradosso figlio di contraddizioni politiche e di una programmazione sanitaria sganciata da quella finanziaria: sulla carta oggi i cittadini dispongono del “paniere Lea” più ricco d’Europa, ma al tempo stesso il Def 2017 conferma che la sanità italiana è agli ultimi posti per la spesa pubblica”.

 

Torna su
Vaccini, in Europa record di scetticismo

Vaccini, in Europa record di scetticismo

Francia al primo posto nel mondo per dubbi sulla sicurezza. Italia, Russia e Azerbaijan i paesi in cui è messa più in discussione la loro importanza come strumento di prevenzione. L’indagine del Vaccine Confidence Project


Lo scetticismo anti-vaccini avanza in Europa. La Francia è il Paese con il minor grado di fiducia sulla sicurezza delle vaccinazioni, mentre Azerbaijan, Russia e Italia sono i più scettici sulla loro importanza. È quanto emerge da una nuova indagine condotta nell’ambito Vaccine Confidence Project e pubblicata sulla rivista EBiomedicine.

La ricerca ha esaminato l’atteggiamento verso i vaccini di oltre 65mila persone di 67 Paesi. Se Bangladesh, Ecuador e Iran sono i paesi in cui i vaccini vengono ritenuti “più importanti”, in Europa la diffidenza aumenta. Anche se i tassi di copertura vaccinale rimangono alti, nel Vecchio Continente si trovano sette dei dieci Paesi che mostrano più dubbi sulla sicurezza dei vaccini, tra cui la Francia (45,2%) e la Bosnia (38,3%), mentre nel resto del mondo la media è del 13%. Molte più certezze, invece, in Argentina (1,3%), Etiopia (2,1%) ed Ecuador (2,2%), i tre Paesi con il tasso di scetticismo sulla sicurezza più basso.

Se si considera, invece, un altro parametro di valutazione, ovvero la scarsa importanza assegnata ai vaccini, vincono la maglia nera Russia (17,1%), Azerbaijan (15,7%) e Italia (15,4%), contro una media mondiale del 5,8%.

Per quanto riguarda le coperture, i tassi di vaccinazione più bassi si registrano nel sub-continente indiano, nell’Africa Sub-sahariana e nel Sud-est asiatico, per via della povertà, l’accesso limitato ai servizi vaccinali e la poca educazione sanitaria. In Europea, comunque, le coperture mostrano un’ampia variabilità: in Danimarca, Islanda, Romania, Austria, Moldavia, San Marino e Ucraina si registrano i tassi più bassi dal 2000.

Lo studio

 

Torna su
Digital & Life Sciences: quali norme per il futuro presente?

Digital & Life Sciences: quali norme per il futuro presente?

Con questo articolo di presentazione prende avvio la rubrica settimanale curata dallo studio legale Portolano Cavallo, che si occuperà di temi giuridici nascenti dall’incontro “Digital & Life Sciences”

Con questo articolo di presentazione prende avvio la rubrica settimanale curata dal nostro studio legale, che si occuperà di temi giuridici nascenti dall’incontro “Digital & Life Sciences”.
La scelta di questo tema nasce dalla nostra esperienza e dalla nostra curiosità: nell’assistenza legale che forniamo ai nostri clienti, ci viene chiesto sempre più spesso di rispondere alle domande poste dall’incrocio tra tecnologia e Scienze della Vita. Per fare ciò, siamo chiamati a costruire soluzioni giuridiche innovative, stante il quadro normativo non sempre aggiornato e i limitati o spesso inesistenti precedenti giurisprudenziali. Ciò alimenta la nostra curiosità e fa sì che il nostro interesse per tali materie non si esaurisca nella dimensione professionale ma si dispieghi anche in quella accademica e di ricerca, il che ci consente di meglio applicare creativamente la disciplina in vigore e riflettere sulla sua evoluzione. Nel nostro piccolo, anche il nostro studio ha una funzione di “Ricerca e Sviluppo”.
Del resto è facile essere conquistati da questioni che stanno ridefinendo la nostra società intorno a due grandi perni: (i) quello digitale, dell’informatica e della comunicazione, il cui sviluppo non conosce sosta (si pensi ai big data, all’Internet of Things, all’augmented e alla virtual reality, alla blockchain, per citare solo alcuni dei temi ora al centro del dibattito pubblico); (ii) quello delle scienze della vita, protagonista di una crescita vertiginosa, cominciata nel 2000 ad esito della conclusione del primo sequenziamento dell’intero genoma umano, ulteriormente acceleratasi nell’ultimo lustro con il calo dei costi di sequenziamento del Dna e lo sviluppo della tecnica CRISPR/Cas9 (essa stessa oggetto di numerose dispute brevettuali).

Questi due filoni tecnologici fino a tempi molto recenti hanno agito in modo indipendente e parallelo, entrando in contatto sporadicamente. Ma lo scenario è cambiato: l’ingranaggio digitale e quello delle Life Sciences ora interagiscono in modo sistematico e stabile, creando sinergie che si propongono di condurci, entro breve tempo, a una nuova entusiasmante rivoluzione tecnologica, con implicazioni giuridiche, etiche e sociali che possiamo immaginare solo in parte.
Nel campo delle Life Sciences l’apporto delle conoscenze digitali può avere effetti positivi dirompenti e contribuire a un significativo salto; ma può anche condurre a scenari imprevisti e di difficile gestione senza un’adeguata base normativa.
Si pensi al ricorso all’intelligenza artificiale a fini diagnostici e come strumento di ausilio alle attività di ricerca: ciò porterà ad affrontare nuove questioni giuridiche in tema di responsabilità medica in caso di mancata o errata diagnosi, di trattamento dei dati personali dei pazienti, che devono essere conservati e continuamente elaborati per consentire alla macchina di imparare ed evolvere, di protezione degli investimenti, poiché nel nostro ordinamento il software in quanto tale non è brevettabile, così come non lo sono i metodi diagnostici, chirurgici e terapeutici, etc.

C’è poi l’ampio fronte della digitalizzazione dei dispositivi medici. L’approccio più avanzato è rappresentato dalle “terapie digitali” che, mediante l’interazione tra dispositivi medici dotati di software e farmaci, intende perseguire l’ottimizzazione dell’efficacia dei medicinali. Altra frontiera è quella dell’utilizzo di dispositivi impiantabili nel corpo umano per il monitoraggio e il trattamento a distanza dei pazienti. In questo ambito si inseriscono anche le app mediche, e le conseguenti questioni relative alla qualificazione come dispositivi medici, pur non rientrando necessariamente in questa categoria. Con il nuovo regolamento europeo sui dispositivi medici, che sarà applicabile a partire dal 2020, il legislatore ha iniziato a fare chiarezza; vi sono però altri importanti temi aperti, legati anche all’interazione dei dispositivi medici digitali con i big data, e altri ne nasceranno.
Allo stesso modo, si pensi all’utilizzo dei social media nel settore Life Sciences , per esempio da parte delle società farmaceutiche nell’attività di reclutamento di pazienti per le sperimentazioni, soprattutto dei farmaci orfani. Anche qui vi sono evidenti questioni connesse al rispetto della privacy, ma anche di compliance con la normativa in materia di sperimentazioni cliniche e sulle modalità di arruolamento dei pazienti, oltre alle implicazioni di carattere etico connesse al fatto che il target dei pazienti della fase 2 e 3 è rappresentato da persone malate, talvolta alla disperata ricerca di una cura. O, ancora, in ambito internet, si pensi all’utilizzo di cookies o di tecniche di Search Engine Optimization e Search Engine Marketing da parte delle società farmaceutiche.

In ambito sanitario anche nel nostro Paese è già in corso un ambizioso processo di digitalizzazione. Avviato con l’introduzione della ricetta elettronica, esso verrà ulteriormente rafforzato: il Documento di Economia e Finanza 2017 prevede l’attuazione, entro la fine di quest’anno, del Patto per la salute digitale approvato a luglio 2016 dalla Conferenza Stato-Regioni.
In questo spazio discuteremo di questo e di molto altro.
Lo faremo, come è nostro costume, con un rigoroso approccio giuridico unito ad linguaggio chiaro e diretto. Saremo aperti al confronto e agli stimoli che verranno dai lettori che ci onoreranno della loro attenzione. Soprattutto, saremo onesti, cercheremo di non essere banali, di fare del nostro meglio e di migliorare con il vostro aiuto.

A cura di Portolano Cavallo 

Homepage “Digital & Life Sciences”

 

Torna su
Morbillo, 385 casi a aprile, cinque volte più del 2016

Medicina scienza e ricerca

Morbillo, 385 casi a aprile, cinque volte più del 2016

Il nuovo bollettino Iss-Ministero ha registrato 1.920 contagi da inizio anno, di cui un terzo con almeno una complicanza. Il 40% è stato ricoverato mentre il 15% ha fatto ricorso al pronto soccorso

di Redazione Aboutpharma Online 4 maggio 2017

 

Sono quintuplicati i casi di morbillo in Italia rispetto lo scorso anno. Secondo i dati del ministero della Salute sono stati infatti 385 ad aprile, contro i 76 del 2016. È quanto emerge dal nuovo bollettino settimanale curato dal ministero e dall’Istituto superiore della sanità (Iss), che aggiorna a 1920 il numero totale dei casi verificatisi da inizio di quest’anno. Di questi un terzo con almeno una complicanza.
Dal sesto numero del bollettino, nato per monitorare l’epidemia di morbillo in corso in Italia, risulta che dal 24 al 30 aprile 2017, sono stati 29 i contagi registrati, che portano complessivamente a 385 i casi nel solo mese di aprile 2017. Il 34% ha avuto almeno una complicanza, come diarrea, polmonite, otite, epatite, insufficienza respiratoria, calo di piastrine, più raramente encefalite e convulsioni. Il 40% è stato ricoverato, il 15% ha fatto ricorso al pronto soccorso. Quasi tutte le Regioni hanno segnalato casi, ma il 92% proviene da Piemonte, Lazio, Lombardia, Toscana, Abruzzo, Veneto e Sicilia. Infine sono stati 176 i casi tra gli operatori sanitari.
“Purtroppo i dati sul morbillo sono davvero preoccupanti e questo soprattutto a causa della grave e pericolosa disinformazione antiscientifica, fomentata anche da parte di alcune forze politiche, che ha portato negli ultimi anni le persone a non vaccinarsi” ha affermato all’Ansa il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, commentando il dato. “Ora è fondamentale che le Regioni applichino il nuovo Piano nazionale vaccini, anche e soprattutto attraverso la sensibilizzazione e la corretta informazione ai cittadini. I vaccini, sono sicuri e salvano vite”.
Anche Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di Sanità è intervenuto sul tema sottolineando come “un aumento dei casi di morbillo era previsto in conseguenza alla diminuzione delle vaccinazioni registrata negli ultimi anni. A stupire però è la gravità dell’epidemia in corso, caratterizzata da un numero di complicanze particolarmente alto e circa il 40% delle persone colpite che sono state ricoverate in ospedale. Siamo in piena epidemia il mondo ci guarda interdetto e con allarme. Con questi numeri non stupirebbe che si verificasse un decesso. Come in Romania dove da inizio anno sono stati registrati il doppio dei casi di morbillo rispetto all’Italia, circa 4000, e che hanno provocato finora ben 17 morti. Il morbillo è uno dei virus più contagiosi, più della stessa influenza. Una sola persona può contagiarne fino a 20. Per sviluppare una immunità di gregge che protegga anche chi non può vaccinarsi o gli adulti che non si sono vaccinati da piccoli, è importante non solo fare il vaccino durante l’infanzia ma anche il richiamo in età adolescenziale”.
Non meno preoccupanti i dati resi noti dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove i ricoveri di bambini colpiti dal morbillo si sono più che decuplicati rispetto allo stesso periodo del 2016. Sono infatti passati da 4 nel 2016 a 47. “Il calo della copertura vaccinale per il morbillo – ha affermato Alberto Villani presidente della Società italiana di pediatria (Sip), nonché responsabile del reparto Pediatria generale e malattie infettive dell’ospedale Bambino Gesù – sta portando, come previsto, a un aumento dei casi. La malattia si diffonde ma è da tempo che le società scientifiche hanno messo in guardia: l’aumento dei casi è un dato atteso e frutto di una disattenzione collettiva. Dei 47 ricoveri registrati al primo maggio, 18 presentavano complicanze e oltre la metà, pari a 25, hanno riguardato bambini molto piccoli sotto l’anno di età e che, quindi, non potevano essere già vaccinati. In particolare, quattro ricoveri hanno riguardato bimbi sotto il mese di vita”.

 

Torna su
Vaccini obbligatori per accedere a scuola, Lorenzin: pronta la bozza di decreto

Sanità e Politica

Vaccini obbligatori per accedere a scuola, Lorenzin: pronta la bozza di decreto

L’annuncio del ministro della Salute in tv. Il testo, già inviato al premier, sarà portato domani in Consiglio dei ministri e andrà comunque discusso con il ministero dell’Istruzione. Nel frattempo in Senato altri due ddl

di Redazione Aboutpharma Online 11 maggio 2017

 

“Ho pronto un testo di legge che prevede l’obbligatorietà delle vaccinazioni per l’accesso a scuola. L’ho mandato oggi al presidente del Consiglio e lo porterò domani in Consiglio dei ministri”. Ad annunciarlo è il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, durante la registrazione del programma “Night Tabloid” che andrà in onda questa sera su Rai 2. “Ovviamente – ha precisato il ministro – non potrà essere approvato domani, perché necessiterà di approfondimenti e di una discussione anche da parte del ministero dell’Istruzione, per valutare se i tempi sono davvero maturi per fare una legge che ci riporti in sicurezza”.

Il decreto dovrebbe anche intervenire sulla distinzione tra vaccinazioni obbligatorie e raccomandate: “Ho immaginato questo decreto – ha chiarito il ministro – che pone l’obbligatorietà per l’accesso a scuola, con il ministero della Salute che ogni anno fornisce la lista di quelle che sono le vaccinazioni obbligatorie. Tutte le vaccinazioni che sono nel piano vaccinale approvato nei Livelli essenziali di assistenza sono necessarie per la salute delle persone, ma alcune  saranno obbligatorie per l’accesso alla scuola dell’obbligo”.

L’annuncio arriva nello stesso giorno in cui, in Senato, i senatori Andrea Mandelli (Fi) e Luigi d’Ambrosio Lettieri (Misto) – rispettivamente presidente e vicepresidente della Federazione degli ordini dei farmacisti (Fofi) – hanno presentato due disegni di legge che vanno nella stessa direzione.  Le proposte puntano a rendere effettiva l’obbligatorietà delle vaccinazioni per i minori, superando l’attuale distinzione tra obbligatorie e raccomandate, promuovere incontri informativi per i genitori, istituire una banca dati per ciascuna Regione e un Servizio Anagrafe nazionale al fine di monitorare l’affluenza di tutti i dati relativi alle vaccinazioni in età scolare e prescolare per migliorare ulteriormente il servizio e prevedere risorse aggiuntive per l’acquisto dei nuovi vaccini.

Già nelle scorse settimane un altro ddl – presentato dalla parlamentare Pd Francesca Puglisi – ha cominciato il suo iter alla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Composta da due soli articoli, il ddl punta a reintrodurre l’obbligatorietà delle vaccinazioni per frequentare qualsiasi scuola in Italia. Nel nostro Paese l’obbligo di vaccinarsi per poter essere iscritto a scuola decadde nel 1999, dopo che per oltre trent’anni, e cioè dal 1967, era stato invece indispensabile per l’iscrizione.

 

Torna su
Salute in internet, un decalogo per salvarsi dalle “bufale”

Medicina scienza e ricerca

Salute in internet, un decalogo per salvarsi dalle “bufale”

Sempre più italiani cercano risposte sulla propria salute online: presentate da Unamsi e Cipomo con approvazione di 9 società scientifiche una serie di regole per difendersi dalla cattiva informazione

di Redazione Aboutpharma Online 11 maggio 2017

 

“Fake news” anche al centro della discussione delle società scientifiche che preoccupate da una malainformazione sulla salute online hanno deciso di mettere in guardia gli utenti con un decalogo su come difendersi. A redare il documento i giornalisti dell’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione (Unamsi) sensibilizzati dal Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri (Cipomo) che le ha presentate durante l’ultimo Convegno Nazionale di Cipomo. Ad approvare le regole oltra a Cipomo, altre otto società scientifiche, da quella dei medici di medicina generale (Simg) a quelle dei pediatri (Fimp e SIMPeF), agli otorinolaringoiatri (Sio), gli oftalmologi (Soi), endocrinologi (Ame), psichiatri (Sip) e urologi (Siu).

Il fenomeno della ricerca di risposte sul web a questioni di salute è molto cresciuto negli ultimi anni: nel 2014, secondo dati Censis erano solo 4 italiani su 10 a fare ricerche su internet su questioni di salute. L’ultimo sondaggio del gennaio 2017 parla dell’88% (di cui il 93,3% donne), ma la cosa grave è che quasi la metà del campione (il 44%) si affida alla prima pagina proposta dai motori di ricerca senza preoccuparsi dell’attendibilità delle fonti, con una differenza rilevante fra i 18-24enni (che sono ben il 55% di costoro) e gli ultra 65enni (22,7%).  Senza parlare di coloro (il dato nazionale è il 2-4% della popolazione) che acquistano farmaci online (30% farmaci per dimagrire, 28% per migliorare le prestazioni sessuali). Con rischi enormi se il sito da cui si acquista non è collegato a una farmacia. Nel migliore dei casi questi farmaci non contengono principi attivi, ma possono anche essere molto pericolosi.

1) VERIFICARE LA FONTE

Verificare sempre chi è il proprietario del sito, del giornale, del blog, sia esso istituzione, editore, industria, associazione, singolo cittadino. Questo serve per capire bene chi ha interesse a veicolare quel tipo di informazione. Tra i siti istituzionali segnaliamo quelli del Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Agenzia Italiana del Farmaco, degli Ospedali e delle Società medico-scientifiche. E’ importante che il sito di consultazione riporti sempre, nelle notizie pubblicate, autorevoli fonti di provenienza, una caratteristica che è una misura di attendibilità del sito stesso

2) ACCERTARSI DELL’AGGIORNAMENTO DEL SITO

Importantissima la verifica della data della pubblicazione. E’ una chiara indicazione dell’attualità di una notizia. Su Internet infatti non si perde nulla e può capitare, utilizzando un motore di ricerca, di arrivare su una notizia vecchia anche di anni.

3) CURE MEDICHE: EVITARE IL “FAI DA TE”

Nessuna informazione scritta può sostituire la visita del medico. Medico e farmacista devono restare i principali punti di riferimento in materia di salute. I contenuti in Rete devono avere “solo” uno scopo informativo e in nessun caso possono sostituire la visita o la prescrizione di un medico o il consiglio di un farmacista.

4) DIFFIDARE DELLE PRESCRIZIONI SENZA VISITA

Nessun medico serio farà mai una prescrizione a un malato sconosciuto senza averlo visitato. Diffidare quindi dei siti e degli esperti che indicano farmaci e terapie sulla semplice descrizione dei sintomi. Non è serio, non è professionale, e può essere molto pericoloso.

5) MONITORARE IL RISPETTO DELLA PRIVACY

Accertarsi che il proprietario di un sito che gestisce le informazioni sulla salute degli utenti (per esempio attraverso il servizio “l’esperto risponde”) rispetti la normativa sulla privacy e garantisca la confidenzialità dei dati.

6) VALUTARE CON LA GIUSTA ATTENZIONE BLOG E FORUM

Possono essere fonti utili, ma anche insidiose perché propongono storie di pazienti e dei loro familiari che suscitano empatia e coinvolgono emotivamente. Fare attenzione perché sono quasi sempre racconti soggettivi, ma non è detto che abbiano affidabilità scientifica. La lettura critica è di rigore.

7) OCCHIO AI MOTORI DI RICERCA

Quando si digita una parola chiave il risultato della ricerca non mostra un elenco di siti in ordine di importanza, ma la selezione può dipendere da altri fattori. Per chiarire, i motori di ricerca lavorano come “Machine Learning”, cioè memorizzano le scelte e i gusti dell’utente per poi proporre argomenti in linea con le preferenze manifestate nelle scelte precedenti. Non fermarsi quindi alla prima ricerca, ma cercare di incrociare più ricerche e più dati.

8) NON “ABBOCCARE” ALLA PUBBLICITA’ MASCHERATA

Un sito di qualità deve sempre tenere separata l’informazione indipendente da quella pubblicitaria che dovrebbe sempre essere palese e dichiarata.

9) ACQUISTARE CON CAUTELA FARMACI ON LINE

Acquistare farmaci online solo da farmacie autorizzate. In Italia, tali esercizi devono avere sul loro sito l’apposito logo identificativo, comune in tutta l’Unione Europea, “Clicca qui per verificare se questo sito web è legale”. Basta cliccare sul logo e si sarà rinviati al sito web del Ministero della Salute dove è possibile verificare se il venditore online è registrato nell’elenco di quelli autorizzati. Se al contrario il sito non è legato a una farmacia, invece, comprare un farmaco online può essere molto pericoloso.

10)NON CASCARE NELLA PSICOSI DEL COMPLOTTO

Nel Web capita spesso di i Medicina scienza e ricerca

Salute in internet, un decalogo per salvarsi dalle “bufale”

Sempre più italiani cercano risposte sulla propria salute online: presentate da Unamsi e Cipomo con approvazione di 9 società scientifiche una serie di regole per difendersi dalla cattiva informazione

di Redazione Aboutpharma Online 11 maggio 2017 http://www.aboutpharma.com/wp-content/themes/aboutpharma/img/print.png

http://www.aboutpharma.com/wp-content/uploads/2017/05/fakenews-istock-640231462-tn-72dpi-e1494497724850-500x312.jpg

“Fake news” anche al centro della discussione delle società scientifiche che preoccupate da una malainformazione sulla salute online hanno deciso di mettere in guardia gli utenti con un decalogo su come difendersi. A redare il documento i giornalisti dell’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione (Unamsi) sensibilizzati dal Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri (Cipomo) che le ha presentate durante l’ultimo Convegno Nazionale di Cipomo. Ad approvare le regole oltra a Cipomo, altre otto società scientifiche, da quella dei medici di medicina generale (Simg) a quelle dei pediatri (Fimp e SIMPeF), agli otorinolaringoiatri (Sio), gli oftalmologi (Soi), endocrinologi (Ame), psichiatri (Sip) e urologi (Siu).

Il fenomeno della ricerca di risposte sul web a questioni di salute è molto cresciuto negli ultimi anni: nel 2014, secondo dati Censis erano solo 4 italiani su 10 a fare ricerche su internet su questioni di salute. L’ultimo sondaggio del gennaio 2017 parla dell’88% (di cui il 93,3% donne), ma la cosa grave è che quasi la metà del campione (il 44%) si affida alla prima pagina proposta dai motori di ricerca senza preoccuparsi dell’attendibilità delle fonti, con una differenza rilevante fra i 18-24enni (che sono ben il 55% di costoro) e gli ultra 65enni (22,7%).  Senza parlare di coloro (il dato nazionale è il 2-4% della popolazione) che acquistano farmaci online (30% farmaci per dimagrire, 28% per migliorare le prestazioni sessuali). Con rischi enormi se il sito da cui si acquista non è collegato a una farmacia. Nel migliore dei casi questi farmaci non contengono principi attivi, ma possono anche essere molto pericolosi.

1) VERIFICARE LA FONTE

Verificare sempre chi è il proprietario del sito, del giornale, del blog, sia esso istituzione, editore, industria, associazione, singolo cittadino. Questo serve per capire bene chi ha interesse a veicolare quel tipo di informazione. Tra i siti istituzionali segnaliamo quelli del Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Agenzia Italiana del Farmaco, degli Ospedali e delle Società medico-scientifiche. E’ importante che il sito di consultazione riporti sempre, nelle notizie pubblicate, autorevoli fonti di provenienza, una caratteristica che è una misura di attendibilità del sito stesso

2) ACCERTARSI DELL’AGGIORNAMENTO DEL SITO

Importantissima la verifica della data della pubblicazione. E’ una chiara indicazione dell’attualità di una notizia. Su Internet infatti non si perde nulla e può capitare, utilizzando un motore di ricerca, di arrivare su una notizia vecchia anche di anni.

3) CURE MEDICHE: EVITARE IL “FAI DA TE”

Nessuna informazione scritta può sostituire la visita del medico. Medico e farmacista devono restare i principali punti di riferimento in materia di salute. I contenuti in Rete devono avere “solo” uno scopo informativo e in nessun caso possono sostituire la visita o la prescrizione di un medico o il consiglio di un farmacista.

4) DIFFIDARE DELLE PRESCRIZIONI SENZA VISITA

Nessun medico serio farà mai una prescrizione a un malato sconosciuto senza averlo visitato. Diffidare quindi dei siti e degli esperti che indicano farmaci e terapie sulla semplice descrizione dei sintomi. Non è serio, non è professionale, e può essere molto pericoloso.

5) MONITORARE IL RISPETTO DELLA PRIVACY

Accertarsi che il proprietario di un sito che gestisce le informazioni sulla salute degli utenti (per esempio attraverso il servizio “l’esperto risponde”) rispetti la normativa sulla privacy e garantisca la confidenzialità dei dati.

6) VALUTARE CON LA GIUSTA ATTENZIONE BLOG E FORUM

Possono essere fonti utili, ma anche insidiose perché propongono storie di pazienti e dei loro familiari che suscitano empatia e coinvolgono emotivamente. Fare attenzione perché sono quasi sempre racconti soggettivi, ma non è detto che abbiano affidabilità scientifica. La lettura critica è di rigore.

7) OCCHIO AI MOTORI DI RICERCA

Quando si digita una parola chiave il risultato della ricerca non mostra un elenco di siti in ordine di importanza, ma la selezione può dipendere da altri fattori. Per chiarire, i motori di ricerca lavorano come “Machine Learning”, cioè memorizzano le scelte e i gusti dell’utente per poi proporre argomenti in linea con le preferenze manifestate nelle scelte precedenti. Non fermarsi quindi alla prima ricerca, ma cercare di incrociare più ricerche e più dati.

8) NON “ABBOCCARE” ALLA PUBBLICITA’ MASCHERATA

Un sito di qualità deve sempre tenere separata l’informazione indipendente da quella pubblicitaria che dovrebbe sempre essere palese e dichiarata.

9) ACQUISTARE CON CAUTELA FARMACI ON LINE

Acquistare farmaci online solo da farmacie autorizzate. In Italia, tali esercizi devono avere sul loro sito l’apposito logo identificativo, comune in tutta l’Unione Europea, “Clicca qui per verificare se questo sito web è legale”. Basta cliccare sul logo e si sarà rinviati al sito web del Ministero della Salute dove è possibile verificare se il venditore online è registrato nell’elenco di quelli autorizzati. Se al contrario il sito non è legato a una farmacia, invece, comprare un farmaco online può essere molto pericoloso.

10)NON CASCARE NELLA PSICOSI DEL COMPLOTTO

Nel Web capita spesso di incappare in notizie catastrofiche sull’effetto di vaccini e farmaci. Non perdere mai la capacità di analisi e di critica e confrontarsi sempre col proprio medico.

ncappare in notizie catastrofiche sull’eff Medicina scienza e ricerca

Salute in internet, un decalogo per salvarsi dalle “bufale”

Sempre più italiani cercano risposte sulla propria salute online: presentate da Unamsi e Cipomo con approvazione di 9 società scientifiche una serie di regole per difendersi dalla cattiva informazione

di Redazione Aboutpharma Online 11 maggio 2017

 

“Fake news” anche al centro della discussione delle società scientifiche che preoccupate da una malainformazione sulla salute online hanno deciso di mettere in guardia gli utenti con un decalogo su come difendersi. A redare il documento i giornalisti dell’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione (Unamsi) sensibilizzati dal Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri (Cipomo) che le ha presentate durante l’ultimo Convegno Nazionale di Cipomo. Ad approvare le regole oltra a Cipomo, altre otto società scientifiche, da quella dei medici di medicina generale (Simg) a quelle dei pediatri (Fimp e SIMPeF), agli otorinolaringoiatri (Sio), gli oftalmologi (Soi), endocrinologi (Ame), psichiatri (Sip) e urologi (Siu).

Il fenomeno della ricerca di risposte sul web a questioni di salute è molto cresciuto negli ultimi anni: nel 2014, secondo dati Censis erano solo 4 italiani su 10 a fare ricerche su internet su questioni di salute. L’ultimo sondaggio del gennaio 2017 parla dell’88% (di cui il 93,3% donne), ma la cosa grave è che quasi la metà del campione (il 44%) si affida alla prima pagina proposta dai motori di ricerca senza preoccuparsi dell’attendibilità delle fonti, con una differenza rilevante fra i 18-24enni (che sono ben il 55% di costoro) e gli ultra 65enni (22,7%).  Senza parlare di coloro (il dato nazionale è il 2-4% della popolazione) che acquistano farmaci online (30% farmaci per dimagrire, 28% per migliorare le prestazioni sessuali). Con rischi enormi se il sito da cui si acquista non è collegato a una farmacia. Nel migliore dei casi questi farmaci non contengono principi attivi, ma possono anche essere molto pericolosi.

1) VERIFICARE LA FONTE

Verificare sempre chi è il proprietario del sito, del giornale, del blog, sia esso istituzione, editore, industria, associazione, singolo cittadino. Questo serve per capire bene chi ha interesse a veicolare quel tipo di informazione. Tra i siti istituzionali segnaliamo quelli del Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Agenzia Italiana del Farmaco, degli Ospedali e delle Società medico-scientifiche. E’ importante che il sito di consultazione riporti sempre, nelle notizie pubblicate, autorevoli fonti di provenienza, una caratteristica che è una misura di attendibilità del sito stesso

2) ACCERTARSI DELL’AGGIORNAMENTO DEL SITO

Importantissima la verifica della data della pubblicazione. E’ una chiara indicazione dell’attualità di una notizia. Su Internet infatti non si perde nulla e può capitare, utilizzando un motore di ricerca, di arrivare su una notizia vecchia anche di anni.

3) CURE MEDICHE: EVITARE IL “FAI DA TE”

Nessuna informazione scritta può sostituire la visita del medico. Medico e farmacista devono restare i principali punti di riferimento in materia di salute. I contenuti in Rete devono avere “solo” uno scopo informativo e in nessun caso possono sostituire la visita o la prescrizione di un medico o il consiglio di un farmacista.

4) DIFFIDARE DELLE PRESCRIZIONI SENZA VISITA

Nessun medico serio farà mai una prescrizione a un malato sconosciuto senza averlo visitato. Diffidare quindi dei siti e degli esperti che indicano farmaci e terapie sulla semplice descrizione dei sintomi. Non è serio, non è professionale, e può essere molto pericoloso.

5) MONITORARE IL RISPETTO DELLA PRIVACY

Accertarsi che il proprietario di un sito che gestisce le informazioni sulla salute degli utenti (per esempio attraverso il servizio “l’esperto risponde”) rispetti la normativa sulla privacy e garantisca la confidenzialità dei dati.

6) VALUTARE CON LA GIUSTA ATTENZIONE BLOG E FORUM

Possono essere fonti utili, ma anche insidiose perché propongono storie di pazienti e dei loro familiari che suscitano empatia e coinvolgono emotivamente. Fare attenzione perché sono quasi sempre racconti soggettivi, ma non è detto che abbiano affidabilità scientifica. La lettura critica è di rigore.

7) OCCHIO AI MOTORI DI RICERCA

Quando si digita una parola chiave il risultato della ricerca non mostra un elenco di siti in ordine di importanza, ma la selezione può dipendere da altri fattori. Per chiarire, i motori di ricerca lavorano come “Machine Learning”, cioè memorizzano le scelte e i gusti dell’utente per poi proporre argomenti in linea con le preferenze manifestate nelle scelte precedenti. Non fermarsi quindi alla prima ricerca, ma cercare di incrociare più ricerche e più dati.

8) NON “ABBOCCARE” ALLA PUBBLICITA’ MASCHERATA

Un sito di qualità deve sempre tenere separata l’informazione indipendente da quella pubblicitaria che dovrebbe sempre essere palese e dichiarata.

9) ACQUISTARE CON CAUTELA FARMACI ON LINE

Acquistare farmaci online solo da farmacie autorizzate. In Italia, tali esercizi devono avere sul loro sito l’apposito logo identificativo, comune in tutta l’Unione Europea, “Clicca qui per verificare se questo sito web è legale”. Basta cliccare sul logo e si sarà rinviati al sito web del Ministero della Salute dove è possibile verificare se il venditore online è registrato nell’elenco di quelli autorizzati. Se al contrario il sito non è legato a una farmacia, invece, comprare un farmaco online può essere molto pericoloso.

10)NON CASCARE NELLA PSICOSI DEL COMPLOTTO

Nel Web capita spesso di i Medicina scienza e ricerca

Salute in internet, un decalogo per salvarsi dalle “bufale”

Sempre più italiani cercano risposte sulla propria salute online: presentate da Unamsi e Cipomo con approvazione di 9 società scientifiche una serie di regole per difendersi dalla cattiva informazione

di Redazione Aboutpharma Online 11 maggio 2017 http://www.aboutpharma.com/wp-content/themes/aboutpharma/img/print.png

http://www.aboutpharma.com/wp-content/uploads/2017/05/fakenews-istock-640231462-tn-72dpi-e1494497724850-500x312.jpg

“Fake news” anche al centro della discussione delle società scientifiche che preoccupate da una malainformazione sulla salute online hanno deciso di mettere in guardia gli utenti con un decalogo su come difendersi. A redare il documento i giornalisti dell’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione (Unamsi) sensibilizzati dal Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri (Cipomo) che le ha presentate durante l’ultimo Convegno Nazionale di Cipomo. Ad approvare le regole oltra a Cipomo, altre otto società scientifiche, da quella dei medici di medicina generale (Simg) a quelle dei pediatri (Fimp e SIMPeF), agli otorinolaringoiatri (Sio), gli oftalmologi (Soi), endocrinologi (Ame), psichiatri (Sip) e urologi (Siu).

Il fenomeno della ricerca di risposte sul web a questioni di salute è molto cresciuto negli ultimi anni: nel 2014, secondo dati Censis erano solo 4 italiani su 10 a fare ricerche su internet su questioni di salute. L’ultimo sondaggio del gennaio 2017 parla dell’88% (di cui il 93,3% donne), ma la cosa grave è che quasi la metà del campione (il 44%) si affida alla prima pagina proposta dai motori di ricerca senza preoccuparsi dell’attendibilità delle fonti, con una differenza rilevante fra i 18-24enni (che sono ben il 55% di costoro) e gli ultra 65enni (22,7%).  Senza parlare di coloro (il dato nazionale è il 2-4% della popolazione) che acquistano farmaci online (30% farmaci per dimagrire, 28% per migliorare le prestazioni sessuali). Con rischi enormi se il sito da cui si acquista non è collegato a una farmacia. Nel migliore dei casi questi farmaci non contengono principi attivi, ma possono anche essere molto pericolosi.

1) VERIFICARE LA FONTE

Verificare sempre chi è il proprietario del sito, del giornale, del blog, sia esso istituzione, editore, industria, associazione, singolo cittadino. Questo serve per capire bene chi ha interesse a veicolare quel tipo di informazione. Tra i siti istituzionali segnaliamo quelli del Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Agenzia Italiana del Farmaco, degli Ospedali e delle Società medico-scientifiche. E’ importante che il sito di consultazione riporti sempre, nelle notizie pubblicate, autorevoli fonti di provenienza, una caratteristica che è una misura di attendibilità del sito stesso

2) ACCERTARSI DELL’AGGIORNAMENTO DEL SITO

Importantissima la verifica della data della pubblicazione. E’ una chiara indicazione dell’attualità di una notizia. Su Internet infatti non si perde nulla e può capitare, utilizzando un motore di ricerca, di arrivare su una notizia vecchia anche di anni.

3) CURE MEDICHE: EVITARE IL “FAI DA TE”

Nessuna informazione scritta può sostituire la visita del medico. Medico e farmacista devono restare i principali punti di riferimento in materia di salute. I contenuti in Rete devono avere “solo” uno scopo informativo e in nessun caso possono sostituire la visita o la prescrizione di un medico o il consiglio di un farmacista.

4) DIFFIDARE DELLE PRESCRIZIONI SENZA VISITA

Nessun medico serio farà mai una prescrizione a un malato sconosciuto senza averlo visitato. Diffidare quindi dei siti e degli esperti che indicano farmaci e terapie sulla semplice descrizione dei sintomi. Non è serio, non è professionale, e può essere molto pericoloso.

5) MONITORARE IL RISPETTO DELLA PRIVACY

Accertarsi che il proprietario di un sito che gestisce le informazioni sulla salute degli utenti (per esempio attraverso il servizio “l’esperto risponde”) rispetti la normativa sulla privacy e garantisca la confidenzialità dei dati.

6) VALUTARE CON LA GIUSTA ATTENZIONE BLOG E FORUM

Possono essere fonti utili, ma anche insidiose perché propongono storie di pazienti e dei loro familiari che suscitano empatia e coinvolgono emotivamente. Fare attenzione perché sono quasi sempre racconti soggettivi, ma non è detto che abbiano affidabilità scientifica. La lettura critica è di rigore.

7) OCCHIO AI MOTORI DI RICERCA

Quando si digita una parola chiave il risultato della ricerca non mostra un elenco di siti in ordine di importanza, ma la selezione può dipendere da altri fattori. Per chiarire, i motori di ricerca lavorano come “Machine Learning”, cioè memorizzano le scelte e i gusti dell’utente per poi proporre argomenti in linea con le preferenze manifestate nelle scelte precedenti. Non fermarsi quindi alla prima ricerca, ma cercare di incrociare più ricerche e più dati.

8) NON “ABBOCCARE” ALLA PUBBLICITA’ MASCHERATA

Un sito di qualità deve sempre tenere separata l’informazione indipendente da quella pubblicitaria che dovrebbe sempre essere palese e dichiarata.

9) ACQUISTARE CON CAUTELA FARMACI ON LINE

Acquistare farmaci online solo da farmacie autorizzate. In Italia, tali esercizi devono avere sul loro sito l’apposito logo identificativo, comune in tutta l’Unione Europea, “Clicca qui per verificare se questo sito web è legale”. Basta cliccare sul logo e si sarà rinviati al sito web del Ministero della Salute dove è possibile verificare se il venditore online è registrato nell’elenco di quelli autorizzati. Se al contrario il sito non è legato a una farmacia, invece, comprare un farmaco online può essere molto pericoloso.

10)NON CASCARE NELLA PSICOSI DEL COMPLOTTO

Nel Web capita spesso di incappare in notizie catastrofiche sull’effetto di vaccini e farmaci. Non perdere mai la capacità di analisi e di critica e confrontarsi sempre col proprio medico.

ncappare in notizie catastrofiche sull’effetto di vaccini e farmaci. Non perdere mai la capacità di analisi e di critica e confrontarsi sempre col proprio medico.

 

etto di vaccini e farmaci. Non perdere mai la capacità di analisi e di critica e confrontarsi sempre col proprio medico.

 

Torna su
Sprechi in sanità, esami pre-operatori “sorvegliati speciali”

Sprechi in sanità, esami pre-operatori “sorvegliati speciali”

Routine, timori (anche legali), inappropriatezza diffusa: la Fondazione Gimbe lancia l’allarme sull’eccesso di esami prima degli interventi chirurgici e pubblica la sintesi italiana delle Linee Guida del Nice


Troppi esami prima degli interventi chirurgici. Non sempre indispensabili, ma prescritti comunque. Per varie ragioni: timori medico-legali ingiustificati, routine professionali consolidate e resistenti al cambiamento, limitata condivisione dei rischi operatori con i pazienti. Un “pezzo” di sanità da tenere sotto osservazione secondo la Fondazione Gimbe, che presenta in Italia la traduzione delle “Linee guida per la richiesta appropriata dei test pre-operatori nella chirurgia elettiva” del britannico National institute for health and care excellence (Nice).

“L’utilizzo routinario – spiega Nino Cartabllotta, presidente della Fondazione Gimbe – di test preoperatori da sottoporre a chirurgia elettiva non incide sulla gestione chirurgica e il riscontro di risultati falsamente positivi genera un ulteriore sovra-utilizzo di prestazioni, quali terapie inappropriate, consulti specialistici ed esami invasivi che possono determinare danni ai pazienti. Inoltre, i conseguenti sprechi non sono dovuti solo all’eccesso di esami, ma anche ai ritardi generati nel processo chirurgico”.

La linee guida del Nice prendono in considerazione lo stato fisico del paziente secondo le classi di rischio Asa(American society of anesthesiologists) e la complessità dell’intervento chirurgico (minore, intermedia, maggiore), forniscono le raccomandazioni per i test diagnostici con un pratico schema che utilizza i colori del semaforo: rosso (non di routine), giallo (raccomandato in casi particolari), verde (sempre raccomandato).

“Il Nice –  continua Cartabellotta – raccomanda di includere i risultati di tutti i test pre-operatori effettuati dal medico di famiglia quando si richiede un consulto chirurgico, oltre che considerare tutti i farmaci assunti dal paziente prima di effettuare qualsiasi test pre-operatorio, al fine di evitare inutili duplicazioni di esami, in particolare quelli eseguiti per specifiche comorbidità o terapie assunte dal paziente”.

La Fondazione Gimbe pone l’accento anche sul ruolo delle linee guida nella nuova legge sul rischio clinico (24/2017). L’articolo 5 fa riferimento alla tutela medico-legale del professionista che si attiene a “linee guida elaborate da elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie e, in assenza di queste, da buona pratiche clinico-assistenziali”. Il lavoro del Nice è, per la Fondazione, un esempio da seguire.

 

Torna su
Svelato un nuovo meccanismo di resistenza agli antibiotici

Svelato un nuovo meccanismo di resistenza agli antibiotici

Grazie a un potente microscopio un gruppo di ricercatori australiani ha scoperto che le infezioni resistenti da stafilococco aureo sviluppano una mutazione a varie cellule di distanza dai ribosomi, i complessi macromolecolari responsabili della sintesi proteica


È un “metodo di resistenza sorprendente e non ortodosso” quello che lo stafilococco aureo utilizza per raggirare l’effetto degli antibiotici di ultima linea. Ad affermarlo Matthew Belousoff del Biomedicine Discovery Institute della Monash University di Melbourne che con il suo team è riuscito a svelare il meccanismo attraverso un microscopio elettronico per documentare a livello molecolare i cambiamenti che avvengono nei batteri quando diventano resistenti agli antibiotici. In particolare i ricercatori hanno comparato sotto il microscopio elettronico le strutture cellulari di specie di stafilococco aureo resistenti e non resistenti, e hanno osservato che le infezioni resistenti sviluppano una mutazione a varie cellule di distanza dai ribosomi, i complessi macromolecolari responsabili della sintesi proteica. La mutazione causa un effetto a cascata sulla sistemazione strutturale della cellula e gradualmente corrompe l’area raggiunta dall’antibiotico. Nei casi di infezione da stafilococco, circa uno su cinque è resistente agli antibiotici, ricorda lo studioso. E l’infezione è comune nella popolazione: nella maggior parte dei casi è innocua, ma può essere letale su persone con sepsi. Quasi tutte le infezioni sono ormai diventate resistenti all’antibiotico più comunemente prescritto, la meticillina. Farmaci finora riservati come ultima linea di difesa, presto dovranno essere usati in prima istanza.

“Sappiamo che i batteri hanno una grande capacità di adattarsi ai cosiddetti stress ambientali, e nulla causa più stress quanto una forma di vita che cerca di ucciderli” scrive Belousoff. “Ovviamente si cerca di ucciderli con gli antibiotici ma si adattano rapidamente. Finora non sapevamo come, quale fosse il meccanismo”. Gli antibiotici attaccano le infezioni interferendo con il ribosoma batterico, la parte della cellula che produce proteine. E la cellula muore se non può più produrre proteine. “L’antibiotico funziona bloccando gli ingranaggi e la cellula non può più produrre proteine, ma i batteri resistenti trovano la maniera di oleare la macchina e di riavviarla”, spiega ancora. La scoperta riguarda solo il modo con cui lo stafilococco sconfigge il farmaco linezolid, ma la nuova tecnologia potrà essere adattata per formulare nuovi farmaci e a combattere altri batteri.

 

Torna su
Vaccini, via libera in Europa ad anti-meningococco B per adolescenti e adulti

Aziende

Vaccini, via libera in Europa ad anti-meningococco B per adolescenti e adulti

La Commissione Ue ha approvato Trumenba di Pfizer per soggetti dai 10 anni in su, somministrabile in due o tre dosi

di Redazione Aboutpharma Online 31 maggio 2017

 

Una nuova arma per proteggersi dalla meningite: la Commissione europea ha approvato Trumenba, vaccino contro il meningococco B per adolescenti e adulti prodotto da Pfizer. A darne notizia è una nota dell’azienda.

La malattia meningococcica invasiva causata da Neisseria meningitidis di sierogruppo B (MenB) è responsabile in Europa del 60% dei casi tra i più giovani, anche a causa di fattori di rischio ambientali e sociali: ritrovarsi in ambienti chiusi e condividere bevande, bicchieri o altro.

La posologia del nuovo vaccino – spiega la nota di Pfizer – prevede una schedula vaccinale a due e tre dosi, dando la flessibilità ai professionisti sanitari di somministrare il vaccino a seconda del rischio di esposizione e di suscettibilità al MenB.

L’approvazione della Commissione Ue si basa sui risultati di un programma di sviluppo clinico in cui sono stati valutati più di 20mila adolescenti e adulti. Dalla sua prima approvazione negli Stati Uniti nel 2014, Trumenba è stato somministrato a circa 600mila adolescenti e giovani adulti.

“Siamo fermi nel nostro impegno per far progredire e modellare il futuro dei vaccini – commenta Susan Silbermann, presidente e general manager di Pfizer Vaccines – al fine di aiutare ad affrontare le gravi minacce sanitarie in tutto il mondo che abbiano il maggior impatto pubblico. E lavoriamo per assicurare un’offerta costante e affidabile per tutti i vaccini che produciamo, incluso Trumenba con scadenza a 36 mesi”. Seppur con approvazioni diverse in vari Paesi, il portafoglio di vaccini meningococcici di Pfizer include prodotti che aiutano a proteggere da cinque delle più comuni malattie da sierogruppo A, B, C, W e Y, che possono minacciare la salute delle persone in diversi momenti della loro vita.

 

Torna su
Scoperta nuova malattia genetica del neurosviluppo

Medicina scienza e ricerca

Scoperta nuova malattia genetica del neurosviluppo

La ricerca condotta da un gruppo di ricercatori dell’Ieo, ha identificato il meccanismo patologico alla base di una grave sindrome del neurosviluppo finora sconosciuta e che da oggi sarà diagnosticabile. Alla base, mutazioni del gene Ying Yang, già noto in ambito oncologico

di Redazione Aboutpharma Online 8 giugno 2017

 

Si chiama – almeno provvisoriamente – “Sindrome da aploinsufficienza di YY1” ed è una delle tante malattie del genetiche dello sviluppo finora sconosciute e non diagnosticate. Oggi grazie alla scoperta di un gruppo di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano questa malattia ha un nome, una causa nota, un meccanismo patologico chiaro che in futuro potrà portare, auspicabilmente, a un trattamento farmacologico che ne allevi almeno in parte i sintomi. In particolare Giuseppe Testa, direttore del laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali e i suoi collaboratori (Michele Gabriele, Anneke T. Vulto van Silfhout, Pierre Luc Germain e Alessandro Vitriolo) sono i primi autori di un articolo pubblicato su The American  Journal of Human Genetics, in cui viene chiarito che il gene YY1 – il cui ruolo è ben noto in ambito oncologico e in biologia dello sviluppo – è anche causa di una sindrome del neurosviluppo caratterizzata da disabilità intellettive e malformazioni congenite, definita, appunto, provvisoriamente “Sindrome da aploinsufficienza di YY1”. YY1 è importante per l’embriogenesi e la sua mutazione è già stata associata all’insorgenza di diversi tumori, tra cui quelli alla mammella e alla prostata. Il suo nome, Ying Yang, si deve alla sua caratteristica di “Giano bifronte”: YY1 infatti può attivare o disattivare molti altri geni a seconda del contesto cellulare e degli stimoli ambientali, controllandone la funzione sia normalmente che durante l’insorgenza di processi patologici come la cancerogenesi, quando le mutazioni avvengono in individui adulti.

Lo studio ha evidenziato invece come, quando le mutazioni del gene YY1 avvengono all’inizio dello sviluppo, si origini la cosiddetta “Sindrome da aploinsufficienza di YY1”. In particolare, il lavoro dei ricercatori ha chiarito che queste mutazioni agiscono alterando l’espressione genica e lo stato dell’acetilazione della cromatina. L’acetilazione degli istoni, che costituiscono la cromatina, è un meccanismo chiave che promuove l’attività dei geni, spesso alterato anche nella cancerogenesi: farmaci capaci di inibire o favorire l’acetilazione esistono già, e molti di questi sono già in avanzata sperimentazione clinica per molti tumori. Pertanto la scoperta di un deficit di acetilazione nei pazienti colpiti da mutazioni di YY1 apre possibilità concrete di testare in futuro questi modulatori dell’acetilazione come approcci terapeutici.
 Come risultato immediato invece questa ricerca porta con sé la diagnosi, possibile sin da oggi: un grande progresso a livello clinico per il mondo delle malattie genetiche rare.

“La genetica e in particolare il sequenziamento del genoma effettuato con le nuove tecnologie di next generation sequencing – spiega Giuseppe Testa –  sta aprendo nuove speranze per queste famiglie, perché la diagnosi è il primo passo verso un’assistenza adeguata e, ancor prima, verso una consapevolezza della causa di malattia che, dall’esperienza che abbiamo, rappresenta un enorme sollievo per le famiglie coinvolte”. Altro importante esito dello studio è la conferma che alcuni geni, già noti per il loro ruolo nella formazione di tumori, sono anche all’origine di malattie genetiche dello sviluppo intellettivo.“YY1–continua Testa – è un caso paradigmatico di questa sorta di “doppia identità” di alcuni geni: una linea interpretativa che apre infinite nuove possibilità di ricerca”.

Lo studio è stato finanziato da AIRC, Telethon, ERC, ministero della Salute e RegioneLombardia.

 

Torna su
Vaccini, la posizione di Walter Ricciardi (Iss) nel suo editoriale

Vaccini, la posizione di Walter Ricciardi (Iss) nel suo editoriale

"Basti pensare che solo sei regioni riescono a superare la soglia di sicurezza (95%) e otto, invece, sono addirittura sotto il 93%", scrive il presidente nel suo editoriale per la newsletter dell'Istituto superiore di sanità


“I dati di copertura vaccinale del 2016, appena pubblicati dal Ministero della Salute, mettono in evidenza che poca strada è stata fatta per risalire la china delle coperture vaccinali in Italia”.
Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, esordisce così nel suo
editoriale per la newsletter dell’Iss.
Ricciardi mostra preoccupazione per una soglia di vaccinazioni obbligatorie che si arrestano su una soglia di copertura che resta critica per la tutela della salute pubblica futura. “Basti pensare che solo sei regioni riescono a superare la soglia di sicurezza (95%) e otto, invece, sono addirittura sotto il 93% ma per tutte le altre restano differenze significative tra regione e regione che testimoniano ancora di più, se ce ne fosse bisogno, l’importanza di un indirizzo unico per tutto il Paese in materia di prevenzione primaria”, scrive Ricciardi.

Il Veneto, che già nel 2007 aveva sospeso l’obbligo vaccinale, creando un sistema di monitoraggio sulle vaccinazioni e promuovendo un’adesione consapevole non è riuscito, però, a impedire un livello insoddisfacente di copertura proprio sulle vaccinazioni obbligatorie, che è infatti inferiore di oltre un punto rispetto alla media nazionale.
“La copertura di vaccinazioni raccomandate come morbillo, parotite e rosolia è superiore di quasi due punti rispetto al resto d’Italia ma comunque inferiore al livello critico (95%), necessario per il raggiungimento dell’eliminazione del morbillo”.
Il Veneto, inoltre, sempre stando ai dati forniti da Ricciardi nel suo editoriale, risulta fra le poche regioni ad avere un recupero della copertura della vaccinazione esavalente inferiore al 5% a 36 mesi. Ciò significa che solo il 5% dei bambini non vaccinati secondo il calendario prestabilito si mette in pari con questa vaccinazione entro i tre anni. A differenza del resto d’Italia dove il recupero nella stessa fascia temporale avviene con percentuali intorno al 18%.

 

Torna su
Fda, ritirato dal mercato farmaco oppioide

Legal & Regulatory

Fda, ritirato dal mercato farmaco oppioide

Il medicinale in questione è oximorfone idrocloruro, perchè i suoi benefici non compensano i rischi per la salute che possono derivare dal suo abuso. Sempre secondo l'agenzia americana l'eccessivo utilizzo è stato associato ad una grave epidemia di hiv ed epatite C, insieme ad altri gravi disturbi del sangue

di Redazione Aboutpharma Online 13 giugno 2017

 

La Food and drug administration (Fda), l’agenzia Usa che regola i farmaci, ha chiesto la rimozione dal mercato un farmaco oppioide, l’oximorfone idrocloruro, perchè i suoi benefici non compensano i rischi per la salute che possono derivare dal suo abuso. Non era mai stato preso un provvedimento del genere per questo tipo di farmaci, a causa dell’epidemia da abuso di oppioidi negli Usa. “Questa è un’emergenza di salute pubblica e dobbiamo prendere tutti i provvedimenti necessari per ridurre l’abuso e il maluso di questi farmaci”, chiarisce Scott Gottlieb, dell’Fda. La decisione dell’agenzia si è basata sui dati disponibili, che dimostrano l’abuso di questo farmaco, nonostante sia stata cambiata la sua formulazione da nasale a iniezione, proprio per evitare un’eventualità del genere. L’abuso di iniezione di quest’oppioide è stato associato ad una grave epidemia di hiv ed epatite C, insieme ad altri gravi disturbi del sangue. L’Fda ha fatto sapere che continuerà ad esaminare i rischi e benefici di tutti i farmaci analgesici oppioidi per fronteggiare questo problema di salute pubblica.

 

 

Torna su
Passi in avanti contro l’Hiv con una nuova combinazione a base di bictegravir

Aziende

Passi in avanti contro l’Hiv con una nuova combinazione a base di bictegravir

La combinazione in una sola compressa di emtricitabina/tenofovir alafenamide con bictegravir, un nuovo inibitore dell’integrasi (INSTI) sperimentale soddisfa gli endpoint primari di quattro studi clinici di fase III

di Redazione Aboutpharma Online 14 giugno 2017

 

Continua l’ascesa di Gilead Sciences nel campo dell’Hiv che con quattro studi di Fase III ha confermato ancora una volta l’efficacia di bictegravir. Il nuovo inibitore dell’integrasi è stato testato (alla dose di 50 mg) in combinazione emtricitabina/tenofovir alafenamide (alla dose di 200/25 mg) un profarmaco quest’ultimo di tenofovir, che consente l’accumulo del farmaco all’interno delle cellule (concentrazioni 4 volte più elevate) limitandone la presenza nel flusso sanguigno. La quantità del medicinale nel sangue è così del 90% in meno, riducendo la  tossicità a livello dei reni e delle ossa nei pazienti con Hiv.

Tre degli studi in corso sono stati concepiti per valutare l’efficacia e la sicurezza dell’associazione rispetto ai regimi contenenti dolutegravir (50 mg) – farmaco sviluppato dalla GlaxoSmithKline con lo stesso meccanismo d’azione del bictegravir – tra i pazienti naïve al trattamento e tra quelli virologicamente soppressi provenienti da un precedente regime antiretrovirale. Un quarto studio condotto su pazienti virologicamente soppressi confronta il passaggio all’associazione bictegravir/emtricitabina/tenofovir alafenamide rispetto alla permanenza in un regime soppressivo composto da due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa e un inibitore della proteasi.

“Questo regime sperimentale a singola compressa riunisce la potenza di un inibitore dell’integrasi – bictegravir – con il consolidato profilo di efficacia e sicurezza del trattamento a base di TAF ed emtricitabina”, ha affermato Andrea Antinori, Direttore U.O.C. Immunodeficienze Virali, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, IRCCS, Roma. “Sulla base di quanto emerso dai risultati di questi studi di Fase III, la combinazione di bictegravir e emtricitabina/tenofovir alafenamide rappresenta, al momento, un progresso di assoluto rilievo nel trattamento con triplice terapia. La combinazione di bictegravir e emtricitabina/tenofovir alafenamide si è dimostrata non-inferiore rispetto a regimi standard of care sia nel trattamento del paziente naive che nelle persone che cambiano la terapia in presenza di una soppressione virale, e questo significa avere a disposizione una nuova opzione di trattamento, estremamente sicura ed efficace, per una larga parte dei pazienti affetti da HIV”.

Due studi hanno valutato la sicurezza e l’efficacia della nuova associazione rispetto a quella a base di abacavir/dolutegravir/lamivudina (600/50/300 mg) e dolutegravir emtricitabina/tenofovir alafenamide in 600 pazienti naïve al trattamento per ciascuno studio. Un altro studio ha valutato la sicurezza e l’efficacia del passaggio da un regime basato su dolutegravir e abacavir/lamivudina o da una combinazione a dose fissa di abacavir/dolutegravir/lamivudina a bictegravir/emtricitabina/tenofovir alafenamide in 520 adulti virologicamente soppressi. Infine un quarto studio ha valutato il passaggio a bictegravir/emtricitabina/tenofovir alafenamide rispetto alla permanenza in un regime composto da atazanavir (300 mg) o darunavir (800 mg) + emtricitabina/tenofovir disoproxil fumarato (200/300 mg) o abacavir/lamivudina in 520 adulti virologicamente soppressi.

Bictegravir/emtricitabina/tenofovir alafenamide è risultato non inferiore ai regimi di confronto in tutti e quattro gli studi, con percentuali paragonabili di soggetti che hanno raggiunto livelli di HIV-1 RNA <50 copie/ml o siano riusciti a mantenere un valore di HIV-1 RNA <50 copie/ml. Inoltre, in tutti gli studi la combinazione è stato ben tollerato; nessun paziente ha interrotto il farmaco in studio a causa di eventi renali e non è stata identificata alcuna resistenza emergente al trattamento.

Bictegravir in combinazione con emtricitabina/tenofovir alafenamide come regime di a singola compressa è un trattamento sperimentale, la cui sicurezza o efficacia non sono ancora state determinate.

 

Torna su
Vaccini, Corte Ue non esclude insorgenza di una malattia

Vaccini, Corte Ue non esclude insorgenza di una malattia

Al centro del dibattito la possibile causalità tra epatite B e sclerosi multipla: "la prossimità temporale tra la somministrazione del vaccino e l'insorgenza di una malattia, l'assenza di precedenti medici personali e l'esistenza di un numero significativo di casi registrati di comparsa di tale malattia posso costituire una prova", hanno dichiarato i giudici.

Dopo il rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea da parte della Cassazione francese, per i giudici del Lussemburgo “in mancanza di consenso scientifico, il difetto di un vaccino e il nesso di causalità tra il medesimo e una malattia possono essere provati con un complesso di indizi gravi, precisi e concordanti”. Il giudice nazionale deciderà nel merito.
In particolare, rileva la Corte, “la prossimità temporale tra la somministrazione del vaccino e l’insorgenza di una malattia, l’assenza di precedenti medici personali e familiari della persona vaccinata e l’esistenza di un numero significativo di casi registrati di comparsa di tale malattia a seguito di simili somministrazioni possono eventualmente costituire indizi sufficienti a formare una simile prova”. La sentenza della Corte, interpellata in questo caso sull’interpretazione del diritto dell’Unione, non risolve comunque la controversia. Spetterà alla giustizia francese dirimere la causa conformemente alla decisione della Corte.
Al paziente al centro della vicenda era stato somministrato, tra la fine del 1998 e la metà del 1999, un vaccino contro l’epatite B prodotto dalla Sanofi Pasteur. Nell’agosto 1999, ha iniziato a manifestare vari disturbi, fino alla diagnosi di sclerosi multipla nel novembre 2000. L’uomo è poi morto nel 2011. Fin dal 2006 lui e la sua famiglia hanno promosso un’azione giudiziaria per ottenere un risarcimento.

 

Torna su
Oms: epatite B e C causano 1,4 mln di morti all’anno. Servono azioni urgenti

Medicina scienza e ricerca

Oms: epatite B e C causano 1,4 mln di morti all’anno. Servono azioni urgenti

L'invito dell'Organizzazione mondiale della sanità a pochi giorni dal World Hepatitis Day (28 luglio). Per condividere best pratice al via il primo World Hepatitis Summit dal 2 al 4 settembre a Glasgow

di Redazione Aboutpharma Online 23 luglio 2015

 

Causano ogni anno 1,4 milioni di morti e rappresentano l’80% delle morti per tumore al fegato. Sono i numeri delle epatiti B e C, focus dell’edizione di quest’anno della Giornata Mondiale dell’Epatite (World Hepatitis Day) .  A pochi giorni dalle celebrazioni della Giornata, che si svolgerà il prossimo 28 luglio con lo slogan “Prevenire le epatiti. Agire ora”, l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiede azioni urgenti ai paesi per prevenire il diffondersi di nuove infezioni e garantire che le persone infettate ricevano tempestiva diagnosi e trattamento.
Tra le azioni evidenziate dall’Organizzazione per ridurre i rischi figurano in particolare l’utilizzo di materiali sterili per le iniezioni e altre procedure mediche e la necessità di testare  per l’epatite B e C (così come l’HIV e sifilide) il sangue donato. Circa due milioni di persone all’anno, infatti, contraggono l’epatite da iniezioni non sicure. Altro intervento da promuovere, secondo l’Oms, è la vaccinazione contro l’epatite B. Idealmente, sottolinea l’organizzazione, il vaccino dovrebbe essere somministrato a tutti i bambini appena possibile dopo la nascita (preferibilmente entro le 24 ore) ed essere seguito da altre 2 o 3 dosi per completare la serie. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda inoltre la vaccinazione anche a tutti gli adulti a rischio di contrarre l’infezioni. Ogni anno solo l’epatite B provoca circa 780.000 morti. “Queste morti tragiche possono essere evitate fermando le nuove infezioni e migliorando l’accesso a test e trattamenti per  le persone infette – ha dichiarato Martin Donoghoe del programma europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità per la Tbc e  l’epatite. Su questo fronte per condividere best pratice a livello internazionale l’Organizzazion ha promosso il primo 
World Hepatitis Summit che si svolgerà dal 2 al 4 settembre a Glasgow. L’iniziativa, sponsorizzata anche dallo Scottish Government e dalla World Hepatitis Alliance, mira a sviluppare una piattaforma per lo scambio di esperienze nazionali e promuovere il confronto con i paesi per sviluppare piani d’azione nazionali.

 

Torna su
Psoriasi, anticorpo monoclonale di Lilly ottiene rimborsabilità in Italia

Psoriasi, anticorpo monoclonale di Lilly ottiene rimborsabilità in Italia

Ixekizumab, che si lega selettivamente con l’interleuchina 17A (IL-17A), è stato approvato nel 2016 in Europa per il trattamento della psoriasi a placche da moderata a grave in pazienti adulti candidati alla terapia sistemica o fototerapia

di Redazione Aboutpharma Online 4 luglio 2017

 

Contro la psoriasi a placche, una nuova arma a disposizione dei pazienti italiani: ixekizumab, anticorpo monoclonale – nato dalla ricerca di Lilly -che si lega selettivamente con l’interleuchina 17A (IL-17A), è ora disponibile (e rimborsabile) nel nostro Paese. A darne notizia è una nota dell’azienda. La molecola, è stata approvata dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) nell’aprile 2016 per il trattamento della psoriasi a placche da moderata a grave in pazienti adulti candidati alla terapia sistemica o fototerapia.

“E’ importante avere a disposizione trattamenti – spiega Antonio Costanzo, responsabile della Dermatologia e docente all’Humanitas University – che consentano di raggiungere obiettivi clinici molto elevati di pulizia della pelle. Oggi raggiungere la quasi o la totale remissione della malattia con le nuove classi di farmaco è finalmente possibile. L’anticorpo monoclonale Ixekizumab, oltre a profili di sicurezza e tollerabilità accettabili, ha dimostrato una notevole capacità di risoluzione delle placche psoriasiche con un’azione fin dalle prime settimane di trattamento e una risposta mantenuta nel tempo. Questo perché è in grado di bloccare un punto chiave nello sviluppo della malattia”.

Ixekizumab è disponibile in siringhe pre-riempite per iniezione o in iniettori a penna. Viene somministrato mediante iniezione sotto la pelle.

 

Torna su
Passi avanti per il “vaccino-cerotto”

Medicina scienza e ricerca

Passi avanti per il “vaccino-cerotto”

Un’innovativa via di somministrazione ha superato i primi test di sicurezza: si tratta di un patch dotato di centinaia di microaghi, posizionati sul lato adesivo, che penetrano attraverso la superficie della pelle e rilasciano il vaccino (influenzale e non solo)

di Redazione Aboutpharma Online 3 luglio 2017

 

Un cerotto al posto di una puntura è senza dubbio un grosso passo avanti. Per chi ha paura delle iniezioni ma anche per tutti gli altri. È l’innovativa via di somministrazione che si sta testando per alcuni vaccini, che di recente ha superato i test di sicurezza, come riporta uno studio pubblicato su The Lancet.  Il cerotto funziona tramite centinaia di microaghi, posizionati sul lato adesivo, che penetrano attraverso la superficie della pelle e rilasciano il vaccino. Il device infatti perfora gli strati più superficiali della pelle, mentre i tradizionali vaccini antiinfluenzali vanno più in profondità fin quasi al muscolo. Tra gli altri vantaggi, la facilità di utilizzo, che fanno sì possa essere applicato anche da soli, e il fatto di non dover per forza essere conservato in frigorifero.

Secondo i ricercatori della Emory University e la Georgia Institute of Technology, che hanno sviluppato il device grazie a un finanziamento del National Institutes of Health statunitense, il patch offrirebbe la stessa protezione di un vaccino regolare, ma senza dolore. Il team di ricerca guidato da Mark Prausnitz (che fa anche parte di una società che vuole autorizzare la tecnologia) ha testato il cerotto confrontandolo con il tradizionale vaccino antiinfluenzale. Il gruppo controllo ha ricevuto una normale iniezione di vaccino, mentre l’altro ha tenuto il patch al polso per 20 minuti. La maggior parte dei soggetti che hanno usato il dispositivo ha riferito che l’utilizzo è stato indolore, e ha segnalato solo alcuni lievi effetti collaterali, come rossore, prurito e una leggera irritazione nell’area della pelle dove era stato applicato il cerotto. Sintomi che si sono esauriti nei giorni seguenti.

Secondo gli esperti la nuova via di somministrazione potrebbe rivoluzionare il sistema di vaccinazione attuale, antiinfluenzale e non solo. Sebbene siano necessari ulteriori studi clinici per dimostrarne efficacia e sicurezza. “Potremmo pensare a una vaccinazione a domicilio o sul posto di lavoro – ha spiegato Nadine Rouphael, dell’Università di Emory – e poiché può essere conservato in sicurezza per un anno senza refrigerazione, potrebbe risultare estremamente utile nel mondo in via di sviluppo”.

Il cerotto inoltre può essere smaltito senza troppe complicazioni e può essere gettato direttamente nel cestino dopo essere stata utilizzato perché i microaghi si dissolvono. Secondo gli esperti del Public Health England, potrebbe anche essere utilizzato anche per i bambini piccoli che non amare gli aghi, sebbene sempre nel Regno Unito sia già stato introdotto un vaccino nasale contro l’influenza pensato a posta per loro.

 

Torna su
Malattie rare, via libera in Europa al collirio “made in Italy” per la cheratite neurotrofica

Malattie rare, via libera in Europa al collirio “made in Italy” per la cheratite neurotrofica

Disco verde per le gocce “da Nobel”, frutto della ricerca sul Nerve growth factor (Ngf) che valse il premio a Rita Levi Montalcini. Si tratta di un farmaco biotecnologico a base di cenegermin frutto della ricerca Dompé


La Commissione Europea ha detto sì all’immissione in commercio di un collirio a base di cenegermin per il trattamento della cheratite neurotrofica moderata o grave, malattia rara e gravemente invalidante finora senza farmaci autorizzati. Ad annunciarlo è l’azienda Dompé in una nota, ricordando come alla base di cenegermin ci siano decenni di ricerca “Made in Italy”, a partire dagli studi del Premio Nobel Rita Levi Montalcini che scoprì il nerve growth factor (NGF), per giungere poi alla collaborazione tra Dompé e centri di eccellenza in oftalmologia rinomati a livello internazionale.

Cenegermin – spiega la nota dell’azienda – è il nome del principio attivo del farmaco, ed è la versione ricombinante del nerve growth factor (NGF) umano, sviluppata e messa a punto attraverso un processo produttivo biotecnologico originale di Dompé. È, in sostanza,i una proteina del tutto simile a quella naturalmente prodotta dal corpo umano, coinvolta nello sviluppo, nel mantenimento e nella sopravvivenza delle cellule nervose. Somministrato in gocce oculari in pazienti con cheratite neurotrofica moderata o grave, il collirio può aiutare a ripristinare i normali processi di guarigione dell’occhio e riparare il danno della cornea.

“L’autorizzazione ottenuta dalla Commissione Europea – commenta Eugenio Aringhieri, Chief Executive Officer di Dompé farmaceutici – è una pietra miliare per i pazienti affetti da questa patologia, per la ricerca in questo settore e per la nostra azienda. È il nostro primo farmaco biotech ottenuto grazie al lavoro di una squadra che con competenza e passione ha creduto sin dall’inizio in questo progetto e grazie ad una collaborazione costante con una classe medica eccellente che in centri nazionali ed internazionali ha contributo allo sviluppo del prodotto nelle diverse fasi del suo percorso”. Cenegermin è stato messo a punto presso il Polo di Ricerca e Produzione Dompé dell’Aquila grazie alla tecnologia del DNA ricombinante, con l’utilizzo di batteri in cui viene introdotto un gene (DNA) che consente ai batteri stessi di produrre il fattore di crescita nervoso umano. Il percorso di registrazione del farmaco è in corso anche negli Stati Uniti.

 

 

Torna su
Una nuova terapia genica per l’emofilia A potrebbe iniziare i trial clinici

Aziende

Una nuova terapia genica per l’emofilia A potrebbe iniziare i trial clinici

Shire ha fatto domanda di Investigational New Drug (Ind) per un trattamento che mira a proteggere i pazienti da sanguinamenti garantendo un livello costante di fattore VIII

di Redazione Aboutpharma Online 12 luglio 2017

 

Novità in vista contro l’emofilia A. Shire annuncia la sottomissione alla Fda (Food and Drug Administration) Usa della richiesta di Investigational New Drug (Ind) per un farmaco sperimentale: SHP654  (designato anche come BAX 888), una terapia genica per la cura dell’emofilia A. Il farmaco, si legge in una nota, mira a proteggere i pazienti con emofilia A da sanguinamenti, attraverso un trattamento che a lungo termine garantisce un livello costante di fattore VIII.  In particolare la terapia genica di Shire  utilizza un vettore, un virus adeno-associato ricombinante, per veicolare una copia funzionale di FVIII al fegato e quindi consentire un’autoproduzione del fattore VIII.

“Il farmaco utilizza una piattaforma di tecnologia proprietaria, progettata per produrre livelli sostenuti del fattore VIII, simili ai meccanismi naturali dell’organismo” ha dichiarato Paul Monahan, Senior Medical Director, Gene Therapy, Shire. “Il nostro obiettivo con la terapia genica per l’emofilia è quello di rispettare i più alti standard di sicurezza ed efficacia”.

La domanda alla Fda si basa sui risultati di studi pre-clinici e di fase 1 che dimostrano l’utilità potenziale di questa terapia (che saranno presentati al Congresso della Società internazionale per la trombosi e l’emostasi (Isth), in corso a Berlino). Una Ind, ricorda l’azienda, è una richiesta per l’autorizzazione a somministrare un farmaco sperimentale agli esseri umani. Una volta ottenuto il via libera, Shire avvierà uno studio multicentrico globale per valutare la sicurezza e le dosi di terapie necessarie, con l’obiettivo finale di portare il medicinale ai pazienti.

 

Torna su
Risonanza magnetica, l’Ema valuta la sospensione dei mezzi di contrasto a base di gadolinio

Legal & Regulatory

Risonanza magnetica, l’Ema valuta la sospensione dei mezzi di contrasto a base di gadolinio

A dirlo è il Comitato per la valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (Prac), che conferma così la sua precedente raccomandazione dello scorso marzo. C'è il timore che la sostanza si accumuli nel cervello

di Redazione Aboutpharma Online 18 luglio 2017

 

Sospendere l’uso dei mezzi di contrasto a base di gadolinio per la risonanza magnetica: a dirlo è il Comitato per la valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (Prac) dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema), che conferma così la sua precedente raccomandazione dello scorso marzo. La decisione si basa sul fatto che vi sono prove convincenti che questa sostanza si accumuli nel cervello. Anche se non sono state identificate condizioni specifiche legate all’accumulo di gadolinio nel cervello, le conseguenze cliniche non sono conosciute. Per questo il Prac ha deciso di raccomandare l’uso dei mezzi di contrasto lineari con acido gadoxetico e acido gadobenico solamente per le scansioni del fegato, e dell’acido gadopentetico solo per la scansione delle articolazioni. Tutti gli altri mezzi di contrasto lineari a base di gadolinio per uso endovenoso (gadodiamide, acido gadopentetico e gadoversetamide) devono invece essere sospesi. Le raccomandazioni del Prac saranno ora trasmesse al Comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Ema, che adotterà il parere finale dell’Agenzia. La procedura di rivalutazione terminerà con l’adozione da parte della Commissione Europea di una decisione legalmente vincolante e applicabile a tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea.

Torna su
Leucemie, trapianto possibile anche in assenza di un donatore completamente compatibile

Medicina scienza e ricerca

Leucemie, trapianto possibile anche in assenza di un donatore completamente compatibile

La tecnica di manipolazione delle cellule staminali sviluppata dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è stata allargata a leucemie pediatriche e tumori del sangue: un’occasione di guarigione definitiva per centinaia di bambini in Italia e nel mondo

di Redazione Aboutpharma Online 26 luglio 2017

 

È l’ultima frontiera del trapianto di cellule staminali per i pazienti pediatrici con una leucemia acuta. Una nuova tecnica di manipolazione cellulare messa a punto dai ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e sviluppata con la più grande casistica al mondo nell’Ospedale della Santa Sede su bambini affetti da leucemie e tumori del sangue. Anche in assenza di un donatore completamente compatibile, la nuova tecnica rende possibile il trapianto di midollo da uno dei due genitori con percentuali di guarigione sovrapponibili a quelle ottenute utilizzando un donatore perfettamente idoneo. I risultati eccezionali di questa sperimentazione – potenzialmente applicabile a centinaia di bambini in Italia e nel mondo – sono stati  pubblicati sulla rivista scientifica internazionale Blood e rilanciati dalla Società americana di ematologia (Ash).

La  rivoluzionaria metodologia, messa a punto dall’équipe di Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia e Medicina Trasfusionale al Bambino Gesù, era già stata applicata e pubblicata, sempre su Blood, per quanto riguarda le immunodeficienze e le malattie genetiche (talassemie, anemie, ecc.). Il nuovo paper allarga le patologie trattabili con questa innovativa tecnica alle leucemie e ai tumori del sangue.

Il trapianto di cellule staminali del sangue rappresenta una terapia salvavita per un elevato numero di pazienti pediatrici affetti da leucemia o da altri tumori del sangue, così come per bambini che nascono senza adeguate difese del sistema immunitario o con un’incapacità a formare adeguatamente i globuli rossi (malattia talassemica). Per tanti anni, l’unico donatore impiegato è stato un fratello o una sorella immunogeneticamente compatibile con il paziente. Ma la possibilità che due fratelli siano identici tra loro è solamente del 25%. Per ovviare a questa limitazione, sono stati creati i Registri dei donatori volontari di midollo osseo che arruolano ormai più di 29 milioni di donatori e le Banche di raccolta e conservazione del sangue placentare, le quali rendono disponibili circa 700.000 unità nel mondo.

A dispetto di questi numeri, esiste un 30-40% di pazienti che non trova un donatore idoneo o che ha un’urgenza di essere avviato al trapianto in tempi non compatibili con quelli necessari a identificare un donatore al di fuori dell’ambito familiare. Con lo scopo di rispondere a questa “urgenza” terapeutica, negli ultimi 20 anni molto si è investito nell’utilizzo di uno dei due genitori come donatore di cellule staminali emopoietiche, per definizione, immunogeneticamente compatibile per il 50% con il proprio figlio.

Tuttavia, l’utilizzo di queste cellule senza alcuna manipolazione rischia di causare gravi complicanze, potenzialmente fatali, correlate alla procedura trapiantologica stessa. Per questo motivo, fino a pochi anni fa, si utilizzava un metodo di “purificazione” di queste cellule che garantiva una buona percentuale di successo del trapianto (attecchimento) ma che, sfortunatamente, si associava a un elevato rischio infettivo (soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto) con un’elevata incidenza di mortalità. Come risultato finale, i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, o un soggetto identificato al di fuori dell’ambito familiare.

Negli ultimi anni, i ricercatori dell’Ospedale Bambino Gesù hanno dedicato i loro sforzi a mettere a punto una nuova tecnica di manipolazione delle cellule staminali che permette di eliminare le cellule pericolose (linfociti T alfa/beta+), responsabili dello sviluppo di complicanze legate all’aggressione da parte di cellule del donatore sui tessuti del ricevente (Graft versus host disease), lasciando però elevate quantità di cellule buone (linfociti T gamma/delta+, cellule Natural Killer), capaci di proteggere il bambino da infezioni severe e dalla ricaduta di malattia. In particolare, il ruolo delle cellule Natural Killer da oltre 10 anni è stato oggetto di approfondito e meticoloso studio grazie alla collaborazione tra il Locatelli e  Lorenzo Moretta, responsabile dell’area di ricerca in immunologia del Bambino Gesù. Proprio la stretta interazione tra ricerca clinica e ricerca di base ha permesso di capire che con il nuovo approccio di manipolazione selettiva dei tessuti da trapiantare, i pazienti possono beneficiare fin da subito dell’effetto positivo dei linfociti T gamma/delta+ e delle cellule Natural Killer del donatore. Largo supporto alle attività di ricerca è stato dato da un grant finanziato da AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), che conferma il proprio ruolo importantissimo nel promuovere importanti avanzamenti terapeutici nella cura dei tumori nel nostro Paese.

In particolare, questa innovativa procedura di trattamento cellulare è stata applicata a 80 pazienti con leucemie acute resistenti ai trattamenti convenzionali o già ricadute dopo i convenzionali trattamenti chemioterapici. I risultati del Bambino Gesù dimostrano come il rischio di mortalità da trapianto è straordinariamente basso (nell’ordine del 5%), il rischio di ricaduta di malattia è del 24% e, conseguentemente, la probabilità di cura definitiva per questi bambini è superiore al 70%, un valore sovrapponibile (anzi lievemente migliore) a quello ottenuto nello stesso periodo in pazienti leucemici trapiantati (sempre nell’Ospedale della Santa Sede) da un donatore, familiare o non consanguineo, perfettamente compatibile. Inoltre, il rischio particolarmente basso di sviluppare complicanze a breve e lungo termine correlate al trapianto ottenuto grazie a questo nuovo approccio metodologico, rende questa procedura un traguardo solo pochi anni fa impensabile e, oggi, una realtà potenzialmente applicabile a centinaia di altri bambini nel mondo.

·         TAGS:

·         leucemia

 

Torna su
VERSO IL BUGIARDINO DIGITALE

Legal & Regulatory

VERSO IL “BUGIARDINO” DIGITALE SECONDO LA LEGGE SULLA CONCORRENZA IN CASO DI MODIFICHE AL CONTENUTO DEL FOGLIETTO ILLUSTRATIVO, L’AIFA AUTORIZZA LA VENDITA AL PUBBLICO “PREVEDENDO CHE IL CITTADINO SCELGA LA MODALITÀ PER IL RITIRO DEL FOGLIETTO SOSTITUTIVO CONFORME A QUELLO AUTORIZZATO IN FORMATO CARTACEO O ANALOGICO O MEDIANTE L'UTILIZZO DI METODI DIGITALI ALTERNATIVI, E SENZA ONERI PER LA FINANZA PUBBLICA”

di Elisa Stefanini

Portolano Cavallo 21 settembre 2017 La nuova legge sulla concorrenza (legge n. 124 del 4 agosto 2017) nota, nel settore sanitario, soprattutto per aver previsto l’ingresso nella proprietà delle farmacie alle società di capitale, ha apportato una significativa novità anche in relazione alle modalità di consegna al paziente del foglietto illustrativo dei prodotti farmaceutici. In base alla nuova legge, infatti, in caso di modifiche al contenuto del foglietto illustrativo, l’Aifa autorizza la vendita al pubblico delle scorte dei medicinali interessati “prevedendo che il cittadino scelga la modalità per il ritiro del foglietto sostitutivo conforme a quello autorizzato in formato cartaceo o analogico o mediante l’utilizzo di metodi digitali alternativi, e senza oneri per la finanza pubblica”. Questa previsione riguarda un caso particolare: la vendita al pubblico delle scorte di medicinali per i quali siano intervenute modificazioni del foglietto illustrativo. Tali modifiche si rendono normalmente necessarie a seguito di variazioni nelle autorizzazioni alle immissioni in commercio (Aic) dei medicinali. Come era prima La norma finora vigente (comma 1-bis dell’art. 37 del D.Lgs. 219/2006) prevedeva che l’Aifa potesse autorizzare la vendita al pubblico delle scorte di medicinali per i quali siano intervenute variazioni, “subordinandola alla consegna al cliente, a cura del farmacista, di un foglietto sostitutivo conforme a quello nuovo”. A tale norma era stata data attuazione da Aifa con la propria determina n. 371 del 14 aprile 2014 recante criteri per l’applicazione delle disposizioni relative allo smaltimento delle scorte dei medicinali. In base a tale determina: • se le variazioni dell’Aic comportano una modifica del foglietto illustrativo concernente alcuni specifici contenuti (tra cui: restrizione dell’indicazione terapeutica; aggiunta di una nuova controindicazione; avvertenze speciali e precauzioni d’impiego; interazioni con altri medicinali; uso in gravidanza e allattamento; aggiunta effetti indesiderati; etc.), l’autorizzazione di Aifa all’esaurimento delle scorte dei medicinali è subordinata alla consegna da parte dei farmacisti agli utenti del foglio illustrativo aggiornato; • se le variazioni riguardano altri contenuti, l’esaurimento delle scorte è autorizzato senza obbligo della consegna del foglio illustrativo aggiornato e, pertanto, i lotti già prodotti alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento di modifica o di rinnovo dell’Aic possono essere mantenuti in commercio fino alla data di scadenza senza ulteriori accorgimenti. Nel primo caso, i farmacisti sono tenuti a consegnare il foglio illustrativo aggiornato ai propri clienti a decorrere dal termine di trenta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (italiana o europea) del provvedimento di modifica o rinnovo dell’Aic. A tal fine, entro il medesimo termine, i titolari delle Aic variate devono rendere accessibile il foglio illustrativo aggiornato al farmacista mediante la consegna materiale dello stesso oppure mediante “un alternativo sistema informatico”, che dovrà garantire la conformità alle ultime modifiche approvate dall’Aifa. La possibilità di assolvere a quest’obbligo informativo verso i pazienti con strumenti digitali era già stata prevista dal documento recante chiarimenti sull’applicazione della determina n. 371/2014, emanato da Aifa nel giugno 2015. In particolare, Aifa aveva chiarito che la consegna del foglio illustrativo da parte del farmacista al paziente può essere effettuata sia mediante consegna cartacea sia mediante l’utilizzo di metodi informatici alternativi quali, ad esempio, app, wifi, mail o bluetooth, purché il paziente sia in grado di aderire a tali modalità. Un cambiamento di prospettiva Tuttavia, dalla lettura della nuova norma, sembra che si sia verificato un cambiamento di prospettiva: se prima il farmacista era tenuto alla consegna del foglietto aggiornato in formato cartaceo e poteva discrezionalmente adempiere a tale obbligo informativo anche tramite strumenti informatici/digitali (purché il cliente fosse nelle condizioni di usufruire di tali modalità), la nuova norma prevede che sia il cliente ad avere il diritto di scegliere tra il ritiro del nuovo foglietto in formato cartaceo e la ricezione del medesimo mediante metodi digitali, trasformando per i farmacisti in obbligo quello che prima era solo un’opzione, cioè il dotarsi degli strumenti necessari per assolvere all’eventuale richiesta di contenuti digitali da parte del cliente. Questo obbligo per i farmacisti rischia di tradursi in un analogo obbligo, a monte, per le società titolari delle Aic variate, di creare un sistema per consentire al cliente di optare per la versione digitale del nuovo foglietto illustrativo. Si può immaginare che, come le società titolari delle Aic variate siano tenute a rendere accessibile il foglio illustrativo aggiornato al farmacista, analogamente (ed entro gli stessi tempi) debbano rendere disponibile allo stesso uno strumento informatico/digitale affinché i clienti possano ricevere la comunicazione nelle modalità richieste. In alternativa, lo stesso farmacista potrebbe creare in autonomia strumenti idonei a garantire questa comunicazione con i propri clienti. Non sono chiare le conseguenze di una mancata predisposizione di strumenti atti a consentire la ricezione al cliente del foglietto aggiornato in formato digitale. La determina Aifa n. 371/2014 prevede sanzioni sia a carico del titolare dell’Aic variata che non trasmetta ai farmacisti il foglietto aggiornato entro i termini richiesti (la sospensione dell’Aic e il conseguente divieto di vendita), sia a carico del farmacista che non renda l’informazione ai propri clienti (segnalazione all’ordine professionale). Le medesime sanzioni sembrerebbero applicabili anche nel caso in cui il foglietto aggiornato venga fornito in formato cartaceo ma non in formato digitale? Come evidenziato, sono ancora numerosi gli interrogativi sulle modalità operative di funzionamento di questo nuovo sistema. Presumibilmente Aifa adotterà provvedimenti di chiarimento ma, nel frattempo, è opportuno che sia le società farmaceutiche che i farmacisti inizino a riflettere e a familiarizzare con questi nuovi adempimenti digitali, anche al fine di coglierne tutte le opportunità. A cura di Elisa Stefanini – Portolano Cavallo

Torna su
Vaccini, nel 2018 partirà il meccanismo centralizzato d’acquisto

Vaccini, nel 2018 partirà il meccanismo centralizzato d’acquisto

Lo ha affermato il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, che ha incontrato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ma c'è la necessità di aumentare le coperture vaccinali in tutta Europa e di armonizzare i calendari nazionali


Potrebbe partire “nella prima metà del 2018” il meccanismo centralizzato europeo per l’acquisto dei vaccini. Lo ha affermato il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, che oggi ha incontrato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, affrontando vari temi di interesse comunitario. “Il processo – ha spiegato il commissario – è iniziato nel 2014. Stiamo definendo le procedure e pensiamo che nella prima metà del 2018 si potrebbe partire con tale meccanismo, che aiuterebbe anche ad affrontare la problematica legata alle possibili carenze di vaccini in Ue. Ma da considerare – ha aggiunto – è pure l’aspetto dei risparmi che sarebbe legato ad un acquisto centralizzato europeo”. Andriukaitis ha quindi elogiato l’Italia per la posizione avuta in merito alle politiche vaccinali: “L’Italia e il ministro Lorenzin – ha detto – hanno fatto un ottimo lavoro rispetto alle vaccinazioni. Dobbiamo infatti lottare contro lo scetticismo intorno alle vaccinazioni.

Maggiore copertura vaccinale
In Europa – ha avvertito – ci sono trenta milioni di persone che si spostano, quindi la situazione deve essere tenuta sotto controllo da tutti i Paesi, che devono essere unti su questo fronte. C’è la necessità infatti di aumentare le coperture vaccinali in tutta Europa e di armonizzare i calendari nazionali”. Come “ha detto il presidente Juncker – ha rilevato – è inaccettabile che nel 2017 ci siano tanti morti per morbillo, una malattia che dovrebbe già essere debellata da tempo proprio grazie alle vaccinazioni. Questi sono cioè segnali di pericolo e l’azione forte del ministro Lorenzin” a favore dell’obbligo vaccinale per l’iscrizione a scuola “è un esempio lodevole”. L’obbligo di vaccinazione “per alcune malattie è sicuramente indispensabile e in sedici paesi – ha concluso Andriukaitis – è già attuato”.

 

Torna su
Tagli e punture accidentali in ospedale: due infermieri su tre a rischio

Tagli e punture accidentali in ospedale: due infermieri su tre a rischio

Ogni anno in Italia 100 mila incidenti. Pochi ospedali hanno sostituito i dispositivi tradizionali con quelli più sicuri. A Roma il sesto summit dell’European Biosafety Network, con i risultati di una ricerca realizzata da Gfk


Ogni giorno in Italia due infermieri su tre rischiano di tagliarsi o pungersi con i loro “ferri” del mestiere. Un rischio che ogni anno si traduce in circa 100 mila incidenti sul lavoro. Spesso questi infortuni sono causati da aghi e altri strumenti contaminati da virus (Hiv, epatite B e C). Complice la scarsa consapevolezza tra gli operatori e una disponibilità ancora limitata di dispositivi più sicuri. È quanto emerge dal sesto summit dell’European Biosafety Network, che si è tenuto il 5 ottobre al ministero della Salute con il supporto incondizionato di Becton Dickinson.

Infermieri a rischio

Gli infermieri sono la categoria più esposta ai rischi in ambito ospedaliero. Secondo i dati dell’Osservatorio italiano 2017 sulla sicurezza di taglienti e pungenti per gli operatori sanitari, ricerca realizzata da Gfk Italia, c’è innanzitutto un deficit di consapevolezza. Due infermieri su tre (su un campione di 150 operatori in servizio in ospedali con almeno 100 posti letto) dicono di mettere in pratica almeno un comportamento che li sottopone a rischio di incidenti per puntura o taglio.  Un terzo degli infermieri, poi,  “reincappuccia” gli aghi usati, operazione proibita dal 1990.  E anche lo smaltimento dei dispositivi contaminati è fonte di insidie. Nel 40% dei casi avviene in “contenitori impropri”, determinando anche per il personale non sanitario, ad esempio gli addetti alle pulizie, ulteriori rischi.

Lo scenario

Tagli e punture accidentali rappresentano in Italia circa il 75% (su un totale di 130mila) dei cosiddetti “incidenti occupazionali a rischio biologico”. Il restante 25% è riconducibile a contaminazioni mucose e cutanee con sangue e altri liquidi biologici (dati Studio Siroh). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, in assenza di interventi preventivi, nel mondo ogni anno si verificano oltre tre milioni di incidenti causati da strumenti pungenti o taglienti contaminati con Hiv o virus dell’epatite B e C. Incidenti che causano almeno 83 mila infezioni ogni anno.

Prevenzione e formazione

Piani di prevenzione, formazione per gli operatori e disponibilità di dispositivi sempre più sicuri sono le tre strategie fondamentali per contrastare il fenomeno. A sostenerlo è Gabriella De Carli, infettivologa dello Studio italiano rischio occupazionale da Hiv (Siroh) presso l’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”. “Si potrebbero evitare fino a 53mila incidenti a rischio biologico, 550 mila ore lavorative perse e 16 mila giornate di malattia. Per dare un ordine di grandezza, ogni anno in Italia – spiega De Carli – vengono spesi almeno 36 milioni per far fronte alle conseguenze delle ferite accidentali da aghi cavi. Si tratta di una cifra che potenzialmente potrebbe aumentare considerando che la metà degli incidenti non viene denunciata dagli operatori, il più delle volte per sottovalutazione del rischio o per modalità di notifica troppo complesse”.

Quanto costa un incidente

Un lavoro di ricerca a cui ha partecipato anche l’infettivologa De Carli. Che ha stimato il “costo di routine” correlato a una singola puntura d’ago accidentale. La cifra supera 850 euro, includendo costi di reporting, test sierologici per identificare la presenza di virus e la profilassi post esposizione, per i casi considerati a rischio. Senza contare l’impatto sulla vita personale e di relazione che il rischio di aver contratto un’infezione da virus determina nell’operatore, che può aver bisogno anche di un supporto psicologico.

Più innovazione, più sicurezza

Determinante per la prevenzione dei rischi è l’adozione da parte delle strutture sanitarie di dispositivi con meccanismi di sicurezza. Tuttavia, secondo i dati del ministero della Salute, relativi agli acquisti nel settore pubblico, la percentuale di conversione da “dispositivi convenzionali” a “dispositivi di sicurezza” è ancora bassa: supera il 50% solo per i dispositivi per accesso venoso periferico (aghi cannula), i più pericolosi poiché raccolgono e trattengono sangue, ma è più bassa per gli altri dispositivi comuni (device per prelievo, aghi, siringhe con ago etc).

La necessità di un cambiamento culturale

“Molto deve essere ancora fatto. Anche i più recenti dati disponibili – sottolinea De Carli – evidenziano infatti ancora una disomogeneità di utilizzo a livello italiano. C’è sicuramente una maggiore attenzione al problema, ma molto resta da fare. Abbiamo evidenziato come, implementando tutti gli interventi preventivi previsti che includono l’adozione di aghi e dispositivi di sicurezza, si possa ridurre drasticamente il fenomeno infortunistico come è già stato dimostrato negli ospedali del gruppo SIROH, e in alcuni paesi europei ed extra europei. Serve ora – conclude l’esperta – un’azione coordinata”. Se non un “cambiamento culturale”, a partire dai “direttori generali delle aziende sanitarie, che vanno coinvolti nel processo decisionale relativo all’allocazione delle risorse per la sicurezza” fino al singolo operatore che “non deve mai sottostimare i rischi.”

 

Torna su
COME EVITARE PUNTURE ACCIDENTALI E INFEZIONI OCCUPAZIONALI:

COME EVITARE PUNTURE ACCIDENTALI E INFEZIONI OCCUPAZIONALI:
 
LE DIECI REGOLE D’ORO PER L’INFERMIERE
1. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, PER PRIMA COSA PORTA CON TE IL CONTENITORE RIGIDO A PROVA DI PUNTURA PER LO SMALTIMENTO.
Il contenitore deve essere su un carrello, poggiato in maniera stabile, sul ripiano superiore, con l’apertura ben visibile, non pieno oltre i due terzi, e con una capacità tale da accogliere l’intero dispositivo e non solo l’ago.
2. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, NON AVERE FRETTA, NON LASCIARTI DISTRARRE.
Se il paziente non è collaborativo, perché ha una ridotta coscienza (e.g. età estreme, patologie neurologiche), attendi che ti aiuti un collega.
3. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, LA DISTANZA MASSIMA ACCETTABILE CHE L’AGO DOVRÁ PERCORRERE È PARI ALLA LUNGHEZZA DEL TUO BRACCIO.
Questa è la distanza che va generalmente calcolata tra il punto dal quale estrarrai l’ago o il tagliente una volta completata la procedura e il punto in cui è posizionato il contenitore dove smaltirai l’ago/tagliente che hai utilizzato.
4. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE È NECESSARIA.
Se lo è, effettua l’igiene delle mani e mettiti i guanti, e se esiste la possibilità di uno schizzo di sangue, copri gli occhi con occhiali protettivi (non da vista!) e bocca e naso con una mascherina chirurgica.
5. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE IL DISPOSITIVO CHE STAI PER USARE È QUELLO CORRETTO. SE HAI A DISPOSIZIONE UN DISPOSITIVO CHE INTEGRA UN MECCANISMO DI SICUREZZA, USALO.
Non usare un ago staccato al posto di una lancetta, non attaccare una seconda linea sulla prima, non bucare una linea per iniettarvi un farmaco, non usare aghi non necessari per la preparazione dei farmaci. Se per questa procedura è disponibile un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, utilizzalo secondo la formazione e l’addestramento che hai ricevuto.
6. QUANDO HAI EFFETTUATO LA PROCEDURA, SMALTISCI IMMEDIATAMENTE IL DISPOSITIVO CHE HAI APPENA USATO IN MODO DEFINITIVO, NEL CONTENITORE IDONEO.
Non rincappucciarlo, non disconnettere l’ago, non piegarlo o spezzarlo. Se hai usato un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, verifica che il meccanismo sia attivato al termine della
procedura. Ricorda che quello che fai riguarda anche gli altri: l’esempio, buono o cattivo, viene imitato.
7. NON LASCIARE MAI UN AGO O UN TAGLIENTE IN GIRO, ANCHE QUANDO È STERILE, O NON È STATO USATO SU UN PAZIENTE.
Chi poi si ferisce non sa se il dispositivo sia stato usato, e si spaventa comunque, soprattutto quando non è un operatore sanitario, ma, per esempio, un operatore della ditta di pulizie, della lavanderia, del trasporto rifiuti. Educa anche il paziente ad eliminare i dispositivi che usa nei contenitori rigidi a prova di puntura, anche a casa: è una sicurezza per tutti.
8. NON ASPETTARE DI AVERE UN’ESPOSIZIONE A RISCHIO: VACCINATI CONTRO I PATOGENI TRASMISSIBILI IN OSPEDALE.
Verifica se hai risposto alla vaccinazione, e impara il tuo titolo anticorpale. Devi essere sicuro di essere protetto. La vaccinazione protegge te, i tuoi cari, i tuoi colleghi, e i tuoi pazienti.
9. SE NONOSTANTE TUTTE LE PRECAUZIONI, DURANTE O AL TERMINE DELLA PROCEDURA, PER UN MOVIMENTO BRUSCO DEL PAZIENTE O PER ALTRA CAUSA IMPREVEDIBILE, L’AGO O IL TAGLIENTE TI FERISCONO, RIMANI CALMO.
Facilita il sanguinamento, se c’è, ma non in modo esagerato. Lava con sapone antisettico e disinfetta con povidone iodio o clorexidina. Informa il paziente dell’accaduto, se è cosciente, come premessa per chiedere il consenso ai test sierologici per virus a trasmissione ematica. Ricorda che per tutti gli agenti infettivi noti è disponibile una efficace profilassi o terapia, o entrambe: le conseguenze dell’incidente non sono mai irrimediabili, se lo denunci immediatamente e vieni assistito. Quindi, informa immediatamente il caposala, il tutor, il medico di guardia, a seconda della situazione, per farti aiutare nei passi successivi: con il trascorrere del tempo, le profilassi sono meno efficaci, e potrebbe non essere più possibile sapere notizie del paziente-fonte, per dimissione, trasferimento, decesso. Non vergognarti di denunciare l’incidente, anche se pensi che la colpa dell’incidente sia in parte tua: solo chi non fa non sbaglia.
10. IMPARA DAL TUO INCIDENTE O DA QUELLO DEL TUO COLLEGA. LE DENUNCE SERVONO ANCHE A QUESTO.
Correggi i comportamenti pericolosi anche a rischio di passare per uno scocciatore. Cambia le procedure sbagliate, quelle dove si impiegano aghi o taglienti inutili, o si inseriscono o lasciano in sede dispositivi non necessari. Sollecita l’introduzione di dispositivi integranti un meccanismo di sicurezza, se esistono per la specifica attività che devi svolgere. Valuta l’idoneità dei contenitori, le dimensioni dei carrelli. Verifica che nessun ago o dispositivo che viene a contatto col sangue possa essere riutilizzato per più pazienti. Scegli sempre la procedura e il dispositivo più sicuri possibile, per il paziente e per te: lui è importante, ma lo sei anche tu
Torna su
La legge concorrenza trasforma la farmacia

La legge concorrenza trasforma la farmacia. Entro due anni il 20% apparterrà a catene

Le previsioni di Giorgio Cenciarelli, director supplier di QuintilesIms, a proposito dei possibili effetti delle nuove norme che liberalizzano il mercato. Dal numero 152 di AboutPharma and Medical Devices


La legge concorrenza trasforma la farmacia. Entro i prossimi due anni il 20% apparterrà a catene. Almeno secondo alcune stime. La nuova normativa rimodula il mercato e i farmacisti dovranno correre ai ripari in uno scenario nuovo.
Giorgio Cenciarelli, director supplier di QuintilesIms, fa il punto della situazione.

Dottor Cenciarelli, come si vince la partita delle liberalizzazioni?

Il successo andrà a chi riuscirà a immaginare lo scenario di qui a tre anni. Non si sa con certezza quante farmacie faranno parte di catene private e quante resteranno indipendenti, né quante saranno le catene virtuali, ovvero le aggregazioni di farmacie che rimangono comunque indipendenti ma si legano in un teamwork molto forte, gestito quasi sempre dai distributori, in particolare dalle cooperative e che dovrebbero rappresentare un po’ la risposta alle farmacie dei grandi capitali. Che sicuramente faranno acquisizioni in Italia.

Le vostre stime?

Noi ipotizziamo che da qui alla fine del 2019 circa un 20% delle farmacie italiane possano diventare proprietà di catene.

In base a quali elementi?

Abbiamo fatto simulazioni che tengono conto in parte di quello che è accaduto in altri Paesi (quelli che hanno affrontato liberalizzazioni simili alla nostra agli inizi degli Anni 2000) e delle notizie che abbiamo sui potenziali investitori e le loro dimensioni. Conta anche il numero delle farmacie in sofferenza (2000-2500 secondo Federfarma) quindi più facilmente aggredibili per l’esposizione finanziaria verso i creditori. Sappiamo che alcuni gruppi internazionali hanno pianificato investimenti importanti e immaginiamo che alcune catene potranno raggiungere dimensioni tra le cinquecento e le mille farmacie nell’arco di due, tre anni.

Chi sono questi investitori?

Non solo i grandi distributori (Boots su tutti) ma anche fondi come Penta Investment che ha già operato sull’Est Europa e potrebbe entrare nel mercato italiano.

Gruppi italiani?

Difficile dirlo. Non escludiamo che qualche grossista privato, in particolare del Centro Sud Italia, possa decidere di entrare massicciamente. Stanno già costituendo catene virtuali ma non escludiamo che possano formare catene private.

Quale sarà l’impatto sulla distribuzione intermedia?

Oggi in Italia abbiamo una forte polverizzazione. Il fatto che il 20% delle farmacie esca dal mercato entrando in una catena e da questa sarà rifornito, comporterà che il distributore potrebbe avere mediamente dal 15% al 20% di clienti in meno. Questo potrebbe generare ulteriori fusioni tra distributori oggi in equilibrio finanziario. Il processo è già in atto da alcuni anni. Alcune cooperative hanno raggiunto dimensioni di market share molto importanti ma il fenomeno si accentuerà: diventeranno sempre meno i gruppi distributivi forti in Italia perché i medio piccoli si aggregheranno.

E sull’industria del farmaco?

L’impatto secondo noi è molto forte. Cambia lo scenario della vendita e il ruolo delle reti. Gli acquisti diretti che fanno le farmacie si riducono, un 20% di clienti non saranno più raggiungibili direttamente con agenti che vanno in farmacia. Le aziende dovranno avere al loro interno figure professionalmente diverse, in grado di negoziare con grandi gruppi. Penso a sales manager decisamente più forti.

Quale la tipologia di azienda produttrice più interessata?

Le genericiste sono fortemente impattate da questo scenario. Le catene con maggiore capacità negoziale potranno scegliere da chi rifornirsi sulla singola molecola e vorranno spuntare prezzi molto bassi. Che poi questi vengano ribaltati sul consumatore finale è da vedere, nel senso che il margine che la catena sarebbe in grado di spuntare sui generici potrebbe rimanere in parte nella catena stessa: non è detto che sia necessario applicare una scontistica ulteriore al paziente. Discorso diverso per parafarmaco, cosmetico, device, otc: in quel caso la catena potrebbe avere interesse a ridurre il prezzo finale al paziente, anche perché normalmente questi prodotti hanno un prezzo più alto e già garantiscono marginalità superiori alla farmacia.

 

Torna su
Parola d’ordine, rivedere il superticket. Ecco le proposte di Fondazione Gimbe

Parola d’ordine, rivedere il superticket. Ecco le proposte di Fondazione Gimbe

La prima prevede la rimodulazione della percentuale di detraibilità in base alla fascia di reddito. Ciò permetterebbe un recupero di 915 milioni di euro. La seconda si basa sulla riduzione proporzionale al rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, generando un recupero di oltre un miliardo di euro


Parola d’ordine, rivedere il superticket. “Una tassa estremamente iniqua”, rimodulando il sistema “altrettanto iniquo” che regola le detrazioni Irpef per le spese sanitarie. È la proposta “a costo zero” della Fondazione Gimbe. Obiettivo: cancellare il balzello tornato sotto i riflettori alla vigilia della discussione parlamentare sulla legge di Bilancio 2018. L’organismo presieduto da Nino Cartabellotta propone due ipotesi di riduzione proporzionale della detraibilità Irpef per le spese mediche. Le due proposte sono “entrambe in grado di recuperare con ampio margine le risorse per eliminare il superticket”, stimate tra 500 milioni e un miliardo di euro.

Serve rivedere il sistema

I due scenari prospettati dalla Fondazione permetterebbero rispettivamente un recupero di oltre 900 milioni e di più di un un miliardo. “Siamo pronti a portare in audizione parlamentare i dettagli della nostra proposta”, annuncia Cartabellotta. “L’obiettivo è rendere più equo il sistema delle detrazioni fiscali per le spese sanitarie. Ciò a fronte di un piccolo sacrificio dei più abbienti, recuperando risorse per eliminare il superticket, rappresenta una soluzione coraggiosa. E dovrebbe incontrare il favore di tutte le forze politiche alla fine di questa legislatura”.

…e redistribuire le risorse

“Innanzitutto – spiegano dalla Fondazione – una maggiore equità sociale grazie a una redistribuzione delle agevolazioni fiscali in relazione al reddito”. In secondo luogo, la proposta avanzata “trasforma la frammentata governance regionale di superticket mal disegnati in minori agevolazioni fiscali gestite a livello nazionale. Infine, se tarata sul rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, potrebbe favorire l’emersione del sommerso. Infatti a parità di reddito, è interesse del contribuente disporre di tutti i documenti fiscali per ‘conquistare’ lo scaglione superiore di detraibilità”.

Le due proposte possibili

“La prima prevede la rimodulazione della percentuale di detraibilità in base alla fascia di reddito. Ciò permetterebbe un recupero di 915,93 milioni. La seconda aggancia la riduzione proporzionale al rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, generando un recupero di 1.023,94 milioni di euro. Tenendo conto che le stime riguardano l’anno fiscale 2015, e che l’eventuale rimodulazione andrebbe a regime con l’anno fiscale 2018 – conclude il Gimbe – le cifre previsionali, visto il trend in continuo aumento delle spese mediche portate in detrazione, sarebbero molto più elevate”.

L’aggiornamento del Documento di economia e finanza

Nella Risoluzione sulla nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Def 2017), ricorda il Gimbe, la maggioranza ha chiesto al Governo di “rivedere gradualmente il meccanismo del cosiddetto superticket, al fine di contenere i costi per gli assistiti che si rivolgono al sistema pubblico”. Torna dunque attuale, osserva la Fondazione, “una questione mai risolta, nonostante il Patto per la Salute 2014-2016 avesse previsto un riordino del sistema di compartecipazione alla spesa, poi timidamente rilanciato – senza esito – nella primavera scorsa dal ministro Lorenzin e dalle Regioni”.

Quelle risorse che mancano

Il vero problema – riflette il Gimbe – è rappresentato dalle risorse necessarie per eliminare il superticket. Si tratta di una cifra impossibile da determinare con precisione” ma stimata appunto fra 500 milioni e un miliardo. “Considerato che il decreto sulla rideterminazione del fabbisogno sanitario ha eroso al Servizio sanitario nazionale 604 milioni nel 2018, e vista l’inderogabile necessità di garantire il rinnovo di contratti e convenzioni”, secondo la fondazione “la priorità assoluta della legge di Bilancio è riportare il finanziamento agli originali 114 miliardi. Sperando di recuperare anche le risorse per consentire lo sblocco del turnover. Ecco perché, nonostante le aperture del ministro Padoan, reperire in legge di Bilancio le risorse per eliminare il superticket appare al momento una missione impossibile. Ed è a mero rischio di strumentalizzazione nel dibattito pre-elettorale”.

Una tassa iniqua

“Il super ticket – riconosce Cartabellotta – è una tassa estremamente iniqua. Perché proporzionalmente pesa di più sui redditi più bassi”. Non solo. “È fonte di diseguaglianze in quanto applicata in maniera diversa dalle Regioni. Inoltre, determinando per molte prestazioni uno spostamento verso il più concorrenziale mercato privato, si traduce in uno svantaggio per le casse del la sanità pubblica. Peraltro, se il superticket nasce come ‘tassa provvisoria’ con la Finanziaria del 2011, negli anni si è trasformato per le Regioni in una boccata d’ossigeno strutturale”.

Come rivedere le detrazioni Irpef

“Oggi i contribuenti possono detrarre dall’Irpef il 19% delle spese sanitarie sostenute per la parte eccedente una franchigia di 129 euro (tranne per i disabili)”, continua la fondazione . Secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate sull’anno fiscale 2015, i contribuenti hanno portato in detrazione 16 miliardi di spese mediche. E il minor gettito fiscale è stato pari a tre miliardi”. Le analisi del Gimbe, precisa il presidente, “documentano l’iniquità di questa agevolazione fiscale. Infatti, a fronte di un rapporto spesa sanitaria media/reddito medio pari al 4,69%, il range oscilla dallo 0,5% per la fascia di reddito oltre 300 mila euro al 137% per la fascia fino a 1.000 euro. Senza considerare i contribuenti a reddito negativo, confermando l’enorme impatto della spesa sanitaria privata sulle fasce di reddito più basse”.

Torna su
Adulti non vaccinati: in fumo ogni anno oltre un miliardo di euro

Adulti non vaccinati: in fumo ogni anno oltre un miliardo di euro

Uno studio della scuola Altems, presentato al congresso nazionale della Sihta, stima l'impatto economico della mancata vaccinazione della popolazione adulta contro influenza, pneumococco ed herpes zoster. Da The European House Ambrosetti, invece, un piano in 10 azioni per la profilassi anti-influenzale


Se tutti gli adulti si vaccinassero contro influenza, polmonite e Fuoco di Sant’Antonio (herpes zoster), in Italia si potrebbero recuperare risorse per oltre un miliardo di euro. È questo, infatti, il costo complessivo della mancata adesione degli adulti alle campagne di vaccinazione secondo uno studio dell’Alta scuola di Economia e Management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica. I risultati dell’analisi sono stati presentati oggi a Roma in occasione del congresso nazionale della Società italiana di health technology assessment (Sihta).

Un modello per calcolare l’impatto

Per la prima volta un gruppo di esperti di Hta ha valutato impatto fiscale e costi sociali per chi ancora lavora e si ammala a causa di influenza, polmoniti batteriche ed herpes zoster. Tre malattie prevenibili con la profilassi che, tra l’altro, il nuovo Piano nazionale vaccini offre gratuitamente a tutti gli over65.  “I primi risultati del modello – sottolinea Americo Cicchetti, presidente della Sihta e direttore di Altems – stanno dando risultati molto rilevanti e determinanti per sollecitare i decisori pubblici a livello nazionale e nelle Regioni a sviluppare efficaci strategie e campagne per la vaccinazione degli adulti e degli anziani”.

I costi

Come si arriva a stimare la cifra di un miliardo di euro? A spiegarlo è Matteo Ruggeri, economista sanitario della Cattolica e ricercatore di Altems: “Il numero di infetti dalle tre patologie varia fra 1,2 e 2,4 milioni all’anno e il mancato gettito fiscale può variare fra i 100 e i 180 milioni di euro all’anno. Se a questo aggiungiamo i costi sociali generati dalle perdite di produttività a carico della previdenza sociale, superiamo il miliardo di euro”.

Dieci azioni per la vaccinazione contro l’influenza

Nella cornice del congresso nazionale Sihta è stato presentato anche un documento sul valore della vaccinazione anti-influenzale: un piano con dieci azioni concrete per migliorare la prevenzione messo a punto da The European House Ambrosetti con il contributo incondizionato di Sanofi Pasteur. Ecco i dieci punti:

  • Introdurre nelle valutazioni di Hta della vaccinazione antinfluenzale e nei criteri di definizione delle strategie di prevenzione vaccinale gli impatti del “fiscal impact” per avere una visione più completa del reale valore della vaccinazione sia i termini economici che di salute.
  • Estendere la raccomandazione per l’adulto a partire dai 50 anni in quanto è nella fascia di età che va dai 50 ai 64 anni che si ha il massimo impatto dell’influenza sia sulla produttività del lavoro che sui consumi.
  • Promuovere l’utilizzo del quadrivalente, quale vaccino più efficace per ridurre i casi di mismatch vaccino-virus e aumentare anche la fiducia del paziente nei confronti della profilassi vaccinale. Definire raccomandazioni specifiche sulla tipologia di vaccino da somministrare ai pazienti in base alla loro età e al loro profilo di rischio (immunodepressi, anziani, bambini, donne in gravidanza ecc.) secondo quanto indicato al Calendario vaccinale per la vita.
  • Migliorare il processo di programmazione delle campagne stagionali, anticipando i tempi di pubblicazione e gli indirizzi della Circolare ministeriale (Circolare di programmazione) a febbraio/marzo (come avviene nel Regno Unito) e introdurre una seconda Circolare a settembre con i dati successivi.
  • Creare un dialogo diretto tra Dipartimenti di Prevenzione e delle Cure Primarie per migliorare la programmazione del fabbisogno in termini di dosi e tempi di distribuzione, per facilitare la comunicazione attraverso sistemi informativi integrati, per l’aggiornamento dei dati e il monitoraggio dei pazienti e dell’andamento delle vaccinazioni com’è già previsto dal Pnpv 2017/2019 e dalla legge 119/17 per quelle dell’età evolutiva.
  • Definire un sistema chiaro di definizione degli obiettivi, monitoraggio e remunerazione della Medicina generale e della Pediatria di libera scelta in linea agli obiettivi di copertura vaccinale condivisi che vengono programmati. Inserire il livello di coperture vaccinali raggiunte negli operatori sanitari fra gli obiettivi di performance dei direttori generali delle Asl, al pari di quelle rilevate per la popolazione generale, nonché fra quelli dei dirigenti di tutte le UU. OO. e dei Distretti.
  • Promuovere l’aumento delle coperture per la vaccinazione antinfluenzale tra gli operatori sanitari in quanto rappresenta un dovere etico e deontologico verso la tutela della salute degli assistiti. Rendere la vaccinazione una prerogativa di accesso alle strutture assistenziali, ivi incluse le realtà di formazione universitaria in ambito sanitario (o quantomeno rendere obbligatoria la sottoscrizione di un dissenso formale, con relativa assunzione di responsabilità, per tutti gli operatori sanitari che rifiutano la vaccinazione).
  • Realizzare campagne di comunicazione sulla vaccinazione con un ruolo attivo di medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. Bisogna compiere sforzi maggiori per attrarre coloro che generalmente decidono di non vaccinarsi ed è fondamentale dare feedback ai pazienti sull’andamento delle coperture. Prevedere un reminder per la vaccinazione antinfluenzale ad esempio sulla ricetta medica, come avvenuto nella Regione Sicilia o in occasione degli acquisti in farmacia, come nel caso della Regione Puglia.
  • Realizzare iniziative di comunicazione e informazione nelle strutture sanitarie per aumentare le coperture degli operatori sanitari.
  • Pubblicare i tassi di copertura degli operatori sanitari sui siti aziendali delle strutture sanitarie con l’obiettivo di favorire un meccanismo di maggiore trasparenza.

 

Torna su
Legge sul whistleblowing, ok del Senato: più tutele a chi denuncia illeciti

Disco verde di Palazzo Madama al ddl che tutela gli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato. Ora il testo attende l'approvazione definitiva di Montecitorio


Il Senato dà il via libera alla legge sul whistleblowing, ovvero l’attività, da parte di un dipendente, di segnalare illeciti e irregolarità sul posto di lavoro. Pubblico o privato che sia. Gli ok da parte di Palazzo Madama sono stati 142, 61 i no e 32 gli astenuti. Se la Camera, a 600 giorni dalla prima approvazione, dirà “sì” al testo modificato dai senatori, ci saranno più tutele per le persone che denunciano possibili episodi di malaffare o di corruzione. Montecitorio aveva infatti dato il suo via libera il 21 gennaio 2016. Nel passaggio al Senato, però, il disegno di legge sul whistleblowing ha subito diverse modifiche. Quindi necessita di una terza lettura parlamentare e di ulteriore disco verde da parte dei deputati.

Cosa prevede la legge sul whistleblowing approvata in Senato

Il testo di legge sul whistleblowing che ha avuto il lasciapassare al Senato prevede innanzitutto una maggiore protezione dell’identità di chi sporge le denunce all’Anac o all’autorità giudiziaria. In più, tutela il “whistleblower” da possibili ritorsioni da parte del datore di lavoro. Come sanzioni, demansionamenti, trasferimenti, licenziamenti o altre misure penalizzanti. E vieta ulteriormente azioni di discriminazione per il dipendente che ha scelto di fare le segnalazioni.

Del Monte, direttore esecutivo di Transparency International Italia: “Buone norme ma serviva un fondo di garanzia”

“Il testo che esce dal Senato è meglio di quello arrivato in prima battuta dalla Camera”, dice Davide Del Monte, direttore esecutivo di Transparency International Italia. “Ora i whistleblower hanno qualche tutela in più. Sono infatti previste sanzioni per chi commette ritorsioni nei loro confronti. E in ogni caso sarà il datore di lavoro a dover dimostrare che la ritorsione non ha alcun legame con la segnalazione del dipendente. Inoltre, è previsto l’obbligo di introdurre canali di segnalazione confidenziali negli enti. Ci rammarica solo non vedere un fondo di garanzia a supporto dei whistleblower e la completa tutela dell’identità del segnalante. A ogni modo, ci riteniamo più che soddisfatti dal testo così approvato”.

Carnevali, presidente di Transparency International Italia: “Vinta una battaglia, ma non ancora la guerra”

Sullo stesso tono, i commenti di Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia. “Finalmente anche il Senato si è reso conto dell’importanza di questa legge sul whistleblowing. È dal 2009 che Transparency International Italia, per prima nel nostro Paese, ha intrapreso una lunga battaglia a livello politico e a livello culturale, per far comprendere l’importanza dei whistleblower nella nostra società. Oggi abbiamo vinto una battaglia importantissima, ma non ancora la guerra: aspettiamo infatti l’approvazione definitiva della legge da parte della Camera entro la fine di questa legislatura”.

 

Torna su
Concorrenza per gli emoderivati, il Consiglio di Stato dice sì

 

 

Concorrenza per gli emoderivati, il Consiglio di Stato dice sì

I giudici di Palazzo dicono sì a una maggiore concorrenzialità nel mercato della trasformazione del plasma umano raccolto in Italia. Ma l’autorizzazione sarà solo per le imprese che garantiscono dai rischi di contaminazione. "Un sistema più aperto è essenziale per il contenimento della spesa sanitaria”, si legge nella sentenza


Il Consiglio di Stato dà l’ok alla concorrenza per gli emoderivati. Sul mercato della trasformazione del plasma umano raccolto in Italia deve operare, secondo i giudici di Palazzo Spada, un numero più ampio di soggetti. Tuttavia, l’autorizzazione sarà soltanto per le imprese che danno sufficienti garanzie per quanto riguarda i rischi di contaminazione del sangue raccolto in Italia. “Un sistema più aperto al mercato europeo è strumento essenziale per assicurare il contenimento della spesa sanitaria”, si legge nella sentenza n. 4870/17 della terza sezione del Consiglio di Stato pubblicata il 23 ottobre. “E, al contempo, migliorare i livelli di sicurezza del plasma e di efficacia dei farmaci prodotti (condizioni che un sistema tendenzialmente monopolistico non è in grado di assicurare)”.

La concorrenza per gli emoderivati? Sì, ma a patto di garantire dai rischi di contaminazione del plasma

Il Consiglio di Stato conferma quindi la decisione precedente del Tar del Lazio. Il tribunale amministrativo aveva respinto il ricorso presentato da Kedrion, azienda che produce farmaci emoderivati in impianti produttivi italiani, contro l’autorizzazione rilasciata a due imprese concorrenti, che operavano rispettivamente in Svizzera e in Svezia. Secondo l’organo di giurisdizione amministrativa di secondo grado, nei Paesi in cui agiscono le due aziende contro cui l’impresa con stabilimenti in Italia ha fatto ricorso il sistema di raccolta del sangue è pubblico e non profit. Queste due condizioni – precisano i giudici – garantiscono dal pericolo di contaminazione del plasma italiano.

 

 

 

Torna su
NatiPer 2017: vince Abzero-X, il drone per trasportare sangue

#NatiPer 2017: vince Abzero-X, il drone per trasportare sangue

Nel concorso di Axa Italia dedicato alle innovazioni che migliorano la vita delle persone, il riconoscimento va alla startup pisana che si è inventata un velivolo comandato a distanza che permette il trasporto di sangue e farmaci tra strutture sanitarie. Il premio è del valore di 50 mila euro


La startup Abzero-X, che ha ideato un drone per trasportare sangue, vince #NatiPer 2017, il concorso di Axa Italia che premia le innovazioni in grado di migliorare la vita delle persone. Alla giovane impresa pisana, che è attiva dal febbraio 2017, va un riconoscimento del valore di 50 mila euro. Abzero-X prende il nome dai gruppi sanguigni più diffusi. L’invenzione è un velivolo radiocomandato per il trasporto di sangue, emoderivati e farmaci tra strutture sanitarie entro quaranta chilometri.

Secondo le previsioni, con il premio la startup realizzerà nella primavera del 2018 un prototipo completo del drone. E svilupperà ulteriormente il software della capsula che contiene i prodotti. La capsula installata sul drone conterrà fino a 15 sacche di sangue. In più gestirà la fase di volo, monitorerà le informazioni relative a ciò che viene trasportato e comunicherà con la sala di controllo.

Come è nata l’idea che ha vinto #NatiPer 2017

Il progetto di Abzero-X, che si basa anche su una collaborazione con il reparto di immunoematologia dell’Ospedale di Pisa e della direzione aanitaria del Policlinico Gemelli di Roma, è nato casualmente durante una conversazione tra i due fondatori: Andrea Cannas, architetto esperto in sistemi di progettazione e controllo, e Giuseppe Tortora ingegnere biomedico-robotico. La suggestione dei due fondatori di Abzero.

Cohen (Axa Italia): “Il vincitore di #NatiPer 2017 esprime il talento dell’ecosistema italiano”

Dal 2014 al 2017 #NatiPer ha ricevuto le candidature di più di 1300 progetti. I finalisti sono stati 32 e i vincitori finali sono stati quattro, uno all’anno. “Vogliamo sostenere chi innova per aiutare le persone a vivere meglio: questo è lo spirito di #NatiPer”, ha detto Patrick Cohen, ceo del gruppo Axa Italia. “Il vincitore #NatiPer 2017, Abzero-X, esprime la passione e il talento dell’ecosistema innovativo italiano, con cui lavoriamo in stretta collaborazione per diventare veri partner dei nostri clienti”.

 

Torna su
Antibiotici, ecco gli indicatori per misurare i progressi della lotta ai superbatteri resistenti

Antibiotici, ecco gli indicatori per misurare i progressi della lotta ai superbatteri resistenti

Un parere scientifico di Efsa, Ecdc ed Ema suggerisce alla Commissione Ue i dati da tenere sotto controllo per monitorare i passi avanti contro la diffusione dei superbatteri in ambito umano e veterinario


Misurare i passi avanti fatti in Europa contro l’antibiotico-resistenza, con strumenti attendibili e comuni ai diversi Paesi. È l’obiettivo di una serie di indici individuati – su richiesta della Commissione Ue – da Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare), Ema (Agenzia europea dei medicinali) ed Ecdc (centro per la prevenzione e il controllo delle malattie).

Il parere Efsa-Ema-Ecdc

Gli indici sia il settore umano che animale – spiega una nota sul sito dell’Efsa – esono il frutto della collaborazione tra le tre agenzie dell’Ue culminata nella pubblicazione di un parere scientifico. Un esempio di indice per valutare la resistenza agli antibiotici in medicina umana è la percentuale di batteri di Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina (MRSA). Ma anche il tasso di batteri di Escherichia coli (E. coli) resistenti alle cefalosporine di terza generazione. Sul fronte veterinario, invece, è bene tenere sotto controllo la percentuale di E. coli da animali per la produzione alimentare che sono suscettibili o resistenti ad alcuni antimicrobici. In termini di consumo, i principali indici suggeriti sono il consumo umano di antibiotici e le vendite complessive di antibiotici veterinari.

Andriukaitis (Commissione Ue): indici indispensabili

“Quando ho presentato il nuovo piano d’azione dell’Ue contro l’antibiotico-resistenza a giugno – commenta Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare – ho promesso che entro la fine dell’anno la Commissione avrebbe definito indici per misurare i progressi dei piani d’azione Ue e nazionali. Accolgo con grande favore il parere scientifico elaborato da Ecdc, Ema ed Efsa, che definisce indici che riguardano sia il settore umano che animale, in linea con l’approccio ‘One Health’. Senza questi indici – conclude Andriukaitis – non saremmo in grado di valutare i nostri progressi nel combattere la grave minaccia per la salute rappresentata dall’antibiotico-resistenza”.

 

Torna su
Test di farmaci per bambini, aumentati negli ultimi dieci anni

Test di farmaci per bambini, aumentati negli ultimi dieci anni

Si è passati dallo 8,3% del 2007 al 12,4% nel 2016, ma manca la ricerca indipendente europea e nazionale, troppo spesso influenzata da esigenze di mercato. I risultati del rapporto presentato il 26 ottobre al Parlamento europeo e Consiglio d'europa


Risultati positivi per i test di farmaci per bambini. Lo dice il rapporto presentato il 26 ottobre al Parlamento europeo e Consiglio d’europa sui primi dieci anni dall’entrata in vigore del Regolamento europeo su questo tema.
Mille i protocolli di sperimentazioni cliniche pediatriche in Europa in un decennio, ma solo 131 già conclusi.

Aumentano i clinical trial su bambini

La percentuale di bambini partecipanti a sperimentazioni cliniche è considerevolmente aumentata. 12,4% nel 2016 contro l’8,3 del 2007. Ma molti dei farmaci presenti sul mercato sono ancora privi di autorizzazione per l’uso specifico per i bambini e gli adolescenti. Infatti le conoscenze si basano sui risultati di sperimentazioni cliniche condotte con gli adulti e non specifiche per altri target. Ne consegue che frequentemente i bambini e gli adolescenti ricevono ancora prescrizioni di farmaci studiati e sperimentati solo per gli adulti.

Reumatologia, cardiovascolare e malattie infettive. Più farmaci a portata di bambino

Il Rapporto documenta che per alcune aree quali la reumatologia, o per alcune malattie quali quelle infettive o cardiovascolari, la nuova regolamentazione ha ottenuto risultati positivi per lo sviluppo di farmaci dedicati anche ai bambini. Per altre aree quali l’oncologia o per le malattie rare questo strumento è risultato inefficace. L’interesse della ricerca industriale è stato selettivo. Si è investito, infatti, solo in quei settori in cui gli interessi dei produttori e i bisogni dei pazienti si sono sovrapposti sia per gli adulti che per i bambini.

Garattini: non bisogna seguire gli interessi di mercato

“Un ulteriore esempio – dice Silvio Garattini, direttore dell’Ircss Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano – della mancanza di una ricerca indipendente europea e nazionale. Bisogna operare negli interessi dei cittadini-pazienti e non condizionata dagli interessi del mercato”. Un’ulteriore conferma è che l’intero Rapporto non citi alcune aree di bisogni terapeutici negletti quale per esempio quella dei disturbi mentali dell’età evolutiva.

Bonati: serve più appropriatezza

“Un’area ancora dimenticata – dice Maurizio Bonati, responsabile del dipartimento di salute pubblica e del laboratorio per la salute materno infantile dell’istituto – dove gli psicofarmaci, per quanto poco utilizzati in età evolutiva, in particolar modo in Italia, lo sono troppo spesso in modo inappropriato o fuori dalle indicazioni per cui sono stati messi in commercio (off-label)”.

Nonostante i risultati raggiunti (mille protocolli di sperimentazioni cliniche pediatriche in Europa in un decennio, di cui 131 già concluse), c’è ancora molto da fare per rendere la terapia farmacologica per i bambini, in Europa e in Italia, più efficace e sicura.

 

Torna su
Legge di Bilancio, i dubbi delle Regioni: servono più risorse per la sanità

Legge di Bilancio, i dubbi delle Regioni: servono più risorse per la sanità

Slitta il parere dei governatori sulla manovra. Toti: “Ad oggi non ci sono le condizioni per un’intesa”. Garavaglia: “Situazione compromessa, Fsn si riduce”. Il 7 novembre audizione in Parlamento


Fumata nera dalla prima seduta della Conferenza delle Regioni sulla nuova legge di Bilancio. Il parere dei governatori sulla manovra slitta a giovedì 9 novembre. Con la sanità, ancora una volta, protagonista del braccio di ferro tra Regioni e Governo.

“Situazione compromessa”

“A oggi – spiega Giovanni Toti, governatore della Liguria e vicepresidente della Conferenza – non ci sono le condizioni minime per un’intesa, che significherebbe, alle condizioni attuali, intervenire ancora una volta sulle voci della sanità. Il Fondo sanitario nazionale aumenta nominalmente, ma su di esso viene caricato il rinnovo dei contratti e quindi di fatto diminuisce”. Nel testo della manovra, in effetti, non ci sono riferimenti a fondi ad hoc per il rinnovo contrattuale (2016/2018) del personale della sanità. Ecco, dunque, una situazione “molto compromessa”, dice Massimo Garavaglia, membro della giunta lombarda e coordinatore degli assessori regionali al Bilancio: “Di fatto il Fondo sanitario si riduce perché ciò che riguarda il contratto non è finanziato. Scende quindi a poco più di 112 miliardi, rispetto ai 112,6 di quest’anno. Sono circa 500 milioni in meno. Altro che nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea): sono meno servizi e più liste d’attesa”. Resta un miraggio, dunque, l’aumento nominale che avrebbe dovuto portare il Fondo sanitario nazionale a 114 miliardi nel 2018. Un cifra già ridimensionata dal contributo alla finanza pubblica richiesto alle Regioni (circa 600 milioni di euro).

Martedì 7 l’audizione

La Conferenza delle Regioni sarà convocata nuovamente il 9 novembre. Nel frattempo, martedì 7, è prevista un’audizione dei governatori davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato. I temi sul tavolo sono sostanzialmente due: la sanità e il passaggio di personale personale dalle Province alle Regioni. “Utilizzeremo i prossimi giorni per cercare di superarle e trovare dei punti di equilibrio per cercare di fare la nostra parte”, spiega la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, sulla stessa linea degli altri governatori per quanto riguarda la sanità: “Stiamo affrontando sfide nuove (dai nuovi farmaci ai Lea), abbiamo quindi la necessità di rifare i conti e anche di prevedere delle risorse in più”.

 

Torna su
Crimine farmaceutico, Fda: “I big del web ci fanno guerra sui dati”

Crimine farmaceutico, Fda: “I big del web ci fanno guerra sui dati”

Da un incontro a margine del G7 Salute è emerso che il contrasto alle attività illecite è limitato dall'ostruzionismo di colossi come Google e Amazon (parola di Robert Burke, della Food and drug administration) e dalla scarsità di risorse umane ad hoc. In Italia solo l'1% dei siti che vendono farmaci è legale


Il crimine farmaceutico? “Il peggio deve ancora arrivare”. Lo ha detto Alain Lemangnen, responsabile della francese Oclaesp (Ufficio centrale contro il crimine ambientale e sanitario), durante l’incontro “Strategies to Fight Pharmaceutical Crime”, organizzato a latere del G7 Salute in corso a Milano. Al meeting – coordinato e introdotto dal nuovo direttore dei Carabinieri Nas, il generale di divisione Adelmo Lusi – hanno partecipato le principali agenzie che combattono furti, contraffazione e commercio illegale dei farmaci a livello mondiale. Globali sono le sfide che riguardano la salute (lo ha sottolineato più volte il ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel suo discorso inaugurale) e globali devono essere le strategie di prevenzione e contenimento: non solo delle malattie ma anche dei crimini.

Il crimine farmaceutico in Italia

Il direttore generale dell’Aifa Mario Melazzini ha ricordato che “nel 2016 sono state sequestrate 344.615 unità di farmaci”. Dal 2013, ha precisato Melazzini, in Italia è presente “una banca dati sui furti dei farmaci, dove vengono registrati tutti i casi di farmaci rubati o perduti sul territorio e nelle varie fasi del percorso”. Tuttavia, stando ai numeri forniti e alle statistiche sulla contraffazione, gli strumenti per il contrasto al crimine si fanno sempre più evoluti ma il pericolo resta sempre alto.

Le segnalazioni di sospetto crimine farmaceutico nel nostro Paese

Cosa hanno riguardato le segnalazioni di casi sospetti prese in carico dall’Agenzia italiana del farmaco? “Per esempio – ha affermato il dg Aifa – versioni falsificate di prodotti originali che contengono tossina botulinica messi in commercio da soggetti senza autorizzazione. O prodotti illegali per trattare le disfunzioni maschili. Oppure farmaci presentati come integratori alimentari. O ancora, altre tipologie di prodotto che in realtà contengono sostanze attive a livello farmacologico. Nel settembre di quest’anno con l’operazione Pangea X sono state sequestrate oltre 90 mila unità di farmaci e dispositivi medici illegali o contraffatti”.

Per quanto riguarda i siti internet legali autorizzati a vendere farmaci online, Melazzini ha dichiarato che sono meno dell’1% rispetto a tutta l’offerta del web. “E a oggi sono cinquecento i siti chiusi, con server localizzato in Italia”. Melazzini ha affermato anche che 99 farmaci su 100 che circolano online sono di qualità dubbia. Inutile dire quanto sia elevato il rischio per chi compra farmaci su internet.

La taskforce dedicata e i due casi affrontati di recente

“Il crimine farmaceutico – ha dichiarato il direttore generale Aifa – mette a rischio la sicurezza dei pazienti, creando un problema di salute pubblica. Per questo l’Aifa, insieme al ministero della Salute e ai Carabinieri Nas, dedica particolare attenzione al contrasto al crimine farmaceutico, concentrandosi nello specifico sulla produzione e la distribuzione di farmaci illegali o falsificati, sui furti e il riciclaggio di medicinali, sulla promozione e la vendita di medicinali attraverso siti internet non autorizzati. L’impegno dell’Aifa è testimoniato da una serie di iniziative come il sistema di tracciabilità del farmaco o l’istituzione di una taskforce dedicata”.

La Fda: “Google, Microsoft e Amazon ci fanno la guerra”

Inquietanti le circostanze (e le cifre) riferite a Milano da Daniel Burke, direttore del programma CyberPharm in seno alla Food and Drug Administration. Secondo il funzionario, a complicare le indagini sui traffici del dark web come su quelli che avvengono alla luce del sole, c’è il proliferare delle monete elettroniche (bitcoin e simili) che rallentano la possibilità di tracciare le transazioni economiche (arma fondamentale per gli investigatori) e l’ostruzionismo di colossi come Microsoft, Google e Amazon. “Ci fanno la guerra – ha detto Burke – e negano i dati che dai domini riconducono a persone e organizzazioni. È stata necessaria una sentenza della Corte suprema americana per permetterci l’accesso ai dati delle farmacie online”. Tra le case history riferite a Milano, Burke ha parlato di un falso farmaco per la fibrillazione atriale (che conteneva solo talco) che ha incassato 12 milioni di dollari grazie a informazioni fasulle veicolate dal web.

La Francia è in prima fila

In attesa del rapporto internazionale sulle azioni intraprese dagli Stati Ue che sarà presentato a Parigi il prossimo 13 dicembre, tra i vari casi riassunti a Milano spicca quello raccontato proprio da Alain Lemangnen. Di recente la Gendarmerie francese è riuscita a smantellare – collaborando con le dogane di Svezia e Finlandia – un’organizzazione britannica che immetteva sul mercato francese enormi quantità di Subutex (nome commerciale dell’oppioide di sintesi buprenofina). I numeri: 28 mila compresse sequestrate, che provengono da furti; 150 mila euro confiscati oltre a beni mobili e immobili; prescrizioni compiacenti per 110 mila blister e 770 mila compresse; vendite stimate in 77 milioni di euro e una perdita a carico del servizio sanitario francese che si aggira sui 2 milioni di euro.

Una lotta impari?

La strategia di contrasto internazionale – secondo gli esperti – sconta la scarsità di risorse umane competenti. A parere di Lusi, Burke e Lemangnen i cyber investigatori sono merce rara.

 

Torna su
Corruzione in sanità: al via controlli della task force di Anac, ministero e Agenas

Corruzione in sanità: al via controlli della task force di Anac, ministero e Agenas

Gli ispettori al lavoro sul campo per verificare l’applicazione delle misure previste dal Piano nazionale anticorruzione (Pna). Sotto la lente contratti, incarichi, nomine, rapporti con i privati, attività libero-professionale e liste d’attesa


Ispettori al lavoro per verificare l’applicazione delle misure previste dal Piano nazionale anticorruzione (Pna) per il settore sanitario. Sono stati avviati i controlli della task force istituita da Anac (Autorità nazionale anticorruzione), ministero della Salute e Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali). Ad annunciarlo è un comunicato stampa di Agenas.

Controlli sul campo

I controlli sul campo sono previsti dal protocollo d’intesa siglato ad aprile 2016 da Anac, ministero Agenas e Carabinieri dei Nas. Sotto la lente degli ispettori i contratti pubblici, gli incarichi e le nomine, ma anche i rapporti con i soggetti privati, l’attività libero-professionale e le liste di attesa. “Con i controlli congiunti – spiega Raffaele Cantone, presidente dell’Anac – sarà possibile verificare l’effettivo rispetto delle misure di prevenzione della corruzione all’interno delle Asl. La presenza di personale tecnico qualificato permetterà di capire se le linee guida elaborate dall’Anac sono state messe in pratica e se hanno prodotto cambiamenti concreti”.

Il virus della corruzione

Soddisfatto il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: “C’eravamo dati circa un anno di tempo per dare al sistema sanitario la possibilità di fare proprie queste misure ed abbiamo mantenuto l’impegno. Per il Pna Sanità, inizia la fase due, quella del monitoraggio e del controllo, necessaria affinché i protocolli anticorruzione trovino uguale applicazione in tutte le aziende sanitarie. Un lavoro di squadra – prosegue il ministro – diretto ad isolare virus corruttivi prima ancora che possano provocare lesioni che indeboliscono il diritto alla salute dei cittadini”.

Dalla parte dei cittadini

Come sottolinea Francesco Bevere, direttore generale di Agenas, il monitoraggio sul campo serve a “comprendere se l’adeguamento da parte delle aziende sanitarie alle raccomandazioni in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione è stato sostanziale o di facciata; se e come si è proceduto alla mappatura dei rischi, prima diga contro inefficienze e criticità gestionali. L’attività di verifica è, inoltre, una risposta dovuta del Ssn alle segnalazioni dei cittadini che con fiducia hanno indicato disfunzioni e opacità”.

Regioni, uno sforzo in più

Alle Regioni si rivolge, invece, il presidente di Agenas, Luca Coletto: “Le Regioni sono fortemente impegnate in processi di miglioramento delle performance cliniche, economiche ed amministrativo-gestionali. Lo sforzo ulteriore – conclude Coletto – deve essere quello di prendere sempre più consapevolezza, anche con il supporto di Agenas, che l’adozione e il rispetto di misure dirette a promuovere integrità e trasparenza è una tappa immancabile del percorso virtuoso che i sistemi sanitari regionali hanno intrapreso”.

 

 

Torna su
Decreto fiscale, via libera alla detraibilità per gli alimenti speciali

Decreto fiscale, via libera alla detraibilità per gli alimenti speciali

Approvato un emendamento in Commissione Bilancio che punta ad alleggerire la spesa delle famiglie costrette, per motivi di salute, ad acquistare prodotti speciali per la nutrizione


Una mano tesa alle famiglie italiane che, per motivi di salute, sono costrette ad acquistare prodotti speciali per la nutrizione: dagli alimenti aproteici per chi soffre di insufficienza renale a quelli specifici per pazienti oncologici o per chi, spesso a causa di malattie neurodegenerative, convive con problemi di disfagia. È l’obiettivo di un emendamento al Decreto fiscale – collegato alla manovra 2018 e ora all’esame di Palazzo Madama – approvato dalla Commissione Bilancio del Senato.

L’emendamento al Decreto fiscale

L’emendamento, presentato da Alternativa Popolare, prevede la detraibilità per gli “alimenti ai fini medici speciali”, contemplati dalla direttiva europea 2009/37/CE e inclusi in un registro nazionale tenuto dal ministero della Salute, a esclusione di quelli per i lattanti. Come per altre spese mediche, si tratta di una detrazione pari al 19% delle spese sostenute. Una misura, valida per gli acquisti realizzati nel 2017 e nel 2018, che avrà un impatto di 20 milioni di euro per il primo anno e 11,4 milioni per il secondo. Le detrazioni – ha precisato oggi l’Associazione italiana celiachia – non riguardano però gli alimenti senza glutine destinati ai pazienti celiaci, che appartengono a un altro elenco (sezione A2) del registro nazionale.

Alimenti speciali come presidio terapeutico

Le categorie di pazienti coinvolte sono numerose. “Finalmente – commenta la presidente dei senatori di Ap, Laura Bianconi – viene sanata quella che era un’incomprensibile lacuna, visto che in Italia gli alimenti a fini medici speciali sono inseriti nei Livelli essenziali di assistenza per le patologie metaboliche congenite e la fibrosi cistica, ma il costo per il loro acquisto, al di fuori dalle strutture ospedaliere, ricade interamente sui pazienti”. In alcuni Paesi europei come Francia e Inghilterra, spiega la senatrice, gli alimenti a fini medici speciali sono rimborsati dal sistema sanitario nazionale: “Ma questo non avviene in Italia, sebbene siano somministrati su raccomandazione e sotto supervisione medica e costituiscano un insostituibile presidio terapeutico per determinate condizioni patologiche. Ecco perché risultava inaccettabile che in Italia questi alimenti rimassero estranei all’istituto della detraibilità”.

Un emendamento simile era stato presento anche dal gruppo del Partito Democratico in Commissione Bilancio. Ai senatori era anche arrivato l’appello di Cittadinanzattiva. Per l’associazione, l’assenza degli alimenti ai fini medici speciali dalla lista dei prodotti detraibili è stata finora “una grave lesione del diritto alla salute e una forma di discriminazione sociale ed economica verso specifiche categorie di pazienti”.

L’emendamento

Per approfondire: “Gli Afms: risorsa da valorizzare in percorsi strutturati” (AboutPharma, Febbraio 2017)

 

 

Torna su
Ema va ad Amsterdam, delusione per Milano

Ema va ad Amsterdam, delusione per Milano

Dopo tre turni di votazione, decide il sorteggio: la capitale olandese ospiterà la sede dall’Agenzia europea dei medicinali


Sarà Amsterdam ad ospitare la nuova sede dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema). La capitale olandese ha prevalso su Milano. A decidere, dopo un terzo turno di votazione finito in parità (13 a 13), è stato un sorteggio. È questo il verdetto che arriva da Bruxelles, dove si è riunito il Consiglio europeo per decidere la destinazione dell’agenzia regolatoria, che lascerà Londra per effetto della Brexit. Il risultato Ema punisce l’Italia, quindi.

I primi due turni in vantaggio

Un esito deludente per Milano, che arriva al termine di una lunga giornata carica di ottimismo. Dopo il primo scrutinio, Milano era già in testa, seguita da Amsterdam e Copenaghen. Poi aveva superato il secondo turno, prevalendo sulla rivale olandese per tre voti (12 vs 9) e mettendo fuori gioco la capitale della Danimarca. Un consenso che, tuttavia, non è bastato a conquistare l’Ema.

 

Torna su
Tumori: la terapia sottocutanea riduce tempi, costi e disagi per il paziente

Tumori: la terapia sottocutanea riduce tempi, costi e disagi per il paziente

Ad affermarlo uno studio della scuola Altems sull’utilizzo delle formulazioni sottocutanee di rituximab e trastuzumab per il trattamento del linfoma non-Hodgkin e del carcinoma mammario. Costi sociali evitati per oltre 60 milioni di euro


La somministrazione richiede meno tempo (cinque minuti contro 90). La permanenza in ospedale è più breve, con benefici per l’organizzazione. La qualità di vita dei pazienti migliora e si riducono i costi per il sistema. Si possono riassumere così i vantaggi di alcune terapie contro i tumori somministrate per via sottocutanea anziché endovenosa.  Ed è quanto emerge da uno studio condotto dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica di Roma, realizzato con il sostegno di Roche e presentato oggi a Roma.

Lo studio

Altems ha realizzato un’analisi comparativa della somministrazione endovenosa e sottocutanea di due anticorpi monoclonali, rituximab e trastuzumab, rispettivamente nel trattamento del linfoma non-Hodgkin e del tumore al seno. Lo studio si basa sui dati di oltre 3mila questionari compilati dai pazienti e da oltre 60 centri ospedalieri italiani. Secondo i risultati, il ricorso a formulazioni sottocutanee di rituximab e trastuzumab riduce la durata della somministrazione a soli cinque minuti, taglia i tempi di attesa in ospedale del 34% e, più in generale, dimezza la durata della permanenza nel day-hospital. Un tempo risparmiato e “riconsegnato” alla vita quotidiana del paziente e dei suoi familiari.

Costi evitati

Dal punto di vista organizzativo ed economico, l’adozione di terapie “brevi” comporta – secondo lo studio Altems – più efficienza organizzativa e operativa nei day-hospital, con dimezzamento del tempo impiegato da infermieri e farmacisti, e risparmi che si traducono in oltre 60 milioni di euro di costi sociali evitati (31,5 milioni in oncoematologia e 31 milioni per il tumore del seno). “Il cambiamento delle vie di somministrazione dei due anticorpi monoclonali non modifica i livelli di efficacia e sicurezza già molto elevati in questi farmaci – commenta Americo Cicchetti, direttore di Altems – ma il passaggio dalla somministrazione endovena a quella sottocute rappresenta una vera e propria rivoluzione sotto il profilo organizzativo e riduce i costi dell’assistenza”.

Risorse ottimizzate

A sottolineare l’impatto positivo delle formulazioni sottocutanee sulla gestione dell’assistenza è anche Vito Antonio Delvino, direttore dell’Istituto Tumori “Giovanni Paolo II” di Bari: “Quello che cambia in modo clamoroso è il tempo che impiegano gli operatori sanitari a preparare il farmaco prima e ad assistere il paziente poi. Una somministrazione sottocutanea che dura 5 minuti si traduce in 5 ore in meno di lavoro per infermieri, medici e farmacisti per ciascuno paziente, tempo che può essere dedicato all’ottimizzazione delle risorse”.

Cure e vita quotidiana

Risparmi, efficienza, ma anche benefici per la vita quotidiana del paziente e del suo caregiver: “Poter offrire alle pazienti una soluzione di cura che permette loro di conciliare il momento della cura con l’attività lavorativa e la routine quotidiana sia un valore clinico e sociale cui possiamo e dobbiamo tendere tutti”, commenta Alessandra Cassano, dirigente medico dell’Uoc di Oncologia Medica del Policlinico Gemelli di Roma, riferendosi alle pazienti con carcinoma mammario.

 

Torna su
Aumentano i sieropositivi di Hiv nel Vecchio continente

Aumentano i sieropositivi di Hiv nel Vecchio continente

A dirlo è un rapporto dell'European center for disease control (Ecdc) e dell'Organizzazione mondiale della sanità. Ciò riguarda il 51% delle persone infette che quindi sono contagiose per anni senza saperlo. Servono diagnosi immediate


Aumentano i sieropositivi di Hiv in Europa.
Una notizia che allarma e che riguarda tutto il continente, fino ai confini russi. A dirlo è un rapporto dell’European center for disease control (Ecdc) e dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Colpa della diagnosi tardiva

Il problema alla base, secondo il rapporto, è la diagnosi tardiva della patologia. Ciò riguarda il 51% delle persone infette che quindi sono contagiose per anni senza saperlo.
Lo scorso anno sono stati registrati 160 mila nuovi casi a livello globale, di cui 29 mila nella sola Unione europea.  “In media – afferma il direttore dell’Ecdc Andrea Ammon, passano tre anni tra l’infezione e la diagnosi, un tempo troppo lungo. Questo implica peggiori condizioni di salute per i pazienti e anche un aumento del rischio di trasmissione”. A confermare il problema della diagnosi tardiva è anche il dato secondo cui nel 68% dei casi passano tre mesi tra la diagnosi di sieropositività e quella di Aids, un segno che l’infezione è avvenuta anni prima.

Gli over 50

Per gli over 50, sottolinea il rapporto, il problema è ancora più grave, e la diagnosi tardiva avviene nel 65% dei casi. “Per raggiungere l’obiettivo di fermare l’Hiv – commenta il commissario Ue alla Salute Vytenis Andriukaitis, dobbiamo garantire la diagnosi precoce per tutti, raggiungendo i gruppi più a rischio e quelli più vulnerabili”.

 

 

Torna su
Informazione o pubblicità dei medicinali? L’interpretazione del Tribunale di Milano

Informazione o pubblicità dei medicinali? L’interpretazione del Tribunale di Milano

Il caso di Doc Generici e dell'informativa su alcuni suoi prodotti. La corte milanese si è espressa in favore di una maggiore attenzione sul rispetto delle norme che limitano la diffusione di dettagli sui medicinali al pubblico


L’informazione e la pubblicità dei medicinali sono temi oggi cruciali. Il Tribunale civile di Milano (sent. n. 8240 del 24 luglio 2017) ha recentemente affermato che la pubblicazione da parte di una società farmaceutica, sia sul proprio sito web che a mezzo stampa, dell’elenco dei prodotti e dei prezzi dei propri medicinali è qualificabile come attività promozionale. Ed è quindi soggetta agli stringenti limiti previsti dalla normativa sulla pubblicità dei prodotti farmaceutici. Il Tribunale ha altresì affermato che la violazione di questi limiti costituisce concorrenza sleale e ha inibito la prosecuzione di tale attività.

La vicenda

Doc Generici, società italiana che produce medicinali generici, aveva pubblicato sul proprio sito web e su alcune riviste settimanali: L’elenco dei propri prodotti che includeva, per ciascuno di essi, l’indicazione del relativo principio attivo. Nonché della classe di rimborsabilità, del nome del farmaco “originatore” e dell’assenza di eccipienti che possono causare allergie. E l’elenco dei prezzi estratti dalle liste di trasparenza pubblicate dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Queste informazioni sono state pubblicate senza l’autorizzazione preventiva del Ministero della Salute, sul presupposto che la loro diffusione non costituisse pubblicità. Bayer aveva inviato diverse diffide a Doc Generici a proseguire tali attività.  L’azienda tedesca contestava la violazione della disciplina sulla pubblicità dei medicinali e la violazione dei propri diritti sui marchi con i quali venivano identificati i prodotti “originatori”. Senza considerare la condotta di concorrenza sleale per appropriazione di pregi. Doc Generici si è quindi rivolta al Tribunale di Milano affinché dichiarasse che le attività di comunicazione dalla stessa effettuate non costituivano una violazione delle norme sulla pubblicità dei medicinali, in quanto non potevano essere qualificate come “pubblicità”.

Informazione o pubblicità?

Il Tribunale di Milano è chiamato a valutare in primo luogo se le attività di comunicazione svolte da Doc Generici siano qualificabili o meno come pubblicità. La risposta a tale interrogativo è infatti il presupposto per poter dirimere la questione. Ossia se tali attività siano effettuate lecitamente (nel rispetto delle norme sulla pubblicità dei medicinali) e quindi possano essere proseguite.

Per effettuare tale valutazione, il Tribunale di Milano richiama una sentenza della Corte di giustizia del 5 maggio 2011 (C-316/09, MSD Sharp & Dohme GmbH contro Merckle GmbH). Qui la Corte aveva identificato i seguenti principali indici di una comunicazione a carattere meramente informativo (e quindi non pubblicitario).

  • Informazioni limitate alla riproduzione fedele della confezione del medicinale. E in una riproduzione letterale ed integrale del foglietto illustrativo o del riassunto delle caratteristiche del prodotto.
  • Assenza di qualsiasi selezione/manipolazione delle informazioni “poiché tali manipolazioni delle informazioni possono spiegarsi solo con uno scopo pubblicitario”.
  • Informazioni disponibili con sistema “pull”, per cui la loro consultazione richiede un’azione attiva di ricerca da parte dell’utente di internet. E non attraverso finestre indesiderate, dette “pop-up”, che appaiono spontaneamente sullo schermo.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Milano ha ritenuto nel caso in esame che, seppure le pubblicazioni non includessero alcun messaggio promozionale, Doc Generici aveva selezionato le informazioni da pubblicare, in quanto parzialmente riprese da più liste di trasparenza. E aveva manipolato queste informazioni poiché aveva aggiunto criteri di classificazione dei prodotti non contenuti nella lista di trasparenza. In aggiunta, secondo la sentenza, aveva aggiunto ulteriori informazioni sugli eccipienti che non erano incluse nei documenti pubblicati dall’Aifa.
Inoltre, le informazioni erano state diffuse con tecniche (non specificate dal Tribunale) che non richiedevano alcuna ricerca da parte dell’utente di internet né del lettore della rivista.
Per questi motivi, applicando gli stessi criteri utilizzati dalla Corte di giustizia nel 2011, il Tribunale di Milano ha concluso che le attività di comunicazione condotte da Doc Generici dovessero essere qualificate come pubblicità.
Dopo aver qualificato tali comunicazioni come pubblicità, il Tribunale ha quindi accertato che esse non erano state eseguite conformemente alla normativa sulla pubblicità dei medicinali. E ha dichiarato che la violazione di tali norme integrava una condotta di concorrenza sleale.
Di conseguenza, il Tribunale ha inibito a Doc Generici di proseguire tale attività.

Dalla conferma del principio all’applicazione restrittiva

La sentenza in commento conferma il principio enunciato dalla Corte di giustizia. Ossia che la semplice pubblicazione dell’elenco dei medicinali, unitamente a una fedele riproduzione dell’imballaggio e del foglietto illustrativo o del riassunto delle caratteristiche del prodotto, senza alcuna selezione o manipolazione, non è qualificabile come pubblicità. E, quindi, non ricade nel campo di applicazione delle relative norme. Ciò significa che, se la pubblicazione riguarda medicinali soggetti a prescrizione, essa può essere legittimamente effettuata. Mentre la pubblicità sarebbe vietata. E, se riguarda medicinali non soggetti a prescrizione, non richiede la previa autorizzazione del Ministero (che sarebbe necessaria in caso di pubblicità).

Se tale affermazione di principio è importante, si evidenzia tuttavia che il Tribunale di Milano ne ha fornito un’interpretazione molto restrittiva. Infatti, in questo caso, il giudice ha ritenuto che la limitatissima attività di modifica e selezione effettuata da Doc Generici sia comunque sufficiente a conferire al messaggio un carattere pubblicitario. Questo approccio suggerisce molta cautela nella scelta dei mezzi più idonei a fornire un’informativa sui prodotti farmaceutici che si sottragga al rischio di essere qualificata come pubblicità.

A cura di Ernesto Apa e Elisa Stefanini – Portolano Cavallo

Homepage Digital & Life Sciences

 

Torna su
Emofilia, quattro mosse per migliorare assistenza e presa in carico dei pazienti

 

 

Emofilia, quattro mosse per migliorare assistenza e presa in carico dei pazienti

Presentata al ministero della Salute la “Carta delle EmoAzioni”, iniziativa promossa dalla Federazione delle associazioni emofilici (FedEmo) e frutto del lavoro di un team di esperti coordinato dalla Fondazione Charta


Migliorare l’organizzazione dei centri per l’emofilia. Potenziare il Registro nazionale delle coagulopatie congenite. Rafforzare la presenza di pazienti e operatori sanitari specializzi nelle sedi istituzionali. E ancora: favorire l’integrazione tra associazioni di pazienti, medici, istituzioni sanitarie e sociali. Sono queste quattro azioni necessarie per rispondere ad alcuni dei bisogni assistenziali nel campo dell’emofilia. A riassumerli, identificando quattro bisogni e altrettante soluzioni, è la “Carta delle EmoAzioni”, un documento presentato oggi al ministero della Salute nell’ambito del progetto “EmoAzione: 2017-2020”. Un’iniziativa promossa Federazione delle associazioni emofilici (FedEmo), in collaborazione con Fondazione Paracelso Onlus, l’Associazione italiana dei centri di emofilia (Aice), l’Istituto superiore di sanità (ISS), con il contributo incondizionato di Roche.

Quattro punti-chiave

Il documento articolato in quattro proposte è frutto del lavoro di un team multidisciplinare di esperti, coordinati dalla Fondazione Charta (Center for health associated research and technology assessment).

  1. Il primo “bisogno” individuato è quello di “offrire informazioni, diagnosi e assistenza specialistica adeguata alle persone con emofilia e alle loro famiglie”. Per questo, la Carta propone una “migliore organizzazione dei Centri emofilia, malattie emorragiche congenite e trombosi su tutto il territorio nazionale”, perché possano offrire un’assistenza specialistica e multidisciplinare, con medici e infermieri specializzati, ma anche psicologi, ortopedici ed esperti di laboratorio.
  2. Il secondo punto riguarda la necessità di una “adeguata attività di ricerca nel campo dell’emofilia”, oggi penalizzata da “dispersione geografica, cronologica e degli ambiti di studio”. In questa direzione, un contributo potrebbe arrivare dall’implementazione del Registro nazionale coagulopatie congenite (Rncc), istituito presso l’Istituto superiore di sanità (Iss).
  3. La terza sfida è “garantire l’accesso a percorsi personalizzati di assistenza sanitaria”. Si tratta di implementare i percorsi diagnostici-terapeutici assistenziali (Pdta), consentire l’accesso a cure domiciliari e multidisciplinari, ma anche a farmaci e tecnologie innovativi. La Carta suggerisce di potenziare “la rappresentanza dei pazienti e di operatori sanitari specializzati nelle sedi istituzionali, centrali e locali”.
  4. Infine, come quarta priorità, viene identificato il bisogno di integrazione tra assistenza clinica e sociale. “E’ necessario – spiega Cristina Cassone, presidente di FedEmo – innalzare il livello di informazione e comunicazione, tanto a livello sociale che istituzionale, garantendo percorsi personalizzati di integrazione sociale. Va favorita l’integrazione tra medici, associazioni di pazienti e istituzioni sanitarie e sociali”.

La Carta costituisce una sorta di appello alle istituzioni e a tutti gli attori coinvolti nell’assistenza dei pazienti con emofilia. Il progetto “EmoAzione: 2017-2020” andrà avanti con un’attività di monitoraggio e valutazione degli avanzamenti rispetto al percorso proposto. Nuove “EmoAzioni” verranno identificate per il biennio 2019-2020.

 

 

Torna su
Sanità pubblica a caro prezzo: italiani in difficoltà per ticket e farmaci

Sanità pubblica a caro prezzo: italiani in difficoltà per ticket e farmaci

Presentato oggi a Roma il XX Rapporto Pit Salute di Cittadinanzattiva. Dalle segnalazioni inviate dai cittadini al Tribunale dei diritti del malato (Tdm), una fotografia sullo stato di salute del Servizio sanitario nazionale. Un sistema meno universalistico ed equo rispetto al passato


La sanità pubblica arretra e i costi a carico delle famiglie diventano insostenibili. Liste d’attesa, ticket su esami e visite, spesa per farmaci e intramoenia minano la fiducia dei pazienti nel Servizio sanitario nazionale (Ssn). Un sistema sempre meno universalistico, che invece dovrebbe essere più “pubblico, accessibile, efficiente e tempestivo”.  È quanto emerge dalla lettura dell’ultimo Rapporto Pit Salute presentato oggi da Cittadinanzattiva e Tribunale dei diritti del malato (Tdm). “Sanità pubblica: prima scelta, ma a caro prezzo” è il titolo scelto per la ventesima edizione del report, realizzata con il sostegno incondizionato della Federazione dei collegi degli infermieri (Ipasvi), della Fnomceo (ordini dei medici) e della Fofi (ordini dei farmacisti).

Parola ai cittadini

Il rapporto analizza le segnalazioni inviate dai cittadini nel 2016 al Tribunale dei diritti del malato di Cittadinanzattiva. A prevalere, nel coro di lamentele, sono soprattutto criticità relative alle lunghe liste di attesa della sanità pubblica (54% del totale) e al pagamento di ticket per esami diagnostici e visite specialistiche (37,5%). Le spesa sostenuta dai cittadini per i ticket domina, in effetti, la classifica delle segnalazioni relative ai costi, seguita da quella per i farmaci e per le prestazioni intramoenia. Ma a queste voci se ne aggiungono altre, tra cui degenze in residenze sanitaria assistite (Rsa), assistenza protesica e integrativa, mobilità sanitaria e mancate esenzioni per malattie rare.

Accesso ai farmaci

Circa un quinto dei cittadini che lamentano difficoltà nell’accesso all’assistenza sanitaria cita i farmaci come motivo di disagio. Nella maggior parte dei casi (54%) si tratta, prevedibilmente, di medicinali a carico del paziente e quindi inseriti in fascia C. Ma non mancano le segnalazioni relative ad esborsi per coprire la differenza tra generico e farmaco “griffato” oppure al costo dei ticket sui medicinali di fascia A.

Rispetto ai farmaci, la questione dei costi non è l’unica presente nelle segnalazioni dei cittadini. Il report evidenzia anche altre difficoltà, a cominciare dall’accesso ai farmaci innovativi per la cura dell’epatite C: i cittadini lamentano carenza di informazioni e di centri prescrittori sul territorio, lunghe attese e criteri troppo restrittivi stabiliti dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per l’accesso alle terapie. Tuttavia, riferendosi al 2016, il report non tiene conto dei nuovi criteri deliberati quest’anno da Aifa per l’accesso alle cure contro l’epatite C, che ampliano la platea di beneficiari.

Anche l’indisponibilità di alcuni farmaci è un problema segnalato a gran voce da cittadini. Le difficoltà riguardano soprattutto la disponibilità alcuni medicinali in farmacia, ma anche – in misura minore – ritardi nell’erogazione dei farmaci ospedalieri.

A completare il quadro, altre difficoltà con una frequenza più bassa, ma comunque segnalate al Tdm. Queste riguardano accesso ai medicinali con nota Aifa, farmaci off-label, prescrizioni subordinate a piano terapeutico e terapie in sperimentazione.

Ancora troppe ombre

L’accesso ai farmaci è soltanto una delle numerose criticità raccontante nel dettaglio dal report. La fotografia scattata dall’ultimo Pit Salute mostra diverse crepe del Ssn. Sono diffuse, ad esempio, le segnalazioni che riguardano “buchi” dell’assistenza territoriale e domiciliare; costi e qualità dell’assistenza in strutture residenziali come Rsa e lungodegenze; problemi relativi all’assistenza protesica ed integrativa (attese o costi a carico del paziente); disservizi nel riconoscimento delle invalidità; mobilità sanitaria (compresi ritardi nei rimborsi per le spese sostenute); affollamento dei pronto soccorso e difficoltà legate ai ricoveri. In lieve calo, invece, le segnalazioni su casi di presunta malpractice, mentre cresce la preoccupazione per la sicurezza all’interno delle strutture sanitarie (es. infezioni ospedaliere).

Un cambio di passo

L’auspicio di Cittadinanzativa è che serva anche da monito alle istituzioni. “Dalla legge di bilancio – commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale dei diritti del malato – arrivano pochi e deboli segnali: se da una parte si comincia a metter mano al superticket, a seguito di una nostra battaglia, seppur in maniera insufficiente, dall’altra sul finanziamento del Ssn arrivano segnali pericolosi che fanno intravedere il rischio di un suo forte depotenziamento”. Le priorità sono tante, spiega Aceti: “Attuare il Piano nazionale della cronicità, rilanciare gli investimenti sul Ssn in termini di risorse economiche, di interventi strutturali per ammodernamento tecnologico ed edilizia sanitaria, nonché sul personale sanitario. E ancora, una strategia nazionale nuova per governare tempi di attesa ed intramoenia; alleggerire il peso dei ticket e revisionare la disciplina che li regola tenendo conto anche dei cambiamenti sociali e dell’alto tasso di rinuncia alle cure”. Appunti per la prossima legislatura.

LA SINTESI DEL RAPPORTO

 

Torna su
Corruzione in sanità, 107 mila famiglie vittime nel 2016

Corruzione in sanità, 107 mila famiglie vittime nel 2016

Indagine Istat sui fenomeni corruttivi nell'healthcare. Oltre mezzo milione di famiglie hanno ricevuto almeno una volta richieste di soldi o altro per ottenere con più facilità prestazioni. Secondo Transparency International, l'anno scorso è avvenuto un episodio illecito in un quarto delle aziende sanitarie (25,7%)


Nel 2016 sono state 107 mila le famiglie vittime della corruzione in sanità. E, più in generale, oltre mezzo milione di famiglie hanno ricevuto almeno una volta richieste di soldi o di altri vantaggi per ottenere con più facilità prestazioni (ricoveri, interventi, visite) all’interno delle strutture sanitarie. I dati emergono da una recente indagine Istat. L’Istituto di statistica ha evidenziato che i fenomeni corruttivi legati alla salute sono diffusi in ogni parte del Paese ma si verificano più di frequente nelle periferie delle aree metropolitane e nelle regioni meridionali. Sono infatti 2,8 milioni i cittadini che affermano di conoscere qualcuno che gli ha chiesto denaro o altre facilitazioni per avere benefici nel sistema sanitario e curarsi bene e in tempo.

Chi sono i protagonisti dei casi di corruzione in sanità

In sette casi su dieci (69%) è lo stesso medico a chiedere la “mazzetta”. Ma può essere anche un infermiere (10,9%) o un altro lavoratore che fa parte del personale sanitario (19,6%). Gli illeciti avvengono direttamente sul luogo di lavoro, anche se spesso i colleghi che assistono agli episodi non hanno il coraggio di denunciare. Su circa due milioni di persone che sapevano di episodi irregolari, solo l’11,8% lo ha segnalato a un superiore e l’1,9% al responsabile anticorruzione dell’azienda sanitaria. La legge sul “whistleblowing” approvata lo scorso 15 novembre mira infatti proprio a tutelare chi viene a conoscenza di irregolarità sul posto di lavoro e lo riferisce all’autorità.

I dati di “Curiamo la corruzione”

In un quarto delle aziende sanitarie italiane (25,7%) nel 2016 è avvenuto almeno un episodio di corruzione. E in più della metà (51,7%) non è ancora stato adeguato un piano anticorruzione adeguato. A rilevarlo è una serie di analisi che rientrano nel progetto “Curiamo la corruzione“, coordinato da Transparency International Italia, in partnership con Censis, Ispe Sanità e Rissc, e finanziato nell’ambito della Siemens Integrity Initiative. Nell’anno in corso, secondo il rapporto, i media nazionali hanno riferito 97 notizie di casi di corruzione in sanità.

Aumentare la consapevolezza sui fenomeni di corruzione in sanità

“Curiamo la corruzione” in tre anni ha realizzato diverse iniziative per incrementare la consapevolezza sui fenomeni di corruzione in sanità e per formare su questi temi il personale sanitario e sperimentare strumenti innovativi e modelli organizzativi specifici. Ecco le strutture che hanno partecipato al progetto:

  • Asl di Bari
  • Ao Brotzu di Cagliari
  • Policlinico Vittorio Emanuele di Catania
  • Asp di Catanzaro
  • Asst di Melegnano e Martesana
  • Aou San Luigi Gonzaga di Orbassano
  • Asp di Ragusa
  • Aou San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno
  • Ats della Sardegna
  • Asp di Siracusa
  • Usl Toscana Sud Est (Arezzo, Grosseto e Siena)
  • Apss di Trento.

Ma l’Anac promuove le aziende sanitarie: le più efficienti nelle attività di prevenzione

Nonostante i dati preoccupanti presentati da Istat e “Curiamo la corruzione”, nell’aggiornamento del Piano nazionale nazionale anticorruzione, l’Anac ha promosso le aziende del settore sanitario. In merito alle attività di prevenzione, analizzando 577 pubbliche amministrazioni, l’Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha riconosciuto che l’esperienza più positiva è quella delle aziende del settore sanitario.

 

Torna su
Abbassare il prezzo dei farmaci contro la mancata aderenza alla terapia

Abbassare il prezzo dei farmaci contro la mancata aderenza alla terapia

Studi scientifici hanno dimostrato che packaging intelligente o sistemi di allarme per ricordare di assumere i farmaci aiutano poco i pazienti ad assunzione i medicinali che gli sono stati prescritti. Forse perché il problema non è la dimenticanza ma altro: come il prezzo troppo alto


Packaging intelligente e sistemi di avviso non sembrano essere la soluzione più adatta alla lotta alla mancata aderenza alla terapia. A differenza del prezzo. Lo riporta il New York Times con un lungo articolo che ricorda come la metà degli americani – soprattutto chi affetto da malattie croniche – non assuma le pastiglie che gli sono state prescritte. Eppure sono diverse le soluzioni immaginate per risolvere un problema che pesa non poco in termini economici oltre che per lo spreco di medicinali per le conseguenti complicazioni e ospedalizzazioni.

Le strategie contro la mancata aderenza alla terapia

Negli anni sono state sperimentate diverse tattiche: si è provato a ricordare alle persone di assumere i farmaci; spiegargli il valore e l’importanza del trattamento; semplificare i regimi farmacologici e i dosaggi. Ma nessuna di queste è servita. Mentre l’unico approccio che finora si è dimostrato efficace sembra essere la riduzione del costo dei farmaci.

Smart packaging per ricordare

La confezione promemoria con blister ad hoc o contenitori giornalieri o settimanali per i farmaci, è un’idea relativamente semplice che ha lo scopo di aiutare le persone a ricordarsi di assumere la dose prescritta. Una revisione sistematica della Cochrane Collaboration però ha dimostrato che è utile solo in misura modesta. Esaminando 12 studi randomizzati controllati, gli autori hanno concluso che la confezione promemoria aumentava il numero di pillole assunte dai pazienti dell’11%. Ma hanno anche scoperto che la maggior parte dei trial aveva importanti difetti metodologici, mettendo in dubbio i risultati.

Le “pillole digitali”

Si è passati allora a qualcosa di meno passivo, come i monitor elettronici in grado di inviare un allarme a medici o pazienti per avvertirli o ricordare che hanno saltato una dose. Nel 2014, un team di ricercatori del Brigham and Women’s Hospital e della Harvard Medical School hanno pubblicato una revisione sistematica di tali dispositivi sul Journal of American Medical Association. Anche in questo caso i risultati sono stati deludenti non mostrando un miglioramento dell’aderenza grazie a tali dispositivi.

Il vero problema

Insomma niente sembra convincere i pazienti ad aderire alla terapia. Forse perché il vero problema non è la dimenticanza, come ricorda la giornalista del New york times. Ma piuttosto il costi dei medicinali, il voler evitare effetti collaterali e il desiderio di essere meno dipendenti dai farmaci. “È anche possibile che i dispositivi di promemoria siano efficaci – ha spiegato Niteesh Choudhry medico presso la Brigham and Women’s Hospital e Harvard Medical School che si è occupata del tema – ma devono essere accoppiati con altre strategie di miglioramento dell’aderenza”.

Prezzo più basso maggiore aderenza

Quando i farmaci costano di meno, i pazienti hanno maggiori probabilità di aderire alle prescrizioni. Se infatti sono costretti a pagarli tanto, anche chi li ha già acquistati può saltare le dosi o dividere le pillole per paura di non poterseli permettere in futuro. I medicinali con un prezzo più accessibile non convincerà tutti a prenderli, ma molte altre lo fanno se dovessero pagare per loro.

 

Torna su
Cardiologia, al via il congresso Sic. Focus sui giovani: allarme ipertensione tra gli under18

Cardiologia, al via il congresso Sic. Focus sui giovani: allarme ipertensione tra gli under18

Fino al 18 dicembre a Roma il 78esimo congresso nazionale della Società italiana di cardiologia (Sic). Fra i temi in agenda, la prevenzione delle malattie cardiovascolari in età pediatrica e la sottovalutazione del rischio tra le donne


Prevenzione delle malattie del cuore già in età pediatrica. Salute delle donne, che spesso sottovalutano i rischi cardiovascolari. E ancora: i quarant’anni dalla prima angioplastica, le nuove linee guida per la stenosi aortica, l’impegno per la formazione dei giovani specialisti. Sono questi alcuni dei temi principali che animano il 78esimo congresso nazionale della Società italiana di cardiologia (Sic), inaugurato oggi a Roma. Quattro giorni di lavori che riuniscono nella Capitale 2.200 partecipanti, impegnati in centinaia di simposi, corsi di aggiornamento, relazioni e letture magistrali.

Giocare d’anticipo

Secondo la Società italiana di cardiologia, l’ipertensione arteriosa pediatrica e giovanile è una realtà sottostimata. Circa il 10% dei ragazzi con meno di 18 anni è a rischio ipertensione. Per gli esperti, bisogna individuare i fattori di rischio e con l’aiuto dei genitori modificare lo stile di vita dei giovani. Poiché molte patologie del cuore sono presenti in forma subclinica tra gli under18 e potrebbero essere prevenute. “Come per ogni malattia cronica – spiega il presidente della Sic, Giuseppe Mercuro – è verosimile che l’ipertensione arteriosa sviluppi le sue premesse fisiopatologiche anni o decenni prima di manifestare segni e sintomi clinicamente inequivocabili”. L’indizio è ciò che gli specialisti chiamano “impronta pressoria”, ovvero il riscontro di “valori tensivi ai limiti superiori della norma per l’età, insieme a un’accresciuta massa corporea”. Una condizione che richiede “riduzione del peso corporeo, dieta povera di sale ed esercizio fisico aerobico”, riservando la terapia farmacologica ai casi “più severi e refrattari a qualunque altra misura di carattere generale sullo stile di vita”.

Il cuore delle donne

Giovani e donne dominano la 78esima edizione del congresso Sic. Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte tra le donne, ma la maggior parte di loro non ne è consapevole e spesso sottovaluta il rischio. L’infarto – spiega la Sic – è la prima causa di morte nella donna over65. Eppure, prosegue Mercuro, c’è una “sostanziale sottovalutazione dei rischi che corre la donna”, per diverse ragioni. “Il dolore toracico o il disagio toracico – spiega il presidente della Sic – è riconosciuto come il sintomo caratteristico della malattia coronarica, ma le donne hanno meno probabilità di riportare dolore o disagio al torace rispetto agli uomini”. Di fronte ai primi sintomi di cardiopatia, inoltre, le donna hanno in media 10 anni in più rispetto agli uomini e circa 20 in più al momento del primo “evento cardiaco”. E ancora: le donne, spiega Mercuro, sono spesso meno curate per diabete, dislipidemie, ipertensione, obesità, e di conseguenza gli obiettivi terapeutici sono molto meno raggiunti. “Ecco perché – sottolinea Mercuro – in presenza di sintomi che suggeriscono una malattia coronarica dovrebbero essere sottoposte a una valutazione completa del rischio e ad una stima della probabilità di malattia coronarica”. Un impegno da affiancare a un’intesa campagna di informazione, sottolinea la Sic.

40 anni di angioplastica

Se la Sic celebra il suo 78esimo congresso, un altro traguardo importante lo festeggia l’angioplastica coronarica. La prima risale al 1977 ed è considerata – spiega il past presidente della Sic, Francesco Romeo – una “una pietra miliare nel trattamento della patologia coronarica aterosclerotica, che è il substrato anatomopatologico che sottende tutte le manifestazioni cliniche della malattia coronarica, come angina, infarto, morte improvvisa coronarica”. In questi 40 anni la tecnica si è evoluta da “semplice angioplastica con palloncino, all’introduzione degli stent con ulteriori successive generazioni che oggi ci permettono di affrontare qualsiasi problema tecnico”. Il numero delle angioplastiche in Italia è arrivato a oltre 150 mila su un totale di circa 300 mila coronarografie all’anno. Quello delle angioplastiche primarie, cioè per il trattamento dell’infarto acuto, ha superato quota 35mila.

Linee guida Tavi

Una delle più importanti innovazione della cardiologia degli ultimi anni è la Tavi (impianto valvolare aortico transcatetere) per il trattamento della stenosi aortica. “Oggi – spiega Ciro Indolfi, presidente eletto della Sic – è possibile impiantare una valvola di maiale completamente per via percutanea introducendo il catetere da un’arteria della gamba”. Al congresso di Roma sono state presentate le nuove linee guida per l’utilizzo della Tavi in pazienti affetti da patologia della valvola aortica. “La Tavi – spiega indolfi – è una tecnologia innovativa, molto efficace, ma ancora poco diffusa. In Italia viene utilizzata nel 22% dei casi rispetto alla chirurgia tradizionale, contro una media europea del 33%. Richiede un centro altamente specializzato e a oggi è disponibile in 44 strutture italiane”.

La cardiologia guarda al futuro

La cardiologia si presenta al 78esimo congresso Sic rivendicando i traguardi di mezzo secolo: “E’ la disciplina – sottolinea Mercuro – che ha avuto il più importante sviluppo negli ultimi 50 anni, contribuendo per oltre il 70 per cento al guadagno in aspettativa di vita che è stato di circa 7 anni negli ultimi 30 anni. Questi progressi hanno riguardato la diagnostica, la terapia farmacologica, la terapia interventistica coronarica e strutturale”. Un patrimonio da trasferire ai giovani cardiologi, non solo italiani, proiettati verso nuovi successi: “L’intenso confronto con i numerosi partecipanti stranieri e il grande spazio dedicato ai giovani – commenta Paolo Camici, presidente della commissione per il congresso – sottolineano la vocazione internazionale della cardiologia italiana, spinta a un continuo miglioramento. Abbiamo fatto tutto il possibile per favorire i giovani che sono il nostro domani, per questo abbiamo una serie di iniziative a loro dedicate”. Prima fra tutte, la partecipazione gratuita al congresso per specializzandi in Malattie cardiovascolari e giovani cardiologi.

 

Torna su
Meningite, in Toscana prorogata di un anno la campagna straordinaria di vaccinazione

 

 


Proseguirà anche nel 2018 la campagna straordinaria di vaccinazione contro la meningite della Regione Toscana. Lo prevede una delibera approvata dalla giunta, su proposta dell’assessore al diritto alla Salute, Stefania Saccardi. La campagna contro il meningococco sarebbe dovuta scadere il 31 dicembre 2017.

15 casi di meningite nel 2017

L’iniziativa – riporta ToscanaNotizie – era stata lanciata dalla Regione nel 2015, dopo un aumento di casi di meningite da meningococco C rispetto agli anni precedenti. Quell’anno, infatti, sono stati registrati 38 casi di meningococco, con 7 decessi. Nel 2016 i casi sono passati a 40 (con altri 7 decessi). Nel 2017, invece, sono stati segnalati 15 casi, di cui l’ultimo pochi giorni fa a Lucca, senza esiti fatali.

Il calendario vaccinale

La vaccinazione contro il meningococco C, come da calendario vaccinale, è sempre offerta gratuitamente:

  • ai nuovi nati, con una prima dose dal 13° al 15° mese di vita (preferibilmente al 15°), una seconda dose dai 6 anni compiuti al 9 non compiuti  e una terza dose a 13 anni compiuti;
  • ai ragazzi appartenenti alla fascia di età 9 – 20 anni  già vaccinati con una dose di vaccino da più di cinque anni. Questi riceveranno il richiamo della seconda o della terza dose, con vaccino coniugato tetravalente ACWY;
  • ai soggetti a rischio individuati nel calendario vaccinale regionale.

Nella fase di transizione al nuovo calendario vaccinale, approvato il 27 dicembre 2016, sarà garantita l’offerta attiva e gratuita della vaccinazione ai non vaccinati di qualsiasi età, fino al compimento dei 20 anni

Le misure straordinarie

Le misure straordinarie, valide fino al 31 dicembre 2018, prevedono l’offerta gratuita del vaccino ad altre categorie:

  • su richiesta, alle persone di età tra 20 e 45 anni residenti  o con domicilio sanitario nell’area della Asl Toscana Nord Ovest e della Asl Toscana Sud Est;
    sempre su richiesta, alle persone dai 20 anni compiuti residenti o con domicilio sanitario nell’area dell’Asl Toscana Centro
  • alle persone sottoposte a profilassi in quanto contatti di un caso di meningococco C;
  • alle persone che hanno frequentato la stessa comunità in cui si è verificato  un caso  di sepsi/meningite da meningococco C nei dieci giorni precedenti l’inizio dei sintomi con contatto stretto o regolare, su valutazione dell’Igiene Pubblica della Azienda Usl;
  • su richiesta, agli studenti fuori sede delle Università presenti sul territorio toscano.

Potranno avere il vaccino, pagando una quota di compartecipazione, gli over45 residenti o con domicilio sanitario nella Asl Toscana Nord Ovest e della Asl Toscana Sud Est. E anche i non residenti che frequentano in modo continuativo il territorio toscano (es. motivi di lavoro).

Dove vaccinarsi

Per la vaccinazione, ci si può rivolgere agli ambulatori delle Asl, o al proprio medico o pediatra di famiglia. Secondo le modalità indicate sul sito della Regione Toscana.

 

 

 

Torna su
Tumore al seno, palbociclib ottiene rimborsabilità in Italia


Tumore al seno, palbociclib ottiene rimborsabilità in Italia

di Redazione Aboutpharma Online 8 gennaio 2018

Una nuova arma contro il tumore al seno è ora garantita dal Servizio sanitario nazionale. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato la rimborsabilità di palbociclib, inibitore orale delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK 4/6) sviluppato da Pfizer. Ad annunciarlo è una nota dell’azienda.

Con una determina pubblica in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 dicembre, Aifa ha approvato il regime di rimborsabilità per palbociclib, in classe H, nelle formulazioni da 75 mg, 100 mg e 125 mg in capsule rigide. La terapia è soggetta a prescrizione da parte di centri utilizzatori individuati dalle Regioni. È indicata per il trattamento del carcinoma mammario localmente avanzato o metastatico positivo ai recettori ormonali (HR) e negativo al recettore del fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2) in associazione a un inibitore dell’aromatasi in donne che non hanno ricevuto una terapia sistemica precedente per lo stadio avanzato e in associazione a fulvestrant in donne che hanno ricevuto una terapia endocrina precedente. In donne in pre o perimenopausa, la terapia endocrina deve essere associata ad un agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH).

Palbociclib, spiega l’azienda, è ad oggi l’unico inibitore delle cicline CDK 4/6 rimborsato in Italia. È anche il primo nuovo farmaco, almeno degli ultimi dieci anni, a essere stato approvato per il trattamento delle donne con carcinoma al seno metastatico HR+/HER2-, che rappresentano circa il 60% di tutti i casi di cancro al seno metastatico.

 

 

 

Via libera dall’Agenzia italiana del farmaco all’inibitore delle cicline CDK 4/6 di Pfizer.

 

Una nuova arma contro il tumore al seno è ora garantita dal Servizio sanitario nazionale. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato la rimborsabilità di palbociclib, inibitore orale delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK 4/6) sviluppato da Pfizer. Ad annunciarlo è una nota dell’azienda.

 

Con una determina pubblica in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 dicembre, Aifa ha approvato il regime di rimborsabilità per palbociclib, in classe H, nelle formulazioni da 75 mg, 100 mg e 125 mg in capsule rigide. La terapia è soggetta a prescrizione da parte di centri utilizzatori individuati dalle Regioni. È indicata per il trattamento del carcinoma mammario localmente avanzato o metastatico positivo ai recettori ormonali (HR) e negativo al recettore del fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2) in associazione a un inibitore dell’aromatasi in donne che non hanno ricevuto una terapia sistemica precedente per lo stadio avanzato e in associazione a fulvestrant in donne che hanno ricevuto una terapia endocrina precedente. In donne in pre o perimenopausa, la terapia endocrina deve essere associata ad un agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH).

 

Palbociclib, spiega l’azienda, è ad oggi l’unico inibitore delle cicline CDK 4/6 rimborsato in Italia. È anche il primo nuovo farmaco, almeno degli ultimi dieci anni, a essere stato approvato per il trattamento delle donne con carcinoma al seno metastatico HR+/HER2-, che rappresentano circa il 60% di tutti i casi di cancro al seno metastatico.

 

 

 

Torna su
Ricerca sull’Alzheimer e Snc: il rischio di fallimento è alto

Medicina scienza e ricerca

 

Ricerca sull’Alzheimer e Snc: il rischio di fallimento è alto

Sviluppare farmaci per il Sistema nervoso centrale non è più attrattivo per le aziende del pharma che in questi anni hanno chiuso divisioni e convogliato fondi su altre aree. Tanto da portare alcuni ricercatori a chiedere nuovi incentivi per il settore. Eppure qualcosa si potrebbe fare, a partire dalla statistica

di Cristina Tognaccini 9 gennaio 2018

 

Dal numero di aprile di AboutPharma and medical devices – scarica il pdf

Divisioni di ricerca chiuse, trial falliti con perdite di centinaia di milioni di euro, minori fondi destinati alla sperimentazione. È la situazione che da diversi anni fa da cornice alla ricerca sull’Alzheimer e Snc. E il conseguente  sviluppo di nuovi farmaci del sistema nervoso centrale (Snc). Un esempio su tutti il caso del solanezumab, molecola anti-Alzheimer sviluppata da Eli Lilly che nonostante le alte aspettative non ha superato i test di Fase III con un aggravio stimato di 150 milioni di dollari per la società.

Troppe energie pochi ricavi

Sviluppare medicinali per trattare le malattie del cervello insomma, è sempre meno attrattivo: è più difficile, richiede più tempo e un maggior dispendio di fondi rispetto ad altre aree terapeutiche. La situazione è talmente critica che qualche anno fa un gruppo di ricercatori, con un articolo pubblicato su Neuron, avanzò la proposta di ricevere nuovi incentivi per il settore. Come per esempio un’approvazione regolamentare accelerata. Quasi al pari delle agevolazioni concesse per le malattie rare, per lo sviluppo di nuovi antibiotici in tempi di antibioticoresistenza o per le sperimentazioni pediatriche. Ma è davvero la scelta giusta?

La perdita di “fascino”

Che si parli di clinical trial in fase iniziale o avanzata, a partire dagli anni ‘90 il comparto del Snc ha registrato un netto calo. Nel 1990 su 125 nuovi studi di Fase I, 14 riguardavano farmaci del sistema nervoso centrale (11%) al pari di quelli in oncologia. Mentre nel 2012 i primi erano scesi al 7% con 19 trial su 286 e i secondi balzati al 20%, secondo un lavoro pubblicato su Nature reviews drug discovery basato sull’analisi del database Pharmaprojects.

https://www.aboutpharma.com/wp-content/uploads/2018/01/Schermata-2018-01-09-alle-12.31.01-300x236.png

Inoltre se in Fase I e II non vi erano sostanziali differenze nella probabilità di progressione dei prodotti sviluppati nell’area del Snc e in tutte le altre, la probabilità di aver successo e passare dalla Fase III al deposito della registrazione, scendeva del 45% per i primi rispetto agli altri. Nel periodo di tempo esaminato i ricercatori hanno identificato 70 interruzioni degli studi clinici per i farmaci del Snc in Fase III. Dovute per il 46% dei casi a una efficacia non adeguata, seguita da problemi di sicurezza (11%) e motivi finanziari (7%). Da qui la necessità secondo gli autori di destinare più fondi per la ricerca di base e traslazionale. Ma anche di creare nuove partnership per aumentare il numero di attori coinvolti in un clinical trial.

Bisogna decodificare il network neuronale

“Da anni non abbiamo nuovi farmaci – spiega Giovanni Biggio ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università degli Studi di Cagliari – soprattutto perché ancora non sappiamo esattamente come funziona il cervello. Negli ultimi vent’anni le conoscenze sono aumentate tantissimo ma i farmaci più recenti si basano sempre sugli stessi meccanismi. La vortioxetina per esempio è l’ultimo antidepressivo arrivato in commercio lo scorso anno, ma si diversifica solo per la sua azione sul glutammato (che sembra avere un valore importante per l’aspetto cognitivo più che per l’azione antidepressiva), per il resto sfrutta sempre il blocco del reuptake della serotonina come i vecchi Ssri (Selective serotonin reuptake inhibitors). Non riusciamo ad avere nuove molecole perché non riusciamo a decodificare il network neuronale”.

Investire in ricerca di base

“Bisogna continuare a investire soldi nella ricerca di base – continua Biggio – per questo progetti come lo Human Connectome Project o lo Human Brain Project finanziati dal National Institutes of Health (Nih) americano sono molto importanti: perché un domani (lontano) porteranno a decifrare il funzionamento cerebrale e a sviluppare nuovi e rivoluzionari prodotti. Oggi però lo stesso Nih ha tagliato i fondi destinati alla ricerca sulla schizofrenia per dedicarli all’oncologia che sta dando risultati più immediati. Non c’è da stupirsi se le aziende preferiscono investire soprattutto dove vedono sbocchi più immediati”.

Dipende tutto dalle fasi iniziali

Tra il 1995 e il 2014 l’European medicines agency (Ema) ha ricevuto 103 richieste di autorizzazione per nuovi farmaci o nuove indicazioni: 57 in ambito neurologico e 46 in psichiatria secondo un lavoro pubblicato su Nature reviews drug discovery. Di questi un terzo ha mostrato problemi di efficacia e oltre la metà problemi di sicurezza. Nel dettaglio i ricercatori scrivono che nel 37% dei trial condotti per lo sviluppo di farmaci psichiatrici e nel 46% di quelli che riguardano la neurologia, sono stati riscontrati problemi di evidenza clinica (mancante o poco chiara), dose, farmacocinetica e farmacodinamica. Nel gruppo di applicazioni in difficoltà con l’esito dello studio (efficacia e sicurezza) oltre la metà (54%) aveva sofferto già nelle fasi iniziali della ricerca.

I motivi del fallimento della ricerca sull’Alzheimer e Snc

In generale il 91% dei programmi di sviluppo che hanno avuto problemi nelle fasi iniziali, li hanno avuti anche nelle fasi successive di efficacia o sicurezza. Il buon andamento di uno studio clinico sembra quindi dipendere totalmente dall’impostazione delle fasi primarie del clinical trial. Le due aree terapeutiche hanno inoltre mostrato delle differenze per quanto riguarda gli elementi che hanno determinato il fallimento: la selezione della popolazione, il beneficio clinico, la sicurezza e la dose hanno avuto un impatto più determinante in psichiatria; mentre in neurologia sembrano contare di più l’incapacità di raggiungere l’end-point primario, la sicurezza e la mancanza di adeguati studi di farmacocinetica e farmacodinamica.

L’importanza della selezione del campione

“La diagnosi è senza dubbio una delle maggiori difficoltà in psichiatria – continua Biggio – e di conseguenza è più difficile selezionare la popolazione giusta. Se vengono arruolate persone che non soffrono di depressione grave – ma hanno per esempio disturbi comportamentali o il tono dell’umore un po’ basso senza raggiunge la soglia patologica – il farmaco può non servire. In questi casi i pazienti possono stare meglio anche con il placebo, perché se non hanno una depressione endogena patologica basta una situazione positiva per aiutarli. Così la terapia farmacologica risulta inutile: ma perché è sbagliata la popolazione in studio”.

Anche la statistica ha la sua parte

Parte delle colpe probabilmente va anche alla statistica: o per lo meno al modo in cui la si interpreta. I trial di fase III si basano sui dati di studi precedenti e spesso falliscono proprio per la bassa potenza dei risultati. “Nelle prime fasi di una sperimentazione vengono considerate numerosità campionarie non elevate – spiega Vincenzo Bagnardi che insegna Statistica medica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca – il problema è che anche in presenza di risultati positivi e statisticamente significativi (solitamente con p-value >0.05) sono molto elevate le probabilità che il risultato trovato sia sovrastimato e maggiore di quello reale. L’errore poi si amplifica ogni volta che si sommano studi di questo tipo. I trial successivi di conseguenza possono fallire perché si basano su aspettative troppo alte, date dai risultati precedenti troppo ‘ottimistici’”.

La mancata pubblicazione dei dati

Un secondo problema è senza dubbio la mancata pubblicazione di tutti i lavori scientifici, anche quelli negativi e la selezione solo degli studi significativi: “Se venissero resi noti tutti i dati forse si riuscirebbe a distinguere meglio un falso positivo da un risultato reale e sarebbe più facile intuire il grado di fallibilità di un trial” continua Bagnardi.

Le soluzioni

La prima soluzione che potrebbe venire in mente è quella di utilizzare p-value più basso – intorno allo 0.003-0.001 – che riducano il margine di errore. Ma la statistica non è così scontata. In realtà in questo modo diminuirebbe drasticamente la possibilità di portare avanti un’eventuale scoperta. Addirittura in Fase II si utilizzano anche dei p-value maggiori di 0.05. “Ciò perché si cerca di trovare qualcosa per andare avanti con la sperimentazione, anche rischiando di scontrarsi con un falso positivo. Bisognerebbe forse agire più sulla numerosità campionaria, aumentandola anche nelle fasi non avanzate di sviluppo di un farmaco”.

L’approccio “bayesiano”

“Infine dovrebbe essere introdotto il concetto di ‘probabilità a priori’” aggiunge Bagnardi. “E utilizzare degli approcci chiamati ‘bayesiani’ che permettono anche di correggere l’inferenza finale che viene fatta sugli esisti dello studio. Il che significa che se sto testando qualcosa che è già stato considerato promettente in studi precedenti, posso supporre che il mio nuovo farmaco abbia un certo tipo di successo. Perché esistono già delle evidenze. Quando invece sto testando qualcosa di nuovo le probabilità saranno più basse e il p-value dovrebbe essere aggiornato in base a esse. Quindi se si ottenesse un p-value piccolo (e incoraggiante) ma con delle probabilità a priori di successo del farmaco basse questo mi permettere di non sovrastimare il risultato. E prenderlo con più cautela rispetto al caso in cui le probabilità a priori siano alte”.

Non solo p-value

“È un concetto complicato ma è una delle proposte che vengono fatte per migliorare l’interpretazione dei dati statistici, che non si basi solo su un numero: il p-value” conclude Bagnardi.

I problemi della fase III e l’area del Snc

Dato di fatto resta che i farmaci destinati al Snc hanno una maggior probabilità di fallire durante la Fase III rispetto agli altri. Probabilmente collegato a un giudizio inappropriato da parte dello sponsor nelle fasi di ricerca precedenti, basato magari su un’efficacia marginale (come la statistica insegna). Il che evidenzia la necessità di testare e validare modelli preclinici e biomarker sempre più precisi se si vogliono approvare nuove terapie sulla base di end-point surrogati o insiemi di dati meno rigorosi. Per esempio per quanto riguarda la malattia si Alzheimer, la mancanza di modelli animali ben convalidati e la continua incertezza sull’eziologia della patologia può aver contribuito all’andamento negativo di studi clinici di Fase III negli ultimi anni.

I limiti della ricerca sull’Alzheimer e Snc

“L’inadeguata selezione dei pazienti, la complessità della malattia, l’assenza di indicatori clinici forti, la difficoltà nel creare modelli sperimentali, la lentezza nel traslare i risultati alla clinica. Sono i maggiori impedimenti che stanno frenando la ricerca e sviluppo dei farmaci in ambito del Snc” spiega Gianluigi Forloni responsabile del Dipartimento di Neuroscienze presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. “Noi creiamo modelli transgenici e sappiamo che stiamo lavorando in maniera parziale, perché mimano solo un pezzo del mosaico complesso che è la malattia. L’approccio sperimentale ha i suoi limiti soprattutto quando si tratta di malattie che hanno esordi tardivi e sono legate all’invecchiamento”.

Come superare i limiti

“Credo che per superare questo momento di impasse – continua Forloni – sia necessario identificare nuovi target terapeutici. Ma anche lavorare su numeri più ristretti e selezionati di pazienti. Nel contesto delle malattie neurodegenerative e in particolare dell’Alzheimer, che esiste sotto diverse eziologie, esistono anche diverse possibilità di intervento. Invece la sindrome viene messa tutta sotto un unico capello. Forse varrebbe la pena lavorare su gruppi più piccoli e meglio caratterizzati dal punto di vista clinico, che abbiano delle caratteristiche più omogenee. Invece di indagare su grande numeri come spesso si fa oggi. Io credo molto in questa idea ed è quello su cui stiamo puntando. Da un lato stiamo cercando di chiarire meglio la caratterizzazione fenotipica e genotipica dei pazienti, in modo da usare marker biologici più accurati. Dall’altra siamo alla ricerca di modelli sperimentali sempre più accurati”.

La proposta degli incentivi

Senza dubbio i tempi molto lunghi per lo sviluppo dei prodotti scoraggiano le aziende farmaceutiche a investire nel settore. Nonostante si tratti di un mercato molto ampio che, identificato un farmaco vincente ripagherebbe in larga misura gli investimenti. Perché allora non renderlo più attraente? È la proposta di alcuni ricercatori americani che su Neuron proposero di rivedere le politiche che regolano i rendimenti di mercato per i farmaci innovativi inserendo degli incentivi. Un po’ come è successo con l’Orphan Drug Act (Oda) per le malattie rare, il Best Pharmaceuticals for Children Act (Bpca) per i medicinali pediatrici e la Generating Antibiotic Incentives Now (Gain Act) per lo sviluppo di nuovi antibiotici.

Protezione brevettuale…

La prima richiesta riguardava la revisione dell’attuale sistema di protezione del mercato, con particolare riguardo per le terapie innovative a discapito delle “me too”. Garantendo loro così una durata del brevetto a partire da dopo l’approvazione della Fda, indipendentemente dal tempo trascorso in fase di sviluppo. “Per tutti i nuovi prodotti approvati in neurologia e psichiatria dalla Fda tra il 2003 e il 2012, il tempo medio di revisione è stato di 24,5 mesi” scrivono gli autori. “In confronto ai 17,7 mesi per i medicinali cardiovascolari, 12,5 mesi per quelli delle malattie infettive e immunologiche e 8,1 mesi per gli oncologici. Gli studi clinici per i prodotti approvati in questa area dalla Fda tra il 1996 e 2010 hanno richiesto in media 32 mesi in più rispetto le altre aree”. Tutto tempo sottratto al brevetto.

…e percorsi accelerati

Ma non solo, tra le altre richieste figuravano anche possibili incentivi e percorsi di approvazione accelerati. Punto quest’ultimo che non ha trovato per nulla d’accordo gli autori del secondo lavoro di Nature. I quali sottolineano come una soluzione simile, per molecole che spesso non riescono nemmeno a superare la fase III finirebbe solo per creare problemi aggiuntivi.

Serve più coraggio

“Dovremmo essere più coraggiosi – conclude Forloni – cercare di non percorrere le strade già battute da altri ed essere più originali. Certo non è semplice, e soprattutto non è facile convincere l’industria farmaceutica a investire in approcci innovativi e più rischiosi. Però credo che oggi, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze, sia necessario fare uno sforzo di creatività e sviluppare modelli migliori e approcci diversi. Aggiungere l’ennesimo “me too” è facile ma non porta a un avanzamento scientifico. Per superare un certo ostacolo dobbiamo provare ad alzare l’asticella”.

 

Torna su
Cardiochirurgia, al Gemelli debutta una nuova valvola biologica

Cardiochirurgia, al Gemelli debutta una nuova valvola biologica

Impiantata con procedura mininvasiva una nuova valvola biologica in pericardio bovino di Medtronic. L’intervento su una paziente settantenne affetta da stenosi valvolare aortica


La cardiochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma introduce per la prima volta in Italia una nuova valvola biologica all’avanguardia. È stato eseguito nella Capitale il primo impianto con procedura mininvasiva di Avalus, valvola in pericardio bovino sviluppata da Medtronic. L’intervento ha riguardato una paziente settantenne affetta da stenosi valvolare aortica, operata dal cardiochirurgo Massimo Massetti, direttore dell’Area cardiovascolare del Policlinico Gemelli e ordinario di Cardiochirurgia all’Università Cattolica.

L’intervento

“La paziente – racconta Massetti – è stata operata nella sala ibrida del Gemelli a dicembre con una degenza complessiva di quattro giorni dopo l’intervento e una riabilitazione di circa due settimane. L’intervento è perfettamente riuscito. L’impianto non è stato seguito da complicanze e la protesi ha dimostrato i vantaggi previsti con un miglioramento della funzione cardiaca e delle condizioni generali della paziente”.

Innovazione in cardiochirurgia

Le prime protesi biologiche risalgono agli anni ’70 e venivano prodotte con tessuti dello stesso paziente. In seguito, si è passati a quelle provenienti da tessuti di suino, fino alle valvole in pericardio bovino o equino. La nuova valvola impiantata per la prima volta al Gemelli è composta da foglietti valvolari in pericardio montati su un supporto semi flessibile che ne garantisce il funzionamento favorendone il posizionamento.

A sintetizzare alcuni vantaggi è lo stesso Massetti: “Un trattamento del materiale biologico, cioè del pericardio, che ne facilita la longevità, un profilo basso e un anello di sutura avanzato. Il tessuto artificiale dell’anello, inoltre, favorisce la cicatrizzazione rendendo la valvola ancor più compatibile con l’apparato circolatorio. Un impianto più semplice e più ‘biocompatibile’ rispetto al passato”.

Intervento mininvasivo

Grazie alla chirurgia valvolare mininvasiva ibrida applicata al Gemelli, la donna operata con successo ha oggi una cicatrice finale di appena tre centimetri. Un trauma chirurgico molto limitato, spiegano dal Policlinico, non paragonabile a quello della chirurgia tradizionale (circa 25 centimetri).

  •  
Torna su
Nasce Fondazione Roche: un ponte tra istituzioni e pazienti

Nasce Fondazione Roche: un ponte tra istituzioni e pazienti

Contribuire alla ricerca indipendente, dialogare in modo aperto e continuo con le istituzioni per individuare soluzioni innovative, sostenere le associazioni di pazienti e le realtà no profit del territorio. Ecco gli obiettivi della nuova iniziativa di Roche Italia


Creare un ponte tra istituzioni e pazienti, tra il privato e i cittadini. Questo lo scopo principale che ha portato alla nascita di Fondazione Roche. Una novità presentata oggi a Roma da Roche Italia, sulla scia delle celebrazioni per i 120 anni di presenza dell’azienda nel nostro Paese. A presiedere la neonata Fondazione è Mariapia Garavaglia, mentre il direttore generale è Fausto Massimino.

L’iniziativa

Il progetto punta a promuovere la ricerca indipendente, a favorire il dialogo con le istituzioni per individuare soluzioni innovative, a sostenere le associazioni di pazienti e le realtà no profit del territorio. Di fronte alle crescenti sfide per la sostenibilità del sistema sanitario, chiamato ad affrontare sempre maggiori difficoltà, la Fondazione Roche si pone come interlocutore e player innovativo e concreto.

Ripensare il Ssn

Il progetto nasce, non a caso, in occasione del quarantennale del Servizio sanitario nazionale (Ssn), che ricorre appunto nel 2018. “Il Ssn – sostiene Maurizio de Cicco, amministratore delegato di Roche Italia – ha affrontato un percorso molto lungo e penso sia giusto ripensare a temi come equità, lotta alle disuguaglianze e ricerca. Il ruolo dei pazienti in questi 40 anni è cambiato profondamente. Allora non si parlava ad esempio di farmaci per malattie rare o per tumori. Oggi, invece, siamo in grado di mettere a disposizione dei pazienti medicinali importanti. Fondamentale è soprattutto raccogliere quelle che sono le istanze degli stakeholder, delle istituzioni e dei pazienti stessi. Attraverso la Fondazione – continua de Cicco – rintracceremo le aspettative e affronteremo temi importanti per la salute dei cittadini”.

Un nuovo ruolo per il cittadino-paziente

Secondo la presidente di Fondazione Roche va rivisto anche il ruolo del cittadino-paziente all’interno del Ssn. “Troppo spesso – afferma Garavaglia – si abusa dello slogan ‘il cittadino al centro’. Non è corretto, il cittadino deve essere protagonista. Quando sa qual è il suo diritto, quando conosce qual è la complessità e la preziosità del sistema sanitario, diventa lui stesso una specie di avvocato, perché vuole mantenerlo. Così si impara ad apprezzare il Ssn. Non consumarlo, ma ad utilizzarlo. A me starà molto a cuore, attraverso la Fondazione, far passare una cultura di questo genere. Il sistema sanitario è prezioso, va salvaguardato. Dunque ‘no’ al consumismo sanitario, sì a un accesso equo che mantenga l’universalismo”.

Aree di intervento

Fondazione Roche ha individuato quattro aree di intervento: “ricerca”, “persona”, “istituzioni” e “comunità”.  La Fondazione si impegnerà nella promozione della formazione in campo scientifico degli enti di ricerca indipendenti e no profit. Agirà, inoltre, come leva dell’innovazione sociale, per rispondere ai bisogni delle persone e per ridurre le aree di disagio. “Roche – continua de Cicco –   è la prima azienda in termini di biotecnologie e di investimenti in ricerca.  In Italia investiamo circa 40 milioni all’anno in studi clinici. È attraverso la ricerca che siamo in grado di offrire nuove soluzioni terapeutiche. A differenza di altre aziende – precisa l’ad di Roche Italia – noi continueremo ad investire nella ricerca per l’Alzheimer. Nella sola Lombardia abbiamo circa 18 centri che studiano due farmaci per questa patologia e circa 50 in tutta Italia. La ricerca, spesso, è lunga e dispendiosa, può non portare i risultati che speravi. Ma bisogna essere coraggiosi”.

I progetti

“I progetti in cui ci impegneremo – spiega Francesco Frattini, segretario della Fondazione Roche – hanno una duplice natura. Esistono progetti che sono stati già iniziati dai soci fondatori, di cui Fondazione Roche si farà carico e condurrà sotto la propria egida, e ci sono altri progetti che verranno concepiti e condotti dalla Fondazione, sempre in partnership con i soci fondatori. In merito alle attività a sostegno delle ricerche indipendenti, la Fondazione continuerà con la terza edizione del premio ‘Roche per la Ricerca’ che verrà lanciato in marzo. Un altro progetto – prosegue Frattini – su cui Fondazione Roche si impegnerà, adottandolo dai soci fondatori, è il progetto ‘Persone, non solo pazienti’. Un’iniziativa che ha permesso a 19 associazioni di pazienti di lavorare insieme per elaborare una Carta che possa metterle nella condizione di accreditarsi presso le istituzioni per svolgere un ruolo di advocacy”.

Come esempi, invece, di progetti inediti, Frattini fa riferimento soprattutto ad “attività nel campo della corporate social responsability”. Nelle prossime settimane, infatti, verrà lanciata un’iniziativa in un’area particolare del territorio italiano: la cosiddetta “Terra dei fuochi”, in Campania. “Lavoreremo creando sinergie sul territorio, con gli oncologi e con le aziende che hanno lottato contro la camorra”, spiega Frattini. Il progetto s’intitolerà “Terra amata”.

 

Torna su
Out of pocket, +22% in dieci anni. Ma cresce l’insoddisfazione dei caregiver per l’accesso alle cure

Out of pocket, +22% in dieci anni. Ma cresce l’insoddisfazione dei caregiver per l’accesso alle cure

A riferirlo è il 15° rapporto "Ospedali & Salute 2017" dell'Aiop (Associazione italiana ospedalità privata). In dieci anni +22,4%. Il totale della spesa pubblica, invece, è aumentata del 14,2%, mentre la spesa per consumi totali delle stesse famiglie sono salite di 11 punti percentuali


Cresce la spesa out of pocket degli italiani. In dieci +22,4%. Il totale della spesa pubblica, invece, è aumentata del 14,2%, mentre è la spesa per consumi totali delle stesse famiglie sono salite di 11 punti percentuali. A riferirlo è il 15° rapporto “Ospedali & Salute 2017” dell’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata), presentato il 17 gennaio in Senato.

Il dilemma dei caregiver

Negli ultimi tre anni c’è stata un’impennata. Meno risorse per il servizio pubblico e maggiore utilizzo di proventi privati sono alla base di questa ascesa in termini numerici. “Anni di tagli al Ssn – afferma l’Aiop – mettono a rischio, nei fatti, l’universalità nell’accesso alle prestazioni. La nuova legislatura si apre con l’esigenza di un profondo ripensamento sulla sanità”. Per questo, Aiop propone un ‘patto per un Neo-Welfare’. “Nell’incertezza del futuro, la presenza in Italia di una grande rete di erogatori ospedalieri di diritto privato rappresenta un vantaggio rilevante per il Ssn. Questa flessibilità, conseguenza del pluralismo degli erogatori che si è affermata nel nostro Servizio sanitario nazionale – conclude Gabriele Pelissero, presidente nazionale Aiop – rappresenta un valore per tutto il Paese”.

Insoddisfazione crescente

Al centro del problema ci sono i caregiver. quasi 20 milioni di famiglie, con una spesa totale dichiarata di 13 miliardi di euro, di cui 9,9 per spese sanitarie e 3,1 per spese assistenziali.
Ma cresce l’insoddisfazione per le condizioni di accesso e utilizzo delle strutture sanitarie. Passa dal 21,3% del 2015 al 32,2% del 2017. Al sud si arriva al picco del 50,6%. Nell’ultimo triennio si passa dal 27,2% al 32,9% di pazienti insoddisfatti rispetto alle informazioni sulla scelta dell’ospedale ricevute dal proprio medico.

Le liste d’attesa infinite e la rinuncia alle cure

Altro dato è relativo alle lunghe attese. Dal 24,2% degli intervistati del 2014 si passa al 54,1% del 2017 che ha dovuto attendere troppo per una prestazione ospedaliera. Inoltre, nel 2017 il 26,8% degli intervistati sostiene di aver rimandato e/o rinunciato alle cure. Ma il 20% di essi aveva già rimandato o rinunciato nel 2016, mentre il 16,5% lo aveva fatto anche nel 2015. Negli ultimi tre anni il 41% dei caregiver intervistati si è orientato verso una struttura ospedaliera privata accreditata, mentre il 20% si è rivolto a una clinica privata a pagamento. Aumenta anche, rileva il Rapporto, la spesa sanitaria e assistenziale ‘out of pocket’, di tasca propria, in crescita negli ultimi 10 anni del 22,4%, mentre nello stesso periodo la spesa sanitaria pubblica è lievitata solo del 14,2%.

 

Torna su
Ricetta digitale: la diffusione sfiora l’85%, Campania al top

Ricetta digitale: la diffusione sfiora l’85%, Campania al top

Le prescrizioni elettroniche sono l’83,99% secondo i dati di Promofarma aggiornati a novembre scorso. Ampie differenze a livello regionale, ma con alcune sorprese. La Provincia autonoma di Bolzano ultima in classifica


La ricetta digitale è sempre più diffusa. Secondo i dati di Promofarma, pubblicati sul sito di Federfarma e aggiornati a novembre 2017, le prescrizioni elettroniche rappresentano in Italia l’83,99% del totale. Da gennaio a novembre dell’anno scorso il ricorso alla ricetta online è cresciuto del 4,5 per cento.

La ricetta digitale nelle Regioni

I dati di Promofarma restituiscono una mappa della diffusione della ricetta digitale, fotografando le differenze regionali e ribaltando alcuni luoghi comuni: fra le prime dieci Regioni più virtuose, la metà sono del Centro-Sud.

In testa c’è la Campania, con un tasso di copertura del 93,83%. Sul podio, in ordine, il Molise (91,11%) e la Provincia autonoma di Trento (90,99%). Seguono le altre: Sicilia (90,50%), Veneto (90,22%), Valle d’Aosta (89,74%), Piemonte (89,45%), Basilicata (88,56%), Liguria (86,44%), Lazio (85,50%), Calabria (84,85%), Umbria (84,18%), Emilia Romagna (82,54%), Lombardia (81,76%), Marche (80,60%), Puglia (77,31%), Sardegna (75,26%), Abruzzo (75,06%), Friuli Venezia Giulia (73,99%) e Toscana (69,81%). In coda la Provincia autonoma di Bolzano (64,62%).

 

Torna su
Effetto placebo e nocebo: una doppia sfida per la ricerca clinica

Effetto placebo e nocebo: una doppia sfida per la ricerca clinica

Studi scientifici dimostrano che la sintomatologia associata a un trattamento può aumentare a causa delle aspettative negative dal paziente. Le nuove conoscenze potrebbero essere sfruttate per evitare possibili danni a trial e soggetti coinvolti. (Dal numero 154 di AboutPharma)


Scarica il pdf dell’articolo

“Io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farma­co, c’era una formula magica: se veniva cantata mentre si fa­ceva uso del farmaco, il farma­co faceva guarire completamente. Senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità” (Parmenide, 155e. Dia­loghi di Platone). In una chiave moder­na le parole di Platone potrebbero essere usate per raccontare l’effetto placebo. Per cui se anche il medicinale somministrato è privo di effetto terapeutico, il processo che vi è dietro la sua assunzione non lo è e fa diventare efficace anche una sostanza o un trattamento inerte.  Da tempo ormai gli scienziati stanno pro­vando a capire come funziona l’effetto placebo e il corrispettivo effetto nocebo, che a differenza del primo porta a svilup­pare gli effetti collaterali di un prodotto o un trattamento anche in presenza di un placebo.

Cosa influenza gli effetti dei farmaci?

Oggi si sa che entrambi sono influenzati dalla comunicazione tra me­dico e paziente e dalle aspettative che quest’ultimo si crea. Nel bene e nel male. Dal contesto che circonda il soggetto e da altre caratteristiche del prodotto, come packaging e prezzo. Aspetti che possono inficiare i risultati di un trial clinico, per esempio, ma anche, come nel caso dell’ef­fetto nocebo, portare i pazienti a interrompere il trattamento con conseguenze cliniche importanti. Comprenderne il funzionamento può evidentemente servi­re a controllare tali effetti (il placebo soprattutto) a favore dei pazienti stessi. Per esempio per contrastare l’abuso da oppioidi che da tempo affligge gli Stati Uniti.

Effetto placebo e nocebo

Oggi il concetto di placebo è esteso non solo a pillole senza effetto farmacologico ma anche a iniezioni e interventi “fasulli” (Sham surgery) utili nei trial clinici come controllo. Nel caso del dolore – disturbo tra i più studiati per via della facilità nel costruire il modello – gli studi condotti finora hanno dimostrato che l’effetto placebo attiva una serie di risposte biochimi­che, come la produzione di endorfine e dopamina, che sembrano filtrare i segnali nocicettivi.

A livello periferico lo stimolo lesivo viene percepito da particolari recet­tori detti nocicettori. Ossia terminazioni ner­vose periferiche che a loro volta inviano il “messaggio” dolorifico al midollo spinale e infine al cervello. Qui vengono elabora­ti facendoci percepire dolore. In presenza di aspettative positive i segnali sono filtra­ti e arrivano al cervello in minor misura producendo un dolore meno intenso. Anche se la sostanza è inerte. Vicever­sa, di recente è stato dimostrato anche il contrario. Nel caso dell’effetto nocebo le aspettative negative possono far passare una maggior quantità di segnali e aumentare l’intensità del dolore. “Effetto no­cebo e placebo funzionano attivando un complesso intreccio di circuiti neurali nel sistema nervoso centrale che modulano la percezione del tatto, la pressione, il dolore e la temperatura” spiega Luana Colloca, ricercatrice italiana che da otto anni si trova negli Stati Uniti dove è diventata professore associato al Department of pain and translational symptom science della Maryland university.

Se il farmaco più caro fa più male

Uno studio pubblicato lo scorso ottobre su Science (Interactions between brain and spinal cord mediate value effects in nocebo hyperalgesia) ha conferma­to l’idea che gli effetti collaterali di un trattamento inerte possono aumentare in presenza di aspettative negative. I 49 partecipanti al trial hanno ricevuto due creme placebo presentate in modo diffe­rente. Una è stata descritta come molto costosa, con un packaging accattivante; l’altra come soluzione più economica dentro una confezione più semplice. Entrambe le creme sono state presenta­te come prodotti per la dermatite ma in grado di indurre una maggior sensibilità al dolore locale (iperalgesia). Ne è emerso che le persone che hanno provato il medi­cinale più costoso – e nel loro immagina­rio più potente – hanno segnalato effetti collaterali più gravi rispetto gli altri, e an­che più duraturi nel tempo. Non si tratta però di semplice immaginazione: chi ha riportato maggiore dolore lo ha davve­ro percepito come tale.

L’effetto nocebo infatti, come il placebo, riesce davvero a influenzare i meccanismi biochimici. Per dimostrarlo i ricercatori hanno utilizza­to l’imaging cerebrale tramite risonanza magnetica funzionale, che gli ha per­messo di monitorare i circuiti coinvolti nell’iperalgesia attivata da nocebo. In questo modo gli scienziati hanno trovato un’attivazione maggiore di alcune por­zioni di midollo spinale nel gruppo di pazienti trattati con la crema “più costo­sa”. Inoltre hanno scoperto che l’effetto nocebo era dovuto all’attivazione di due regioni cerebrali che elaboravano diversamente le informazioni sul prezzo del prodotto.

La modulazione del midollo spinale

“Quando diamo ai pazienti una crema che costa più di un farmaco generico, ab­biamo un maggiore effetto placebo. Ma questo già lo sapevamo” afferma Colloca, che da sempre si occupa dell’effetto pla­cebo, ed è anche autrice di un articolo su Science (Nocebo effect can make you feel pain) a commento del paper scientifico già citato. “Quello che abbiamo scoperto con il nuovo studio è che anche l’effetto nocebo risente del prezzo del prodotto. Se quest’ultimo aumenta saranno maggiori an­che gli effetti collaterali. Per trovare una spiegazione scientifica è stata studiata l’iperalgesia con la risonanza magnetica, da cui è emerso che l’aumento del do­lore era davvero maggiore con la crema più cara.

Lo studio inoltre per la prima volta ha preso in esame anche il midollo spinale. Funziona infatti come una sorta di filtro in grado di regolare i segnali diret­ti al cervello. Se ci aspettiamo più effetti collaterali lasceremo passare più impulsi dolorosi periferici verso il cervello. È un meccanismo di modulazione che parte dalle aree frontali dove noi creiamo le nostre aspettative, le nostre credenze, le anticipazioni. Ora abbiamo scoperto che si crea un circuito tra due aree cerebrali importanti. La corteccia cingolata ante­riore e la sostanza grigia periacquedutta­le e il midollo spinale. In particolare la corteccia cingolata anteriore ha mostrato una disattivazione che a sua volta ha fa­vorito l’attivazione della sostanza grigia periacqueduttale e del midollo spinale che hanno portato a un incremento degli input nocicettivi. È una scoperta impor­tante. Perché per la prima volta dimostra che il midollo spinale agisce in entrambi i modi. Può aumentare l’analgesia da pla­cebo, e quindi bloccare gli stimoli doloro­si che arrivano dai recettori periferici, ma anche fare l’opposto”.

L’importanza delle parole (e del packaging)

Tutto dipende dal contesto in cui il far­maco viene dato e dalla presentazione dello stesso, che ne influenzano notevol­mente gli effetti. Se da una parte bisogna prestare attenzione al packaging di un prodotto a seconda di quello che si vuo­le provocare in chi utilizza il prodotto, dall’altra è importante la comunicazio­ne tra operatore sanitario e paziente. Un ambiente confortevole e l’empatia del personale sanitario aumentano le aspet­tative positive. Il che dovrebbe favorire l’effetto placebo. E qualcuno ne sarebbe anche contrario, se si pensa che un effetto placebo troppo marcato potrebbe sminu­ire i risultati di un nuovo farmaco di cui si sta testando l’efficacia. Al contrario, però, aspettative negative troppo marcate possono portare all’interruzione del trat­tamento per via degli effetti collaterali.

Il caso statine

Uno studio pubblicato su Lancet lo scor­so giugno ha dimostrato infatti che gli effetti collaterali associati a sintomi muscolari si verificavano in maggior mi­sura nei pazienti che sapevano di pren­dere l’atorvastatina rispetto a chi l’assu­meva senza esserne a conoscenza. Anche in questo caso, come spiega Ajay Gupta, del National heart and lung institute all’Imperial college di Londra, autore principale dello studio “i sintomi negati­vi non sono pura invenzione: le persone possono provare un dolore reale a causa dell’effetto nocebo e dell’aspettativa che i farmaci causino dei danni”.

Il “potere” dell’aspettativa inficia i trial clinici

Non è tanto il farmaco in sé dunque a causare dolore e debolezza muscolare quanto l’aspettativa degli stessi. Il proble­ma però, come sottolinea Colloca, è che l’effetto nocebo può avere ripercussioni importanti sulla storia clinica dei pazien­ti. “Lo studio ancora una volta, suggerisce che le aspettative, create da quello che il paziente sa o gli viene detto sul prodotto, possono addirittura inficiare i dati di un trial clinico. Ma soprattutto, in alcuni casi, possono portare alla sospensione del trattamento. Nel caso del trial sulle stati­ne per esempio sono stati registrati un au­mento di ictus e infarto tra i soggetti che hanno interrotto l’assunzione del farma­co a causa degli effetti collaterali. Eventi che potevano essere evitati se non ci fosse stato un importante effetto nocebo”.

Conoscere per controllare

Che cosa fare allora? Sicuramente è im­portante continuare a studiare l’effetto placebo/nocebo per comprendere i mecca­nismi fisiologici che lo regolano e delineare strategie per ridurne la portata. Ma anche per capire come medici e aziende farma­ceutiche dovrebbero presentare il prodot­to al pubblico. Secondo Colloca l’ideale sarebbe “calibrare quello che viene detto al paziente e raffinare la comunicazione me­dico-paziente per bilanciare le informazio­ni sugli effetti collaterali e le aspettative di miglioramento. Dobbiamo chiedergli cosa si aspetta e presentargli il prodotto e gli aspetti collaterali come il prezzo in manie­ra adeguata. Per esempio se gli è prescritto un farmaco costoso, dovrebbe essere infor­mato del fatto che non per forza produrrà più effetti collaterali. Alcune aziende far­maceutiche ci hanno contatto per chie­derci consigli sul marketing, sulle caratte­ristiche della formulazione, il packaging e così via. Ma anche e soprattutto per creare video che spieghino cosa sono gli effetti placebo e nocebo, da mostrare ai sogget­ti arruolati in un trial clinico. Le aziende hanno interesse a educare pazienti e clinici sul tema. L’idea è che se i pazienti sono più consapevoli probabilmente possiamo con­trollare meglio questi fattori”.

La potenza dell’effetto nocebo

L’effetto nocebo inoltre potrebbe anche essere più forte del placebo. Per natura infatti siamo portati a ricordare maggior­mente gli eventi negativi rispetto a quelli positivi per difenderci da essi. Per cui se compriamo e usiamo un farmaco da ban­co le probabilità che la sua assunzione sia influenzata dall’effetto nocebo è limitata perché raramente leggiamo il foglietto il­lustrativo. Diverso è il caso dei trial clinici dove il paziente necessariamente deve es­sere informato sugli effetti collaterali del trattamento a cui sarà sottoposto. Qui è più facile che si verifichi l’effetto nocebo.

Non solo dolore

La maggior parte degli studi a proposito dell’effetto placebo e nocebo (anche se in misura limitata per motivi etici) vengono condotti sullo studio del dolore (come già ricordato): perché è più facile creare un modello rispetto ad altri tipi di malattia ed è anche più semplice controllare cosa suc­cede quando diamo uno stimolo doloroso grazie alla risonanza magnetica. Ma non è l’unico ambito influenzato dall’effetto pla­cebo/nocebo. “Evidenze scientifiche mo­strano che le aspettative influenzano una varietà di sintomi molto ampia”, aggiunge Colloca. “Dal dolore alla nausea associata ai chemioterapici, fino all’ansia, ai disturbi cardiaci, alla disfunzione erettile e altri an­cora. Per esempio informare i pazienti che un trattamento è stato interrotto, rispetto a un’interruzione nascosta, altera la rispo­sta alla morfina, al diazepam e alla stimo­lazione cerebrale profonda rispettivamente nel dolore acuto postoperatorio, nell’ansia o nel morbo di Parkinson idiopatico. I pazienti informati della sospensione mo­strano un improvviso aumento del dolore, dell’ansia o della bradicinesia (manifesta­zione della malattia di Parkinson) rispetto agli altri che lo ignorano”.

La sperimentazione con finasteride

Nel 2007 in Italia fu condotto uno studio su 120 pazienti con ipertrofia prostatica, a cui venne somministrata la finasteride. Metà dei soggetti fu infor­mata sui possibili effetti collaterali che il farmaco provoca sulla disfunzione erettile, mentre l’altra metà ne fu tenuta all’oscuro. Sei mesi dopo il 44% dei pazienti del primo gruppo (quello informato) aveva riportato disfunzioni erettili, contro solo il 15% del secondo gruppo, nonostante il trattamento fosse lo stesso per entrambi.

I test sul monte Cervino

Fabrizio Be­nedetti, neurofisiologo dell’università di Torino e autore di diversi studi sull’effet­to placebo, al momento lavora sul Monte Cervino a 3500 metri di altezza per capire fino a che punto l’effetto placebo può in­fluenzare le funzioni vitali dell’organismo. A quell’altezza la presenza di ossigeno è più rarefatta (65% in meno rispetto il livel­lo del mare), il che comporta uno stato di ipossia. Gli esperimenti condotti da Bene­detti e colleghi sul Monte Cervino hanno però mostrato come anche una bombola contenente ossigeno “finto” sia in grado di produrre gli stessi effetti dell’ossigeno, se i soggetti in esame pensano di respirarlo. Lo stesso esperimento condotto a 5500 metri di altitudine ha dato lo stesso risultato. An­che se in misura minore.

L’effetto positivo del placebo (ma non per tutti)

E se Benedetti probabilmente si spingerà ancora più in alto per capire fino a che punto l’effetto placebo può alterare le no­stre funzioni vitali, Colloca nel Maryland cercherà di usare i meccanismi di modu­lazione del dolore per ridurre l’utilizzo di oppioidi. “Ho ricevuto fondi per lavorare su questo ambito perché negli Usa gli op­pioidi vengono prescritti in maniera sconsi­derata. Contemporaneamente però lavore­remo anche con la risonanza magnetica in genetica per capire quali pazienti sono più vulnerabili all’effetto placebo e quali inve­ce sono “protetti”. Quello che cerchiamo di fare è una sorta di identikit per individua­re i soggetti che possono sfruttare l’effetto del placebo. Su alcune persone i sistemi di modulazione indotti dall’effetto placebo funzionano in maniera ottimale. Questo li porta ad avere meno bisogno delle terapie farmacologiche e a rispondere meglio an­che a terapie non farmacologiche”.

 

 

 

Torna su
Vendere farmaci online: le istruzioni punto per punto

Vendere farmaci online: le istruzioni punto per punto

Farmacie comprese, sono poco più di seicento le imprese autorizzate a distribuire sul web Sop, Otc, integratori, cosmetici e device. Il fatturato totale si aggira sui 150 milioni all’anno ma è destinato a crescere. Ecco come avviare un ecommerce di medicinali su internet (dal numero 154 di AboutPharma)


Un fatturato di 150 milioni di euro l’anno: è questo il business generato dai 612 enti (tra farmacie ed esercizi commerciali) autorizzati dal ministero della Salute a vendere farmaci online. Un mercato, quello dell’ecommerce dei prodotti farmaceutici, destinato a crescere almeno per due motivi. Da un lato la capacità sempre più diffusa di utilizzare il web come canale di acquisto (più del 50% delle famiglie italiane ha almeno un componente capace di comprare online). Dall’altro l’invecchiamento della popolazione e la maggiore aspettativa di vita che portano ad aumentare l’attenzione verso tutti i servizi relativi alla salute. Così, dopo moda, food e gadget hi tech, nel carrello virtuale della spesa degli italiani finiscono i farmaci.

Vendere farmaci online: le normative

Il vendere farmaci online è regolato dall’articolo 112-quater del decreto legislativo n. 219 del 24 aprile 2006 e dalle circolari emanate dal ministero della Salute a gennaio e maggio del 2016, che disciplinano la procedura di richiesta di autorizzazione e le modalità di vendita su internet. Nelle norme è specificata innanzitutto la tipologia di medicinali ammessi alla vendita online. In Italia è possibile l’ecommerce per i farmaci senza obbligo di prescrizione (Sop) e i farmaci da banco (Otc), presenti in un apposito elenco disponibile sul sito dell’Aifa. È vietata invece la vendita sul web dei farmaci che necessitano di ricetta medica, per i quali è possibile l’acquisto solo in farmacie fisiche.

Si possono inoltre acquistare su internet prodotti parafarmaceutici e omeopatici, salvo che il produttore abbia precisato che il medicinale può essere venduto solo dietro presentazione di ricetta medica. In tal caso può essere acquistato solo nei punti vendita fisici. L’ecommerce è vietato anche per i prodotti officinali. Pur non essendo obbligatoria la ricetta medica, gli articoli del decreto 219 che regolano l’attività del vendere farmaci online senza ricetta si riferiscono ai soli medicinali preparati industrialmente. La vendita di medicinali e prodotti farmaceutici mediante i servizi di ecommerce è consentita solo a farmacie, parafarmacie ed esercizi commerciali che hanno già ottenuto la licenza e l’autorizzazione da parte del ministero della Salute alla vendita sul territorio mediante i canali offline. È vietata invece la vendita di farmaci sul web ai distributori all’ingrosso di medicinali.

Il mercato della vendita di farmaci online

Secondo l’elenco del ministero della Salute, nel nostro Paese si contano 518 farmacie e 94 esercizi commerciali autorizzati a vendere farmaci online. In testa il Piemonte con 82 farmacie e 15 esercizi commerciali. Seguono la Lombardia con 80 farmacie e 7 esercizi commerciali e la Campania con 68 farmacie e 9 esercizi commerciali. “Se paragonato al commercio elettronico di settori già consolidati, come quello della moda il cui fatturato si aggira attorno ai 2 miliardi di euro annui, i 150 milioni derivanti dalla vendita di medicinali online possono sembrare un business ancora agli albori”, dice Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il consorzio che raggruppa le imprese del commercio elettronico.

È però uno dei settori che sta suscitando grande interesse e per cui “si prevede una crescita annua del 25-30%. Nonostante oggi solo una decina tra le farmacie autorizzate raggiunga un fatturato di almeno 10 milioni di euro l’anno solo con il vendere farmaci online. Per le altre, invece, il fatturato non raggiunge il milione”, continua Liscia. Del resto, il giro d’affari delle farmacie online rappresenta ancora solo il 4% del mercato totale. A trainare le vendite sono soprattutto gli integratori (35%), seguiti da Sop e Otc (25%), cosmetici (20-25%), omeopatici (10%), dispositivi medici (6%).

Chi acquista medicinali online

Per quanto riguarda il profilo dell’utente medio, “negli ultimi due anni – continua il presidente di Netcomm – è cambiato notevolmente. Prima il web era il canale di acquisto utilizzato soprattutto da giovani tra 25 e 45 anni, con istruzione medio-alta e buona conoscenza dei dispositivi tecnologici. Oggi la diffusione dello smartphone ha permesso l’inclusione di cinquantenni e sessantenni tra gli utenti che sempre di più decidono di acquistare i farmaci online”. Il trend ha preso piede da una parte nelle grandi aree metropolitane, dove l’ecommerce è diventato un fattore culturale ed è entrato tra le abitudini del cittadino medio. Dall’altra, nei piccoli centri dove il commercio online ha risolto problemi relativi alla distribuzione. Chi non ha una farmacia sotto casa e chi non trova il prodotto desiderato nel punto vendita più vicino sceglie la via del web.

L’iter per vendere farmaci online

Il titolare della farmacia o dell’esercizio commerciale interessato ad avviare un’attività di commercio elettronico deve inviare una richiesta di autorizzazione all’autorità regionale competente. Una volta ottenuta, bisogna inviare al ministero della Salute la domanda di concessione del logo identificativo nazionale da esporre sul portale web, e di iscrizione della farmacia e del sito internet nel portale del ministero, dove è rintracciabile l’elenco dei siti autorizzati alla vendita online. Entro trenta giorni dalla richiesta, il ministero assegna al punto vendita richiedente il logo e il corrispondente collegamento ipertestuale che rimanda alla pagina del portale del ministero dove è stata inserita la farmacia con il sito autorizzato alla vendita online di farmaci senza ricetta.

L’importanza del logo

Il logo è un elemento fondamentale per la vendita online dei farmaci perché rappresenta uno strumento di tutela per il consumatore, che in ogni fase della procedura di acquisto può verificare se il venditore è un soggetto autorizzato o meno dal ministero della Salute. Nonché un mezzo di contrasto alla contraffazione dei farmaci e alla vendita illegale. “Aspetti di importanza fondamentale quando si parla di commercio elettronico dei farmaci”, afferma Annarosa Racca, presidente di Federfarma Lombardia.

L’altra faccia della medaglia: le farmacie web illegali

La conferma arriva dai numeri: nel 2016 sono state bloccate oltre 20 mila farmacie sul web perché illegali; già 6 mila quelle chiuse nei primi mesi del 2017. “Quando in Italia abbiamo pensato alla possibilità di introdurre le farmacie online, ci siamo confrontati con il Governo perché fossero rispettate due condizioni. Innanzitutto la gestione dei portali da parte di professionisti che avessero già una farmacia. Navigando in rete si finisce spesso in siti che vendono prodotti non sicuri per la salute, che hanno principi attivi diversi rispetto alla corretta formulazione o che non sono stati conservati nel modo corretto. Vedendo il logo sul portale, i consumatori possono essere sicuri che dietro quella vetrina online c’è davvero una farmacia gestita da esperti del settore”, spiega Racca.

In secondo luogo, Federfarma ha approvato il divieto della vendita online per i medicinali con ricetta medica. “È una scelta scaturita osservando alcuni comportamenti non corretti degli acquirenti. Spesso la gente cerca di acquistare i farmaci che non sono prescritti dal medico, né venduti dal farmacista. Come prodotti per la disfunzione erettile, medicinali per dimagrire o per gonfiare i muscoli. La distinzione tra farmaci con ricetta e farmaci senza è stata necessaria per salvaguardare la salute degli utenti”, continua il presidente di Federfarma Lombardia. Che puntualizza: “In questo modo abbiamo accolto nel nostro Paese una tendenza che non era possibile evitare. Cioè, l’utilizzo di internet nell’acquisto di prodotti, ma cercando di tutelare salute e sicurezza”.

Le regole per vendere farmaci online

Secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento, l’ecommerce dei farmaci ha regole che devono essere rispettate dal titolare della farmacia o del servizio commerciale che decide di avviare un’attività online. Regole che riguardano innanzitutto la struttura della vetrina virtuale. Il sito web va impostato distinguendo le pagine dedicate alla vendita di farmaci Sop e Otc – sulle quali deve comparire il logo identificativo nazionale – da quelle dedicate agli altri prodotti in commercio. Ovvero, parafarmaci, cosmetici, integratori alimentari e dispositivi medici, su cui non deve essere apposto il logo fornito dal ministero della Salute. Le diverse tipologie di prodotti, dunque, non possono essere messe in vendita sulla stessa pagina web. Nelle sezioni dedicate alla vendita di medicinali senza ricetta possono essere presenti fotografie o rappresentazioni grafiche dell’imballaggio esterno o del confezionamento primario del prodotto. Ma non è possibile lanciare alcun messaggio pubblicitario relativo allo stesso e al suo utilizzo.

Le norme sui prezzi

Un’altra regola per la vendita online riguarda il prezzo. Quello proposto per i farmaci senza ricetta deve essere obbligatoriamente lo stesso di quello praticato all’interno della farmacia. Un obbligo, questo, che non riguarda invece la vendita di tutti gli altri prodotti del settore. Pertanto, il prezzo online di un cosmetico o di un medical device, può differire da quello praticato in farmacia. È obbligatorio, poi, vendere online solo i medicinali già acquistati dalla stessa farmacia. In pratica, il farmacista può vendere in rete solo i medicinali senza ricetta di cui è già in possesso. Di conseguenza, nel caso in cui fosse sprovvisto di un prodotto richiesto online dal cliente, deve, prima di spedirlo, entrarne materialmente in possesso poiché, secondo quanto previsto dalla normativa, non può delegare il grossista a recapitarlo direttamente al cliente. Questa condizione riguarda anche le farmacie che detengono la licenza a operare in qualità di distributore intermedio.

Vietata la vendita tramite app e marketplace

Non è consentita la vendita mediante app per mobile. E sono vietati marketplace, siti web intermediari e piattaforme che dal prodotto scelto dall’utente possono risalire a un venditore selezionato dal sistema. Questi strumenti, infatti, pur essendo funzionali alla gestione online dei processi di acquisto, si pongono in contrasto con il principio che ammette le vendite online unicamente attraverso i siti dei soggetti autorizzati che devono coincidere con quelli presenti nell’elenco gestito dal ministero della Salute.

Cosa stabilisce la legge riguardo al trasporto

Un’ultima regola riguarda il trasporto dei medicinali venduti online. Questo deve essere effettuato secondo le linee guida contenute del decreto del ministero della Salute del 6 luglio 1999. Vanno trasportati in modo che non contaminino o siano contaminati da altri prodotti. E non devono essere sottoposti a calore diretto, freddo, luce, umidità o ad altre condizioni sfavorevoli che possano deteriorare il prodotto. I mezzi impiegati per il trasporto dei medicinali, inoltre, devono essere dotati, nel vano di trasporto, di impianti idonei a garantire una temperatura alla quale le caratteristiche del prodotto non vengano alterate.

 

Torna su
Un “puff” di nanoparticelle per riparare il cuore

Un “puff” di nanoparticelle per riparare il cuore

Uno studio italiano pubblicato su Science Translational Medicine, ha testato in modelli animali uno spray in grado di erogare nanoparticelle che possono arrivare al cuore e veicolare un farmaco utile per il deterioramento del cuore dopo l’infarto


Uno spray per trattare l’insufficienza cardiaca. Tutto italiano. Arriva dall’Humanitas di Milano, l’Università degli studi di Parma, Cnr e altri centri di ricerca una sperimentazione su nuova formulazione inalante che sfrutta le nanoparticelle per riparare il cuore. Le nanoparticelle inalate sono abbastanza piccole per essere assorbite dai polmoni e passare poi nel flusso sanguigno. Da qui il principio attivo arriva dritto al cuore dove i vettori dovrebbero rilasciare il farmaco utile per il deterioramento del cuore dopo l’infarto. Lo spray ha dato risultati molto positivi nei test preclinici sui topi e il lavoro è stato pubblicato su Science Translational Medicine.

L’importanza delle nanoparticelle per riparare il cuore

“Le nanoparticelle possono essere utili per l’imaging e il rilascio di farmaci, ma generalmente richiedono l’iniezione endovenosa per raggiungere i loro obiettivi” riporta Science. “Michele Miragoli (primo autore dello studio ndr) ha sviluppato nanoparticelle in grado di trasportare peptidi nel cuore mediante inalazione piuttosto che iniezione. Inoltre le particelle inalate hanno raggiunto il cuore più velocemente delle particelle iniettate e sono state assorbite dai cardiomiociti per migliorare la funzione cardiaca in un modello murino di cardiomiopatia diabetica. Nei suini sani sono state rilevate particelle inalate nel tessuto cardiaco, suggerendo che questo metodo minimamente invasivo di consegna mirata al cuore potrebbe potenzialmente essere traslata anche sugli esseri umani”.

La sperimentazione

Per testare il farmaco, i ricercatori hanno utilizzato topi diabetici affetti da insufficienza cardiaca come naturale proseguimento di una cardiomiopatia diabetica. La salute del cuore è stata misurata esaminando la proporzione di sangue espulso dal ventricolo sinistro ad ogni battito cardiaco. Rispetto ai topi sani, questa misura era inferiore di 17 punti percentuali nei topi feriti. Quando dieci dei topi in sperimentazione hanno ricevuto lo spray per nanoparticelle, questa misura è aumentata in media di 15 punti percentuali. “Hanno recuperato quasi completamente – ha affermato Michele Miragoli dell’Università di Parma in Italia, come riporta New scientist. Mentre i trattamenti di controllo non hanno avuto lo stesso effetto.

Il razionale

Le nanoparticelle sono costituite da fosfato di calcio. Mentre il farmaco trasportato è un peptide progettato per riparare i canali del calcio sulla superficie delle cellule cardiache, responsabili del normale battito cardiaco. Il razionale del lavoro si basa sul fatto che i farmaci in questione sono altamente selettivi ed efficaci per il trattamento di malattie cardiovascolari e di altro tipo. Tuttavia l’unica procedura  per somministrare la terapia mirata al cuore è di tipo invasivo. Il che apre delle sfide scientifiche e tecnologiche.

 

Torna su
Un elettrostimolatore per curare l’emicrania

Un elettrostimolatore per curare l’emicrania

Approvato negli Stati uniti un elettrostimolatore per ridurre il dolore da emicrania attraverso la stimolazione del nervo vago. Prodotto dalla statunitense electroCore e testato in Italia presso la Fondazione Mondino di Pavia


L’elettroceutica inizia a diventare una soluzione terapeutica reale. Aboutpharma l’ha ricordato con un articolo sull’ultimo numero di febbraio e la Food and drug administration con l’approvazione giunta oggi di gammaCore. Un nuovo elettrostimolatore, prodotto dalla statunitense electroCore, che negli Stati Uniti potrà essere utilizzato da chi soffre di emicrania. Il dispositivo può essere applicato semplicemente sul collo del paziente dove stimolerà elettricamente il nervo vago. Riducendo così il dolore da emicrania. A contribuire all’approvazione dell’elettrostimolatore per curare l’emicrania, una sperimentazione clinica italiana. È stata infatti condotta alla Fondazione Mondino di Pavia dall’equipe diretta da Cristina Tassorelli, direttore del Centro per la Ricerca sulle Cefalee, l’Headache Science Centre.

Come funziona l’elettrostimolatore per curare l’emicrania

Praticamente tutte le funzioni del corpo umano sono regolate da impulsi elettrici, il sistema con cui i neuroni comunicano tra di loro e con gli organi attraverso i nervi periferici. Il sistema nervoso periferico dunque è una sorta di “autostrada” che trasporta i segnali sotto forma di impulsi elettrici da e verso il cervello tramite potenziali d’azione. Questi messaggi poi si traducono in cambiamenti chimici e biologici in tutto il corpo. Per cui, quando la comunicazione viene interrotta o alterata – per esempio con l’insorgere di una patologia – possono verificarsi conseguenze negative. L’idea dunque è di “hackerare” il circuito interno con uno stimolo esterno che parli la stessa lingua del corpo umano. Tramite potenziali d’azione indotti artificialmente, indistinguibili da quelli prodotti dall’organismo. In modo da ripristinare le condizioni fisiologiche, o per lo meno migliorarle.

Lo studio italiano

I risultati dello studio clinico multicentrico “PRESTO” (The Prospective Study of nVNS for the acute treatment of Migraine), presentati durante il congresso della International Headache Society a Vancouver, hanno dimostrato l’efficacia del nuovo trattamento, testato su 243 pazienti presso l’Headache Science Center di Pavia. Lo studio, interamente “made in Italy”, ha visto la partecipazione di 10 Centri Cefalee, tra cui quello di Pavia diretto da Grazia Sances, che hanno testato nell’arco di 18 mesi l’efficacia dello stimolatore su soggetti emicranici.

Una malattia disabilitante

“L’emicrania è la terza malattia più diffusa al mondo e una delle dieci patologie considerate più disabilitanti” ha commentato Tassorelli. Una nuova versione dello stimolatore, maneggevole e facilmente ricaricabile, sarà rilasciata contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti nel corso del 2018.

 

Torna su
Vaccini, l’appello dei medici: “No alle strumentalizzazioni politiche”

Vaccini, l’appello dei medici: “No alle strumentalizzazioni politiche”

Il board del “Calendario per la vita” - composto da medici di famiglia (Fimmg), pediatri (Sip e Fimp) e igienisti (Siti) – invita a tenere fuori la scienza dalla contesa elettorale. E ricorda i rischi di una mancata vaccinazione


“I vaccini non hanno colore politico e non vanno strumentalizzati”. Così pediatri, medici di famiglia e igienisti si appellano alla politica affinché il tema delle vaccinazioni resti fuori dalla contesa elettorale. Lo fanno con una nota congiunta del board del “Calendario per la vita”, il tavolo di esperti composto dalla Società italiana di igiene (Siti), dalla Società italiana di pediatria (Sip), dalla Federazione dei medici pediatri (Fimp) e dal sindacato dei medici di medicina generale (Fimmg).

“I vaccini non possono dividere”

“I vaccini affermano – i camici bianchi – sono uno strumento medico al servizio del bene della collettività, come lo sono gli antibiotici e i farmaci anti-tumorali. Saremmo stupiti che l’uso degli antibiotici diventasse oggetto di diverse scelte politiche. Perché quindi i vaccini devono essere oggetto di divisione politica?”. Divisioni riaccese dalla mozione approvata nei giorni scorsi dal comunale di Roma sull’accesso alla scuola dell’infanzia per i bimbi non vaccinati.

Parola alla scienza

Per i medici si è perso il senso della misura. “Si lasci alla scienza – prosegue la nota – stabilire quali siano le indicazioni e le misure da adottare per incrementare e difendere il livello eccellente di salute che nel campo delle malattie infettive proprio i vaccini ci hanno consentito di raggiungere”.

Perché l’obbligo

L’obbligatorietà delle vaccinazioni per l’accesso a scuola, ricordano i medici, si è resa necessaria per “la continua disinformazione e l’incomprensibile attacco che le vaccinazioni hanno subito negli anni scorsi, determinando nei genitori un diffuso stato di incertezza sulla loro bontà e grande beneficio, e un conseguente abbassamento delle coperture vaccinali”.

Evitare le epidemia

Gli obiettivi di copertura, sottolineano i camici bianchi, vanno raggiunti “per interrompere la diffusione degli agenti di malattie pericolose, che spesso provocano eventi epidemici”. Come avvenuto lo scorso anno con “quasi 5mila casi di morbillo notificati nel nostro Paese.

I rischi

Infine, un riferimento ai rischi sottovalutati da chi rifiuta le vaccinazioni. “Il rischio di encefalite dopo vaccino contro il morbillo – spiegano i medici – è uguale a quello ‘base’ di tutta la popolazione, quello di un bambino o adulto che contrae il morbillo è da mille a 2.500 volte più alto. Un genitore che per futili motivi o teorie complottiste risibili insista a non vaccinare e pretenda l’accettazione all’asilo infantile e alla scuola materna, mette in pericolo anzitutto il proprio figlio, e anche tutti i bambini più deboli, con malattie genetiche del sistema immunitario che non possono essere immunizzati per ragioni mediche”.

 

 

Torna su
Scoperte le malacidine, una nuova classe di antibiotici

Scoperte le malacidine, una nuova classe di antibiotici

Un gruppo di ricercatori Usa ha identificato un nuovo tipo di farmaci a partire dall’analisi di campioni di terreno. In studi preclinici sono stati efficaci nel debellare un'infezione batterica da Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina (Mrsa). Lo studio pubblicato su Nature microbiology apre la strada a un lungo percorso verso la clinica


Si chiamano malacidine, una nuova classe di antibiotici scoperta in campioni di terreno. I test sui modelli animali condotti finora dai ricercatori della Rockefeller University di New York hanno dimostrato che i composti sono in grado di contrastare diverse infezioni causate da batteri resistenti agli attuali antibiotici. Inclusi i superbugs Mrsa, gli Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina. La ricerca è stata pubblicata su Nature microbiology e ripresa dalla Bbc.

La metodica per scovare nuove molecole

I ricercatori guidati da Sean Brady hanno utilizzato una particolare metodica per individuare composti potenzialmente terapeutici. Il tutto a partire dai milioni di microrganismi che si trovano nel suolo. Inclusi nuovi antibiotici. I ricercatori hanno usato una tecnica di sequenziamento dei geni per analizzare più di mille campioni di suolo prelevati da tutti gli Stati Uniti. “Per identificare composti naturali potenzialmente utili abbiamo sviluppato una piattaforma che include sequenziamento, analisi bioinformatica ed espressione eterologa di cluster di geni biosintetici catturati dal Dna estratto da campioni ambientali” spiegano gli autori del lavoro. Una volta scoperte le malacidine in molti dei campioni, gli scienziati hanno avuto l’impressione che fosse una scoperta importante.

La strada verso la clinica è ancora lunga

Brady e collaboratori hanno testato il composto sui ratti a cui era stato somministrato il Mrsa, riuscendo ad eliminare l’infezione dalle ferite della pelle. Ora i ricercatori stanno lavorando per migliorare l’efficacia del farmaco nella speranza che possa diventare un vero trattamento di utilizzo clinico. “È impossibile dire quando, o anche se, una scoperta di antibiotici nella fase iniziale come le malacidine arriverà in clinica – ha aggiunto Brady – è una strada lunga e ardua”.

Una buona notizia ma non troppo

O per lo meno che non basta secondo Colin Garner, dell’Antibiotic Research UK, che ha sottolineato come trovare nuovi antibiotici per il trattamento di infezioni gram-positive come l’Mrsa non è la prima necessità. “La nostra preoccupazione sono i cosiddetti batteri gram-negativi che sono difficili da trattare e in cui la resistenza è in aumento. Sono causa di gravi infezioni come polmoniti, ma anche del sangue, tratto urinario e pelle. Abbiamo bisogno di nuovi antibiotici per trattare questa classe”.

 

Torna su
“Estendere la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia”

“Estendere la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia”

È la richiesta che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin pone a Mario Melazzini, direttore generale di Aifa, per una migliore gestione delle patologie croniche e di conseguenza un accesso più appropriato e tempestivo alle terapie


Aprire la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia. È la richiesta che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin pone a Mario Melazzini, direttore generale di Aifa, in una lettera inviata nei giorni scorsi, in seguito alla riunione del Tavolo sulla Cronicità, che ha raccolto l’entusiasmo della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri). Un’iniziativa ormai diventata necessaria, secondo il ministro, per poter provvedere alla gestione delle malattie croniche. “Una delle maggiori criticità che la sanità pubblica, e non solo, si troverà ad affrontare – sottolinea Lorenzin – soprattutto in futuro con l’allungamento della vita media dei cittadini”.

Una scelta necessaria per il bene dei pazienti

“Per fornire una risposta efficace ai bisogni di cura dei pazienti affetti da tali patologie ritengo sia strategico coinvolgere i medici di medicina generale” continua la ministra. “In maniera da affrontare la cronicità direttamente sul territorio. La scelta di consentire alla medicina di base la facoltà di prescrivere i medicinali innovativi, permetterebbe un accesso più appropriato e tempestivo alle terapie per i pazienti cronici”.

Miglior monitoraggio dei piani terapeutici

L’auspicio di Lorenzin è che grazie a un monitoraggio dei piani terapeutici da parte dei medici di medicina generale possa anche migliorare l’aderenza terapeutica. Ed essere ridotto il tempo di accesso alle cure. “Per questo – conclude Lorenzin nella lettera rivolta a Melazzini – ti chiedo di individuare alcune malattie croniche diffuse, i cui trattamenti siano oggi prescrivibili esclusivamente dai medici specialisti e di estendere tale facoltà anche ai medici di medicina generale”.

La replica positiva della Fnomceo

Richiesta sostenuta dalla Fnomceo che tramite le parole del presidente Filippo Anelli fa sapere di apprezzare l’iniziativa del ministro. “La richiesta ha una duplice valenza positiva” continua Anelli. “Da una parte va incontro alle necessità dei pazienti cronici, che potranno essere curati sul territorio nella miglior maniera possibile. Dall’altra riconoscere a tutti i medici le competenze previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea”.

Ricadute positive anche per il Ssn

“Non solo – conclude il presidente Fnomceo – le ricadute di una tale scelta, se attuata, sarebbero oggettive per tutto il Servizio sanitario nazionale. In termini di maggior economicità, efficienza e aderenza terapeutica. Siamo certi che il direttore Melazzini saprà prendere una decisione rapida e competente in materia”.

Le mosse dell’Aifa

Intanto all’Aifa se ne discute. “È una questione di cui stiamo parlando”, spiega il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, Stefano Vella, a margine dell’evento “Il valore del farmaco, il valore della cura” in programma oggi a Roma. “Credo che con tutte le dovute cautele – sottolinea Vella – sia una cosa utile per i pazienti, che oggi fanno la fila dagli specialisti per il piano terapeutico. Bisogna però bilanciare i benefici per i pazienti con il rischio di aumentare la spesa, ma basterebbe un buon monitoraggio. È una buona idea, che va governata. Ovviamente parliamo solo di alcune patologie croniche molto diffuse, come il diabete e la Bpco. C’è una sensibilità politica – conclude il presidente dell’Aifa – ma serve che medici di famiglia e specialisti si siedano a discutere”.

 

Torna su
Videocapsula endoscopica, il futuro è nel regime ambulatoriale

Videocapsula endoscopica, il futuro è nel regime ambulatoriale

In base a una stima che parte da dati elaborati da tre società di gastroenterologia in Lombardia, semplificando l'erogazione dell'esame con la tecnologia per osservare dall'interno l'intestino si risparmierebbero 1,4 milioni di euro all'anno. La metodica è stata inserita nei Lea ma è rimborsata solo in alcune Regioni


Il futuro dell’erogazione dell’esame con videocapsula endoscopica è il regime ambulatoriale. L’indicazione si può trarre da una stima elaborata da Cristiano Spada, direttore dell’unità di Endoscopia digestiva, della Fondazione Poliambulanza di Brescia, riguardo l’utilizzo della tecnologia che consente di visualizzare dall’interno l’apparato digerente e in particolare il piccolo intestino. “Facendo una proiezione prudenziale, che parte dai dati prodotti nel 2010 da tre società di gastroenterologia (Aigo, Sied e Sige) in Lombarda e che tiene conto del probabile rimborso previsto verosimilmente dai Lea – 850 euro – i potenziali risparmi nel caso in cui tale esame venga erogato in regime ambulatoriale e non in regime di ricovero ospedaliero sarebbero di circa 1,4 milioni di euro all’anno”.

Cos’è la videocapsula endoscopica e dove viene rimborsata

La tecnologia è una capsula monouso ingeribile dotata di una o due telecamere che acquisiscono immagini dell’intestino mentre lo percorrono. Nel 2017 è stata inserita nei Lea (Livelli essenziali di assistenza). Tuttavia, l’esame con videocapsula non è rimborsato su tutto il territorio nazionale. Le Regioni che lo rimborsano sono il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna, la Basilicata, le Marche, il Piemonte, il Trentino Alto-Adige, la Val d’Aosta e l’Umbria.

L’inserimento nei Lea della videocapsula endoscopica e il difficile reperimento

“I Lea vengono recepiti in termini molto variabili, anche se tutte le Regioni dovrebbero recepirli, secondo decreto del ministero della Salute entro il 28 febbraio 2018”, continua Spada. “Ci sono resistenze importanti: si teme che, laddove venga rimborsata, se ne faccia un uso sconsiderato. Un timore non fondato, considerando che nelle Regioni dove è disponibile questo problema non si è registrato. Anzi, si è notato che non c’è stato un utilizzo inappropriato e tendenzialmente ci si attiene alle indicazioni, tra cui in particolare il sanguinamento oscuro e la malattia di Crohn. Ci sono poi strutture che, non avendo il rimborso, decidono di utilizzare la capsula endoscopica in regime di ricovero. In questo modo, ammortizzano le spese con i Drg. Così, un esame che potrebbe costare 1.000 euro finisce per costarne oltre 2.500”.

I modelli a disposizione

L’inclusione nei Lea è recente, ma la videocapsula è stata lanciata nel 2001: gli italiani sono stati tra i primi al mondo a utilizzarla. Nonostante ciò, viene impiegata in circa 7.500 casi all’anno. In Francia, per esempio, se ne contano 25 mila all’anno. Dal lancio a oggi, la capsula endoscopica ingeribile è disponibile in quattro modelli, ognuno dei quali per un segmento dell’apparato digerente (piccolo intestino, colon, esofago) o per una specifica patologia (malattia di Crohn).

Le indicazioni della videocapsula endoscopica

“La videocapsula consente di vedere un tratto dell’apparato digerente prima sconosciuto. Ci ha consentito di entrare nel piccolo intestino, lungo circa 6 metri, che un tempo poteva essere indagato solo tramite la radiologia o l’intervento chirurgico”, dice Renato Cannizzaro, direttore della Gastroenterologia oncologica sperimentale presso il Centro di riferimento oncologico di Aviano. Le indicazioni per il suo utilizzo sono: sanguinamento dell’apparato digerente oscuro non a carico dell’esofago, dello stomaco e del colon e in tutti i casi non rilevabili con colon e gastroscopia. Negli ultimi anni, poi, le indicazioni si sono allargate. Si è notato che può essere utile quando c’è una celiachia che non risponde al trattamento, nei casi di malattia di Crohn difficili da diagnosticare, in caso di malattie genetiche che possono portare al tumore dell’intestino o se si sospetta la presenza di polipi.

L’indagine conoscitiva: 50% degli esami svolti in regime di ricovero o day hospital

Nei prossimi mesi saranno pubblicate le linee guida tecniche europee su come effettuare nel modo più efficace l’enteroscopia con videocapsula. Nell’attesa, un gruppo di esperti coordinato da Cannizzaro ha promosso un’indagine conoscitiva – un questionario con più di 40 domande a risposta multipla – che ha visto la partecipazione di 120 centri sul territorio nazionale. I centri che hanno aderito sono per l’80% strutture pubbliche e/o Ircss ed eseguono in media circa 40 esami con capsula endoscopica all’anno; solo 13 centri ne fanno oltre cento. Oltre il 70% delle strutture ha più di cinque anni di esperienza nell’uso di questa tecnologia. E il 50% degli esami sono svolti in regime di ricovero o di day-hospital.

“Dopo sedici anni di utilizzo nella pratica clinica di questa tecnologia ci sono importanti evidenze sul rapporto costo-efficacia”. Lo afferma Marco Pennazio, divisione di Gastroenterologia universitaria, Azienda ospedaliero-universitaria, Città della Salute e della Scienza di Torino. Pennazio, tra l’altro, ha coordinato la stesura delle linee guida della Società europea di endoscopia digestiva sulle indicazioni cliniche all’impiego della capsula. “I medici sanno quando usarla e quando non usarla, perché rappresenta un costo. La metodica è conosciuta. Per chi fa endoscopia è stata l’apertura di un mondo nuovo. L’intestino era una sorta di scatola nera. E si è visto che tale tecnologia garantisce un risparmio di risorse nelle cure successive del paziente perché la diagnosi è più accurata. Se un esame con videocapsula viene erogato subito a un paziente che ne ha bisogno, non deve fare percorsi diagnostici inefficaci. Siamo, quindi, alla ricerca di un consenso da parte dei responsabili politico-amministrativi”.

La videocapsula endoscopica per la malattia di Crohn

Tra le società che producono la videocapsula, c’è Medtronic. L’azienda ne ha lanciata una specifica per la malattia di Crohn. Che è una patologia che in Italia colpisce circa 100-120 mila persone con una localizzazione in almeno un paziente su due nel piccolo intestino. “Si tratta di una metodica di grande importanza per il Crohn. Soprattutto quando ci sono sintomi suggestivi per la presenza della malattia, ma la colonscopia e la gastroscopia risultano negative”, dice Maurizio Vecchi, professore di Gastroenterologia e direttore dell’UO di Gastroenterologia ed endoscopia della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.

 

Torna su
Fondo disabili: assegnati 75 milioni alle Regioni a statuto ordinario

Fondo disabili: assegnati 75 milioni alle Regioni a statuto ordinario

Via libera al decreto di riparto del fondo per le spese relative all’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con disabilità fisiche o sensoriali. Polemica con le Regioni a statuto speciale per aver preso parte alla ripartizione


Arrivano 75 milioni per il fondo disabili. A dirlo è stato Giovanni Toti, presidente di Regione Liguria e vicepresidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome. “Daremo sostanzialmente il via libera sul decreto di riparto del fondo per le spese relative all’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con disabilità fisiche o sensoriali”.

La ripartizione

“Complessivamente – spiega Toti – 75 milioni che saranno assegnati alle Regioni a statuto ordinario. A loro volta li ripartiranno a Province e Città metropolitane per far fronte soprattutto alle esigenze di trasporto degli alunni con disabilità delle scuole secondarie superiori”. In aggiunta, Toti spiega che è sta fatta richiesta al Governo di far “diventare strutturale questo fondo e di incrementarlo fino al raggiungimento del fabbisogno che l’esecutivo stesso ha stimato pari a 112 milioni”.

La questione delle Regioni a statuto speciale

Ma qualcuno non è d’accordo. Le Regioni a statuto speciale hanno lamentato il fatto di non essere state coinvolte. Difficilmente si raggiungerà l’intesa nel corso della Conferenza unificata. Le Regioni a statuto ordinario hanno però concordato all’unanimità e proposto al Governo una ripartizione delle risorse per l’80% attribuita in base al numero degli alunni con disabilità iscritti nelle scuole secondarie di II grado e per il 20 % basata sulla spesa media del periodo 2012-14.

I numeri

Qui di seguito le tabelle con tutte le ripartizioni regione per regione e le rispettive province

 

 

Torna su
Medicitalia.it, un esempio di successo nella comunicazione con i pazienti

Medicitalia.it, un esempio di successo nella comunicazione con i pazienti

Non è facile orientarsi in rete quando si è in cerca di risposte a quesiti che riguardano la salute. A tal fine è importante scegliere canali dove l’informazione passa al vaglio di specialisti autorevoli e contenuti accreditati: sulla piattaforma di consulti medici ogni mese si informano più di 6 milioni di pazienti *In collaborazione con Fablab.


Il sito medicitalia.it è nato nel 2000 grazie all’intuizione di due amici che decisero di creare una community in cui i pazienti potessero fare delle domande relative a patologie, terapie, farmaci e ricevere delle risposte da medici certificati e dalla comprovata esperienza.
Dagli inizi la community è cresciuta a dismisura. Su medicitalia.it ogni mese più di 6 milioni di pazienti ricercano online informazioni sulla salute 10 milioni di volte.
Ma il dato più rilevante è il tempo trascorso sulle pagine del sito (quasi 6 minuti di media per ogni sessione). Una testimonianza della “fame” di informazione degli utenti che trova su questo canale risposte soddisfacenti e autorevoli.

Mettendo “in fila” i numeri

Facendo un rapido calcolo: 6 minuti per 10 milioni di sessioni al mese corrispondono a 1 milione di ore totali trascorse dai pazienti italiani sulla piattaforma di Medicitalia. Volendo giocare ancora un po’ con i numeri, si deduce che il tempo passato ogni mese sul sito supera i 41 mila giorni. Mettendo in evidenza il reale interesse da parte del pubblico, sempre più attivo sul web.

Dalle statistiche alle potenzialità

È evidente che bisogna utilizzare correttamente i nuovi canali di comunicazione. Per offrire un servizio di informazione scientifico, etico e puntuale, che consenta a tutti i diversi attori di interagire correttamente con i propri pazienti, attuali e futuri.
Oggi è sempre più importante fare sinergia con gli operatori di settore e le aziende dell’healthcare per perseguire lo scopo principale che è quello di fare buona informazione veicolando anche advertising contestualizzato e progetti di comunicazione informativi, educazionali sempre più innovativi.

I banner “contestualizzati”

I banner continuano ad essere una forma di advertising molto efficace online, proprio per questo la loro contestualizzazione su medicitalia.it potrà contribuire a veicolare messaggi più chiari ed incisivi.

I progetti di comunicazione

Abbiamo accennato alla possibilità da parte delle aziende dell’healthcare di utilizzare un nuovo modo di comunicare con i pazienti, che punti su contenuti puntuali dall’alto valore scientifico ed etico.
Scendendo più nel dettaglio, si tratta della possibilità per le aziende dell’healtcare di usufruire di specifiche sezioni create ad hoc su medicitalia.it dedicate a patologie o a specifiche aree terapeutiche.

Il Codice Etico

Medicitalia vigila affinché gli argomenti siano trattati sempre da specialisti della salute autorevoli e di comprovata esperienza. Grazie a questo tipo di progetti, anche le aziende dell’healtcare avranno la possibilità di partecipare realmente all’empowerment dei pazienti.
Per gestire questi progetti, medicitalia.it ha scelto due agenzie che da decenni si occupano esclusivamente di comunicazione digitale in ambito healthcare.
Fablab, per la gestione tecnica dei progetti di comunicazione e della pubblicità display, e Digital Solutions, per la gestione commerciale.

A cura di Fablab

Homepage Comunicazione multicanale nell’healthcare

 

Torna su
Medicina personalizzata e biotecnologie: il Policlinico Gemelli diventa Irccs

Medicina personalizzata e biotecnologie: il Policlinico Gemelli diventa Irccs

Il riconoscimento di “Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico” assegnato con un decreto del ministero della Salute


Il Policlinico Gemelli di Roma diventa un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) per la medicina personalizzata e le biotecnologie innovative. Lo prevede un decreto firmato ieri dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Grazie a questo riconoscimento – spiega una nota della Fondazione A. Gemelli – la struttura potrà godere di un finanziamento statale, che si somma a quello regionale, finalizzato esclusivamente allo svolgimento della attività di ricerca per le materie indicate.

Un riconoscimento “prestigioso”

“Si conclude un iter complesso che ci porta al prestigioso riconoscimento dell’attività della Fondazione Policlinico A. Gemelli per le sue premesse di qualità, ricerca e assistenza”, ha detto Rocco Bellantone, preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica e direttore del Governo Clinico del Gemelli, alla cerimonia organizzata ieri per la firma del decreto da parte del Ministro Lorenzin. L’iter del riconoscimento è partito il 3 agosto dello scorso anno con la firma del decreto regionale da parte del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Il 15 febbraio di quest’anno il Policlinico Gemelli ha ricevuto il via libera anche dalla conferenza Stato-Regioni. Ieri l’atto finale.

Lorenzin: “Grandi aspettative su medicina personalizzata e biotecnologie innovative”

“In questi cinque anni – ha ricordato il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin – abbiamo fatto le cose che potevamo fare dandoci un timing preciso. C’è una aspettativa enorme su queste nuove linee di ricerca della medicina personalizzata e delle biotecnologie innovative rispetto a cure e malattie che sembrano inaccessibili alla cura”. Strutture come il Gemelli, ha sottolineato il ministro, sono “luoghi di frontiera dove si fonde la ricerca con la cura”.

L’Università Cattolica

Soddisfatto il rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli: “Riceviamo un particolare ‘titolo di studio’, un riconoscimento che ci viene concesso su temi di particolare valore e significato per la nostra attività. Questo riconoscimento è il coronamento di un’operazione molto complessa e la conferma – conclude il rettore – che il legame fra Università Cattolica e Fondazione Policlinico Gemelli è forte ed efficace”.

 

Torna su
Iss in campo contro le bufale: un nuovo portale e una mostra sui vaccini

Iss in campo contro le bufale: un nuovo portale e una mostra sui vaccini

Con Piero Angela e il ministro Lorenzin, l'Istituto superiore di sanità lancia il sito di informazione "ISSalute" e inaugura la mostra itinerante "Mondovaccini". Un doppio impegno contro le fake news


Un’enciclopedia digitale sulla salute come antidoto per le fake news. Nasce ISSalute, il nuovo portale dell’Istituto superiore di sanità (Iss) per orientarsi nel mare sconfinato dell’informazione scientifica sul web. Un’iniziativa presentata oggi a Roma dal presidente dell’Istituto, Walter Ricciardi, con il giornalista-divulgatore Piero Angela e il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. In concomitanza con l’inaugurazione della mostra “Mondovaccini”.

Il nuovo portale

ISSalute.it contiene oggi più di 1.700 schede su cause, disturbi, cure e prevenzione delle malattie. Smentisce ben 150 fake news sulla salute, che presto diventeranno 400. Ed è organizzato in quattro sezioni: “La salute dalla A alla Z”, “Stili di vita e ambiente”, “Falsi miti e bufale” e “News”. Quest’ultima sarà aggiornata quotidianamente in partnership con l’agenzia Ansa e ospiterà notizie su temi di attualità in medicina e ricerca.

Ricciardi: “Iss in campo contro le bufale”

“Scendiamo in campo contro le bufale online. Vogliamo – spiega Ricciardi – offrire ai cittadini che sempre più spesso consultano il web per motivi di salute, trovando tutto e il contrario di tutto, un approdo sicuro, un punto di riferimento rigoroso e autorevole. È un’informazione certificata all’origine perché prodotta negli stessi luoghi in cui si fa ricerca e si produce conoscenza scientifica e un contributo all’equità e alla sostenibilità del nostro sistema sanitario”.

Sui social

L’iniziativa dell’Iss sbarca anche sui principali social network. Secondo il Censis, ricorda l’istituto, un italiano su tre naviga in rete per ottenere informazioni sulla salute. Di questi, oltre il 90,4% effettua ricerche su specifiche patologie. Crescono i contatti dei quotidiani online (+2,6%) e degli altri portali web di informazione (+4,9%). A Facebook è iscritto il 50,3% dell’intera popolazione (il 77,4% dei giovani under 30), YouTube raggiunge il 42% di utenti (il 72,5% tra i giovani) e Twitter il 10%. ISSalute avrà anche un profilo Instagram.

Piero Angela: “Scienza non ammette par condicio”

Piero Angela è il testimonial scelto dall’Iss per il battesimo dell’iniziativa: “Oggi – afferma il giornalista – col web la disinformazione circola rapidamente. È pieno di pifferai magici a cui è facile credere. Ma la scienza non è democratica, non prevede par condicio. Non è la stessa cosa dire che la terra è quadrata oppure che è rotonda. Sono un cronista e da anni cerco di raccontare la scienza in modo corretto al grande pubblico. Saputo di questa iniziativa mi sono rallegrato perché finalmente le istituzioni entrano in un campo importante”.

La mostra “Mondovaccini”

Oggi all’Iss è stata anche inaugurata la mostra itinerante “Mondovaccini”. Un viaggio alla “scoperta di questi farmaci”, vittime più di altri di bufale e mistificazioni, e “del loro immenso valore terapeutico nella storia”, sottolinea Ricciardi.
La mostra è stata allestita all’interno del museo dell’Iss e sarà visitabile su prenotazione fino ad aprile. È la prima tappa di un’iniziativa, organizzata in collaborazione con QBGroup e con il sostegno di Eni Foundation, che toccherà altre città italiane, secondo un calendario ancora da definire.
I pannelli della mostra riassumono i conetti fondamentali delle vaccinazioni, la loro importanza per la salute e il vantaggio sociale che ne deriva. Spiegano, ad esempio, cos’è l’immunità di gregge e il suo ruolo a livello di comunità, oltre che il valore economico della vaccinazione. Forniscono informazioni sulla composizione dei vaccini, sui controlli di qualità e sicurezza e sul calendario vaccinale. Smentiscono i falsi miti più comuni sui vaccini, contestando notizie inesatte, false o spinte da motivazioni pseudo-scientifiche. Ma c’è spazio anche per contenuti multimediali e interattività: ci si può sedere davanti a una webcam e “vedersi” affetti da varicella o morbillo oppure giocare a un quiz per testare conoscenze o sciogliere dubbi.

Lorenzin: “I no-vax creano allarme e terrore”

Partecipando all’inaugurazione, Beatrice Lorenzin cita il caso dei manifesti no-vax apparsi in Emilia Romagna: “Parliamo di manifesti sei metri per tre, affissi per tutta la Regione, che creano procurato allarme e terrore nei cittadini. E’ incredibile che possa accadere in una regione dove c’è un livello di sanità altissimo”, sottolinea il ministro, annunciando di aver segnalato il caso alle autorità competenti per “verificare se siamo di fronte a un’ipotesi di procurato allarme”. Quanto alla necessità di contrastare la disinformazione in rete, il plauso del ministro all’Iss: “Non è possibile che le persone in rete digitano la parola ‘vaccini’ e trovano bufale una dopo l’altra. Bufale che poi determinano scelte di salute. Penso che l’Iss in questi anni ha dimostrato di essere l’istituzione della scienza in Italia. Il nuovo portale è una risposta forte delle istituzioni alla disinformazione”.

 

Torna su
Elezioni, farmaci generici e misure anti-spreco: l’appello dei veterinari

Elezioni, farmaci generici e misure anti-spreco: l’appello dei veterinari

In vista del 4 marzo l’Associazione nazionale dei medici veterinari lancia cinque proposte ai candidati. Una di queste riguarda il contenimento della spesa per i medicinali e lo “spacchettamento” delle confezioni

elezioni

Promuovere la diffusione dei farmaci generici veterinari e lo spacchettamento delle confezioni, il cosiddetto “bilsteraggio”. Da un lato, per contenere la spesa. Dall’altro per evitare sprechi, tutelare l’ambiente e favorire uno uso prudente dei medicinali, soprattutto nell’ottica di contrastare il fenomeno dell’antibiotico-resistenza. È questa una delle richieste che veterinari italiani hanno indirizzato alle forze politiche in lizza per le elezioni del 4 marzo. Uno dei cinque punti sintetizzati in un documento di cui dà notizia “Anvmi Oggi”, il notiziario dell’Associazione nazionale dei medici veterinari italiani. Di questi temi si è occupati il Parlamento, unificando diverse proposte su generici e “cessione frazionata” dei blister in un testo unico, esaminato dalla Commissione Sanità del Senato. Le elezioni, però, hanno fermato l’iter.

Prezzi alti

Chi possiede un cane o un gatto lo sa bene: i farmaci per gli animali costano parecchio, molto di più di quelli per l’uomo. La spesa, poi, è tutta a carico del proprietario, perché a differenza dei “nostri” medicinali non è prevista la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. Esistono i generici, ma in pochi lo sanno e il tema è spesso fonte di equivoci. Per alcune differenze fondamentali tra generici destinati agli animali e quelli per uso umano. Innanzitutto per il modo in cui i primi vengono chiamati: i farmaci equivalenti veterinari spesso non sono chiaramente individuabili perché sono in commercio con denominazioni di fantasia. Poi, perché non esiste una norma che preveda l’obbligo per i medicinali generici veterinari di avere un prezzo di vendita inferiore di almeno il 20% rispetto all’originator.

Altre proposte

Le altre proposte di veterinari italiani riguardano valorizzazione della professione, la necessità di “politiche attive per il benessere degli animali allevati, per il contrasto delle resistenze antimicrobiche e per la promozione delle produzioni alimentari nazionali la neo istituita figura del veterinario aziendale, sulla base del ruolo ad essa riconosciuto dalle autorità sanitarie”. Chiedono, inoltre, di rivedere i Livelli essenziali di assistenza (Lea), spostando “su una rete di strutture veterinarie private già esistenti sul territorio nazionale, in regime di convenzione” l’erogazione di alcune prestazioni di medicina veterinaria di base agevolata ed Iva esente. E, infine, interventi sul piano fiscale: “Revisionare le aliquote Iva spostando le prestazioni veterinarie e gli alimenti per animali da compagnia in fascia agevolata; esentare dall’Iva le prestazioni di medicina veterinaria di base obbligatorie e ‘one health’; aumentare significativamente le detrazioni fiscali delle spese veterinarie inviate al Sistema tessera sanitaria”.

 

Torna su
Gimbe, 12 azioni per salvare il Servizio sanitario nazionale

Gimbe, 12 azioni per salvare il Servizio sanitario nazionale

Dalla 13esima conferenza nazionale di Bologna, la Fondazione lancia l’ultimo appello prima delle elezioni del 4 marzo per un “piano di salvataggio del Ssn”


A 48 ore dal voto per elezioni politiche, arriva l’ultimo appello della Fondazione Gimbe, che oggi a Bologna ha tenuto la sua 13esima conferenza nazionale: la prossima legislatura sarà cruciale per la tenuta della sanità pubblica, serve un piano di salvataggio. Un “piano”, più volte evocato da Gimbe, che si articola in 12 punti, un’agenda per il Governo che verrà:

  • Salute al centro di tutte le decisioni politiche non solo sanitarie, ma anche industriali, ambientali, sociali, economiche e fiscali;
  • Certezze sulle risorse per la sanità: stop alle periodiche revisioni al ribasso e rilancio del finanziamento pubblico;
  • Maggiori capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni nel pieno rispetto delle loro autonomie;
  • Costruire un servizio socio-sanitario nazionale, perché i bisogni sociali sono strettamente correlati a quelli sanitari;
  • Ridisegnare il perimetro dei Lea secondo evidenze scientifiche e princìpi di costo-efficacia e rivalutare la detraibilità delle spese mediche secondo gli stessi criteri;
  • Eliminare il superticket e definire criteri nazionali di compartecipazione alla spesa sanitaria equi e omogenei;
  • Piano nazionale contro gli sprechi in sanità per recuperare almeno 1 dei 2 euro sprecati ogni 10 spesi;
  • Riordino legislativo della sanità integrativa per evitare derive consumistiche e di privatizzazione;
  • Sana integrazione pubblico-privato e libera professione regolamentata secondo i reali bisogni di salute delle persone;
  • Rilanciare le politiche per il personale e programmare adeguatamente il fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari;
  • Finanziare ricerca clinica e organizzativa: almeno l’1% del fondo sanitario nazionale per rispondere a quesiti rilevanti per il Ssn;
  • Programma nazionale d’informazione scientifica a cittadini e pazienti per debellare le fake-news, ridurre il consumismo sanitario e promuovere decisioni realmente informate;

“Servono 210 miliardi entro il 2025”

Il piano di salvataggio è anche il tema di un’intervista al presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, pubblicata sull’ultimo numero di AboutPharma (online dal primo marzo). Oggi, a Bologna, Cartabellotta ha ricordato i numeri che “minacciano” la tenuta del Ssn: secondo le stime di Gimbe nel 2025 serviranno almeno 210 miliardi di euro per mantenere il Ssn, pari a una spesa pro-capite di 3.500 euro. Stime “estremamente prudenziali”, ha spiegato Cartabellotta, perché si tratta di una cifra inferiore alla media Ocse del 2013. “Questi dati – ha spiegato il presidente della Fondazione Gimbe – seppure non devono essere letti come la conseguenza di un piano occulto di smantellamento e privatizzazione del Ssn, testimoniano indubbiamente l’assenza di un preciso programma politico per il suo salvataggio, confermata anche dalla recente analisi dei programmi elettorali condotta dalla Fondazione Gimbe”.

I programmi elettorali

Nei giorni scorsi Gimbe ha pubblicato il report sul monitoraggio dei programmi elettorali condotto dalla Fondazione. Dei risultati di questo lavoro si è parlato oggi a Bologna: “Nessun partito – ha sottolineato Cartabellotta – ha predisposto un piano per tutelare il Ssn intervenendo sulle principali determinanti della crisi di sostenibilità: definanziamento, ‘paniere’ Lea troppo ampio, sprechi e inefficienze, deregulation della sanità integrativa, diseguaglianze regionali e locali”.

Il rischio “deriva”

Senza quel “piano di salvataggio”, sostiene Cartabellotta, sarà inesorabile “la progressiva e silente trasformazione (già in atto) di un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico verso un sistema misto.  Ma se anche questo fosse il destino della sanità pubblica, il prossimo esecutivo – conclude il presidente della Fondazione Gimbe – non potrà esimersi dall’avviare una rigorosa governance della fase di privatizzazione, al fine di proteggere le fasce più deboli della popolazione e ridurre le diseguaglianze”.

 

Torna su
Ricaduta di leucemia, possibile prevederla già alla diagnosi

Ricaduta di leucemia, possibile prevederla già alla diagnosi

I ricercatori del Centro Matilde Tettamanti di Monza e dell’Università di Stanford hanno scoperto nuove caratteristiche delle cellule tumorali che possono far prevedere il rischio di ricaduta dei pazienti con leucemia linfoblastica acuta. Se confermata permetterà di identificare sin dalla diagnosi i pazienti a maggiore rischio


Identificare chi avrà una probabile ricaduta di leucemia. Oggi sembra possibile sin dalla diagnosi grazie a un lavoro condotto in collaborazione tra Centro Matilde Tettamanti, Clinica Pediatrica, Università di Milano-Bicocca, A.O. San Gerardo di Monza, e dell’Università di Stanford. I ricercatori hanno scoperto che è possibile prevedere fin dalla diagnosi se i pazienti colpiti da leucemia linfoblastica acuta di tipo B (B-LLA) avranno maggiori probabilità di ricaduta dopo i trattamenti. In particolare hanno scoperto che alcune particolari caratteristiche funzionali della cellula tumorale, associate alla ricaduta di questa malattia, sono già presenti al momento della diagnosi. Finora occorreva aspettare la risposta al trattamento e la verifica molecolare della cosiddetta “malattia residua minima”, per stabilire l’eventuale rischio di ricaduta.

La ricerca sulla ricaduta di leucemia

Grazie a un’analisi ad altissima risoluzione che permette di studiare singolarmente le cellule, i ricercatori hanno potuto indentificare un preciso comportamento cellulare che sembra guidare la ricaduta. L’osservazione offre nuove conoscenze sul comportamento biologico della cellula tumorale. E potrebbe anche avere un impatto molto significativo negli attuali criteri di stratificazione del rischio e di conseguente definizione di una terapia. La ricerca sostenuta anche da Airc con il contributo della Fondazione Benedetta è la Vita Onlus è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Medicine. Il lavoro è particolarmente importante se si considera che, nonostante i successi nell’ottenimento di risposta iniziale al trattamento di prima linea, la mortalità nei tumori è in gran parte dovuta alla recidiva.

La citometria di massa e il machine learning

“Nel nostro studio – commenta Jolanda Sarno, ricercatrice italiana attualmente presso l’Università di Stanford grazie a una borsa di studio Airc e primo autore insieme a Zinaida Good – abbiamo utilizzato una tecnologia innovativa. Si tratta della citometria di massa che permette di individuare, quantificare e analizzare contemporaneamente decine di parametri biologici e funzionali in ogni singola cellula. Le cellule leucemiche di B-LLA alla diagnosi sono state confrontate con la loro controparte sana mediante un programma bioinformatico al fine di individuare i profili più caratteristici delle cellule leucemiche. I profili ottenuti sono poi stati confrontanti nei pazienti ricaduti rispetto a quelli in remissione (non ricaduti). Utilizzando un approccio di machine learning, infine, sono state identificate le caratteristiche funzionali predittive della ricaduta”.

La ricerca sulla ricaduta di leucemia

“Sin dalla fine degli anni ’90 la clinica pediatrica della Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma ha coordinato per l’Italia, all’interno di un network europeo, la standardizzazione e l’applicazione della tecnica di misurazione della malattia residua minima, in tutti i bambini e adolescenti con leucemia linfoblastica acuta di tipo B, dei centri dell’Associazione italiana ematologia e oncologia pediatrica (Aieop)” sottolinea Andrea Biondi, direttore della clinica pediatrica Università Milano Bicocca e direttore scientifico della Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma. “Questo studio si colloca  all’interno di una storia e di un’esperienza di ricerca decennale che pone il nostro centro come punto di riferimento in Italia”. Il centro ogni anno riceve e analizza circa 450 campioni di Dna, ed è un punto di riferimento in Italia per lo studio della malattia residua minima.

Il modello statistico di predizione delle ricadute

La ricerca si inserisce all’interno di un dibattito se le cellule tumorali resistenti al trattamento siano presenti fin dal momento della diagnosi iniziale o se  emergano sotto la pressione della terapia. Zinaida Good, co-autrice di questo lavoro, ha messo a punto un modello statistico di predizione delle ricadute: il Developmentally Dependent Predictor of Relapse (Ddpr). Il quale ha dimostrato chiaramente che alcune caratteristiche funzionali della cellula tumorale, responsabili della ricaduta di malattia, sono già presenti alla diagnosi.

Le caratteristiche cellulari

In particolare, sono state individuate sei caratteristiche cellulari, presenti in due sottopopolazioni leucemiche. Le quali permetteranno di prevedere la ricaduta del paziente fin dal momento della diagnosi. In una successiva analisi le coppie di campioni ottenuti al momento della diagnosi e della ricaduta sono state analizzate. Si è così ottenuta la conferma che il profilo predittivo iniziale, osservato alla diagnosi, si mantiene nelle cellule presenti alla ricaduta.

La ricerca futura

Il prossimo passo sarà validare il modello Ddpr in un numero più ampio di campioni prelevati da pazienti con B-LLA (circa 300). Campioni che saranno messi a disposizione dal COG (Children’s Oncology Group) americano. La prospettiva fa ben sperare che i risultati si convalidino con l’ampiamento dello studio.

 

Torna su
Anticorpi monoclonali contro le malattie infettive emergenti?

Anticorpi monoclonali contro le malattie infettive emergenti?

Partendo da alcuni esempi del passato un gruppo di ricercatori spiega – in un articolo pubblicato sul Nejm – perché gli anticorpi monoclonali dovrebbero essere usati anche in questo settore. Con una richiesta bene precisa alle aziende produttrici


Anticorpi monoclonali contro le malattie infettive emergenti. È la proposta che alcuni scienziati hanno messo nero su bianco in un articolo pubblicato sul New England journal of medicine (Nejm) lo scorso 7 marzo. Con una richiesta anche per le aziende che si occupano di produrre anticorpi monoclonali. Sebbene questi strumenti farmacologici abbiano un ruolo chiave nella risposta immunitaria all’infezione, per ora secondo gli esperti, avrebbero avuto solo un uso limitato come agenti terapeutici per le malattie infettive.

Un po’ di storia

Nonostante l’uso dei trattamenti derivati ​​dal plasma per diversi patogeni risalga addirittura ai primi del novecento. Nel 1901 infatti Emil Adolf von Behring, vinse il premio Nobel in Fisiologia e Medicina per l’applicazione di terapie sieriche derivate da animali, principalmente contro la difterite. Da allora la terapia a base di plasma è stata sperimentata varie volte, dalla pandemia influenzale del 1918 a quelle di Ebola dal 1976 in poi. Nonostante i precedenti però e il rapido sviluppo che gli anticorpi monoclonali hanno avuto per l’applicazione contro malattie non trasmissibili come cancro e condizioni autoimmuni, solo una manciata di terapie anticorpali sono state autorizzate per malattie infettive (come palivizumab, profilassi contro il virus respiratorio sinciziale a rischio neonati).

Le malattie infettive emergenti

I recenti progressi concettuali e tecnologici nello sviluppo degli anticorpi monoclonali potrebbero avere un impatto enorme sul campo delle malattie infettive. Soprattutto nel contesto di epidemie di malattie infettive emergenti, in cui lo sviluppo di vaccini per nuovi patogeni può molto lungo e difficile. Il rapido sviluppo e l’impiego strategico di interventi preventivi e terapeutici efficaci e altamente specifici potrebbero avere il potenziale per alterare il corso di un’epidemia.

I vantaggi

Secondo gli autori l’utilizzo degli anticorpi presenta diversi vantaggi. Tra cui l’utilizzo un’attività specifica contro un bersaglio predeterminato e un alto grado di coerenza tra i lotti fabbricati. Ma anche un maggior profilo di sicurezza dell’immunoterapia. Inoltre, gli anticorpi efficaci sono diventati più facili da identificare, selezionare, ottimizzare e produrre.

“Con questi progressi, gli anticorpi monoclonali hanno il potenziale per aumentare la nostra efficacia nel rispondere alle malattie infettive emergenti” scrivono gli autori. “In particolare nei casi in cui il loro uso possa migliorare i risultati per i pazienti o la popolazione. Tuttavia, dati gli attuali costi di produzione e la relativa complessità di somministrazione (ad esempio, la necessità di somministrazione parenterale), sarà necessario un uso mirato degli anticorpi monoclonali. Il loro utilizzo è particolarmente indicato per tre indicazioni in particolare: trattamento degli individui infetti, profilassi mirata per proteggere gli individui ad alto rischio e profilassi mirata per interrompere la trasmissione nelle popolazioni a rischio medio”.

Il caso Ebola

Un primo approccio per l’utilizzo degli anticorpi monoclonali si è avuto nel 2014-2016, quando in Africa occidentale si verificò l’epidemia si ebola. ZMapp, un “cocktail” di tre anticorpi chimerici topo-umani, aveva mostrato una certa efficacia nei primati non umani. Serviva però un ulteriore valutazione sugli esseri umani ed erano disponibili solo quantità minime del trattamento. Nel febbraio del 2015 è stato avviato uno studio randomizzato e controllato su pazienti infetti che però non ha raggiunto la significatività statistica. Perché l’incidenza dell’infezione da Ebola è diminuita e di conseguenza l’arruolamento dello studio. I pochi dati disponibili però hanno mostrato un ipotetico beneficio sulla mortalità.

Il problema dei costi

Se gli anticorpi monoclonali si rivelassero davvero un’utile strategia per affrontare le malattie infettive emergenti, bisognerà affrontare una quesitone in particolare: quella dei costi. “Lo sviluppo mirato e il dispiegamento di anticorpi ad alta potenza che richiedono meno materiale per dose contribuiranno a ridurre i costi” concludono gli autori. “Così come i miglioramenti nella produzione. Inoltre in alcuni contesti epidemici la somministrazione di anticorpi monoclonali può essere complicata. In particolare per quelli che richiedono conservazione a freddo e infusione endovenosa. Per questo in futuro si dovrebbe puntare a anticorpi ad alta affinità, consentendo il dosaggio sottocutaneo o nuove forme di rilascio come l’acido nucleico e costrutti vettoriali, riducendo al minimo la necessità di somministrazione endovenosa”.

Priorità per le aziende

Nonostante tutto gli anticorpi monoclonali sembrano destinati a svolgere un ruolo sempre più ampio nelle future azioni di salute pubblica. Che implicano la diagnosi, la prevenzione e il trattamento delle malattie infettive emergenti. “Se vogliamo realizzare pienamente queste promesse – concludono gli autori –i leader nella preparazione dovranno dare loro un’alta priorità nei programmi di ricerca e sviluppo”.

 

Torna su
Celiachia, spesi 320 milioni all’anno per prodotti senza glutine

Celiachia, spesi 320 milioni all’anno per prodotti senza glutine

Lo afferma Coldiretti stessa in riferimento al nuovo decreto sull'assistenza ai celiaci la cui approvazione è attesa il 21 marzo in Conferenza Stato-Regioni. In questa sede si opterà per una riduzione media del tetto di spesa del 19% per l'acquisto dei prodotti senza glutine da parte dei celiaci


Per la Coldiretti, si spendono 320 milioni all’anno in prodotti senza glutine. Ma il problema non è nella spesa in sé, quanto nei motivi che stanno dietro alla spesa stessa. Infatti non sempre questo esborso è giustificato da motivi legati alla salute. Lo afferma Coldiretti stessa in riferimento al nuovo decreto sull’assistenza ai celiaci la cui approvazione è attesa il 21 marzo in Conferenza Stato-Regioni.

Cambio di sensibilità e necessità. Il paniere dell’Istat

Se il mercato degli alimenti senza glutine, sottolinea Coldiretti, “è cresciuto del 20% all’anno, sono saliti al 58% i ristoranti che offrono ricette senza glutine. Un cambiamento di abitudini che è stato riconosciuto anche dal paniere Istat. Proprio nel 2015, infatti, ha sancito l’ingresso della pasta e dei biscotti gluten free per il calcolo dell’inflazione”. Si stima che a scegliere alimenti privi di glutine, evidenzia l’associazione, “sia quasi il 10% degli italiani, anche se a beneficiare dell’assistenza saranno solo i celiaci riconosciuti. La crescita della domanda ha provocato anche un cambiamento nella produzione. Si pensi al ritorno nelle campagne italiane di grani antichi a basso contenuto di glutine per la produzione di pasta e biscotti”, conclude Coldiretti.

Decreto gluten free

Domani ci sarà l’approvazione finale della riduzione media del tetto di spesa del 19% per l’acquisto dei prodotti senza glutine da parte dei celiaci. La Conferenza Stato-Regioni si pronuncerà su una modifica che porterà a un risparmio stimato di oltre 30 milioni di euro. “Non una sforbiciata, ma una revisione razionale, che tiene conto della riduzione dei costi degli alimenti senza glutine e dei fabbisogni energetici della popolazione”. A sottolinearlo è l’Associazione italiana celiachia (Aic), che ha collaborato con il ministero della Salute per monitorare due aspetti fondamentali. Che i tagli fossero in linea con le esigenze dei pazienti e che non venisse meno la copertura del 35% dell’apporto calorico giornaliero dei carboidrati privi di glutine. Secondo l’associazione i cibi gluten free costano men.  “Questo risparmio – spiega Giuseppe Di Fabio, presidente Aic – costituirà un’importante riserva di risorse per venire incontro ai bisogni terapeutici dei pazienti che saranno diagnosticati nel prossimo futuro”. Quest’ultimi, stando alle stime, sono in crescita al ritmo del 10% annuo, con 400 mila nuove diagnosi attese.

 

Torna su
Ssn, aumentano i tempi d’attesa: in media oltre due mesi

 

 

 

 

 

 

Ssn, aumentano i tempi d’attesa: in media oltre due mesi

Lo registra l'Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi Sanitari Regionali, ricerca commissionata dalla Funzione pubblica Cgil e condotta dal centro Crea Sanità. Lo studio ha coinvolto 26 milioni di cittadini (soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania) tra il 2014 e il 2017


Aumentano i tempi delle liste d’attesa. Si va oltre i due mesi di media. Questo è quanto registra l’Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi Sanitari Regionali, ricerca commissionata dalla Funzione pubblica Cgil e condotta dal centro Crea Sanità. Lo studio ha coinvolto 26 milioni di cittadini (soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania) tra il 2014 e il 2017.

I dati

I numeri parlano chiaro. Per ottenere una visita specialistica o un esame ci vogliono almeno 65 giorni. In tre anni l’aumento è stato tra i 20 e 27 giorni. Per esempio una visita oculistica nel 2014 bisognava attendere 61 giorni. Oggi sono 88. Ben 26 giorni in più nell’arco degli ultimi tre anni. Non va meglio per gli ortopedici. Tre anni fa si doveva attendere poco più di un mese (36 giorni), nel 2017 l’attesa è di 56 giorni. Per non parlare della colonscopia. 69 giorni nel 2014 a fronte dei 96 del 2017. Un aumento di quasi un mese.

Il ricorso ai privati

La sanità privata dimezza i tempi e i costi sono competitivi (anche se in molti casi sono elevati). Non ci si discosta molto dal prezzo del ticket. Non è raro, inoltre, che il costo del privato sia inferiore all’intramoenia. Dall’oculista si risparmierebbe un euro (97 euro contro i 98 dell’intramoenia). Nell’ortopedia 103 contro 106 euro. Il problema è la carenza di personale e la difficoltà nel gestire i pazienti che richiedono delle visite specifiche. Si registra quindi, osserva la Funzione Pubblica Cgil, “un disallineamento tra le aspettative dei cittadini e i tempi di attesa dell’offerta pubblica, così come tra i costi e il valore di mercato delle prestazioni. Di conseguenza, le poco sostanziali differenze di prezzo e le lunghe liste di attesa hanno incentivato lo sviluppo di un’offerta privata di servizi spesso concorrenziale con quella pubblica, per costo e tempi di risposta”.

  •  

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Digitalizzazione dell’healthcare: partecipare o stare a guardare?

 

 

Digitalizzazione dell’healthcare: partecipare o stare a guardare?

Siamo nel pieno di una trasformazione digitale alla quale lo stesso mondo pharma approda con parziale ritardo. Dall’agenzia di comunicazione multicanale fablab una nuova rubrica per aiutare a capire cosa succede e come si fa. Per orientarsi tra le soluzioni e le opportunità di un mercato in continuo cambiamento


La digitalizzazione dell’healthcare e del relativo mercato è un dato di fatto. Che spalanca spazi sconfinati per quel che riguarda non solo gli strumenti e i canali di informazione sanitaria e farmaceutica, ma anche le possibilità di interazione tra tutti gli attori coinvolti. Dal produttore al paziente, dal medico al farmacista.

La rivoluzione digitale cambia il modo di cercare informazioni sulla salute

Tra comprensibili timori e resistenze, come in ogni “rivoluzione”, la digitalizzazione dell’healthcare scardina paradigmi ormai assodati per ridettare le regole del gioco. E ridefinisce, per ciascuno, le strategie utili a trarre concreto beneficio da un processo che, virtualmente, riunisce l’intero settore in una rete capillare e assidua di comunicazione multicanale. Un terzo degli italiani, secondo il Censis, cerca in rete informazioni sulla salute. Ed è una proporzione destinata a impennarsi. Non senza rischi, naturalmente. E bene ha fatto l’Istituto superiore di sanità ad allestire un apposito spazio per contrastare le “fake news”, ISSalute, che dilagano con l’amplificazione delle nuove tecnologie. Si tratta, comunque, del risvolto perverso di una tendenza ben più estesa e salutare, quella di una fondata domanda di informazione, che ora trova spazi potenziali di risposta a portata di mano.

La digitalizzazione dell’healthcare e l’attività dei professionisti sanitari

Tant’è che il fenomeno è analogo per i medici. Dedicano, in media (secondo uno studio della rete europea di consulenti Across Health), circa tre minuti al giorno a ricevere informatori farmaceutici e a partecipare a convegni. Mentre il tempo consacrato ad aggiornarsi sul web si decuplica. Il fenomeno sta assumendo proporzioni sempre più ampie che vanno ben al di là della rete. Ci sono le app, gli smartphone, i dispositivi che veicolano le informazioni direttamente nel gestionale del medico e del farmacista, i software per gli informatori, la comunicazione integrata e multicanale, gli strumenti di consulto diretto con i medici e di ausilio all’aderenza terapeutica. La comunicazione è oramai globalizzata e questo processo porta in sé elevate possibilità in termini di nuove conoscenze e nuovi mercati.

Gli obiettivi della rubrica

Paradossalmente, i pazienti lo hanno capito ben prima di almeno parte dei produttori, con l’esito che, tra le grandi quantità di stimoli e i controlli incrociati, la prima garanzia del successo comunicativo sta nella credibilità. Per i prossimi sei mesi, in questo spazio, indagheremo in modo chiaro e diretto:

  • i diversi attori di questo scenario (target);
  • i nuovi bisogni del mercato medico-farmaceutico (need);
  • le modalità privilegiate di comunicazione (canali);
  • gli strumenti per veicolarla (piattaforma).

Ma la vera parola d’ordine della comunicazione sulla salute è oggi più che mai la qualità, e quindi l’autorevolezza dell’informazione. Questa, come vedremo, ha molte declinazioni. Di contenuto, di linguaggio, di trasparenza, di pertinenza, di rispetto normativo e anche di nuove possibilità di monitoraggio sul contributo reale della comunicazione al marketing. Il dato di fondo è che non è più tempo di riflettere se starci o meno. Gli operatori devono solo scegliere quanto e come, con il solo imperativo di farlo bene.

A cura di Fablab 

 

 

 

Torna su
Scienza e ricerca, si rischia sempre più un’Europa a due velocità

Scienza e ricerca, si rischia sempre più un’Europa a due velocità

Disponibilità finanziarie, difficoltà a reperire le coorti dei pazienti, infrastrutture inadeguate. Secondo il report del Parlamento europeo sono questi alcuni dei problemi cronici dei Paesi orientali che non tengono il passo con le controparti occidentali. L'Italia è tra i Paesi più virtuosi


C’è troppa differenza e si rischia un’Europa a due velocità e a farne le spese sono le scienze e la ricerca. A dirlo è un report del Parlamento europeo che mette in guardia da una divisione sempre più netta tra Europa occidentale e quella centro-orientale. Disponibilità finanziarie, difficoltà a reperire le coorti, infrastrutture inadeguate. Questi sono alcuni dei problemi a cui vanno incontro soprattutto gli Stati più giovani, quelli di Ue-13.

Ue-15 contro Ue-13

Per Ue-13 si intendono quegli Stati membri entrati a partire dal 2004: Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia. Tutti Paesi dell’est che, a quanto dice il Parlamento europeo, non reggono il confronto con il gruppo dei 15, ossia coloro che sono entrati prima.
A intervenire per tamponare il gap ci penserà anche la Commissione europea, soprattutto in vista del progetto Horizon 2020. La bassa aderenza ai programmi di ricerca e sviluppo all’interno di questo progetto è causata soprattutto dalla governance, oltre da problemi cronici come la mancanza di infrastrutture. Senza contare la debolezza degli istituti di ricerca. Questo comporta una carenza di qualità dei progetti sottoposti alla comunità internazionale, molto più bassa rispetto a quelli francesi, italiani, spagnoli o inglesi.

Ma manca anche l’internazionalizzazione

Un altro elemento a sfavore è la mancanza di apertura verso scenari internazionali. Anche la preparazione degli scienziati e ricercatori presenta delle differenze notevoli. “Sarà vitale aumentare le opportunità per i ricercatori provenienti da quelle aree con un più basso livello di partecipazione a progetti internazionali, così da sviluppare nuove eccellenze”, dice il report.

Spesa in R&S in rapporto al Pil nei Paesi Ue-13 tra il 1990 e il 2015. Fonte Eurostat

Spesa in R&S in rapporto al Pil nei Paesi Ue-15 tra il 1990 e il 2015. Fonte Eurostat

Gli investimenti in ricerca e sviluppo

Nel periodo 1990-2015, i livelli di investimento in R&D (in rapporto al Pil) nell’Europa a 15 sono superiori rispetto a quelli dell’Europa a 13. Slovenia, Estonia e Rep.Ceca si avvicinano al livello medio di tutti i 27 Paesi. Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Uk e Lussemburgo spendono tanto quanto i Paesi dell’est. In occidente crescono Austria, Danimarca, Germania e Belgio. In oriente crescono Rep.Ceca, Slovenia, Estonia e Ungheria.

 

 

Torna su
Farmacie francesi, cresce la paura della falsificazione dei farmaci

Farmacie francesi, cresce la paura della falsificazione dei farmaci

Un sondaggio dei distributori intermedi d’Oltralpe rivela la preoccupazione dei cittadini sui medicinali contraffatti e sulla diminuzione dei presidi rurali (una prospettiva che il 43% del campione teme “molto” e un altro 46% “abbastanza”)


Vita dura per le farmacie francesi. Aumentano i casi di falsificazione dei farmaci e preoccupa parecchio la diminuzione dei presidi rurali. Lo rivela un sondaggio condotto dall’Ipsos su un campione rappresentativo di mille cittadini francesi, commissionato dalla Chambre syndicale de distribution pharmaceutical (Csrp), sigla dei distributori intermedi d’Oltralpe.

La desertificazione delle campagne

Nove francesi su dieci hanno paura di vedere le farmacie scomparire nelle zone rurali. Dalla rilevazione emerge infatti che ben l’89% degli intervistati teme il fenomeno della progressiva erosione della rete territoriale delle farmacie. Specialmente nelle aree di campagna. Una prospettiva che il 43% del campione teme “molto” e un altro 46% “abbastanza”.

La falsificazione dei farmaci e la minaccia internet

Dal sondaggio emergono però anche altre preoccupazioni. Una è l’aumento della vendita di farmaci falsi contraffatti, che preoccupa l’87% degli intervistati. Segue il timore, strettamente correlato, della vendita dei farmaci su internet, indicato dall’85% del campione. Quindi la paura che i farmaci oggetto di provvedimenti di ritiro da parte dell’autorità non sia completamente ritirati dal mercato (83%). Infine, il timore di possibili carenze di alcuni farmaci sul mercato (79%). Emerge, con molta chiarezza, il desiderio dei cittadini francesi di vedere preservato l’attuale capillare sistema di accesso alle medicine. Per il 62% di essi, lo Stato deve finanziare l’equilibrio economico della rete dei presidi territoriali di distribuzione farmaceutica, nella misura in cui ne fissa gli obblighi di servizio pubblico.

 

Torna su
Screening, nel Lazio arrivano 122 nuove attrezzature

Screening, nel Lazio arrivano 122 nuove attrezzature 

Pubblicato il bando per l’ammodernamento di mammografi, colonscopi ed ecografi di fascia alta. L’investimento rientra in un fondo da 13,6 milioni di euro stanziato dalla Regione. Asl Roma 6 capofila per le procedure d’acquisto


Nel Lazio si rinnova il parco tecnologico per i programmi di screening delle aziende sanitarie locali. È stato pubblicato il bando della Regione per l’acquisto di 122 macchinari di ultima generazione, fra cui mammografi digitali con tomosintesi e stereotassi, colonscopi e colonne endoscopiche hd, ed ecografi alta fascia. La Asl Roma 6 è stata designata azienda capofila e sta procedendo all’acquisto per conto di tutte le asl del Lazio. Il bando rientra nel fondo di 13,6 milioni di euro, stanziato dalla Regione, per il potenziamento delle attività di prevenzione per la donna e il bambino, per l’incremento dei consultori e per i programmi di screening legati alla diagnosi precoce delle patologie oncologiche.

Gli screening per la prevenzione oncologica

Secondo gli ultimi dati della Regione, oltre mezzo milioni di cittadini (516.622) hanno partecipato nel 2017 alle campagne di screening gratuite alla mammella, alla cervice uterina e al colon retto. Le adesioni sono state 51.141 in più rispetto al 2016 e hanno consentito di diagnosticare 5.166 casi di tumore. Nel dettaglio, l’incremento più alto è stato registrato dagli screening del colon retto, con 40.487 adesioni in più. Segue lo screening del tumore alla mammella (8.855 in più) e infine alla cervice uterina (1.799). Per la prima volta, il Lazio raggiunge la soglia fissata dai Livelli essenziali di assistenza (Lea) in tutti e tre gli screening. “L’adesione è completamente gratuita e non occorre impegnativa medica”, ricorda la Regione.

 

Torna su
Nasce l’atlante del cancro da un lavoro dei ricercatori dei Nih

Nasce l’atlante del cancro da un lavoro dei ricercatori dei Nih

L'analisi genomica è stata condotta su un set di informazioni molecolari e cliniche provenienti da oltre 10.000 tumori che rappresentano 33 tipi di cancro: “Fornisce una comprensione senza precedenti di come, dove e perché i tumori si presentano negli esseri umani”.


Il PanCancer Atlas ora è realtà. All’ atlante del cancro hanno lavorato per oltre dieci anni i ricercatori americani finanziati dai National Institutes of Health (Nih). Gli scienziati hanno completato un’analisi genomica dettagliata su un set di informazioni molecolari e cliniche provenienti da oltre 10.000 tumori che rappresentano 33 tipi di cancro. Un vero lavoro pioneristico come l’ha definito Francis S. Collins, direttore dei Nih: “L’analisi fornisce ai ricercatori oncologici una comprensione senza precedenti di come, dove e perché i tumori si presentano negli esseri umani, consentendo studi clinici mirati e aprendo la strada a nuovi trattamenti”.

L’atlante

Il PanCancer Atlas, pubblicato come una raccolta di 29 articoli in una serie su “Cell”, riassume il lavoro svolto dal Cancer Genome Atlas (Tcga), una collaborazione multicentrica avviata e supportata dal National Human Genome Research Institute e dal National Cancer Institute. Il programma, che vanta oltre 300 milioni di dollari di finanziamenti totali, ha coinvolto più di 150 ricercatori appartenenti a oltre due dozzine di istituzioni in tutto il Nord America.  “L’atlante – spiegano i ricercatori – è diviso in tre categorie principali, ciascuna dotata di un documento riassuntivo che sintetizza i risultati principali ottenuti. Gli argomenti principali includono la cellula di origine, i processi oncogeni e le vie oncogeniche”.

Un progetto ambizioso

“Si tratta del primo progetto di queste dimensioni a caratterizzare a livello molecolare il cancro attraverso una vasta gamma di tipi tumorali”, spiega Carolyn Hutter, a capo del Tcga. “All’inizio del progetto, dieci anni fa, non era nemmeno possibilefare questo tipo di caratterizzazioni e analisi, tantomeno su questa scala. Si trattava di un progetto già alla nascita ‘estremamente ambizioso’”. “PanCancer Atlas integra gli oltre 30 documenti specifici sul tumore pubblicati dal Tcga nell’ultimo decennio – aggiunge Jean Claude Zenklusen, direttore del Tcga Program Office al Nci – e amplia il precedente lavoro pubblicato nel 2013”.

Trattamenti più specifici

Oltre al sequenziamento del genoma del cancro, il progetto si è concentrato anche su diversi tipi di analisi dei dati. A iniziare dallo studio dei profili di espressione genica e proteica, fino all’associazione con dati clinici e imaging. I risultati ottenuti nel corso degli studi suggeriscono che i tipi di tumore si raggruppano in base alle loro possibili cellule di origine. Un risultato che aumenta la nostra comprensione di come il tessuto d’origine influenzi le caratteristiche del cancro. Il che potrebbe portare a trattamenti più specifici. Inoltre, i dati sull’interazione tra tumore e cellule immunitarie aiuteranno a dare priorità allo sviluppo di nuovi trattamenti e immunoterapie per una vasta gamma di tumori, confidano i ricercatori.

 

Torna su
Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

 

 

 

 

Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

Una schiuma spray che può essere utilizzata sia dai pazienti con psoriasi lieve-moderata che da quelli con forme moderate che non possono ricorrere ai farmaci sistemici


Una schiuma spray, una volta al giorno, per quattro settimane. Con risultati migliori rispetto a gel e unguenti. Ma anche con praticità e tollerabilità che favoriscono l’aderenza alle cure. Sono queste alcune caratteristiche di una nuova opzione terapeutica per i pazienti con psoriasi presentata oggi a Roma da Leo Pharma Italia, la filiale dell’azienda danese specializzata in dermatologia. Si tratta di una combinazione di calcipotriolo e betametasone dipropionato a dose fissa somministrata in formulazione in schiuma spray, che – spiega l’azienda – assicura una maggiore e più rapida penetrazione dei principi attivi attraverso la cute.

La novità

La schiuma spray può essere utilizzata sia dai pazienti con psoriasi lieve-moderata che da quelli con forme moderate che non possono ricorrere ai farmaci sistemici per delle controindicazioni. La posologia prevede un’applicazione al giorno per un ciclo di trattamento di quattro settimane. Il farmaco, sottolinea l’azienda, ha un effetto marcato o sui sintomi della psoriasi, come il prurito, e offre una risposta a molti dei bisogni insoddisfatti nel trattamento della malattia: dalla scarsa aderenza alla terapia alla percezione di bassa efficacia dei trattamenti topici, passando per la bassa qualità di vita per i pazienti.

“L’associazione tra calcipotriolo e cortisonico – spiega Piergiacomo Calzavara Pinton, direttore dell’Unità di Dermatologia degli Spedali Civili di Brescia e presidente della Società italiana di dermatologia (Sidemast) – è la terapia locale più efficace contro la psoriasi, con efficacia superiore a quella dei due principi attivi somministrati separatamente. Adesso, la nuova formulazione in schiuma sovrasatura permette di ottenere a livello cutaneo una concentrazione molto più alta di principi attivi. Il risultato terapeutico è decisamente superiore a quello dell’unguento o gel. Ma, cosa non meno importante, questa formulazione è ancora più gradevole e tollerata dal paziente”.

Gli studi clinici

L’efficacia della nuova formulazione, spiega Leo Pharma, è dimostrata da un corpus di studi clinici che hanno coinvolto complessivamente circa 1.700 pazienti: un paziente su due (51%) ha raggiunto un miglioramento quasi completo della malattia entro quattro settimane. L’altro 49% ottiene comunque un miglioramento, clinicamente visibile. In base ai dati misurati attraverso l’osservazione diretta dei pazienti, dopo cinque giorni di trattamento già il 50% ha riportato una riduzione del prurito di almeno il 70%, riduzione che dopo quattro settimane interessa l’80% dei pazienti. Infine, l’80% dei pazienti trattati a quattro settimane ha raggiunto un miglioramento clinicamente rilevante della qualità di vita.

L’impatto della psoriasi sulla vita delle persone

L’impatto della psoriasi – malattia cronica, recidivante e autoimmune che in Italia colpisce circa il 3% della popolazione – sulla vita delle persone è assai rilevante. Il sintomo principale è la comparsa di chiazze, arrossate e ricoperte di squame su diversi parti del corpo, tra cui cuoio capelluto, gomiti e ginocchia. “La psoriasi comporta spesso disagio, imbarazzo e frustrazione – spiega Giampiero Girolomoni, direttore della Clinica Dermatologica dell’Università di Verona – che si ripercuotono negativamente sull’autostima del paziente. Quando le placche si manifestano in zone del corpo fortemente esposte, come volto, cuoio capelluto, unghie, allora la psoriasi pone notevoli problemi di vergogna e imbarazzo e di conseguenza ha un rilevante impatto sulla quotidianità e sulle relazioni interpersonali. Se le chiazze si localizzano in aree del corpo meno visibili il disagio è minore ma la malattia è ugualmente fastidiosa per la presenza di prurito o dolore”.

L’impegno di Leo Pharma

L’arrivo di un nuovo prodotto sul mercato italiano è in sintonia col percorso di crescita dell’azienda, che ha progetti importanti per i prossimi anni. Leo Pharma guarda al 2020-2025 come arco di tempo per consolidare laleadership in dermatologia, grazie anche all’ingresso dell’azienda nell’area dei farmaci biologici, che si andranno ad affiancare ai trattamenti topici già in portfolio. “Ci siamo dati cinque anni di tempo, a partire dal 2020, per ‘cambiare pelle’, e riposizionarci come leader a tutto campo in dermatologia”, commenta Paolo Pozzolini, country lead di Leo Pharma Italia. “Saremo l’unica azienda – sottolinea Pozzolini – ad offrire trattamenti per tutti i tipi di psoriasi grazie ad un portfolio completo. Il nuovo processo comporterà un costante confronto con le istituzioni nazionali e regionali per condividere le opportunità dell’innovazione”. Negli ultimi anni la presenza di Leo Pharma in Italia è cresciuta: il fatturato è passato da 20 milioni di euro nel 2011 a 40 milioni nel 2016.

 

 

 

 

 

Torna su
Reputazione aziendale, ecco le migliori 150 società in Italia, il pharma arranca

Reputazione aziendale, ecco le migliori 150 società in Italia, il pharma arranca

Il mondo industriale sta affrontando un aumento della disaffezione degli stakeholder. Il pharma è indietro rispetto agli altri settori, solo al 12esimo posto nella media complessiva dei punteggi

La classifica

I parametri

Le fasce reputazionali

Ma c’è un calo di fiducia

Il senso di vuoto da colmare

 

Torna su
Troppo basso il livello di digitalizzazione in farmacia

Troppo basso il livello di digitalizzazione in farmacia

Secondo uno studio dell'Università statale di Milano solo la metà dei farmacisti ha dimostrato di avere investito su una qualche forma di innovazione di processo nell’ambito della propria attività. Ma c'è un gap generazionale da superare. In questo senso gli over 50 comprendono meglio dei giovani le potenzialità delle nuove tecnologie


Troppo basso il livello di digitalizzazione delle farmacie. Questo è quanto emerge da una ricerca sullo stato di digitalizzazione dei processi in farmacia in Italia, condotta dall’Università degli Studi di Milano, presentata a Bologna in occasione dell’edizione 2018 di Cosmofarma.

I social

Da una parte c’è la farmacia solo “social”. Appare la tipologia più diffusa al livello nazionale, si affida soprattutto a Facebook e WhatsApp. Dall’altro stanno crescendo le farmacie “a fiore”, quelle che mostrano un forte impiego di risorse sulle nuove tecnologie ma che spesso non riescono a cogliere in pieno i frutti della digitalizzazione. Infine le farmacie “per gemmazione”, che senza disdegnare la propria immagine social utilizzano la rete soprattutto per l’e-commerce. Il modello più evoluto è sicuramente quello “espanso”, con la farmacia che integra al meglio le dimensioni virtuale e fisica, valorizzando le proprie competenze distintive attraverso il mix di canali. La rete diventa quindi uno strumento per dare continuità all’esperienza di acquisto.

Troppo pochi i farmacisti che investono in digitalizzazione

 

Dall’indagine, che ha coinvolto quasi 200 professionisti su tutto il territorio italiano, emerge un panorama molto complesso. Solo la metà, ad esempio, ha dimostrato di avere investito su una qualche forma di digitalizzazione di processo nell’ambito della propria attività. La percentuale scende addirittura a poco più del 40% di chi ha effettivamente maturato una certa consapevolezza su strategia, tecnologie e risultati. A far muovere l’attenzione, specialmente dei titolari delle farmacie (73,5%), sulla digitalizzazione è nel 67% dei casi la necessità di guardare al domani. Per questo Facebook e WhatsApp diventano soluzioni imprescindibili già attivate rispettivamente dal 76% e 49% delle farmacie al fianco di canali tradizionali. Soprattutto la telefonata per il recall (56%) o l’Sms (58%).

La differenza anagrafica: meglio gli over 50 che i giovani

“La farmacia sta assistendo oggi all’espansione delle tecnologie digitali senza avere ancora sviluppato una visione organica d’insieme”, ha spiegato Laura Iacovone dell’Università degli Studi di Milano. “Esiste una differenza “anagrafica” tra i più giovani che dovrebbero essere attivi in questo senso e gli over 50 che invece, pur non utilizzando i social, ne intuiscono le potenzialità. Grazie ad uno spirito imprenditoriale e una capacità di visione riescono a innescare processi di riorganizzazione in grado di sfruttarne in pieno i benefici in un’ottica di integrazione e continuità”.

 

Torna su
Dialisi a domicilio: meno accessi in ospedale, degenze più brevi e risparmi

Dialisi a domicilio: meno accessi in ospedale, degenze più brevi e risparmi

I risultati di una valutazione Hta sulla dialisi peritoneale sono stati discussi a Lecco in occasione di un convegno della Società italiana di nefrologia (Sin). Gli esperti: “Diventi la prima scelta”


La dialisi peritoneale riduce gli accessi in ospedale da parte dei pazienti con insufficienza renale cronica, abbrevia la durata delle degenze e genera risparmi per il sistema sanitario. È il messaggio che arriva dal XIX convegno del Gruppo dialisi peritoneale (Gsdp) della Società italiana di nefrologia (Sin), in corso in questi giorni a Lecco. Secondo gli esperti, la dialisi peritoneale – che è detta anche “intracorporea” e può essere gestita a domicilio –  garantisce benefici in termini di tolleranza, efficacia clinica e impatto sociale, ma viene prescritta a un numero di pazienti assai inferiore rispetto alla dialisi extracorporea, l’approccio “tradizionale” praticato in ospedale o in ambulatori specialistici.

Dialisi a domicilio

“La dialisi peritoneale – spiega Gianfranca Cabiddu, coordinatore del Gruppo dialisi peritoneale della Sin e responsabile della Struttura dialisi peritoneale dell’Azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari – è una metodica dialitica semplice, di facile apprendimento ed esecuzione. È inoltre, una metodica flessibile che si adatta allo stile di vita del paziente e non viceversa. Aumentare la dialisi domiciliare significa, quindi, prima di tutto crederci e, per poterci credere bisogna conoscerla. Solo in questo modo si potrà offrire al paziente l’opportunità di scegliere, in modo informato e consapevole, il tipo di trattamento che meglio si adatta alla propria situazione clinica e sociale”. Tuttavia, nonostante la dialisi peritoneale sia indicata per la maggior parte dei pazienti, ad oggi la percentuale di utilizzo di questa metodica in Italia non raggiunge il 10%. Del tema si è parlato nel corso del simposio dal titolo “Remote patient management: un innovativo approccio alla dialisi peritoneale” organizzato dall’azienda Baxter.

Focus sulla tecnologia

Nel dettaglio, gli esperti – spiega Baxter in una nota – si sono confrontati su un nuovo sistema per la dialisi peritoneale automatizzata (Apd) denominato “Claria”. Una piattaforma di connettività su cloud sviluppata da Baxter. “L’ausilio della tecnologia e dell’innovazione, attraverso piattaforme interattive, il cloud e sistemi di raccolta dati – spiega Lorenzo Di Liberato, medico dirigente dell’Asl-Nefrologia Chieti –  ci permette di diventare per il paziente una ‘famiglia digitale’ che lo accoglie e lo cura. Ulteriore evoluzione tecnologica – continua Di Liberato –  è la video dialisi che consiste in uno scambio di immagini e dati mediante una stazione trasportabile a domicilio del paziente collegata attraverso internet con una centrale di controllo informatico che consente il collegamento con il centro dialisi di riferimento”.

I numeri dell’Hta

Il sistema per la dialisi peritoneale automatizzata di Baxter è stato oggetto di uno studio di Health technology assessment (Hta) in Friuli Venezia Giulia, i cui risultati sono stati presentati a Lecco. La valutazione è stata realizzata dalla Regione in collaborazione con l’Asl Aas3 Friuli.  I dati sono stati analizzati dal Consorzio Crea dell’Università di Roma Tor Vergata. A descrivere i risultati principali è Gianpaolo Amici, direttore Nefrologia e Dialisi dell’Aas3 Friuli: “Abbiamo analizzato circa 21 pazienti prevalenti arruolati e seguiti per un anno, sei mesi con tecnologia preesistente e sei mesi con telemedicina-tele monitoraggio bidirezionale Claria Sharesource. Con l’applicazione della telemedicina si è osservata una riduzione delle telefonate pro-capite mensili (da 0.6 a 0.5), degli accessi programmati al centro (da 2.2 a 1.0), degli accessi non programmati (da 0.4 a 0.2) e delle giornate di degenza (da 1.7 a 0.8). L’analisi economica – prosegue Amici – ha restituito anche un vantaggio nei costi globali mensili di follow-up, escludendo il materiale dialitico necessario, da un range di costo di 747-1295 euro con la vecchia tecnologia a un range di costo di 305-389 euro con la nuova applicazione”. Un risparmio che oscilla tra 442 e 906 euro.

 

Torna su
Infezioni ospedaliere, troppe le morti evitabili. E i costi si alzano

 

 

 

 

 

 

Infezioni ospedaliere, troppe le morti evitabili. E i costi si alzano

Il problema riguarda anche i vaccini in quanto, secondo il presidente dell'Iss Walter Ricciardi, solo il 15% dei medici e infermieri è vaccinato contro l'influenza e un operatore su 10 può ammalarsi di morbillo. Un caso di salute pubblica a cui bisogna trovare un rimedio


Troppe infezioni ospedaliere che causano circa settemila morti. Tutte evitabili. Lo ha detto Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità durante l’inaugurazione del Master “Sepsi in chirurgia” al Policlinico Gemelli. “Questi decessi sono collegati a infezioni contratte in ospedali, con costi aggiuntivi pari a un miliardi di euro”.

I costi aggiuntivi

“I costi umanitari, sanitari ed economici derivano da una mancata prevenzione delle infezioni ospedaliere. Sono dovuti a comportamenti sbagliati, organizzazioni carenti e mancanza di prevenzione”, ha detto Ricciardi. Il presidente propone non solo un corretto lavaggio delle mani (che previene il 40% delle infezioni), ma anche una continua e precisa sterilizzazione.

Troppo pochi gli operatori vaccinati

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Sempre secondo Ricciardi “un operatore su 10 può ammalarsi di morbillo e solo il 15% dei medici e infermieri è vaccinato contro l’influenza”. Un tasso molto alto che rischia di compromettere la salute dei pazienti nel primo luogo di cura. “Dobbiamo trovare il modo di affrontare il problema. Innanzi tutto con la convinzione. Ma dobbiamo fare di più.” Il riferimento va all’Emilia Romagna, regione che ha deciso di rendere obbligatorie le vaccinazioni pediatriche e degli operatori sanitari (nei reparti ad alto rischio). Poi una riflessione sulle politiche attuate dal ministero della Salute e dallo stesso Iss. Duro l’attacco di Ricciardi contro i no vax, accusati di provocare malattie infettivi ai loro figli.

 I vaccini aumentano

Si ferma al 2017 il calo delle coperture vaccinali. L’Italia inverte la rotta e sfiora la soglia del 95% raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il dato nazionale per l’esavalente (a 24 mesi) si attesta oltre il 95% in 11 Regioni e raggiunge una media nazionale del 94,95%, in crescita dell’1,21% rispetto al 2016. Ancora più marcato l’incremento per la prima dose contro il morbillo, che arriva al 91,68% con un +4,42% sull’anno precedente. È il primo bilancio degli effetti del decreto sull’obbligo della vaccinazione per l’accesso a scuola, trasformato in legge a luglio 2017. I tassi di copertura aggiornati sono stati presentati oggi dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Dati positivi, ma che richiedono ancora uno sforzo per superare la soglia di sicurezza dell’Oms e le differenze regionali. Nel caso del morbillo (prima dose), soltanto una Regione (il Lazio) ha superato la soglia del 95%.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Acquisti centralizzati in sanità: l’Emilia Romagna risparmia 374 milioni in tre anni

 

 

Acquisti centralizzati in sanità: l’Emilia Romagna risparmia 374 milioni in tre anni

Ecco i risultati della spending review condotta tra il 2015 e il 2017 attraverso Intercent-ER, la centrale unica per gli acquisti nella Pa della Regione


La spending review dell’Emilia Romagna ha prodotto i suoi frutti, soprattutto in sanità. Grazie alla gestione di bandi e gare da parte dell’agenzia Intercent-ER, la centrale unica per gli acquisti nella Pa della Regione, le aziende sanitarie hanno risparmiato 131 milioni nel 2017 e, complessivamente, 374 milioni di euro nel triennio 2015-2017. Sono i numeri forniti oggi dalla Regione nel corso di una conferenza stampa. Se si considerano anche i risparmi prodotti al di fuori della sanità, la centralizzazione degli acquisti ha consentito di recuperare 445 milioni di euro nel triennio e 147 milioni nel 2017 (il 21,5% in più rispetto al 2016).

Acquisti centralizzati e gare informatizzate

Per quanto riguarda la sanità, nel 2017 sono stati stipulati – tramite procedure centralizzata – contratti per 1,9 miliardi di euro (il 206% in più rispetto al 2016). Significa – spiega la Regione – che gli acquisti centralizzati realizzati tramite Intercent-ER coprono oggi il 45% del fabbisogno complessivo di beni e servizi delle Aziende sanitarie emiliano-romagnole. Il numero medio di convenzioni utilizzate ha superato quota 26, con un +10% rispetto al 2016.

Un esempio concreto: tra le convenzioni aggiudicate lo scorso anno – ricorda la Regione – c’è quella per i guanti ad uso sanitario e per farmaci antiblastici per un valore di oltre 18 milioni di euro (Iva esclusa) e un risparmio di 5,6 milioni (del 23,77%). O quella per farmaci e parafarmaci, per 36,5 milioni e un risparmio di 20,4 (del 35,82%).

Da ottobre 2017 – con un anno di anticipo rispetto a quanto previsto dalla normativa nazionale – anche le procedure di gara per beni e servizi effettuate autonomamente dalle aziende del Servizio sanitario regionale sono tutte svolte in modo completamente informatizzato tramite il sistema telematico gestito da Intercent-ER. Nell’ultimo trimestre dell’anno – conclude la Regione – le Aziende sanitarie hanno realizzato 108 iniziative di gara in modalità digitale, per un valore di 243 milioni di euro.

 

 

Perchè non usare tutti lo stesso procedimento, peraltro noto?  (La Redazione del Sito) 

Torna su
Vaccini, l’Italia inverte la rotta: migliorano tassi di copertura

Vaccini, l’Italia inverte la rotta: migliorano tassi di copertura

Il ministero della Salute presenta i nuovi dati, che misurano gli effetti del decreto legge sull’obbligo vaccinali. Ora la soglia del 95% fissata dall’Oms è più vicina, ma alcune Regioni sono indietro. Nel frattempo, nel mondo, si celebra la "European Immunization Week"


Si ferma nel 2017 il calo delle coperture vaccinali. L’Italia inverte la rotta e sfiora la soglia del 95% raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il dato nazionale per l’esavalente (a 24 mesi) si attesta oltre il 95% in 11 Regioni e raggiunge una media nazionale del 94,95%, in crescita dell’1,21% rispetto al 2016. Ancora più marcato l’incremento per la prima dose contro il morbillo, che arriva al 91,68% con un +4,42% sull’anno precedente. È il primo bilancio degli effetti del decreto sull’obbligo della vaccinazione per l’accesso a scuola, trasformato in legge a luglio 2017. I tassi di copertura aggiornati sono stati presentati oggi dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Dati positivi, ma che richiedono ancora uno sforzo per superare la soglia di sicurezza dell’Oms e le differenze regionali. Nel caso del morbillo (prima dose), soltanto una Regione (il Lazio) ha superato la soglia del 95%.

I numeri sui vaccini

I nuovi dati del ministero sono aggiornati al 31 dicembre 2017. Oltre ai buoni risultati dell’esavalente e del vaccino contro il morbillo, aumentano anche le coperture per le vaccinazioni non obbligatorie, come anti-pneumococcica (88,4% nel 2016 vs 90,84% nel 2017) e anti-meningococcica C (80,7% vs 83,06%).

Il trend generale positivo è confermato anche dalle coperture vaccinali nazionali a 36 mesi, relative ai bambini nati nell’anno 2014. Questo dato è utile soprattutto per monitorare la quota di bambini che erano inadempienti alla rilevazione vaccinale dell’anno precedente e che sono stati “recuperati” in ritardo. Le coperture a 36 mesi – spiega il ministero – mostrano valori più alti rispetto a quelle rilevate per la medesima coorte di nascita a 24 mesi l’anno precedente: ad esempio, la coorte di nascita 2014 ha una copertura vaccinale anti-polio pari a 95,05% a 36 mesi, rispetto al 93,33% rilevato l’anno prima a 24 mesi (+1,72%). Ll’aumento è ancora più marcato nel caso del morbillo che cresce del 5,12%, passando da 87,26% a 92,38%. Anche le altre vaccinazioni obbligatorie superano il 95%, con l’eccezione, se pur per pochi punti decimali, di anti-epatite B e anti-Haemophilus influenzae tipo b.

L’andamento in crescita è confermato anche dalle coperture vaccinali a 48 mesi (relative ai bambini nati nell’anno 2013), rilevate quest’anno per verificare l’impatto della legge sull’obbligo vaccinale in termini di “attività di recupero dei soggetti inadempienti”: l’anti-polio passa da 93,43% (dato a 24 mesi rilevato al 31 dicembre 2015) a 94,73%, e l’anti-morbillo da 85,27% a 90,59%, con un guadagno rispettivamente dell’1,30% e del 5,32%.

Riguardo alle vaccinazioni in età pre-scolare, generalmente somministrati a 5-6 anni (relative ai bambini nati nell’anno 2010), si registra un +2,94% per la quarta dose di anti-polio (85,7% nel 2016 vs 88,68% nel 2017) e un +3,57% per la seconda dose (ciclo completo) di anti-morbillo (82,24% vs 85,80%).

Anche l’adolescenza è sotto la lente del ministero. La rilevazione è stata fatta su due coorti: i sedicenni (coorte 2001) e i diciottenni (coorte 1999). Anche per queste coorti si conferma un miglioramento delle coperture vaccinali: l’anti-difterica (quinta dose) nei sedicenni aumenta di 4,43% (63,64% nel 2016 vs 68,07% del 2017) e l’anti-morbillo (seconda dose) guadagna il 4,98% (78,86% vs 83,84%. Nei diciottenni si registraun aumento del 3,73% per anti-difterica e +6,05% per anti-morbillo.

European Immunization Week

I dati del ministero arrivano in concomitanza con le celebrazioni della Settimana europea delle vaccinazioni (23-29 aprile). L’iniziativa, lanciata nel 2005 dall’Ufficio Regionale Europeo dell’Oms, ha lo scopo di aumentare, nella popolazione e tra gli operatori sanitari, la consapevolezza del rischio reale legato alle malattie infettive e dell’importanza delle vaccinazioni.

Per l’occasione, il ministero della Salute, in collaborazione con gli esperti del Nitag (Commissione nazionale vaccinazioni) e di alcuni ricercatori dell’Istituto superiore di sanità, ha curato la traduzione e l’adattamento di alcuni materiali di comunicazione, prodotti dall’Oms e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc).

Anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) si è mossa. L’ente regolatorio ha reso disponibile sul suo portale l’elenco dei vaccini monocomponenti e multicomponenti (o parzialmente combinati) autorizzati e disponibili in Italia per le vaccinazioni previste nella legge 119/2017 e l’elenco dei vaccini autorizzati e in commercio in Italia per le vaccinazioni non incluse nella legge 119/2017. I due elenchi consentono di accedere, tramite link diretto alla Banca dati farmaci Aifa, al foglio illustrativo e al Riassunto delle caratteristiche del prodotto (Rcp) di ciascun vaccino. L’Aifa inaugura inoltre una sezione del portale (“Vaccini”) che fornisce informazioni sui vaccini e sulle attività svolte dall’Agenzia per garantirne qualità, sicurezza ed efficacia lungo l’intero ciclo di vita, dalla sperimentazione clinica fino all’uso nella popolazione. L’Iss, invece, ha aggiornato il portale Epicentro con diversi contributi a cura dei ricercatori dell’Iss.

 

 

Torna su
Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

L'organismo comunitario ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L'obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa. Dal 2013, infatti, in Europa è vietata la vendita di prodotti testati su cavie da laboratorio


L’organo legislativo europeo è tornato sulle sperimentazioni animali in cosmetica. Ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L’obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa, ossia porre un freno ai test animali. Ma ci sono troppi gap da colmare e gli eurodeputati ne sono consapevoli.

Il divieto dal 2013 di libera vendita

Da ormai cinque anni, all’interno dei territori Ue, è vietata la libera circolazione di cosmetici derivanti da sperimentazioni animali. Tuttavia I deputati hanno sottolineato che ciò non ha impedito all’industria cosmetica europea di prosperare e creare circa due milioni di posti di lavoro. L’obiettivo della risoluzione parlamentare è quella di spingere a livello diplomatico in tutto il mondo. Tutti i Paesi dell’unione devono fare il proprio dovere per convincere l’80% degli Stati del mondo che ancora praticano sperimentazione animale. Va inoltre fatto notare che la maggior parte degli ingredienti dei prodotti cosmetici è utilizzata in molti altri prodotti. A partire da quelli farmaceutici, dei detergenti o di certi alimenti. E possono pertanto essere stati già sperimentati sugli animali in base a leggi diverse.

Frontiere permeabili

Ma la volontà della Comunità europea trova ostacoli non da poco sul suo percorso. Il sistema di controllo doganale ai confini ha delle carenze tali per cui molti cosmetici vengono testati sugli animali in Paesi terzi e poi introdotti nel mercato unico. Spesso a seguito di ulteriori test all’interno di laboratori europei. Questo spinge sia le istituzioni comunitarie, che i singoli Stati, ad ampliare la propria rete diplomatica e a convincere i partner non comunitari non solo a sperimentare, ma a impedire che prodotti considerati illeciti varchino le frontiere europee.

 

 

Torna su
Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

 

 

Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

L'organismo comunitario ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L'obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa. Dal 2013, infatti, in Europa è vietata la vendita di prodotti testati su cavie da laboratorio


L’organo legislativo europeo è tornato sulle sperimentazioni animali in cosmetica. Ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L’obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa, ossia porre un freno ai test animali. Ma ci sono troppi gap da colmare e gli eurodeputati ne sono consapevoli.

Il divieto dal 2013 di libera vendita

Da ormai cinque anni, all’interno dei territori Ue, è vietata la libera circolazione di cosmetici derivanti da sperimentazioni animali. Tuttavia I deputati hanno sottolineato che ciò non ha impedito all’industria cosmetica europea di prosperare e creare circa due milioni di posti di lavoro. L’obiettivo della risoluzione parlamentare è quella di spingere a livello diplomatico in tutto il mondo. Tutti i Paesi dell’unione devono fare il proprio dovere per convincere l’80% degli Stati del mondo che ancora praticano sperimentazione animale. Va inoltre fatto notare che la maggior parte degli ingredienti dei prodotti cosmetici è utilizzata in molti altri prodotti. A partire da quelli farmaceutici, dei detergenti o di certi alimenti. E possono pertanto essere stati già sperimentati sugli animali in base a leggi diverse.

Frontiere permeabili

Ma la volontà della Comunità europea trova ostacoli non da poco sul suo percorso. Il sistema di controllo doganale ai confini ha delle carenze tali per cui molti cosmetici vengono testati sugli animali in Paesi terzi e poi introdotti nel mercato unico. Spesso a seguito di ulteriori test all’interno di laboratori europei. Questo spinge sia le istituzioni comunitarie, che i singoli Stati, ad ampliare la propria rete diplomatica e a convincere i partner non comunitari non solo a sperimentare, ma a impedire che prodotti considerati illeciti varchino le frontiere europee.

 

 

 

 

Torna su
Medicitalia.it, un esempio di successo nella comunicazione con i pazienti

Medicitalia.it, un esempio di successo nella comunicazione con i pazienti

Non è facile orientarsi in rete quando si è in cerca di risposte a quesiti che riguardano la salute. A tal fine è importante scegliere canali dove l’informazione passa al vaglio di specialisti autorevoli e contenuti accreditati: sulla piattaforma di consulti medici ogni mese si informano più di 6 milioni di pazienti *In collaborazione con Fablab


Il sito medicitalia.it è nato nel 2000 grazie all’intuizione di due amici che decisero di creare una community in cui i pazienti potessero fare delle domande relative a patologie, terapie, farmaci e ricevere delle risposte da medici certificati e dalla comprovata esperienza.

Dagli inizi la community è cresciuta a dismisura. Su medicitalia.it ogni mese più di 6 milioni di pazienti ricercano online informazioni sulla salute 10 milioni di volte.

Ma il dato più rilevante è il tempo trascorso sulle pagine del sito (quasi 6 minuti di media per ogni sessione). Una testimonianza della “fame” di informazione degli utenti che trova su questo canale risposte soddisfacenti e autorevoli.

Mettendo “in fila” i numeri

Facendo un rapido calcolo: 6 minuti per 10 milioni di sessioni al mese corrispondono a 1 milione di ore totali trascorse dai pazienti italiani sulla piattaforma di Medicitalia. Volendo giocare ancora un po’ con i numeri, si deduce che il tempo passato ogni mese sul sito supera i 41 mila giorni. Mettendo in evidenza il reale interesse da parte del pubblico, sempre più attivo sul web.

Dalle statistiche alle potenzialità

È evidente che bisogna utilizzare correttamente i nuovi canali di comunicazione. Per offrire un servizio di informazione scientifico, etico e puntuale, che consenta a tutti i diversi attori di interagire correttamente con i propri pazienti, attuali e futuri.

Alla luce di questi numeri, si potrebbe pensare che medicitalia.it sia stato territorio di conquista delle aziende farmaceutiche. Non è così. L’unica fonte di guadagno della piattaforma dalla nascita fino ad a aprile 2018 è stata la pubblicità display. Tutto l’advertising, sotto forma di banner, è stato gestito in completa autonomia da una primaria concessionaria pubblicitaria italiana che ha proposto sempre contenuti “generalisti” che spaziavano dalle automobili agli Otc. Tutti gli adv, tuttavia, non erano mai contestualizzati al contenuto delle pagine del sito.

Oggi per la prima volta è possibile pensare di utilizzare medicitalia.it per veicolare progetti di comunicazione innovativi rivolti ai pazienti. Sfruttando la forza di comunicazione delle aziende dell’healthcare, attraverso una sinergia che coinvolge le loro conoscenze scientifiche, i medici specialisti che operano sulla piattaforma e il corpus di contenuti presenti su medicitalia.it.

Quali sono le possibilità concrete che le aziende operanti nel mondo della salute hanno oggi a disposizione su medicitalia.it?

I banner “iper-contestualizzati”

I banner continuano a essere una forma di advertising molto efficace online. Ma per poter esserlo, devono raggiungere il pubblico giusto nel momento giusto e nel posto giusto.

Per questo, i nuovi banner veicolati su medicitalia.it sono sempre contestualizzati agli argomenti trattati. Vuol dire che le aziende dell’healthcare possono scegliere di indirizzare i propri adv solo su pagine afferenti a specifiche aree terapeutiche, patologie o specialità mediche. Riuscendo così a veicolare il proprio messaggio solo verso gli utenti potenzialmente interessati.

I progetti di comunicazione

Abbiamo accennato alla possibilità da parte delle aziende di utilizzare un nuovo modo di comunicare con i pazienti, che punti su contenuti puntuali dall’alto valore scientifico ed etico.

Scendendo più nel dettaglio, si tratta della possibilità per le aziende di sponsorizzare determinate sezioni di medicitalia.it, create ad hoc e dedicate a specifiche patologie o a specifiche aree terapeutiche. Medicitalia.it si occuperà da una parte di reclutare i medici più idonei a cui affidare i contenuti (dagli articoli alle videointerviste). E dall’altra di mettere a sistema i nuovi contenuti con i materiali già esistenti sulla piattaforma (articoli, speciali e consulti medici).

Il Codice Etico

Medicitalia vigila affinché gli argomenti siano trattati sempre da specialisti della salute autorevoli e di comprovata esperienza. E che i contenuti non citino in modo diretto né aziende né prodotti. Le aziende tuttavia possono sponsorizzare la creazione di questi “speciali salute” utilizzando gli spazi preposti che normalmente vengono dedicati all’adv. Grazie a questo tipo di progetti, l’azienda avrà la possibilità di partecipare realmente all’empowerment dei pazienti. E allo stesso tempo di comunicare in modo etico e trasparente i propri prodotti e i propri servizi a un pubblico selezionato e attento. Per gestire questi progetti, medicitalia.it ha scelto due agenzie che da decenni si occupano esclusivamente di comunicazione digitale in ambito healthcare. Fablab, per la gestione tecnica dei progetti di comunicazione e della pubblicità display, e Digital Solutions, per la gestione commerciale.

A cura di Fablab

Homepage Comunicazione multicanale nell’healthcare

 

Torna su
Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

Torna su
Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

Torna su
Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

Torna su
Corruzione in sanità, Cantone: “Prima minaccia per l’esistenza del Ssn”

Corruzione in sanità, Cantone: “Prima minaccia per l’esistenza del Ssn”

Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) apre a Roma il 25esimo convegno nazionale degli ingegneri clinici (Aiic). E sugli appalti per le tecnologie sanitarie avverte: “Alle amministrazioni serve il know-how per scelte consapevoli, accorte, documentate e trasparenti”


L’innovazione tecnologica in sanità corre veloce, ma le amministrazioni che acquistano queste innovazioni non sempre si fanno trovare preparate. Una “asimmetria” di competenze che amplifica il rischio di “sprechi e corruzione” nell’acquisizione di tecnologie sanitarie attraverso gli appalti. È la tesi di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), che oggi a Roma ha aperto il 25esimo congresso nazionale dell’Associazione italiana degli ingegneri clinici (Aiic).

Carenza di know-how

“Le nuove tecnologie applicate al mondo della sanità – spiega Cantone – pongono sfide ma anche rischi dal punto di vista delle conseguenze criminali. Non sempre infatti il settore della sanità è all’altezza di sfide tecnologiche implicite nell’acquisto di apparecchi avveniristici e questo fa sì che non sempre i risultati siano corretti sul piano degli acquisti. È evidente che spesso all’amministrazione manchi di un know-how”. Secondo Cantone servono soprattutto competenze “per realizzare appalti secondo scelte consapevoli, accorte, documentate, trasparenti”. In questo contesto, agli ingegneri clinici dovrebbe spettare un ruolo di garanzia: “Gli ingegneri clinici sono chiamati a farsi parte virtuosa, perché hanno know-how, strumenti di conoscenza e formazione adatta a supportare le amministrazioni in questa sfida”.

Ssn a rischio “distruzione”

“Il primo effetto della corruzione e della mancata trasparenza – avverte Cantone – è la distruzione stessa del Ssn, inteso come valore e sistema in grado di assicurare una sanità di qualità a tutti i cittadini”. Il numero uno di Anac sottolinea l’appetibilità del sistema sanitario per il malaffare: “Il settore della sanità ha un enorme disponibilità di denaro e per questo è inevitabilmente obiettivo di chi non vive in onestà e trasparenza. La corruzione è il primo e più profondo attacco all’esistenza stessa del nostro Servizio sanitario nazionale”. E dove si muovono i flussi di denaro, crescono gli interessi della criminalità organizzata: “Abbiamo molti elementi – ricorda il presidente dell’Anac – che giustificano l’affermazione che la sanità è pervasa da problemi di corruzione e da pesanti infiltrazioni della criminalità organizzata, visto che dove ci sono soldi e dove si gestiscono i rapporti con i cittadini, si gestisce il consenso. Le organizzazioni criminali hanno bisogno proprio del consenso. Mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno bisogno che le popolazioni riconoscano la loro forza e la sanità è uno dei territori su cui si costruisce questo riconoscimento”.

I numeri della corruzione in sanità

Da Cantone, però, anche un invito alla prudenza su numeri e stime “eclatanti” che circolano sulla consistenza del fenomeno corruttivo in sanità: “Non ci sono cifre e rapporti chiari, non ci sono dati affidabili e credibili. Quando si legge di decine di miliardi volatilizzati in corruzione dobbiamo sapere che anche queste news sono bufale e leggende metropolitane. Allarmismi che non contribuiscono forse a concentrarsi davvero sul problema”.

Lorenzin: “Negli ultimi anni introdotti strumenti importanti”

A margine del convegno Aiic, il ministro della salute, Beatrice Lorenzin, ha ricordato alcune iniziative messe in campo negli ultimi anni per la trasparenza in sanità: “Contro la corruzione in sanità abbiamo messo in campo in questi anni nuovi e importanti strumenti. Uno è la legge sulla nomina dei direttori di Asl e ospedali, che prevede una selezione altamente meritocratica e ha tra gli elementi di decadenza dall’incarico la inottemperanza delle liste d’attesa. L’altra è l’inserimento di un responsabile dell’anti-corruzione all’interno delle strutture sanitarie, cosa che ha creato una rete attiva di persone deputate ad affrontare il problema”. Se è vero che il Ssn è “vulnerabile”, è anche vero che – concluso il ministro –  è il sistema “più controllato e monitorato della pubblica amministrazione”.

 

Torna su
La Commissione spinge verso la digitalizzazione del settore salute

La Commissione spinge verso la digitalizzazione del settore salute

Il 25 aprile l'esecutivo Ue ha pubblicato una comunicazione, rivolta alle altre istituzioni europee, al fine di stimolare l’adozione di atti comunitari volti a digitalizzare l'healthcare. Restano però le difficoltà nell'armonizzare le discipline nazionali in tema di trattamento dei dati personali. *In collaborazione con lo studio legale Portolano Cavallo


Il 25 aprile 2018 la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione sulla trasformazione digitale del settore salute definendolo uno strumento per responsabilizzare i cittadini e costruire una società più sana. La Comunicazione è rivolta alle altre istituzioni europee al fine di stimolare l’adozione di atti comunitari volti al raggiungimento degli obiettivi di digitalizzazione del settore. Restano tuttavia le difficoltà di armonizzazione delle discipline nazionali in materia di trattamento dei dati personali. Relativi soprattutto alle condizioni di salute, che possono avere un impatto negativo sulla circolazione dei dati e lo sfruttamento delle loro potenzialità per il progresso della ricerca medico scientifica.

Le attuali criticità

Secondo la Commissione, l’accesso e la condivisione dei dati sanitari (nel rispetto della riservatezza) sono un elemento chiave per la trasformazione digitale del settore. Tuttavia, come emerso dalla consultazione pubblica effettuata tra luglio e ottobre 2017, la sussistenza di significative differenze nelle modalità di gestione di questi dati rappresenta un fattore molto critico che rallenta il processo di digitalizzazione. Soprattutto tra gli Stati membri dell’Ue e talvolta persino tra le singole regioni all’interno degli stessi Stati.

Infatti, spesso, i dati sanitari dei pazienti non sono disponibili. Né ai professionisti medici o ai ricercatori che potrebbero utilizzarli per sviluppare e fornire diagnosi migliori, trattamenti o cure personalizzate. Né sono accessibili ai pazienti stessi o alle autorità pubbliche. Inoltre, i dati sanitari sono spesso supportati da tecnologie che non sono interoperabili, ostacolando così il loro uso su ampia scala e la loro condivisione tra Stati.
La consultazione ha altresì identificato preoccupazioni specifiche dei cittadini in relazione alla condivisione elettronica dei dati. In particolare il rischio di violazione della privacy, i rischi connessi alla cybersecurity e alla qualità e affidabilità dei dati.

Le principali aree di azione a livello europeo

Ciò premesso, la Commissione sottolinea come un’ulteriore azione a livello dell’Ue sia fondamentale. Sia per accelerare l’uso delle soluzioni digitali nella sanità pubblica che nell’assistenza sanitaria in Europa. Pertanto, la Commissione ha espresso l’intenzione di intraprendere ulteriori azioni nelle seguenti tre aree:

• Accesso sicuro dei cittadini ai propri dati sanitari e condivisione degli stessi attraverso le frontiere.
• Miglioramento dei dati disponibili  per promuovere la ricerca, la prevenzione delle malattie, la cura e la salute personalizzata.
• Strumenti digitali per l’empowerment dei cittadini e l’assistenza alla persona.

L’accesso sicuro ai dati sanitari

In particolare, la Commissione ritiene che i cittadini dovrebbero avere accesso sicuro, ovunque nell’Ue, a un registro elettronico completo dei loro dati sanitari. Gli attuali sforzi per lo scambio di dati sui pazienti transfrontalieri nell’Ue si basano sulla cooperazione volontaria delle autorità sanitarie. Ma sono limitati alle prescrizioni elettroniche e non coprono i registri sanitari elettronici.
La Commissione ritiene necessario estendere gradualmente questi casi pilota. Sia per coprire l’interoperabilità dei sistemi di cartelle cliniche elettroniche degli Stati membri, sia sostenendo lo sviluppo e l’adozione di un registro europeo della sanità elettronica.
A tal fine, secondo la Commissione, occorre altresì tenere conto delle tecnologie emergenti come la blockchain, meccanismi innovativi di gestione delle identità e meccanismi di certificazione.

Miglioramento dei dati per promuovere la ricerca

La Commissione intende altresì intensificare il coordinamento tra le autorità di tutta l’Ue per attuare uno scambio sicuro di dati genomici e di altri tipi di dati sulla salute al fine di promuovere la ricerca e la medicina personalizzata.
Ciò dovrebbe realizzarsi attraverso il collegamento di banche nazionali e regionali di dati genomici e simili, biobanche e altri registri in tutta Europa. L’obiettivo iniziale di questo coordinamento è di fornire l’accesso ad almeno 1 milione di genomi sequenziati nell’Ue entro il 2022. E quindi a una più ampia coorte prospettica basata su almeno 10 milioni di persone entro il 2025. Questa banca dati integrerà profiling molecolare, diagnostica per immagini, stili di vita (in particolare fattori di rischio), genomica microbiologica e dati ambientali. Nonché collegamenti a cartelle cliniche elettroniche. Si baserà inoltre su approcci predittivi basati su “pazienti digitali” in base a modellizzazione computerizzata, simulazioni e intelligenza artificiale.

La Commissione intende lavorare per concordare all’interno dell’Ue le specifiche tecniche per l’accesso e lo scambio di dati sanitari a fini di ricerca e sanità pubblica. E dovrà affrontare, ad esempio, la raccolta, la conservazione, la compressione, l’elaborazione e l’accesso ai dati sanitari in tutta l’Ue. La Commissione intende inoltre testare specifiche applicazioni pratiche dello scambio transfrontaliero di dati sanitari. Il tutto per migliorare il trattamento, la diagnosi e la prevenzione delle malattie, concentrandosi inizialmente sulle alcune aree pilota, tra cui quella delle malattie rare.

Strumenti digitali per l’empowerment dei pazienti

Secondo la Commissione, la digitalizzazione può contribuire a mettere i pazienti al centro del percorso terapeutico, migliorare il loro benessere e la qualità delle cure e contribuire a sistemi sanitari sostenibili. Utilizzando le soluzioni digitali, come i wereable e la mHealth, i cittadini possono impegnarsi attivamente nella promozione della salute e nell’autogestione delle proprie condizioni croniche. Questo a sua volta può aiutare a controllare la crescente domanda di salute e assistenza.
A tal fine, la Commissione incoraggerà una più stretta cooperazione tra autorità regionali e nazionali per stimolare lo sviluppo del settore delle tecnologie sanitarie. Ciò include il sostegno alle start-up e alle piccole e medie imprese che sviluppano soluzioni digitali per l’assistenza centrata sulla persona. La cooperazione coinvolgerà le autorità pubbliche e le altre parti interessate impegnate a promuovere principi condivisi per la convalida e certificazione delle soluzioni digitali da adottare nei sistemi sanitari.

Limiti a geometria variabile imposti dalle normative privacy

Se queste sono le intenzioni programmatiche della Commissione europea, non vi è dubbio che occorra fare i conti con discipline sulla protezione dei dai personali non ancora uniformi a livello europeo, nonostante la prossima applicazione del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr).
Proprio in materia di dati sensibili, come quelli relativi alle condizioni di salute, lo stesso Gdpr lascia aperta la possibilità per gli Stati membri di introdurre norme più stringenti rispetto a quelle dallo stesso poste. Tale circostanza, se non adeguatamente gestita, può rappresentare un freno allo sviluppo del processo di digitalizzazione del settore salute.

Ad esempio, la bozza di decreto di adeguamento del nostro ordinamento al Gdpr pone norme più stringenti per l’utilizzo dei dati sanitari a scopi di ricerca scientifica. In particolare, un eventuale “riutilizzo” di dati sanitari deve essere autorizzato dal Garante. Ma solo previa adozione di misure appropriate per tutelare i diritti degli interessati. Comprese forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati.
Peraltro, dal tenore della bozza del decreto, il “riutilizzo” dei dati genetici sembra del tutto precluso in Italia. Ulteriore circostanza che renderebbe difficile la realizzazione di progetti di creazione di biobanche condivise a livello europeo per la promozione e lo sviluppo della ricerca scientifica.

 

A cura di Laura Liguori (socia) e Elisa Stefanini (counsel) – Portolano Cavallo

Homepage Digital & life sciences

 

 

Torna su
Un nuovo sistema per ridurre gli effetti collaterali

Un nuovo sistema per ridurre gli effetti collaterali

Il lavoro pubblicato su Science si basa su un metodo che sfrutta i magneti per separare le molecole chirali, che (come la talidomide decenni fa) possono causare gravi reazioni avverse


Ridurre gli effetti collaterali. È il sogno di qualsiasi ricercatore o produttore di farmaci e anche di chi i medicinali li utilizza. Yossi Paltiel della Hebrew University di Gerusalemme e Ron Naaman del Weizmann Institute of Science hanno sviluppato un’innovativa tecnologia per creare molecole con meno effetti indesiderati. Il lavoro descritto su Science parte dalla considerazione che i composti chimici sono fatti per lo più di molecole chirali. Molecole uguali per formula chimica e struttura ma che sono speculari, quindi orientate in maniere diversa nello spazio. Questa piccola modifica può essere la causa di diversi effetti biologici.

Il caso talidomide

Un noto esempio è la talidomide, farmaco commercializzato negli anni ’50 e ’60 per alleviare le nausee mattutine delle donne incinte. La forma “destrogira” aveva effettivamente un effetto antiemetico, ma quella “levogira” provocava gravi malformazioni nei bambini. La società farmaceutica che produceva talidomide non aveva separato la molecola chirale destra da quella sinistra. Nelle donne che la assunsero  provocò malformazione fetali.

Separare le molecole chirali

La separazione delle molecole chirali nelle loro componenti destrorse e sinistrorse è un processo costoso e richiede un approccio su misura per ogni tipo di molecola. Attualmente solo il 13% dei farmaci chirali viene distinto, anche se la Fda raccomanda che tutti lo siano. Ora, dopo un decennio di ricerche, Paltiel e Naaman hanno scoperto un metodo uniforme e generico che consentirà ai produttori di medicinali di separare in modo semplice ed economico le molecole chirali.

Il metodo basato sui magneti

Il nuovo metodo si basa sui magneti: le molecole chirali interagiscono allineandosi diversamente a seconda del loro orientamento. Le molecole levogire interagiscono meglio con un polo del magnete, e le molecole destrogire con l’altro. Questa tecnologia consentirà ai produttori chimici di mantenere le molecole buone e di scartare quelle cattive, che causano effetti collaterali dannosi o indesiderati.

Ne abbiamo parlato sul numero 147  di AboutPharma and medical devices, di aprile 2017

 

Torna su
Oltre il viagra: ecco le nuove formulazioni hi tech

Oltre il viagra: ecco le nuove formulazioni hi tech

Dopo venti anni di utilizzo e successo la famosa “pillola blu” arriva sul mercato con nuove forme farmaceutiche più facili da utilizzare e soprattutto difficili da contraffare: dalle “gomme da masticare” al gel e le onde d'urto


Il viagra cambia look. Dopo venti anni di utilizzo e successo la famosa “pillola blu” arriva sul mercato con nuove forme farmaceutiche più facili da utilizzare e soprattutto difficili da contraffare. Il sidenafil – come gli altri prodotti contro la disfunzione erettile – resta infatti uno dei farmaci più acquistato online. Gli esperti della Società italiana di andrologia (Sia), riuniti a Roma per il 42esimo Congresso nazionale, hanno presentato le novità in proposito: dalle onde d’urto, alle “gomme da masticare” e il gel.

Le onde d’urto

Fra le nuove terapie vi sono le onde d’urto utili in circa il 70% dei pazienti con disfunzione erettile di grado lieve o medio con una causa organica della malattia. Si tratta di scariche a basso voltaggio già utilizzati per la cura del calcoli renali. Il trattamento non è per nulla doloroso e prevede in media 6 sedute. “Può guarire i pazienti, consentendo loro di dire addio ai farmaci e alla necessità di programmare i rapporti” continua Palmieri.

I biofilm

Già disponibile da un anno circa in Italia la nuova forma farmaceutica della molecola: i biofilm orali che si mettono sulla lingua e si sciolgono in pochi secondi. Finora ne sono stati utilizzati oltre 350 mila. “I principi attivi vengono introdotti all’interno di vettori che si sciolgono al contatto con la saliva secondo un processo molto avanzato – spiega Alessandro Palmieri, presidente Sia – ciò permette un assorbimento più veloce nella bocca, evitando il passaggio nello stomaco e nel fegato che può distruggere una gran quantità di farmaco. Tutto ciò rende il biofilm più rapido e più attivo”.

Il gel intrauretrale

Vi è infine il gel intrauretrale a base di alprostadil – da poco approdato in farmacia – che si applica localmente al momento del rapporto. “Si tratta di una prostaglandina legata a una sostanza inerte che la trasporta dal canale uretrale nel pene, dove serve” racconta Palmieri. “Ha un effetto vasodilatatorio molto rapido che favorisce l’erezione, e oggi viene utilizzata da chi non sopporta gli effetti collaterali degli altri farmaci sistemici e dai pazienti che preferiscono una sostanza che agisca e venga introdotta esattamente dove ve ne è bisogno”.

Formulazioni anti-contraffazione

Entrambe le nuove formulazioni sono tecnologie molto difficili da contraffare. Gli esperti  infatti ricordano che nel 70% dei casi chi acquista medicine online lo fa proprio per comprare il sildenafil. Sul web il giro d’affari è stimato in 4-6 miliardi di euro soltanto in Italia e viene venduta da oltre 15 mila siti visitati da quasi 13 milioni internauti al mese. Ma solo il 10% delle volte il principio attivo nelle confezioni disponibili online è quello giusto, al dosaggio opportuno. Da qui la necessità di tutelare la salute dei pazienti con cure altrettanto efficaci, a costi uguali, ma meno falsificabili.

Un’era post-pillola

“Siamo finalmente in un’era post-pillole dell’amore, in cui la tecnologia ci garantisce terapie all’avanguardia e soprattutto non clonabili” afferma Palmieri. “Circa un terzo degli uomini che acquista farmaci per risolvere la disfunzione erettile ricorre all’autosomministrazione e spesso se li procura sul web, dove il Viagra costa anche 10 volte meno rispetto alla farmacia, ma non garantisce efficacia e sicurezza. Le pillole non autorizzate, che arrivano soprattutto da India e Cina contengono spesso dosaggi anomali, fino al doppio del dovuto, oppure non hanno alcun principio attivo. Soprattutto, nell’8,5% dei casi sono state riscontrate sostanze tossiche o velenose, perfino in grado di provocare danni permanenti”.

Soluzioni adatte a tutti

I dati dello studio Conser, condotto dalla Sia e presentati al congresso della Sia, indicano che solo una piccola percentuale (8,5%) degli uomini che fanno uso di questi farmaci è pienamente soddisfatto delle offerte terapeutiche. Ampliare il panorama delle soluzioni era dunque una necessità, in modo che ciascuno trovi quella più adatta alle proprie necessità, come ha spigato Mauro Silvani, coordinatore dello studio Conser. “Il chewing-gum per esempio è particolarmente gradito per la rapidità d’azione, la possibilità di assunzione con il cibo e i minori effetti collaterali. Pazienti diversi hanno bisogno di farmaci differenti e formulazioni diverse: c’è chi vuole una pronta azione, chi una lunga durata. Non c’è una soluzione unica per tutti”.

 

Torna su
In arrivo una nuova varietà di cannabis terapeutica in Italia

In arrivo una nuova varietà di cannabis terapeutica in Italia

Dovrebbe arrivare a giugno la FM-1, con una percentuale di Thc intorno al 14% utilizzata per i pazienti affetti da Sla. Tra gli altri obiettivi dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze: ridurre il costo, portare la produzione a 300 kg/anno e aprire a privati. È in studio inoltre l’estratto in olio di cannabis


Dovrebbe arrivare a giugno la FM1, nuova varietà di cannabis terapeutica prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare che segue la FM-2 già in uso da tempo. Con una percentuale di Thc intorno al 14-15% la FM-1 doveva essere il corrispettivo del bedrocan – specialità olandese importata in Italia al bisogno – ed essere utilizzato soprattutto per le persone affette da scleroso laterale amiotrofica, come ha spiegato lo stesso Antonio Medica, direttore dello Stabilimento chimico farmaceutico militare (Scfm) di Firenze, durante la “Prima Conferenza italiana sulla cannabis come possibile farmaco”, svoltasi presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano.

In realtà la percentuale di Thc sarebbe dovuta essere più alta – intorno al 19-22% per essere al pari del bedrocan – ma “14% era la percentuale che potevamo garantire” ha aggiunto Medica. “Abbiamo completato la parte sperimentale ed è pronta la documentazione necessaria per chiedere l’autorizzazione. Servono infatti il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco per la qualità e del ministero della Salute per la distribuzione”.

Ridurre il costo

Oltre all’arrivo della FM-1 Medica ha annunciato anche gli altri obiettivi dello Stabilimento di Firenze, a iniziare dalla riduzione ulteriore del prezzo. “Sono tuttora in corso studi per ottimizzare il processo e abbattere i costi – racconta Medica – per arrivare in futuro a un ulteriore abbassamento del prezzo di vendita, oggi pari a 6,88 euro al grammo più Iva e spese di spedizione, a prescindere dal contenuto di principio attivo. Per i primi mille kg, in base all’accordo con il ministero della Salute c’è un recupero di un euro sull’investimento iniziale. Quando lo avremo recuperato, si potrà abbattere il prezzo di vendita alle farmacie. Prezzo che potrà beneficiare ancora di più, se si riuscirà ulteriormente a fare economie di scala. Il nostro impegno – conclude Medica – resta garantire massima trasparenza e qualità per l’utilizzatore finale, oltre a velocizzare per quanto possibile lo sviluppo di nuove serre”.

La FM-2 è stata inoltre la prima specialità a conseguire una certificazione Gmp nel 2015 come ha ricordato Germana Apuzzo del ministero della Salute a cui poi hanno fatto seguito anche tutte le altre specialità. Requisito fondamentale per lo svolgimento di studi clinici che ne conferma la standardizzazione dei principi attivi.

Aumentare la produzione

Altro obiettivo sarà aumentare la produzione della specialità per rispondere all’esigenza dei pazienti. Oggi lo stabilimento riesce a produrre 100 kg all’anno, ma la richiesta dello scorso anno è stata superiore. Per questo l’Italia è dovuta ricorrere ancora all’importazione dall’estero, anche di specialità differenti dalla FM-2, per coprire le tante richieste e le diverse necessità terapeutiche. L’obiettivo è dunque portare la quota produttiva a 300 kg e oltre. Medica spiega che al momento è stato appena completato un lotto da 100 kg che verrà spedito nelle farmacie italiane a breve.

Due nuove serre

Oggi sono operative tre serre e una sperimentale e entro fine anno ne saranno allestite altre due più altri assetti produttivi per arrivare ai 150 kg di produttività annuale. Obiettivo prefissato dal direttore. “Per il momento – continua  – si è conclusa una gara per l’importazione di 100 kg per il 2018, che si sommano al prodotto coltivato in Italia e a quello che arriva dall’Olanda. Probabilmente lanceremo già a breve un’altra gara per un’ulteriore importazione di prodotto necessaria a coprire il fabbisogno 2019. Partiamo per tempo, dato che dobbiamo considerare i tempi di completamento dell’iter amministrativo, per arrivare al più presto ad avere un importatore individuato e selezionato”.

Aprire la produzione ai privati

Sempre per quanto riguarda la produzione c’è infine la possibilità già annunciata da tempo, di coinvolgere anche privati nella coltivazione della cannabis terapeutica. “Ministero della Salute e della Difesa sta lavorando a un accordo – ha spiegato Apuzzo – per aprire anche a terzi, fermo restando che il proprietario del prodotto finale sarà sempre e comunque lo Stato. Vanno quindi stabiliti i criteri di collaborazione e rapporto con i privati”.

L’estratto in olio

Se è chiaro che c’è un gran bisogno di evidenze cliniche e ancora un grande caos sul prodotto migliore da utilizzare, inizia a prendere piede la convinzione che l’oleolita sia la forma farmaceutica migliore. Perché consente di avere una concentrazione di principi attivi maggiore. L’estratto in olio di cannabis, da assumere in bocca tra guancia e la gengiva permette infatti una titolazione, cioè con una concentrazione nota e standardizzata di principio attivo. Sono in corso sperimentazioni per la messa a punto della forma farmaceutica e sfruttare così al meglio il prodotto e i sui principi attivi.

 

Torna su
L’efficacia dell’immunoterapia cambia a seconda del sesso

L’efficacia dell’immunoterapia cambia a seconda del sesso

Lo ha dimostrato una meta-analisi di 20 studi clinici randomizzati condotti su più di 11.000 pazienti con tumore avanzato, realizzata dall’Ieo, secondo cui il prolungamento della sopravvivenza degli uomini che ricevono inibitori di checkpoint immunitari sia quasi il doppio rispetto alle donne


La differenza di genere conta eccome: l’efficacia della immunoterapia cambia a seconda del sesso. E in particolare sembra che il prolungamento della sopravvivenza degli uomini che la ricevono sia quasi il doppio rispetto alle donne. Lo ha dimostrato una meta-analisi di 20 studi clinici randomizzati condotti su più di 11.000 pazienti con tumore avanzato, realizzata da un team dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) e pubblicata su Lancet Oncology.

La meta-analisi

In particolare gli autori della meta-analisi hanno valutato la differenza nella sopravvivenza di pazienti curati con inibitori di checkpoint immunitari (Ipilimumab, tremelimumab, nivolumab o pembrolizumab) per forme avanzate o metastatiche di melanoma, carcinoma renale, tumore uroteliale, tumori del distretto testa-colo e tumore polmonare. In totale sono stati studiati 7.646 uomini (67%) e 3.705 donne (33%) e il risultato finale è che la riduzione del rischio di morte dei pazienti maschi è il doppio di quella delle pazienti femmine. Studi precedenti avevano invece dimostrato che gli uomini hanno quasi il doppio del rischio di mortalità per cancro rispetto alle donne, a causa di stili di vita e fattori biologici.

Un sistema immunitario diverso

“Sia il sesso che il genere possono potenzialmente influenzare l’intensità della riposta immunitaria” commenta Fabio Conforti, oncologo medico dell’Ieo e primo autore dello studio. “In media le donne hanno una risposta più forte degli uomini, nei confronti di numerosi agenti patogeni. Questo spiega il fatto che le donne contraggono meno infezioni e di gravità più lieve, oltre ad essere più reattive alle vaccinazioni. D’altro lato però l’80% dei pazienti con malattia autoimmune è donna. È possibile quindi che le differenze nel sistema immunitario fra donne e uomini abbiano una funzione importante nel corso naturale delle malattie infiammatorie croniche, come il cancro, e nella loro riposta ai farmaci».

Se le differenze non vengono considerate

Gli autori aggiungono che è ben documentata una differenza nel sistema immunitario, legata al sesso, anche a livello cellulare, come risultato di interazioni complesse fra i geni, gli ormoni, l’ambiente e la composizione del microbioma. “Malgrado l’evidenza del potenziale ruolo del sesso nell’influenzare il meccanismo d’azione di un farmaco – continua Conforti – gli studi clinici che sperimentano nuove terapie solo raramente ne tengono conto. Gli inibitori di check point immunitari hanno rivoluzionato la cura del cancro, mostrando un’efficacia superiore alle terapie standard per molti tipi di tumore. Al fine di sviluppare nuovi approcci che utilizzano immunoterapia sempre più efficaci, le differenze di sesso dovrebbero essere studiate più profondamente”.

Più comprensione dei meccanismi

Il messaggio che Conforti e il gruppo di ricerca vogliono lanciare, non è tanto che gli attuali trattamenti, compresi quelli immunoterapici, dovrebbero essere modificati sulla base di questi dati. “Piuttosto – continua Conforti – bisognerebbe capire meglio i meccanismi alla base delle differenze maschi-femmine per assicurarci che queste cure innovative siamo ottimizzate per tutti, donne e uomini”.

Donne sottorappresentate

“Va sottolineato che le donne sono sottorappresentate in tutti gli studi clinici” conclude Aron Goldhirsch Direttore Divisione Melanoma, Sarcomi Tumori Rari Ieo e coordinatore del lavoro.  “Infatti in metà degli studi inclusi nella nostra meta-analisi, le donne rappresentano meno di un terzo della popolazione. È ovvio dunque che il singolo studio non ha la potenza statistica adeguata nel dimostrare una correlazione fra sesso ed efficacia del trattamento. Quindi i nostri risultati sottolineano il bisogno di analisi specifiche per sesso, per evitare di estendere alle donne risultati ottenuti principalmente in pazienti maschi. Un errore che potrebbe portare a una qualità di cura inferiore e potenzialmente un danno”.

 

Torna su
Tetto di spesa 2017, superato dagli ospedali, ma non dalla spesa convenzionata

 

 

 

 

 

 

Tetto di spesa 2017, superato dagli ospedali, ma non dalla spesa convenzionata

Le aziende ospedaliere sono passate da 8,7 miliardi di euro nel 2016 a 9,4 miliardi con un disavanzo di circa 1,74 miliardi di euro. Ad analizzare lo scenario è Iqvia 


Anche nel 2017 gli ospedali hanno oltrepassato il tetto di spesa programmato. Sono passati da 8,7 miliardi di euro nel 2016 a 9,4 miliardi. Il tutto a fronte di un finanziamento previsto di 7,7 miliardi: un disavanzo di circa 1,74 miliardi di euro. Ad analizzare lo scenario è Iqvia

Il disavanzo

Questo disavanzo è avvenuto malgrado la rideterminazione del tetto della spesa farmaceutica per acquisti diretti. Ora è comprensiva della spesa per i farmaci acquistati in distribuzione diretta e per conto. Per il 2017, la percentuale della spesa farmaceutica per acquisti diretti sulla spesa sanitaria complessiva, pari a 111,9 miliardi di euro, era prevista – per legge – che fosse al di sotto del 6,89%. Nella realtà questa spesa ha inciso per l’8,4% sul totale della spesa sanitaria, confermando che il tetto fissato per il 2017 non era sufficiente.

Il payback

Anche nel 2017 è mancato l’equilibrio tra i tetti programmati per legge e la spesa reale. E le aziende farmaceutiche sono nuovamente chiamate a ripianare l’eccedenza della spesa farmaceutica ospedaliera (payback) per un totale di circa 870 milioni di euro. La restante parte verrà invece ripianata dalle regioni in base al loro superamento del budget assegnato. “Non tutti sanno che le aziende farmaceutiche sono chiamate a ripianare, in misura pari al 50%, l’eccedenza della spesa farmaceutica ospedaliera quando viene superato il tetto di spesa stabilito”. Ha dichiararlo è stato Sergio Liberatore, amministratore delegato di Iqvia Italia. “Questo significa che il Governo fissa il tetto della spesa, ma poi se viene superato sono le aziende farmaceutiche a dover ripianare il disavanzo. Senza neppure poter dire che il tetto fissato era troppo basso”.

Il fondo dei farmaci innovativi e la ricetta rossa

Nel 2017, la spesa convenzionata (ricetta rossa) è invece rientrata nei parametri prefissati. Avanzo positivo di 372 milioni di euro. Positiva l’istituzione dei due fondi, da 500 milioni ciascuno, dedicati il primo ai farmaci innovativi non oncologici e il secondo ai farmaci oncologici innovativi. Nel 2017 il primo dei due è stato quasi interamente destinato ai farmaci contro l’epatite C. Questo fondo di 500 milioni dovrebbe essere sufficiente per garantire il rispetto del tetto. Per gli oncologici, invece, il tesoretto ha permesso  la riduzione del disavanzo del tetto della spesa farmaceutica per acquisti diretti. La spesa per questi farmaci salvavita, che beneficiano dell’innovatività per 36 mesi, è passata da 210 milioni nel 2016 a 391 milioni di euro nel 2017 (+86%). Pertanto la spesa dovrebbe rientrare nel tetto prefissato.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Malattie croniche e rare, difficoltà economiche e troppa burocrazia per i pazienti

Malattie croniche e rare, difficoltà economiche e troppa burocrazia per i pazienti

Il XVI Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “Cittadini con cronicità: molti atti, pochi fatti” di Cittadinanzattiva fornisce un quadro dell'attuale gestione del'assistenza socio-sanitaria in Italia. Aceti: "È sempre più insostenibile lo scarto tra la mole di norme e gli atti di programmazione prodotti negli ultimi anni"


Si fanno riforme, atti e provvedimenti, ma le persone con malattie croniche e rare ancora non vedono grandi risultati. Non si sentono al centro del percorso di cura. Oltre il 70% vorrebbe che si tenessero in maggiore considerazione le difficoltà economiche e il disagio psicologico connessi alla patologia. Si chiedono cure più umane, attraverso un maggior ascolto da parte del personale sanitario (80,5%), liste d’attese meno lunghe (75,6%), aiuto alla famiglia nella gestione della patologia (70,7%). E soprattutto meno burocrazia (68,2%). È il quadro che emerge dal XVI Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “Cittadini con cronicità: molti atti, pochi fatti”, presentato il 29 maggio a Roma. A illustrarlo il Coordinamento nazionale delle associazioni di malati cronici (Cnamc) di Cittadinanzattiva, con il sostegno non condizionato di Msd. Al Rapporto hanno partecipato 50 associazioni di pazienti con patologie croniche (52%) e rare (48%).

Troppe parole e pochi fatti secondo Cittadinanzattiva

“É sempre più insostenibile lo scarto tra la mole di norme e atti di programmazione prodotti negli ultimi anni. Al futuro Governo e alle Regioni chiediamo di passare dagli atti ai fatti sulle politiche per la presa in carico della cronicità in ogni angolo del Paese”, dice Tonino Aceti responsabile del Coordinamento nazionale della Associazioni dei Malati Cronici. “Gli esempi più macroscopici sono il Piano nazionale cronicità, approvato ormai 20 mesi fa, e i nuovi Lea, in vigore da 14 mesi. Ebbene – lamenta Aceti – il recepimento del Piano procede a rilento e a macchia di leopardo. A oggi solo Umbria, Puglia, Lazio, Emilia Romagna e Marche lo hanno recepito formalmente. Mentre il Piemonte ha l’iter di recepimento ancora in corso. I nuovi Lea, che riconoscono nuovi diritti per i cittadini, per una buona parte invece sono ancora totalmente bloccati. Questo a causa dalla mancata emanazione dei due decreti per la definizione delle tariffe massime delle prestazioni ambulatoriali e quello dei dispositivi protesici”. Aceti poi punta il dito contro i mancati accordi tra Stato e Regioni “sui criteri per uniformare l’erogazione delle prestazioni demandate alle regioni che, se approvati, potrebbero ridurre iniquità e oneri inutili per i cittadini.”

La commissione Lea

Aceti aggiunge che bisogna fare di più sul fronte livelli essenziali di assistenza. “Se nel Piano cronicità le associazioni hanno avuto e continuano ad avere un ruolo da protagoniste altrettanto non si può dire per i Lea che restano autoreferenziali. L’appello che lanciamo oggi è quello di aprire la Commissione Nazionale LEA alle organizzazioni civiche”.

Ritardi nelle diagnosi, prevenzione e assistenza sociosanitaria

Secondo il 35,7% delle associazioni non si fa prevenzione. Solo per il 19% questa riguarda bambini e ragazzi. A promuovere programmi di prevenzione sono le stesse associazioni nel 98% dei casi. Oltre il 73% denuncia ritardi nella diagnosi, imputabili alla scarsa conoscenza della patologia da parte di medici e pediatri di famiglia (83,7%). Ma anche alla sottovalutazione dei sintomi (67,4%), mancanza di personale specializzato e di centri sul territorio (58%).
Del tutto carente l’integrazione tra assistenza primaria e specialistica (lo denuncia il 95,8%), così come la continuità tra ospedale e territorio (65,1%) e l’assistenza domiciliare (45,8%). L’integrazione sociosanitaria e i percorsi diagnostici-terapeutici sono attuati solo in alcune realtà (rispettivamente per il 52,2% e il 43,9%). Laddove esistono i Pdta, solo la metà delle persone si sente realmente inserita in un percorso di cura. Ma quando il Pdta si traduce in azioni concrete, gli effetti positivi non mancano. Prenotazione automatica di visite ed esami (50%), meno costi diretti (28,5%), diminuzione delle complicanze (21,4%).

Liste di attesa

In tema di assistenza ospedaliera, la metà denuncia lunghe liste di attesa per essere ricoverato. Senza contare la distanza dal luogo di cura, la mancata predisposizione della dimissione protetta. Sul territorio, le carenze sono evidenti: al primo posto i tempi di attesa, segnalati dal 90%, per accedere alle strutture riabilitative, alle lungodegenze o Rsa, alle strutture semiresidenziali.

La degenza

Nel caso delle Rsa e lungodegenze, si segnala la mancanza di équipe multiprofessionali (55%), i costi eccessivi per la retta (50%) e la necessità di pagare una persona per assistere il malato (45%). Nei centri diurni per attività terapeutico-riabilitative, spesso la riabilitazione è a totale carico del cittadino (44,4%) ed i tempi di permanenza sono troppo brevi per raggiungere il grado di riabilitazione necessario (44,4%).
Non va meglio per l’assistenza domiciliare: in questo caso, infatti, il numero di ore di assistenza erogate risulta insufficiente (61,9%). Manca l’assistenza psicologica e quella di tipo sociale (57,1%) è di difficile attivazione e spesso viene negata (52,3%).

Capitolo farmaci: limitazione prescrittiva e spese eccessive

Per quanto riguarda l’assistenza farmaceutica, in cima ai problemi si trova la spesa economica per farmaci in fascia C (62%). Seguita dalla limitazione di prescrizione da parte del medico di medicina generale (58,6%) e la difficoltà nel rilascio del piano terapeutico (48,2%).
Permane un problema di differenze regionali. Sia nella quantità (70,8%) che nella qualità (58,3%) dei presidi per l’assistenza protesica ed integrativa erogati. A seguire i tempi di autorizzazione e rinnovo troppo lunghi (54,1%).
A detta dell’81,5% delle associazioni, i bisogni psicosociali non vengono presi in considerazione. Per il 73,8% la persona, il familiare e il caregiver non vengono coinvolti né sostenuti dal punto di vista educativo e formativo.

 

 

Torna su
Incentivi all’imprenditoria femminile: 15 mila euro da #sostenGO

Incentivi all’imprenditoria femminile: 15 mila euro da #sostenGO

Riparte il progetto promosso da Laboratorio Farmaceutico SIT, con l’obiettivo di riconoscere il valore delle imprese create da donne. Nel primo mese dell’iniziativa, raccolte oltre 70 proposte

incentivi all'imprenditoria femminile

Riprende #sostenGO, l’iniziativa promossa da Laboratorio Farmaceutico Sit per dare incentivi all’imprenditoria femminile finanziando un’idea innovativa. Per candidare il proprio progetto, bisogna presentarlo entro l’8 giugno sul sito di #sostenGO spiegando il proprio progetto, che sia agli inizi o ancora da realizzare, in un breve scritto. Tra tutte le proposte in gara una giuria di professionisti individuerà sei finaliste.

Che cosa si vince

La vincitrice sarà individuata e proclamata entro la fine di settembre 2018 in occasione dell’evento di premiazione, dove le sarà consegnato il contributo di 15 mila euro. Quest’anno anche il social ha maggior rilievo: una volta scelte le semifinaliste, le proposte verranno votate pubblicamente e chi riceverà più voti, indipendentemente dalle scelte della giuria ufficiale, si aggiudicherà un premio ulteriore di duemila euro.

Le iscrizioni già arrivate

Dall’apertura delle iscrizioni sono arrivate oltre 70 proposte da donne tra i 35 e 45 anni. Ma ci sono anche le over 50. Lazio, Toscana, Piemonte e Campania sono le regioni più attive da cui arrivano progetti. I temi più frequenti sono artigianato e riciclaggio creativo, creazione di laboratori di sartoria, gioielli e lavorazione del legno. Presenti anche progetti legati al cibo, alla valorizzazione del km zero e della cucina tipica come anche altri a tema sociale.

Il commento della marketing manager di Laboratorio Farmaceutico Sit

“Le donne che aiutano le donne, che raccontano le proprie storie e si scambiano consigli. È ciò che vogliamo trasmettere con questo progetto. Supportare e sostenere le donne ogni giorno è il nostro obiettivo principale”, commenta Silvia Lunati, marketing manager del Laboratorio Farmaceutico Sit.

 

Torna su
Parere positivo del Chmp per erenumab, per la prevenzione dell’emicrania

Parere positivo del Chmp per erenumab, per la prevenzione dell’emicrania

La molecola è in grado di bloccare il recettore del peptide correlato al gene della calcitonina, che svolge un ruolo importante nella malattia. Se venisse approvata si tratterebbe della prima terapia disponibile nell’Ue specificamente concepita per la prevenzione dell’emicrania


Parere positivo del Chmp (Committee for medicinal products for human use) dell’Ema per erenumab per la prevenzione dell’emicrania. La molecola sviluppata da Novartis è in grado di bloccare il recettore del peptide correlato al gene della calcitonina (Cgrp, Calcitonin gene-related peptide), che svolge un ruolo importante nella malattia. Se venisse approvata si tratterebbe della prima terapia disponibile nell’Unione europea specificamente concepita per la prevenzione dell’emicrania. Il farmaco è indicato per chi ha almeno 4 giorni al mese di emicrania. In caso di approvazione, b verrà auto-somministrato una volta ogni quattro settimane mediante autoiniettore. Dopo il parere del comitato dell’Ema, sarà ora la Commissione europea a decidere se autorizzare la vendita di questo farmaco in tutta l’Unione europea.

L’efficacia di erenumab per la prevenzione dell’emicrania

Per l’emicrania non c’è una cura. I trattamenti attualmente in uso sono sintomatici. La loro efficacia, inoltre è variabile.  Il parere positivo del Chmp si basa su una serie di solidi dati, inclusi quattro studi clinici di fase II e III condotti su oltre 2600 pazienti con quattro o più giorni mensili di emicrania. Erenumab ha dimostrato benefici clinicamente e statisticamente significativi rispetto al placebo nel ridurre il numero di giorni mensili di emicrania attraverso l’intero spettro della malattia. Offrendo ai pazienti un maggior numero di giorni liberi da emicrania.

I dati

Nel corso del programma clinico, metà dei pazienti con emicrania episodica (4-14 giorni mensili di emicrania) che hanno assunto erenumab ha sperimentato una riduzione della metà o più del numero di giorni di emicrania. Una percentuale significativamente più elevata rispetto al placebo (43,3% e 50%, rispettivamente per erenumab 70 mg e 140 mg, placebo: 26,6%). I pazienti con emicrania cronica (15 o più giorni mensili cefalea) hanno analogamente ottenuto una risposta statisticamente significativa (40% e 41%, rispettivamente per erenumab 70 mg e 140 mg, placebo: 23%).

La sicurezza e tollerabilità

La sicurezza, l’efficacia e la tollerabilità di erenumab sono state attualmente valutate nel corso di studi clinici che hanno coinvolto più di 3000 pazienti. Tra questi lo studio Liberty con popolazioni difficili da trattare, con emicrania episodica che hanno fallito da due a quattro trattamenti precedenti. Nel trial i pazienti che assumevano erenumab 140 mg hanno avuto probabilità significativamente più elevata rispetto ai pazienti trattati con placebo di presentare una riduzione dei giorni di emicrania di almeno il 50%. In tutti gli studi, il profilo di sicurezza e tollerabilità di erenumab è stato comparabile a quello del placebo. Anche nel corso di uno studio dedicato alla valutazione della sicurezza cardiovascolare nei pazienti con angina stabile (indotta da esercizio fisico).

 

Torna su
Corruzione in sanità, un decalogo per garantire “livelli essenziali” di integrità

Corruzione in sanità, un decalogo per garantire “livelli essenziali” di integrità

Dall’Istituto per la promozione dell’etica in sanità (Ispe) un elenco di proposte per rendere più efficace la prevenzione dei rischi corruttivi


Non solo Livelli essenziali di assistenza (Lea). La sanità pubblica ha bisogno anche di altri Lea: i “Livelli essenziali anticorruzione”. Un elenco di “standard minimi” per garantire integrità e trasparenza nelle strutture sanitarie. È la proposta lanciata oggi dall’Istituto per la promozione dell’etica in sanità (Ispe), che a Roma ha presentato il documento “L’anticorruzione possibile, un decalogo per la sanità”. Un decalogo in dieci punti, a loro volta articolati in diverse proposte, con una serie di indicazioni applicabili in ogni Regione “a legislazione vigente e senza costi aggiuntivi”.

Le proposte per prevenire la corruzione in sanità

Fra le proposte, una gestione più efficace del conflitto di interessi, l’attuazione del whistleblowing, l’implementazione di reti di responsabili per la prevenzione della corruzione e trasparenza (Rpct), la costruzione di un unico ufficio controlli coordinato, l’avvio di programmi di formazione; l’istituzione iniziative per rafforzare trasparenza e reputazione e costruire una “leadership etica” nelle aziende sanitarie. La premessa al decalogo è “il superamento dell’idea che l’anticorruzione sia percepita come un sistema ispettivo da subire o un orpello amministrativo” a favore della “consapevolezza che un’altra anticorruzione è possibile”.

Un cambio di passo

“A cinque anni dalla Legge 190 – commenta Francesco Macchia, abbiamo assistito ad un impegno straordinario della Pubblica amministrazione italiana nella prevenzione di corruzione e illegalità. Se si vuole che questa spinta non si trasformi in meri adempimenti burocratici con la conseguenza di disinnescare l’efficacia di quelle stesse indicazioni, si deve promuovere un approccio di sistema che punti ad un significativo ‘cambio di passo’ culturale, coinvolgendo tutte le forze che ne marcano l’urgenza, dalla stessa Autorità nazionale anticorruzione (Anac), alle Regioni, fino alle organizzazioni federative sul territorio e ai medici che stanno sul campo a fianco dei cittadini”.

Cinque parole chiave

Secondo l’Ispe, una nuova idea di anticorruzione dovrebbe fondarsi su cinque parole chiave (integrità, governance, merito, competenza e rete), oggetto del dibattito che ha accompagnato la presentazione del decalogo.

Integrità. “Il raggiungimento di elevati standard di integrità in sanità – commenta Massimo di Rienzo, responsabile formazione di Ispe Sanità e tra i principali autori del decalogo – dovrebbe essere un chiaro obiettivo di mandato che i governi regionali assegnano ai direttori generali nella nomina dei Responsabili della prevenzione della corruzione e trasparenza”.

Governance. Governance sanitaria e appropriatezza della cure sono una priorità secondo Tiziana Frittelli, presidente di Federsanità Anci: “L’inappropriatezza costituisce uno dei massimi sintomi di mancanza di positiva tensione etica del Servizio sanitario nazionale, perché irrispettosa verso il paziente e verso la necessità di non dissipare risorse limitate. Un perimetro che la governance delle aziende sanitarie deve presidiare per preservare l’eticità del sistema è il rispetto dei valori traguardo posti dal Patto della salute 2014-2016 e monitorati dal Programma Nazionale Esiti, sia con riferimento ai volumi minimi che agli outcomes clinici.”

Merito. Sulla questione “merito”, la voce dei giovani camici bianchi:   “E’ arrivato il momento – spiega Maria Grazia Tarsitano, referente del Segretariato italiano giovani medici (Sig,) – di acclamare che i valori del merito, cosi come i criteri di selezione per competenza e integrità e i meccanismi di controllo di gestione vanno ripensati, dando un messaggio coordinato alle Regioni e alle istituzioni ai fini di coltivare nei giovani medici e nei futuri professionisti della sanità il seme dell’etica in sanità.”

Competenza. Marcello Faviere, responsabile Prevenzione Corruzione di Estar Toscana, sottolinea il valore delle competenze: “Un punto fondamentale che le strutture sanitarie devono poter garantire è la competenza degli Rpct, i quali nell’adempimento dei piani di prevenzione alla corruzione si trovano a gestire le situazioni più varie che vanno dall’aspetto legale, all’aspetto contabile a quello delle risorse umane”.

Rete. Giacomo Galletti, ricercatore Agenzia regionale sanitaria (Ars) Toscana, racconta come “fare rete” in sanità: “Strutturare una rete tra Rpct significa creare opportunità di confronto con i responsabili di altre aziende. Tale strategia, da una parte finisce per valorizzare il lavoro della singola persona, dall’altra crea un valore aggiunto a livello regionale attraverso la promozione e condivisione delle buone pratiche che rendono i processi condivisi più efficaci ed efficienti”.

Focus sul Lazio

In materia di contrasto alla corruzione in sanità, il Lazio è stata la prima regione italiana ad aderire al protocollo tra ministero della Salute, Anac e Agenas (Agenzia servizi sanitari regionali). “Il tema della corruzione e della prevenzione dell’illegalità nel settore sanitario è centrale nella nostra azione di governo – ha spiegato Alessio D’Amato, assessore alla Sanità e all’Integrazione socio sanitaria della Regione Lazio – Dopo il Protocollo di Vigilanza collaborativa firmato con l’Anac nel 2016 sempre in ambito sanitario, questa adesione rappresenta una novità assoluta: introduciamo – conclude l’assessore – una ‘dichiarazione pubblica di interessi’ rivolta ai professionisti dell’area sanitaria e amministrativa quale ulteriore strumento per prevenire e contrastare fenomeni di corruzione anche a tutela degli stessi professionisti”.

 

Torna su
Spesa sanitaria privata ancora in crescita: i cittadini pagano 17 miliardi per i farmac

 

 

Spesa sanitaria privata ancora in crescita: i cittadini pagano 17 miliardi per i farmaci

Al Welfare Day 2018 presentato il nuovo rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute. La spesa sostenuta direttamente dagli italiani sfiora quota 40 miliardi di euro. E pesa soprattutto su redditi medio-bassi, malati cronici e anziani non autosufficienti


La crescita della spesa sanitaria privata non si ferma: il totale sfiora quota 40 miliardi di euro. È aumentata del 9,6% tra il 2013 e il 2017, a fronte di un incremento dei consumi generali pari decisamente più contenuto (+5,3%). E pesa di più sulle famiglie a reddito medio-basso: la tredicesima di un operaio se ne va in cure sanitarie per sé e i familiari. È, a grandi linee, lo scenario che emerge dal nuovo rapporto Censis-Rbm Assicurazione salute, presentato oggi a Roma in occasione del welfare Day.

La spesa sanitaria privata

Nel 2017 circa 150 milioni di prestazioni sanitarie sono state pagate di tasca propria dagli italiani per una spesa complessiva di 39,7 mld di euro. Un esborso che ha coinvolti oltre 44 milioni di cittadini, con una spesa media pro-capite di 655 euro. Nel dettaglio, sette cittadini su dieci hanno acquistato farmaci, per una spesa complessiva di 17 miliardi di euro. Il resto si divide tra visite specialistiche (7,5 miliardi); prestazioni odontoiatriche (8 miliardi), prestazioni diagnostiche e analisi (3,8 miliardi), lenti da vista (due miliardi) e protesi o presidi (quasi un miliardo).  Nel 2016-2017 la spesa sanitaria privata (che lo scorso anno era di 37,3 miliardi) è aumentata in termini reali del +2,9% di contro al +1,5% della spesa totale per consumi delle famiglie italiane.

Chi si indebita per le cure

Secondo la ricerca Censis-Rbm, basata su un campione di mille abitanti, nell’ultimo anno sette milioni di italiani si sono indebitati pagarsi le cure. Circa 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi. Solo il 41% degli italiani copre le spese sanitarie esclusivamente con il proprio reddito: il 23,3% deve integrarlo attingendo ai risparmi, mentre il 35,6% deve usare i risparmi o fare debiti (in questo caso la percentuale sale al 41% tra le famiglie a basso reddito). Il 47% degli italiani taglia le altre spese per pagarsi la sanità (e la quota sale al 51% tra le famiglie meno abbienti). In sintesi, sottolinea il Censis, “meno guadagni, più devi trovare soldi aggiuntivi al reddito per pagare la sanità di cui hai bisogno”.

La percezione del Ssn

La percezione della sanità da parte dei cittadini è il cuore dell’indagine Censis-Rbm. Il 37,8% degli italiani prova rabbia verso il Servizio sanitario a causa delle liste d’attese troppo lunghe o i casi di malasanità. Il 26,8% è critico perché, oltre alle tasse, bisogna pagare di tasca propria troppe prestazioni e perché le strutture non sempre funzionano come dovrebbero. Il 17,3% prova invece un senso di protezione e di fronte al rischio di ammalarsi pensa “meno male che il Servizio sanitario esiste”. L’11,3% prova un sentimento di orgoglio, perché “la sanità italiana è tra le migliori al mondo”. I più “arrabbiati” verso il Servizio sanitario sono le persone con redditi bassi (43,3%) e i residenti al Sud (45,5%). Ma per un miglioramento della sanità il 63% degli italiani non si attende nulla dalla politica. Per il 47% i politici hanno fatto troppe promesse e lanciato poche idee valide, per il 24,5% non hanno più le competenze e le capacità di un tempo.

Più “rancorosi” verso il Servizio sanitario sono gli elettori del Movimento 5 Stelle (41,1%) e della Lega (39,2%), meno quelli di Forza Italia (32,9%) e Pd (30%). Ma gli elettori di 5 Stelle (47,1%) e Lega (44,7%) sono anche i più fiduciosi nella politica del cambiamento, rispetto a quelli di Forza Italia (31,4%) e del Pd (31%).

La rabbia

È diffusa la percezione di una “sanità ingiusta”. Ormai il 54,7% degli italiani è convinto che non si hanno più opportunità di diagnosi e cura uguali per tutti. Convinzione che si trasforma in rabbia: sono 13 milioni gli italiani che dicono stop alla mobilità sanitaria fuori regione. E in 21 milioni ritengono giusto penalizzare con tasse aggiuntive o limitazioni nell’accesso alle cure del Servizio sanitario le persone che compromettono la propria salute a causa di stili di vita nocivi, come i fumatori, gli alcolisti, i tossicodipendenti e gli obesi.

Il secondo pilastro

“La salute – commenta Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Assicurazione Salute – è da sempre uno dei beni di maggiore importanza per tutti i cittadini, ma in questi anni non è mai stata al centro dell’agenda politica. Questa situazione può essere contrastata solo restituendo una dimensione sociale alla spesa sanitaria privata attraverso una intermediazione strutturata da parte del settore assicurativo e dei fondi sanitari integrativi. Bisogna superare posizioni di retroguardia e attivare subito, come già avvenuto in tutti gli altri grandi Paesi europei, un secondo pilastro anche in sanità che renda disponibile su base universale – quindi a tutti i cittadini – le soluzioni che attualmente molte aziende riservano ai propri dipendenti. In questo modo si potrebbe dimezzare il costo delle cure che oggi schiaccia i redditi familiari, con un risparmio per ciascun cittadino di circa 340 euro all’anno. I soldi per farlo già ci sono, basterebbe recuperarli dalle detrazioni sanitarie che favoriscono solo i redditi più elevati e promuovono il consumismo sanitario. Ci dichiariamo sin d’ora disponibili ad illustrare al nuovo governo la nostra proposta, che può assicurare oltre 20 miliardi di risorse da investire sulla salute di tutti”.

Oggi poco meno del 15% della spesa sanitaria privata (circa 5,7 miliardi) è rimborsata da forme di sanità integrativa (fondi e assicurazioni). “Coloro che già beneficiano già di una forma sanitaria integrativa – spiega Vecchietti – hanno la garanzia di avere già pagata oltre il 66% delle cure che dovrebbero pagare di tasca propri”. Il valore di rimborso medio nel 2017 si è attestato a 433,15 euro.

“Attraverso la disponibilità per tutti i cittadini di una polizza sanitaria o di un fondo sanitario integrativo – suggerisce Vecchietti –  si potrebbe realizzare un effettivo affidamento in gestione della spesa sanitaria privata di tutti i cittadini ad un sistema ‘collettivo’ a governance pubblica e gestione privata in grado di assicurare una ‘congiunzione’ tra le strutture sanitarie private (erogatori) e dei cosiddetti “terzi paganti professionali” (le forme sanitarie integrative, appunto) con una funzionalizzazione della spesa sanitaria privata alla tutela complessiva della salute dei cittadini. In termini economici – spiega Vecchietti – si stima che questa impostazione potrebbe consentire di dimezzare e assicurare un contenimento della spesa sanitaria privata attualmente a carico delle famiglie di circa 20 miliardi di euro (più del 50%), con una riduzione dei costi medi pro capite attualmente finanziati “di tasca propria” di quasi 340 euro”.

Le proposte

“Servirebbe – auspica Vecchietti – omogeneizzare il regime fiscale e previdenziale applicabile alle forme sanitarie integrative prescindendo dal modello di gestione del rischio adottato (assicurazione/autoassicurazione) e dalla natura delle fonti istitutive. La stessa struttura dei benefici fiscali attualmente riservati alla sanità integrativa andrebbe rimodulata collegandone la portata all’effettiva capacità di ‘intermediazione’, in termini di quota percentuale di spesa sanitaria privata rimborsata, garantita agli assicurati da ciascuna forma. L’evoluzione verso un modello multi-pilastro anche in sanità appare sempre più ineludibile. In questa prospettiva auspichiamo che il ‘nuovo’ Governo sappia cogliere l’importanza di questa sfida ed abbia la capacità di valorizzare a beneficio di tutti i cittadini le importanti esperienze maturate in questo settore negli ultimi anni”. Vedremo in che direzione si muoverà il nuovo Governo.

 

 

 

Torna su
Attenzione ai farmaci da portare in vacanza: multe e divieti in alcuni Paesi

Attenzione ai farmaci da portare in vacanza: multe e divieti in alcuni Paesi

L'avviso arriva dal Foreign and commonwealth office (Fco) che ha messo in guardia i viaggiatori su prodotti di uso comune in alcuni Paesi, ma non tollerati in altri. Come la pseudoefedrina presente in Italia in numerosi farmaci da banco ma vietata in Giappone


Attenzione a cosa mettere in valigia prima di partire. E in particolare attenzione ai farmaci da portare in vacanza. Il Foreign and commonwealth office (Fco) ha infatti lanciato un’allerta per i viaggiatori, come riporta la Bbc, mettendoli in guardia su alcuni prodotti di uso comune in alcuni Paesi ma non tollerati in altri. Il rischio per chi viaggia, in caso di infrazione delle regole, è di ricevere una multa o addirittura la prigione in molti paesi, tra cui anche la Grecia e gli Emirati Arabi. Il Fco raccomanda dunque di contattare l’ambasciata, l’alta commissione o il consolato del Paese in cui si reca per un consiglio sullo stato legale di determinati farmaci.

I farmaci controllati

Tra i farmaci sotto controllo per esempio, vi è la pseudoefedrina, che in Italia si trova negli spray decongestionanti nasali e in altri prodotti da banco. In Giappone la stessa sostanza è considerata illegale. In Qatar, medicinali da banco come quelli per il raffreddore e la tosse sono “sostanze controllate” che devono essere accompagnati da una prescrizione. Diazepam, Tramadol, codeina e un certo numero di altri farmaci comunemente prescritti sono anch’essi considerati “farmaci controllati”. Ancora, a Singapore sonniferi, ansiolitici e antidolorifici forti richiedono una licenza. India, Pakistan e Turchia hanno una lista di farmaci non ammessi. Così come la Grecia, dove molte medicine fanno parte delle cosiddette ‘controlled drugs’, che necessitano di procedure particolari per l’introduzione nel Paese.

La richiesta del medico

In Costa Rica e in Cina è richiesta anche la ricetta del medico con specificati durata del trattamento e dosaggio dei farmaci che si hanno con sé. Nel primo caso in particolare sono ammesse solo le pillole sufficienti per la durata del soggiorno, con appunto una nota del medico per confermare che si tratta della giusta quantità.  In Indonesia, molti farmaci da prescrizione come codeina, sonniferi e trattamenti per l’Adhd sono illegali.

Nessuno controlla i farmaci da portare in vacanza

Il consiglio è verificare che, nel Paese dove ci si reca, alcune medicine comunemente prescritte nel proprio paese non rientrino negli elenchi dei “farmaci controllati”. Anche se quasi nessuno lo fa. Secondo un’indagine condotta su due mila adulti nel Regno Unito,  riportata dalla Bbc, solo il 33% di loro avrebbe chiesto informazioni sulle regole prima del viaggio. Considerando che quasi la metà della popolazione del Regno Unito utilizza farmaci da prescrizione, circa 21 milioni di persone rischiano di andare incontro a difficoltà a seconda della meta.

I suggerimenti per chi viaggia

Sempre la Bbc riporta una serie di consigli per chi ha in programma viaggi e necessita di portare con sé dei farmaci. Prima di tutto è utile trasportare i medicinali nel loro contenitore originale. Così come avere una ricetta medica in cui sono specificati i nomi generici dei farmaci. Utile in caso di controllo alle frontiere e nel caso in cui i medicinali debbano essere sostituiti o serva un aiuto medico.

 

Torna su
Alzheimer, Astrazeneca e Eli Lilly interrompono un trial clinico

Alzheimer, Astrazeneca e Eli Lilly interrompono un trial clinico

Si aggiungono altre due aziende alla lista di società che hanno interrotto test sulle malattie neurodegenerative. Oltre ai costi di sperimentazione, ci sono difficoltà oggettive come la mancanza di un modello animale su cui basare successivi studi


Astrazenenca e Eli Lilly interrompono un trial clinico su una terapia sperimentale contro l’Alzheimer. Oggetto dello studio era un inibitore dell’enzima beta secretase (Bace) chiamato lanabecestat. La decisione è arrivata a seguito di una decisione di esperti. A loro dire, i test non avrebbero portato al raggiungimento dei target primari.

Tentativi falliti

Cosa rimane ora della sperimentazione sugli inibitori Bace? Perchè è questa la domanda che la comunità scientifica mondiale si sta ponendo. Già J&J ha dovuto alzare bandiera bianca per quanto riguarda studi di questo tipo, senza contare la resa di Pfizer, Merck e Lundbeck. La ricerca sulle malattie neurodegenerative è complessa e la strada è accidentata. I motivi sono tanti e non tutti riconducibili ai costi di R&D.

I motivi dell’abbandono: manca il modello animale

Nel numero 159 del magazine, AboutPharma ha cercato di spiegare le cause di queste interruzioni. La sperimentazione di farmaci nella fase tardiva della malattia non è l’unico motivo che ha portato al fallimento di numerosi trial nel campo delle neuroscienze. Un altro motivo del continuo esito negativo delle sperimentazioni cliniche nel settore è la mancanza di un buon modello animale. Per cui pensare di testare a tappeto una batteria di potenziali farmaci non è possibile. Ed è questo il motivo per cui, a differenza di altre aree terapeutiche, il metodo empirico non funziona. “Non abbiamo buoni modelli che siano rappresentativi della malattia umana” critica Roberto Furlan del San Raffaele di Milano. “Nel caso dell’Alzheimer magari sono modelli di amiloidosi ma non hanno la caratteristica principale della malattia umana. In quei topi transgenici i neuroni non muoiono. La letteratura è piena di farmaci che danno ottimi risultati negli studi preclinici, dove fanno sparire l’amiloidosi e magari fanno anche recuperare il cosiddetto ‘danno cognitivo’ dei topi. Ma poi sugli esseri umani non funzionano. Perché si tratta di due condizioni differenti che hanno poco in comune. È la storia degli ultimi venti anni e le aziende che hanno deciso di abbandonare il settore non hanno tutti i torti”.

Soldi, tanti, tanti soldi

Il secondo motivo per cui il campo delle neuroscienze sta perdendo fascino è il costo troppo elevato delle sperimentazioni. Per disegnare uno studio di fase III in una malattia neurodegenerativa come l’Alzheimer, servirebbero circa due miliardi di euro. Perché l’unico esame oggi disponibile per misurarne la progressione è la risonanza magnetica, che permette di valutare il grado di atrofia della massa neuronale. E la dimensione campionaria dovrebbe essere molto alta e seguita per almeno due anni. “Si è creato un imbuto – prosegue Furlan – per cui anche farmaci con una potenziale indicazione preliminare non verranno mai testati sull’uomo. Insomma, non si possono testare sull’animale perché il modello non funziona, né sugli esseri umani perché costa troppo”.

Ma ci sono altre vie

Ma ci sono anche tante nuove strade ancora poco esplorate che possono portare a successi. Per esempio l’esplorazione del ruolo del brain-derived neurotrophic factor (Bdnf) nell’Alzheimer. Ma anche dell’infiammazione, della nutrizione o il sonno per citarne alcuni. Piergiorgio Strata professore emerito di Neurofisiologia presso l’Università degli Studi di Torino ne è convinto. In un’intervista rilasciata per il numero 157 di AboutPharma dice che “vi sono altre nicchie per la ricerca di farmaci per combattere l’Alzheimer. Un esempio viene dalle recenti scoperte sui legami tra Alzheimer e malattie del sonno. In un esperimento pubblicato nel mese di luglio 2017 si è dimostrato un aumento di amiloide nel liquor di soggetti volontari. In questi soggetti, nel corso di una singola notte è stata soppressa la fase N3 del sonno, quella caratterizzata dalle onde lente dell’elettroencefalogramma che domina nelle prime ore del sonno. Un aumento di amiloide e di tau si è riscontrata anche in persone che cronicamente hanno una ridotta efficienza della fase N3. Potranno essere sempre più utili i farmaci per l’insonnia che proteggano il più possibile la fase N3”.

 

 

Torna su
Prezzi dei farmaci: le Regioni possono abbassarli anche dopo l’aggiudicazione delle gare

Prezzi dei farmaci: le Regioni possono abbassarli anche dopo l’aggiudicazione delle gare

A dirlo è una sentenza del Tribunale di Torino, annunciata da un comunicato della Conferenza delle Regioni. I giudici hanno respinto un ricorso di un’azienda farmaceutica. Saitta: “Applicare questo criterio a livello nazionale”


Le Regioni possono abbassare il prezzo di fornitura di un farmaco, per adeguarlo al costo di nuovi medicinali immessi in commercio (generici e biosimilari), anche in un periodo successivo all’aggiudicazione della gara di appalto e prima di effettuare un nuovo bando di fornitura. A dirlo è una sentenza pronunciata nei giorni scorsi dal Tribunale di Torino e annunciata oggi da un comunicato della Conferenza delle Regioni. I giudici hanno respinto un ricorso di Pfizer contro la società di committenza della Regione Piemonte (Scr).

La vicenda

“La sentenza del Tribunale di Torino – spiega la nota della Conferenza delle Regioni – riguarda i farmaci contenenti il principio attivo Etanercept, utilizzato in ambito dermatologico e reumatologico. Scr aveva aggiudicato nel 2015 a Pzifer una gara d’appalto per la fornitura del farmaco Enbrel, ad un prezzo unitario di 209,68 euro. Nell’ottobre del 2016, la Regione Piemonte aveva comunicato alla casa farmaceutica – secondo quanto previsto dal capitolato della gara – l’adeguamento del costo unitario della fornitura al prezzo più basso di 157,25 euro, corrispondente al prezzo del nuovo farmaco biosimilare messo in commercio nel frattempo e disponibile nel ciclo distributivo (il biosimilare Benepali, prodotto dalla Biogen), in attesa di effettuare una nuova gara, poi aggiudicata nell’aprile 2017. In soli cinque mesi – sottolinea la nota – il risparmio ottenuto dalla Regione Piemonte è stato di quasi un milione di euro. Il Tribunale ha riconosciuto alla Regione di aver agito nell’interesse pubblico e ha respinto il ricorso”.

Saitta: “Pronti a incontrare il nuovo ministro”

Soddisfatto Antonio Saitta, assessore alla Sanità del Piemonte e coordinatore della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni: “Con questa sentenza è stato stabilito un principio importantissimo, che può consentire al sistema sanitario di contenere in modo rilevante i costi senza intaccare in alcun modo la qualità delle cure e la libertà di scelta dei medici ma soltanto introducendo elementi di concorrenza nel mercato”. Saitta si dice pronto a incontrare il nuovo ministro della Salute, Giulia Grillo, per “illustrarle questa nuova buona pratica in materia farmaceutica, riprendere il tema del payback e più in generale quello della spesa farmaceutica nel suo complesso, che deve essere affrontato continuando a garantire la qualità delle cure e a vantaggio del sistema sanitario pubblico, per il quale – conclude Saitta – tutte le Regioni sono impegnate”.

 

Torna su
Costi dell’emicrania: le donne sono più colpite, ma possono permettersi meno cure

A dirlo lo studio Gema (Gender&Migraine) del Cergas-Bocconi presentato oggi a Roma. Fra le persone che soffrono di emicrania, due su tre sono donne. Rispetto agli uomini perdono più giorni di lavoro e spendono meno per diagnosi e cura a causa del reddito inferiore


Le donne soffrono di emicrania più degli uomini, perdono più giorni di lavoro e di vita sociale, spendono meno (perché guadagnano meno) per diagnosi e cura. Sono questi alcuni dei dati emersi dallo studio Gema (Gender&Migraine) del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) dell’Università Bocconi, discusso oggi a Roma nel corso di un convegno organizzato dal Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità per presentare il “libro bianco” dal titolo “Emicrania: una malattia di genere”.

Lo studio

Lo studio indaga i costi diretti sanitari, non sanitari e le perdite di produttività associate all’emicrania attraverso un’indagine multidimensionale diretta effettuata su un campione di 607 pazienti adulti con almeno quattro giorni di emicrania al mese. La rilevazione è stata effettuata nel mese di giugno 2018.

Differenze di genere

A soffrire di emicrania sono quattro milioni di donne in Italia, contro due milioni di uomini. Le donne perdono a causa dell’emicrania 16,8 giorni di lavoro all’anno (contro i 13,6 dei maschi) e 26,4 giornate di vita sociale (contro 20). Il genere femminile è, inoltre, più esposto al fenomeno del cosiddetto “presentismo”, ovvero si presentano a lavoro in condizioni di malessere per ben 51,6 giorni contro i 35,6 degli uomini. A causa di un reddito inferiore a quello dei maschi, però, spendono meno per diagnosi e cura (1.132 euro l’anno contro 1.824).

“Le donne – spiega Rosanna Tarricone, docente della Sda Bocconi – sembrano essere vittime dei numerosi e fondamentali ruoli che ricoprono a livello sociale. Soffrono di emicrania più degli uomini, ma non possono concedersi il privilegio di assentarsi dal posto di lavoro o accantonare le tradizionali mansioni domestiche. Per di più, avendo un reddito mediamente inferiore a quello degli uomini, le donne rinunciano a effettuare visite ed esami, acquistare farmaci non dispensati dal sistema sanitario nazionale, sottoporsi a trattamenti non medici e ricevere assistenza formale”.

I costi dell’emicrania

Il Cergas ha stimato un costo annuale per paziente con emicrania pari a 4.352 euro, di cui:

  • 1.100 euro (il 25%) per prestazioni sanitarie;
  • 1.524 euro (il 36%) per perdite di produttività;
  • 236 euro (il 5%) per assistenza formale;
  • 1.492 euro (il 34%) per assistenza informale.

I costi a carico dei pazienti per farmaci o trattamenti non coperti dal Ssn sono stati stimatiin 464 euro all’anno.

 

Torna su
Superticket e liste d’attesa, Aiop: “Fondamentale dialogo tra strutture private e ministero”

La presidente dell’Associazione italiana ospedalità privata, Barbara Cittadini: “ Le strutture private accreditate sono parte integrante del Ssn. Un tavolo di ‘concertazione’ con il ministero della Salute è fondamentale per affrontare il tema delle liste d’attesa”


L’Associazione italiana dell’ospedali privata (Aiop) auspica un tavolo di “concertazione” con il ministero della Salute su liste d’attesa e superticket. “Le strutture sanitarie aderenti all’Aiop – afferma in una nota la presidente Aiop, Barbara Cittadini – sono parte integrante del Servizio sanitario nazionale e, quindi, sentono la responsabilità di dare risposta ai bisogni di salute dei cittadini, affrontando, tempestivamente, alcuni nodi ancora irrisolti, tra i quali il problema delle liste d’attesa”.

Un tavolo con il ministero

Il commento dell’Aiop arriva dopo l’appello di padre Virginio Bebber, presidente dell’Aris, l’associazione che riunisce le strutture socio-sanitarie religiose, per l’istituzione di un tavolo di confronto, dopo le dichiarazioni del ministro della Salute Giulia Grillo a favore dell’abolizione del superticket. “Aiop – sottolinea Cittadini -condivide l’auspicio espresso da padre Virginio Bebber che si possa, in tempi brevi, attivare un tavolo di confronto fra tutti i rappresentanti del Ssn e il ministero della Salute, per identificare una strategia comune, che consenta la piena integrazione dell’offerta delle componenti di diritto pubblico e privato della rete del Ssn e così migliorare, dal punto di vista quali quantitativo, l’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie”.

No a “sterili contrapposizioni”

L’associazione dell’ospedalità privata è pronta a fare la sua parte: “Avvalendosi, nelle nostre strutture associate, della professionalità di 12 mila medici, 26 mila infermieri e tecnici e 32 mila operatori socio sanitari – prosegue Cittadini – l’Aiop non potrebbe mai indulgere a logiche di differenziazione, e men che meno di sterile contrapposizione rispetto ad altri player della sanità, pubblici o privati che siano. L’idea del confronto, a nostro avviso, è un presupposto fondamentale per efficientare l’offerta sanitaria complessiva e, pertanto, la proposta di un tavolo di ‘concertazione’ a livello ministeriale – conclude Cittadini – troverebbe in Aiop un interlocutore che condivide l’obbiettivo di garantire agli italiani una risposta sanitaria in tempi rapidi, efficiente ed efficace”.

 

Torna su
Fda approva l’utilizzo di sufentanil come antidolorifico

 

 

L'ente regolatorio americano ha dato via libera a una nuova compressa estremamente potente, come alternativa ad azione rapida agli antidolorifici utilizzati negli ospedali. Tra gli addetti ai lavori però si teme un possibile abuso del farmaco che indurrebbe alla morte

La Fda ha approvato una nuova forma di oppioide per gestire il dolore acuto negli adulti. Secondo quanto riporta il sito Usa Today, si tratterebbe di una nuova compressa mille volte più potente della morfina,  come alternativa ad azione rapida agli antidolorifici IV utilizzati negli ospedali.

Come verrà utilizzato sufentanil

L’utilizzo dell’antidolorifico (sufentanil) sarà limitato solo alle strutture sanitarie, come ospedali, centri chirurgici e pronto soccorso. Anche se si teme che questa approvazione possa incrementare ancora l’utilizzo, già elevato, di oppioidi in Usa. Per questo motivo, il senatore democratico Ed Markey avrebbe esortato la FDA (il mese scorso tramite una lettera) a non approvare l’antidolorifico. Il motivo? Secondo Markey “un oppioide mille volte più potente della morfina ha mille volte più probabilità di essere abusato e mille volte più probabilità di uccidere”.

A tal proposito, il commissario della Fda Scott Gottlieb ha dichiarato che verranno applicate “significative restrizioni” all’utilizzo del farmaco. Che non sarà disponibile nelle farmacie al dettaglio né per qualsiasi uso domestico. Secondo quanto previsto dalle indicazioni d’uso, Il medicinale – fornito in un pacchetto monouso – non deve essere utilizzato per più di 72 ore. Tra gli effetti collaterali  ci sono estrema stanchezza, problemi respiratori, coma e addirittura la morte.

Le preoccupazioni per un farmaco “pericoloso”

Più nel dettaglio, si tratta di una compressa di sufentanil, un oppiaceo sintetico che è stato usato per via endovenosa e in epidurale fin dagli anni ’80. È dieci volte più forte del fentanil, un farmaco genitore che viene spesso utilizzato negli ospedali, ma è anche prodotto illegalmente in forme che hanno causato decine di migliaia di morti per overdose negli ultimi anni.

Sebbene il comitato consultivo della Fda, incaricato di valutare la nuova formulazione, abbia dato parere positivo all’uso di sufentanil, il presidente della giuria, Raeford Brown, ha scritto una lettera ai funzionari dell’agenzia stessa esprimendo profonda preoccupazione per questa decisione. Nella lettera, Brown, professore all’Università del Kentucky, ha descritto il sufentanil come “una farmaco pericoloso, il cui abuso potrebbe indurre alla morte”.

 

Torna su
Spesa farmaceutica, 28 miliardi nel 2017 di cui 19 a carico del Ssn

I dati arrivano dal rapporto annuale dell’Osservatorio farmaci per l’anno 2017 pubblicato dal centro Cergas dell’università Bocconi di Milano. La spesa complessiva e pubblica pro-capite per farmaci in Italia è in linea con la media europea. Il dato è sopra la media se si fa riferimento all’incidenza sul Pil e, con riferimento alla componente pubblica, all’incidenza sulla spesa sanitaria


Ventotto miliardi nel 2017, di cui 19 a carico del Ssn. Questo è il primo dato che emerge dal rapporto annuale dell’Osservatorio farmaci per l’anno 2017 pubblicato dal centro Cergas dell’università Bocconi di Milano. In generale la spesa complessiva e pubblica pro-capite per farmaci in Italia è in linea con la media europea. Valori inferiori però a Germania e Francia e superiori a Regno Unito e Spagna. Il dato è sopra la media se si fa riferimento all’incidenza sul Pil e, con riferimento alla componente pubblica, all’incidenza sulla spesa sanitaria.

I dati sulla spesa

La spesa farmaceutica totale ha raggiunto i 28,1 miliardi di euro nel 2017 (464 euro pro-capite), di cui 19,5 a carico del Ssn (322 euro pro-capite) e 8,6 (142 euro pro-capite) a carico del paziente. La copertura pubblica della spesa farmaceutica risulta elevata, ma nonostante le misure di contenimento ha subito una riduzione nel tempo non particolarmente significativa (dal 74% nel 2001 al 69% nel 2017).

L’incidenza della spesa farmaceutica e quella sanitaria pubblica

L’incidenza della spesa farmaceutica totale sulla spesa sanitaria è rimasta sostanzialmente stabile dal 2001 ed è pari al 18,2% nel 2017.  quella sulla spesa sanitaria pubblica è scesa dal 18,3% nel 2001 al 16,7% nel 2017. Il mix della spesa pubblica per farmaci si è modificato sensibilmente negli anni. Nel 2001 la spesa convenzionata (spesa per farmaci acquistati e dispensati dalle farmacie aperte al pubblico) rappresentava l’82% della spesa farmaceutica pubblica. Nel 2013 tale incidenza è scesa al 53% e nel 2017 al 42%. La modifica del mix è dovuta al lancio sul mercato di prodotti specialistici e all’uso diffuso di forme alternative di distribuzione dei farmaci. Dal 2013 al 2017 la spesa per farmaci in distribuzione diretta e per conto è passata dal 30% al 41% della spesa farmaceutica pubblica complessiva.

La spesa privata

Anche il mix della spesa privata ha subito un cambiamento importante. Dal 2001 al 2012 gli analisti hanno registrato un aumento della quota della spesa privata su prodotti rimborsabili dal 7,9% nel 2001 al 34,7% nel 2012 e una stabilizzazione al 35% negli anni successivi. La restante quota (65% nel 2017) è rappresentata dalla spesa per farmaci non rimborsabili dal Ssn.

Le regioni

Le regioni mostrano ancora importanti differenze nelle politiche del farmaco. Per quanto vi sia una tendenza ad adottare un mix più equilibrato con la compresenza di compartecipazioni alla spesa, di forme alternative di distribuzione dei farmaci e di azioni di governo del comportamento prescrittivo, esistono tuttora dei modelli differenziati a livello regionale con regioni più propense all’adozione di forme alternative di distribuzione dei farmaci. Su tutte Emilia Romagna e Toscana. Altre regioni hanno invece puntato maggiormente sulle compartecipazioni alla spesa come la Lombardia. Al centro-sud in media è maggiore la spesa farmaceutica pubblica, mentre in quelle del centro-nord la spesa privata. Di fatto per tutti gli indicatori di spesa privata (con l’eccezione delle compartecipazioni alla spesa) il centro-nord presenta valori superiori alla media nazionale. La copertura pubblica della spesa farmaceutica è, quindi, superiore nelle regioni del sud, analogamente all’incidenza della spesa farmaceutica pubblica sulla spesa complessiva del Ssn.

Le previsioni

Nel prossimo triennio dovrebbero proseguire il calo della spesa convenzionata netta (-1,1%, – 0,4% e -0,7% rispettivamente nel 2018, 2019 e 2020). La crescita della spesa per farmaci acquistati da aziende sanitarie era del 3,5% nel 2018 e sarà 6,6% nel 2019 e 2,7% nel 2020). Il trend della spesa produrrà un’ulteriore divario tra spesa e relativi tetti. Nello specifico, l’avanzo sulla spesa convenzionata dai 473 milioni di euro passerà a 569 milioni nel 2018, 730 milioni nel 2019 e 903 milioni nel 2020. Lo sfondamento del tetto sulla spesa per farmaci acquistati direttamente dalle aziende sanitarie, passerà da 1,59 miliardi di euro a 1,82 miliardi nel 2018, 2,46 miliardi nel 2019 e 2,67 nel 2020. È evidente che il problema all’origine del sistema dei tetti (sotto-finanziamento del tetto sulla spesa per acquisti), in assenza di compensazione tra gli stessi, produrrà di fatto un payback sempre più rilevante. Già nel 2017, se l’avanzo sul tetto della convenzionata e sui fondi innovativi fosse stato utilizzato per compensare lo sfondamento del tetto di spesa sugli acquisti, quest’ultimo si sarebbe ridotto a 665 milioni.

 

Torna su
Studi clinici a domicilio per garantire una raccolta dei dati puntuale e tempestiva

Gli studi clinici possono essere eseguiti con maggiore efficienza senza che il paziente si rechi fisicamente all’ospedale. A beneficio della puntuale raccolta dei dati e del tempestivo aggiornamento della documentazione dello studio. *In collaborazione con Domedica


Tutti gli studi clinici prevedono una serie di attività che è fondamentale vengano eseguite con puntualità, perché a volte l’intervallo di tempo previsto tra l’una e l’altra è di ore o minuti. Ad esempio:

  • La somministrazione del farmaco (investigation drug);
  • L’osservazione e raccolta dati post somministrazione;
  • L’assessment e raccolta di dati clinici (es. pressione, temperatura, peso, presenza di effetti collaterali);
  • Prelievi di sangue, urine o campioni biologici (che se richiesti vengono centrifugati a domicilio) da inviare al laboratorio dell’ospedale o a un laboratorio centralizzato;
  • Esami strumentali (es. Ecg, spirometria);
  • Raccolta di questionari sulla qualità di vita o questionari patologia-specifici.

 

Queste attività, poiché prevedono il coinvolgimento diretto del paziente, costringono quest’ultimo a recarsi in ospedale in giorni definiti e a spendere anche intere giornate per adempiere a tutte le attività previste dallo studio (sia cliniche che amministrative).

L’impatto su pazienti (pediatrici e anziani, ma anche giovani e adulti) è facilmente immaginabile: l’impegno di essere coinvolti in uno studio clinico si riflette direttamente sulla qualità di vita del paziente (che si trova a rinunciare a intere giornate di scuola o lavoro) e su quella del caregiver (spesso anche più di uno, come avviene in presenza di pazienti pediatrici o pazienti il cui stato generale è compromesso), costretti ad accompagnare il paziente in ospedale quando richiesto dallo studio (con conseguente perdita di giornate di lavoro). Una situazione ulteriormente gravata dalle spese (carburante, pedaggi, parcheggi, ecc…) che i pazienti e i loro caregiver devono necessariamente sostenere e che per alcune fasce sociali diventa difficile da sostenere. È, inoltre, facilmente intuibile che la solidità di tanti studi clinici sia minata dalle variabili generate dalle difficoltà che i pazienti affrontano per raggiungere l’ospedale.

Gli studi clinici a domicilio e l’approccio di Domedica

Da alcuni anni, diverse CROs (Contract research organizations) e aziende farmaceutiche sponsor che gestiscono studi clinici, nazionali e internazionali, hanno deciso di offrire la possibilità che alcune attività di studio siano effettuate a domicilio del paziente, includendo questa possibilità nel protocollo di studio e lasciando a ogni ospedale e al relativo comitato etico la scelta di attivare questa opzione.

In questo caso i pazienti si recano in ospedale solo per attività che coinvolgono direttamente i medici investigatori (es. per la visita di controllo) e riescono a vivere con maggiore tranquillità il coinvolgimento in uno studio clinico perché la maggior parte delle attività previste avvengono nel comfort della propria abitazione.

Da più di 10 anni, Domedica è partner di diverse CROs e aziende farmaceutiche sponsor e, attraverso i propri infermieri di ricerca (clinical research nurses, certificati GCP), è coinvolta nella realizzazione di diversi studi clinici a domicilio con elevata soddisfazione dei pazienti e degli investigatori.

Gli infermieri di ricerca di Domedica ricevono un training accuratissimo sul protocollo di studio ed eseguono tutte le attività previste nel rispetto dello stesso e con l’utilizzo dei materiali e degli strumenti previsti.

A livello centrale, sia il Clin-Care Centre di Domedica che i Programme manager dedicati, garantiscono il corretto flusso d’informazioni tra pazienti, investigation site, gli infermieri di ricerca e la CRO/Sponsor, la corretta esecuzione di tutti i processi e la piena conformità della documentazione prevista. Queste figure di Domedica hanno anche un’ottima conoscenza della lingua inglese, che è l’unica lingua utilizzata negli studi clinici.

Domedica supporta gli studi clinici anche con infermieri di ricerca o data manager che presso l’investigation site (ospedale) si occupano tempestivamente dell’attività di raccolta dati e data entry.

A cura di Domedica

Home page I Patient support program 

 

Torna su
Cure e sostenibilità: per un italiano su due l’ultima parola spetta al medico

Una ricerca del Censis, presentata a un evento Fnomceo sui 40 del Ssn, analizza la relazione tra camici bianchi e pazienti, misura la fiducia verso i dottori e traccia l’identikit del professionista ideale. Con un focus su tetti di spesa e vincoli che possono interferire con l’autonomia


Per il 53% degli italiani tetti di spesa, linee guida e protocolli sono utili, ma al medico deve essere lasciata la libertà di decidere, perché il camice bianco è il garante degli interessi del paziente. È quanto emerge dalla ricerca “Il medico pilastro del buon Servizio sanitario” realizzata dal Censis e presentata oggi a Roma nell’ambito dell’evento “40 anni del Servizio sanitario nazionale: la conquista di un diritto, un impegno per il futuro”, organizzato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) per celebrare l’anniversario dell’istituzione del Ssn.

Autonomia e vincoli

Secondo la ricerca, il riconoscimento della capacità del medico di individuare le cure migliori, grazie all’esercizio del suo libero giudizio clinico, va anche al di là del sistema di regole e di vincoli imposti dal Ssn (tetti di spesa, linee guida, protocolli), che possono interferire con l’autonomia del medico.

La maggioranza degli italiani (il 52,8%) ritiene che procedure e opzioni di cura prestabilite devono ritenersi utili a dare indicazioni di massima, lasciando però al medico la libertà di decidere se e come applicarle. Il 38,7% sostiene l’utilità di questi strumenti al fine di uniformare le cure più appropriate riducendo la possibilità di errore. Il 19,4% ritiene che possano avvantaggiare i medici come strumenti di deresponsabilizzazione. Solo l’8,5% le giudica inutili, richiamandosi a una visione di totale autonomia del medico come unico arbitro.

La relazione medico-paziente

L’indagine esplora anche “qualità” ed evoluzione del rapporto medico-paziente. Secondo il 58% medico e paziente devono collaborare nel prendere le decisioni sulle cure migliori (la quota è aumentata rispetto al 55,9% rilevato nel 2007). La percentuale è molto più elevata tra gli anziani (82,8%), che sperimentano più di tutti il valore di tale collaborazione nella gestione delle patologie croniche. Il 22,4% propende invece per un’asimmetria a favore del paziente, che decide da sé dopo aver ascoltato il medico (era il 10% nel 2007). Mentre il 19,6% è favorevole a una supremazia del medico, senza che il paziente abbia voce in capitolo (la quota era il 34,1% nel 2007).

La fiducia

Gli italiani si fidano ancora dei camici bianchi. L’87,1% degli italiani si fida del medico di medicina generale (la quota raggiunge il 90% tra gli over 65 anni), l’84,7% si fida dell’infermiere, mentre è molto più ridotta, sebbene ancora maggioritaria (68,8%), la quota di chi esprime fiducia nel Servizio sanitario nazionale. Lo stesso vale per gli odontoiatri. L’85,3% degli italiani ha un dentista di riferimento.

Fonte di informazioni

Il medico, secondo la ricerca Censis, è ancora la prima fonte di informazione sulla salute. Il medico di medicina generale è la fonte numero uno (per il 72,3% degli italiani), seguono familiari e amici (31,9%), poi la tv (25,7%) e internet (il 23%).

Anelli (Fnomceo): “Sconfitta visione burocratica del medico”

“I cittadini – commenta Filippo Anelli, presidente della Fnomceo – vogliono un medico preparato, competente, e che si faccia carico dei loro problemi, delle loro esigenze, comprendendone anche il disagio, il dramma che la malattia provoca. Da questa indagine esce sconfitta la visione burocratica della professione medica, imbrigliata da lacci e lacciuoli, da linee guida e protocolli, intesi non come raccomandazioni ma come vincoli. Emergono invece, prepotenti e vincenti, i principi fondamentali di libertà, autonomia e indipendenza, scritti nel nostro Codice deontologico”.

L’identikit

Completa l’indagine Censis l’identikit del “medico che vorrei”. Per il 45,5% è fondamentale la dimensione psicologica e relazionale. Per il 42,3% il valore professionale, la conoscenza tecnica e l’aggiornamento scientifico. Per il 40,9% la disponibilità e la reperibilità anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Per il 39,6% il medico ideale è il garante del diritto alla salute del paziente, perché è pronto a difenderne l’interesse anche quando questo comporta scelte al di fuori delle indicazioni predefinite (protocolli, linee guida, vincoli di budget). Per il 37,5% inoltre deve essere meno attento agli aspetti burocratici (scrivere ricette, certificati, ecc.) dedicando più tempo all’ascolto dei pazienti.

 

Torna su
Pedaggi autostradali: ecco come cambieranno

15/11/2018

 

Novità per i pedaggi autostradali di tutta Europa, che secondo una proposta di direttiva varata dal Parlamento europeo saranno calcolati tenendo conto del livello di inquinamento prodotto dal veicolo.

Strasburgo chiede che lungo tutta la rete transeuropea si adotti il sistema tariffario basato sulla quantità di CO2 (anidride carbonica) emessa dal mezzo, applicando dunque il principio “chi più inquina, più paga”. La riforma prevede inoltre una metodologia di pagamento basata sui chilometri percorsi, come già avviene in Italia, invece della tariffa preesistente in alcuni Paesi UE basata sul tempo. 

Il provvedimento riguarderà solo furgoni, tir e pullman e dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2023 per i veicoli pesanti e quelli destinati al trasporto di prodotti di maggiori dimensioni (oltre 2,4 tonnellate), dal 2027 per i mezzi commerciali leggeri.

Le tariffe applicate attualmente in Europa

In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. Anche in Inghilterra non si paga alcun pedaggio, eccetto per i tunnel e i grandi ponti.

In alcuni Paesi si paga per il tempo durante il quale l’automobilista percorre le strade soggette a pagamento: ci si può abbonare per una settimana, un mese, o anno. È il caso dell’Austria, 88 euro per 12 mesi, della Svizzera con 35,50 euro all’anno e della Slovenia dove la spesa annuale di percorrenza è pari a 95 euro.

In Italia il metodo di pagamento è invece basato sui caselli, con prezzi che risultano più alti rispetto a quelli considerati sopra: ad esempio, un pedaggio per percorrere l’A14 da Bari ad Ancona costa 33,40 euro, mentre un viaggio da Torino a Bari costa quasi 82 euro. 

Nel nord e nell’Est dell’Europa le tariffe sono nettamente più basse. In Svezia ad esempio per andare da Stoccolma a Malmö si percorrono quasi 400 chilometri di autostrada, pagando un pedaggio inferiore ai 7 euro.

Anche in Italia pedaggi differenziati tra auto e moto

Lo sconto del 30% sulle tariffe autostradali per le moto, di cui ci siamo occupati nella news “Moto in autostrada: prorogato lo sconto sul pedaggio”, è stato prorogati fino al 30 giugno 2019. 

La sperimentazione è iniziata il primo agosto dello scorso anno, quando l’AISCAT ha risposto positivamente alle sollecitazioni del Governo, a sua volta chiamato in causa dall’ANCMA (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo e Accessori) che da anni sosteneva l’idea di cambiare la logica dei pagamenti autostradali che equiparano due e quattroruote.  

La proroga dello sconto porta i motociclisti a utilizzare maggiormente le strade a pedaggio per i viaggi, ciò che va sicuramente a vantaggio della sicurezza degli stessi guidatori. La maggior tutela risulta anche dai dati 2017 forniti dall’ACI (Automobile Club d’Italia), secondo cui i centauri coinvolti in un sinistro autostradale hanno quasi il doppio delle probabilità di sopravvivere rispetto allo stesso evento che si verifica su strada provinciale o statale.

Ricordiamo che le tariffe più basse in favore delle due ruote vengono applicate in Austria, Francia, Grecia, Portogallo, Serbia, Slovenia e Repubblica Ceca, dove si paga tra il 30% ed il 50% in meno rispetto alle auto. In altri Stati europei invece non è dovuto alcun pedaggio: sono Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Lettonia, Lituania, Norvegia, Olanda e Svezia, mentre il costo rimane uguale in Romania, Spagna, Svizzera e Ungheria.

L’ANCMA, Associazione Nazionale Ciclo Motociclo e Accessori, spera da tempo che il risparmio del 30% sulle tariffe delle due ruote diventi definitivo. La stessa Associazione chiede al Governo ulteriori provvedimenti, come la possibilità di utilizzo dell’autostrada da parte delle moto con cilindrata di 125 centimetri cubici e l’incentivazione con sgravi fiscali per l’uso dell’abbigliamento protettivo.

In tema di risparmio, ricordiamo sia ai motociclisti che agli automobilisti la possibilità di usufruire delle polizze RC Auto/Moto più convenienti sul mercato grazie a Segugio.it, il portale che effettua un servizio di comparazione gratuito, semplice e veloce. Per prendere visione dei premi migliori quotidianamente basta fare una simulazione inserendo pochi essenziali dati sul veicolo da assicurare e sulle preferenze riguardo al tipo di polizza.

A cura di: Paola Campanelli

 

Torna su
Cure territoriali e servizi in farmacia: integrazione ancora lontana

Presentato a Roma il primo rapporto sulla farmacia di Cittadinanzattiva e Federfarma: "Presidi fondamentali che restano spesso esclusi dai processi di presa in carico dei pazienti cronici”


Un potenziale non sfruttato che potrebbe garantire un salto di qualità all’assistenza sanitaria sul territorio, soprattutto con una migliore presa in carico dei pazienti con malattie croniche. È quello delle cosiddetta “farmacia dei servizi” secondo il primo rapporto annuale sulle farmacie presentato oggi a Roma da Cittadinanzattiva e Federfarma. Un’indagine che sintetizza così quello che viene definito il “paradosso” della farmacia italiana: presidio sul territorio ritenuto fondamentale per capillarità sul territorio, ma “dimenticato” quando si tratta di strutturare servizi in rete, come l’assistenza domiciliare integrata (Adi) o la medicina di gruppo. “È sotto gli occhi di tutti – sottolinea il report – che la farmacia dei servizi senta a decollare e che le farmacie, pur con tutta la buona volontà, restano spesso escluse dai processi di presa in carico dei pazienti cronici”.

Il rapporto

Il report è frutto di un’indagine che ha coinvolto 1.275 farmacie, di cui circa un quarto dislocato nelle cosiddette “aree interne” (zone disagiate e lontane dai centri urbani . La survey, realizzata con il sostegno non condizionato di Teva, ha avuto due focus tematici: il ruolo nella presa in carico delle persone con patologie croniche e il ruolo della farmacia nelle “Strategie d’intervento delle Aree interne” del Paese.

I servizi

Nel 63% delle farmacie del campione è presente il servizio Cup pubblico. La quasi totalità offre il servizio di prenotazione di prestazioni e esami, mentre ci sono percentuali più ridotte per quanto riguarda il pagamento del ticket e ricezione e consegna dei referti. Nell’85% dei casi il cittadino non paga nulla per il Servizio CUP in farmacia; nel 14% paga tra 1 e 2 euro; solo nell’1% dei casi paga di più (3-5 euro).

Sempre più spesso le farmacie erogano prestazioni analitiche di prima istanza, quali test ed esami diagnostici (78% dei casi), esami di secondo livello mediante dispositivi strumentali (64% dei casi), in misura ancora residuale servizi di telemedicina. Fa eccezione la telecardiologia, che è invece abbastanza diffusa.

Per quanto riguarda test ed esami diagnostici effettuati in farmacia, troviamo facilmente la glicemia (96%), il colesterolo totale (92%), trigliceridi (83%), emoglobina glicata (50%).
Nel 65% dei casi le farmacie sono dotate di un sistema informatizzato o piattaforma web capace di rispondere alle necessità legate alla effettiva presa in carico dei pazienti. Mentre solo il 19% ha adottato protocolli o procedure per personalizzare il consiglio sui diversi target di utenza.

Coinvolgimento nelle cure territoriali

Il rapporto rileva uno scarso coinvolgimento delle farmacie da parte delle Asl. Solo il 7% delle farmacie viene coinvolto nell’erogazione dell’Assistenza domiciliare integrata, mentre è assolutamente residuale il coinvolgimento nelle diverse forme di Medicina di gruppo territoriale.
Sul fronte della prevenzione le farmacie assicurano una consolidata collaborazione con Asl e Regioni. Alle campagne di prevenzione e screening realizzate partecipano la quasi totalità delle farmacie (87%). Tra le iniziative che le farmacie svolgono con maggiore assiduità c’è la promozione (o almeno l’adesione) ad iniziative di sensibilizzazione e informazione nei confronti di target specifici di popolazione: attività riscontrata dal 70% del campione.

Le cronicità

Nel 44% dei casi la farmacia partecipa a progetti e iniziative a supporto dell’aderenza terapeutica per persone affette da patologie croniche, in particolare per patologie cardio-vascolari (73%), endocrine (67%), respiratorie (46%) e metaboliche (35%). Si tratta soprattutto di progetti ed iniziative di supporto all’aderenza terapeutica in cui, al pari delle farmacie, troviamo coinvolti soggetti quali Asl (38% dei casi), case farmaceutiche (38% dei casi), l’ente Regione (25%) e i medici di medicina generale (15%).

Le aree interne

Dal focus sulle aree interne emergo come soltanto in 11 delle 72 “Strategie per le aree interne” elaborate (o in via di elaborazione) siano presenti degli espliciti richiami al ruolo delle farmacie.

Le farmacie delle aree interne, per ragioni legate al contesto, sono più sollecitate a rispondere ai bisogni della popolazione anziana.

Le farmacie coinvolte nell’Adi sono il 9% tra quelle intervistate che lavorano nelle Aree Interne, e il 7% tra quelle intervistate che sono ubicate nel resto del Paese, ma quelle delle Aree Interne sono mediamente molto più sollecitate nella preparazione e/o dispensazione a domicilio di medicinali antidolorifici (+26% rispetto alle farmacie presenti nel resto del Paese).

Fra le peculiarità delle farmacie dislocate in queste aree, il report evidenzia una maggiore presenza di comunicazione/interazione diretta con i medici in caso di criticità o scostamento dal piano terapeutico definito (+15% rispetto al resto del Paese) e maggiore disponibilità alla ricezione e consegna referti e al controllo sull’uso improprio o abuso di medicinali, in particolare per i famaci da banco (+6%). Le criticità principali riguardano difficoltà organizzative/logistiche cui sono soggette le farmacie che operano in zone disagiate. A risentirne sono servizi come il (-17% rispetto al resto del Paese); test e esami diagnostici, campagne di prevenzione e screening.

 

Torna su
Ogni euro investito in trial clinici ne fa risparmiare almeno due al sistema sanitario

La stima arriva da “ValOR”, il primo modello in Italia (promosso da Roche) per la misurazione dell’impatto economico delle sperimentazioni e i “costi evitati”. Solo in onco-ematalogia si stimano 320-360 milioni di risparmi in un anno


Mille euro investiti in una sperimentazione clinica generano 2.200 euro di risparmi per il sistema sanitario. In altre parole: ogni euro impegnato da uno sponsor su un trial consente alla struttura che lo ospita di evitare 2,2 euro di costi. Almeno in ambito onco-ematologico e secondo i numeri di “ValOR”, un modello promosso da Roche (il primo in Italia) per misurare l’impatto economico delle sperimentazioni cliniche. “ValOR” è stato applicato al contesto delle aziende sanitarie con uno studio, coordinato da Altems, che ha coinvolto il Policlinico Gemelli di Roma e l’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo. I risultati sono stati presentati oggi al Senato.

Il modello

“Il modello – spiega Americo Cicchetti, direttore di Altems – definisce il valore prodotto dalle attività di sperimentazione, per le strutture ospedaliere, come somma di due componenti: i finanziamenti ricevuti, cioè la somma dei ricavi cumulativi per studio, derivanti dal finanziamento della sperimentazione, che include tutti i costi per la gestione del paziente, e gli averted cost (cioè i costi evitati totali), corrispondenti alla stima dei costi risparmiati dal Ssn/Ssr, in quanto il costo delle terapie farmacologiche per i pazienti arruolati nei protocolli di ricerca viene sostenuto da soggetti terzi, cioè gli sponsor o le aziende farmaceutiche”.

I risparmi

Il modello è stato sperimentato nelle due aziende sanitarie coinvolte monitorando l’attività di ricerca realizzata tra il 2011 e il 2016 in ambito oncoematologico. I risultati sono stati pubblicati nel volume “Valorizzazione delle sperimentazioni cliniche nella prospettiva del Ssn” (Edra, 2018).  È emersa una stima di risparmi potenziali che oscillano tra i due e i quattro milioni di euro per le due strutture. Partendo da questa analisi, il modello può essere proiettato verso un orizzonte più ampio: “Applicandolo a tutti gli studi condotti da Roche in Italia in ambito onco-ematologico nel periodo 2011-2016 – continua Cicchetti – il totale del risparmio per farmaco è stato di 84,6 milioni, con un impatto totale sul sistema sanitario pari a 151,3 milioni”.

Un effetto moltiplicatore che se venisse confermato a livello nazionale (sulla base dei dati Aifa relativi a sperimentazioni nel 2015 in ospedali e Irccs) produrrebbe un risparmio potenziale di 320-360 milioni di euro in un anno.

I vantaggi per le aziende sanitarie

“Grazie alla sponsorizzazione esterna da parte delle aziende – commenta Carlo Nicora, direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo – il costo della gestione a carico del Ssn per il trattamento di pazienti arruolati nella sperimentazione clinica tende a ridursi per effetto della spesa non sostenuta dall’azienda sanitaria. In particolare – spiega il dg – non vengono sostenuti i costi per procedure diagnostiche, dispositivi medici, altri materiali di consumo utilizzati per la cura dei pazienti arruolati e anche i costi dei farmaci somministrati. Il risparmio ottenuto – sottolinea Nicora – si traduce in un minor aggravio sulle Regioni e nella possibilità di reperire fondi per la ricerca indipendente; sia in quella manageriale, dal momento che una buona ricerca significa anche organizzazione di processi efficaci e rigorosi all’interno delle aziende sanitarie”.

Competitivi in Europa

Secondo i dati più recenti (Aifa 2017) il numero di trial clinici autorizzati in Italia vale il 18% del totale europeo (quasi due punti in meno rispetto al 2016). In termini assoluti, si è passati da 660 sperimentazioni nel 2016 a 564 nel 2017.  La sfida è rendere il nostro Paese più “attrattivo” per le sperimentazioni cliniche. A ribadirlo è la senatrice Maria Rizzotti, membro della Commissione Igiene e Sanità del Senato: “La sfida per l’Italia nell’ambito della ricerca clinica è aumentare l’attrattività rispetto agli altri Paesi europei, alcuni dei quali si sono già allineati totalmente a quanto richiesto dal nuovo regolamento comunitario. Modelli come questo (presentato oggi, ndr) sono l’esempio di un sistema di ricerca ad alto livello competitivo e devono essere di stimolo per continuare su questa strada di collaborazione con le aziende italiane e nell’ottica di  risparmio per il nostro sistema sanitario”.

Secondo l’ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ora deputata in Commissione Bilancio, l’Italia deve ambire a diventare il primo “hub della ricerca” in Europa: “Siamo e vogliamo rimanere il primo hub europeo per la produzione farmaceutica, grazie alla capacità di investimento delle aziende e al terreno fertile per la ricerca. Ma non basta produrre, bisogna produrre ricerca”. L’auspicio dell’ex ministro è che i decreti attuativi della cosiddetta “Legge Lorenzin”, provvedimento omnibus della scorsa legislatura che è intervenuto anche su trial clinici e comitati etici, vedano la luce al più presto.

Un auspicio condiviso da Sergio Scaccabarozzi, head of clinical operations di Roche: “L’emanazione dei decreti attuativi della Legge Lorenzin ci renderebbe più competitivi, come la Spagna, il nostro primo competitor per la ricerca clinica. Lì nel 2015 è stato introdotto un regio decreto che ha semplificato le procedure amministrative per i trial. E dobbiamo anche  farci trovare pronti all’appuntamento con il nuovo regolamento europeo sulle sperimentazioni”. Il nuovo Regolamento Ue entrerà in vigore nel 2020.

 

 

Torna su
Donazioni di sangue e plasma, siglato a Rieti un “patto di salute” per promuoverle

 

 

 

 Associazioni e istituzioni lanciano un appello per promuovere le donazioni, in calo negli ultimi anni e fondamentali anche per garantire la produzioni di farmaci salvavita.


Donare per curare. Un gesto di altruismo e responsabilità che va promosso e incoraggiato. A beneficio dei pazienti che hanno bisogno di trasfusioni o attendono terapie salvavita prodotte grazie a sangue e plasma. È questo il messaggio che arriva da Rieti, nel Lazio, dove è stato siglato oggi un “Patto di salute” per sensibilizzare istituzioni, cittadini e giovani generazioni al valore della donazione. Un’iniziativa lanciata dall’Associazione immunodeficienze primitive (Aip), Fedemo, le associazioni di donatori e accolta con favore dal Centro nazionale sangue (Cns). Il patto è stato presentato oggi nel corso di un evento promosso dalla Diocesi di Rieti e si colloca in continuità con il “Patto di sangue” lanciato il mese scorso da Aip.

Verso un documento condiviso

“Stiamo dialogando con le associazioni di donatori e con gli altri stakeholder del ‘sistema sangue’ – spiega il presidente dell’Aip, Alessandro Segato –  per sviluppare una strategia che possa mettere al centro della donazione il paziente e l’utilità della donazione per esso, in modo tale che ci sia piena consapevolezza del gesto gratuito che si compie e dalla propria utilità per la vita delle persone che ne beneficiano. L’idea è quella di proporre un documento condiviso sui temi rilevanti della donazione che possa essere presentato per la prossima giornata della donazione che sarà il prossimo 14 giugno 2019”.

Le donazioni di sangue e plasma in Italia

Nel 2017, secondo i dati del Centro nazionale sangue, si contavano in Italia circa un milione e 680 milioni donatori. Il trend, tuttavia, è in flessione: si tratta, infatti, di circa 8mila donatori in meno rispetto all’anno precedente. In termini di donazioni, nel 2017 ne sono state effettuate 3.006.726, 30mila in meno a confronto con il 2016.

“Siamo ancora largamente autosufficienti – sottolinea Roberta Siliquini, presidente del Consiglio superiore di sanità – ma sul fronte delle donazioni c’è un problema: i meno generosi sono i giovani, proprio loro che hanno tutte le carte in regola per donare”. I donatori sono sopratutto uomini (69%) e in effetti i giovani sono in minoranza: la fascia di età in cui i donatori sono più numerosi è quella 46-55 anni (il 29%). Seguono i donatori di età compresa tra 36 e 45 (26%), mentre il 13% ha tra 18 e 25 anni. Un monito per gli oltre 200 studenti delle scuole superiori che a Rieti hanno preso parte alla presentazione del “Patto di salute”.

Nonostante il calo, l’Italia riesce a essere autosufficiente, ma solo grazie alla compensazione tra le regioni. Il contributo all’autosufficienza nazionale di globuli rossi è stato prevalentemente fornito da Piemonte (27%), Lombardia (16%), Veneto (14%), Trento (10%), Emilia-Romagna (9%).

“In Italia abbiamo 27,7 donatori ogni mille abitanti, ma ci sono ampie differenze regionali. Bisogna sicuramente intervenire per stimolare le persone e modificare l’organizzazione”, sottolinea Siliquini.

Alla necessità di interventi per migliorare l’organizzazione fa riferimento un messaggio inviato oggi dal sottosegretario alla Salute, Armando Bartolazzi, ai promotori del “Patto”: “È un obiettivo prioritario incrementare la produzione di plasma e incentivare l’appropriato utilizzo dei medicinali plasmaderivati, attraverso un miglioramento della rete regionale, reperendo risorse per ampliare giorni e orari di apertura dei servizi trasfusionali,  ricorrendo a programmi per aumentare le donazioni in aferesi”.

Per quanto riguarda le donazioni in aferesi, che consentono di separare il plasma dal sangue, sono stati raccolti nel 2017 830mila chili di plasma (+1,8% in un anno).

“La donazione, segno di solidarietà e gratuità, e i donatori, a cui va tutta la nostra riconoscenza – sottolinea Alessandro Segato –  sono il punto di partenza per la terapia salvavita. Senza donazione e senza donatori non c’è terapia, non ci sono le immunoglobuline. In particolare la donazione di plasma, rispetto alla donazione di sangue intero, è da preferirsi in quanto più ‘efficiente’. In sostanza è possibile ricavare dal plasma più prodotto, più immunoglobuline, rispetto al sangue intero”. Ed è solo un esempio di prodotti realizzabili a partire dal plasma.

La scelta di Rieti

La scelta di Rieti non è causale. Qui è presente il principale stabilimento di lavorazione del plasma in Italia, di proprietà della multinazionale Shire, azienda attiva nel campo delle malattie rare. “Il sangue viene donato – spiega Massimiliano Barberis, direttore dello stabilimento di Shire a Rieti – però poi il processo che porta al paziente è molto lungo. Qui giungono sacche di plasma congelate. Attraverso processi complessi, da svolgere in condizioni di assoluta sicurezza, parti del plasma vengono separate. Da ogni litro di plasma possono essere estratti diversi prodotti. Per produrre i farmaci per il trattamento annuale di un paziente con emofilia servono circa 1.200 donazioni”.

La dimensione etica della donazione

Anonimato, volontarietà e gratuità sono le tre dimensioni fondamentali della donazione del sangue secondo il vescovo di Rieti, Domenico Pompili:  “Il donatore deve essere anonimo, in modo che nella relazione tra chi dona e chi riceve non ci siano condizionamenti. La donazione deve essere una scelta volontaria, che nasce dentro di noi, senza forzature. Poi c’è una terza condizione che riguarda la dimensione etica della donazione: la gratuità. E sappiamo che non funziona così in tutto il mondo, ad esempio negli Usa. Ma il sangue – sottolinea il vescovo – è come l’acqua, cioè un bene di tutti, e quindi si deve pagare solo il costo necessario per renderla fruibile”.

A ricordare i valori di fondo che regolano la donazione è anche Stefania Vaglio del Centro nazionale sangue: “Quando l’Italia ha deciso di stabilire per legge la gratuità delle donazioni,  altri Stati erano scettici sulla nostra capacità di raggiungere l’autosufficienza. Per noi la donazione gratuita implica una forte consapevolezza del donatore e una collaborazione con le associazioni. E la promozione della donazione del sangue è stata inserita anche tra i Livelli essenziali di assistenza”.

L’appello finale è di Aldo Ozino Calligaris, presidente della Fidas, la federazione che riunisce le associazioni italiane di donatori: “La donazione è un atto di grande responsabilità. Grazie a tutti i donatori e a coloro che lo diventeranno”. 

 

 

 

Torna su
Integratori alimentari, nuovo decreto del ministero sui preparati vegetali

Il decreto del 10 agosto 2018 disciplina l’impiego negli integratori alimentari di sostanze e preparati vegetali, con cui il dicastero di Giulia Grillo ha aggiornato ed integrato la regolamentazione relativa ai cosiddetti botanicals. *In collaborazione con Portolano Cavallo


Il 26 settembre 2018 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del 10 agosto 2018 che disciplina l’impiego negli integratori alimentari di sostanze e preparati vegetali, con cui il ministero della Salute ha aggiornato ed integrato la regolamentazione relativa ai cosiddetti botanicals, abrogando il precedente D.M. 9 luglio 2012.

Principali novità del nuovo decreto

Tra le principali novità apportate dal decreto ministeriale, si evidenzia la nuova elencazione delle sostanze e dei preparati vegetali ammessi in Italia per la composizione degli integratori alimentari (allegato 1). Tale lista, approvata dalla Sezione dietetica e nutrizione del Comitato nazionale per la nutrizione e la sicurezza alimentare, si basa sui dati e sulle evidenze scientifiche attualmente disponibili ed ha il merito di rendere finalmente unitario l’elenco delle piante utilizzabili come fonti di sostanze e preparati vegetali. L’elencazione ricomprende, al suo interno, piante già presenti sia nel precedente D.M. del 9 luglio 2012 sia nella lista BELFRIT, redatta a partire dal 2014 dalle autorità competenti di Belgio, Francia e Italia.

Un’ulteriore novità apportata dal D.M. del 10 agosto 2018 consiste nella specificazione dei controlli da compiere per garantire la sicurezza e la qualità dei botanicals e nell’indicazione della documentazione necessaria e delle procedure da osservare per un corretto impiego di tali sostanze negli integratori alimentari (allegato 2).

Si indica, ad esempio, la necessità di specificare il processo di fabbricazione ed i piani di autocontrollo così come i materiali di confezionamento e le attività di sorveglianza post commercializzazione dell’integratore alimentare (punto 4, allegato 2). L’allegato 2 riprende ed integra le prescrizioni contenute nelle “Linee guida sulla documentazione a supporto dell’impiego di sostanze e preparati vegetali (botanicals) negli integratori alimentari” redatte dalla Commissione unica per la dietetica e la nutrizione a sostegno del già menzionato D.M. 9 luglio 2012.

Entrata in vigore e regime transitorio

Il D.M. 10 agosto 2018 produrrà effetto a decorrere dal novantesimo giorno della sua entrata in vigore (ossia dal 9 gennaio 2019). Fino ad allora, possono continuare ad essere utilizzati in via transitoria le sostanze e i preparati vegetali contenuti negli allegati 1 ed 1-bis del D.M. 9 luglio 2012. Nell’ipotesi in cui, durante il periodo transitorio, venisse immesso nel mercato o etichettato un integratore alimentare in difformità rispetto all’elenco dei botanicals contenuto nel D.M. 10 agosto 2018, quest’ultimo potrà essere commercializzato solo fino ad esaurimento delle scorte (art. 5). Occorre precisare che è consentita, in forza del principio del mutuo riconoscimento, la commercializzazione di integratori alimentari non conformi al dettato del D.M. 10 agosto 2018 purché si tratti di “prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in un altro Stato membro dell’Unione europea o in Turchia o […] prodotti legalmente fabbricati in uno Stato dell’Efta, parte contraente dell’accordo sullo Spazio economico europeo (See)” (art. 4).

Prospettive future sui claims relativi ai botanicals

Un profilo che merita particolare attenzione concerne i claims riferibili ai botanicals, ossia le indicazioni delle proprietà nutrizionali e salutistiche ammissibili per gli integratori alimentari costituiti da sostanze e preparati vegetali. Infatti, come noto, i claims nutrizionali e sulla salute autorizzati ai sensi della procedura prevista dal Regolamento 1924/2006/Ce ed indicati nell’allegato al Reg. 432/2012/Ce non si applicano ai botanicals. Attualmente, i claims concernenti i botanicals impiegabili nella comunicazione commerciale devono ancora essere autorizzati e la loro valutazione è in corso dinanzi all’autorità europea per la sicurezza alimentare.

In attesa che questo processo si concluda a livello comunitario, trovano provvisoriamente applicazione, sul territorio nazionale, le indicazioni contenute nelle linee guida per gli effetti fisiologici elaborate dal ministero della Salute per ogni pianta contenuta nel D.M. 9 luglio 2012. Si può ritenere che tali indicazioni sugli effetti fisiologici possano trovare applicazione anche con l’entrata in vigore del nuovo D.M. 10 agosto 2018 laddove ricorrano le medesime sostanze contenute nel D.M. 9 luglio 2012.

Tuttavia, dato che la lista dei botanicals è in continua evoluzione, c’è il rischio che le nuove sostanze rimangano prive di indicazioni approvate. Per tale ragione, si auspica un continuo aggiornamento delle linee guida ministeriali sui claims dei botanicals che riesca a supplire almeno temporaneamente la perdurante assenza di indicazioni autorizzate a livello comunitario.

A cura di Elisa Stefanini (counsel) e di Erica Benigni (associate) – Portolano Cavallo

 

Torna su
Influenza, vaccino gratuito per i donatori di sangue in tutte le Regioni

 

Attiva l’offerta in tutta Italia, anche se con modalità diverse: in alcune realtà si va dal medico di famiglia, in altre ci si può vaccinare direttamente nei servizi trasfusionali. I risultati di una ricognizione realizzata dal Centro nazionale sangue dell’Iss


Vaccino antinfluenzale gratuito in tutta Italia per i donatori di sangue. Il servizio è infatti attivo in tutte le Regioni, anche se erogato con modalità diverse: alcune hanno scelto i medici di base mentre, in altre il vaccino si somministra direttamente nei servizi trasfusionali. È quanto emerge da una survey condotta dal Centro nazionale sangue (Cns) dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

I dati arrivano dalle Strutture regionali di coordinamento per le attività trasfusionali (Src). Secondo l’indagine, in tutte le Regioni e Province autonome i donatori di sangue possono vaccinarsi gratuitamente come previsto da una circolare del ministero della Salute emanata lo scorso maggio. L’iniziativa ministeriale ha aggiungo la categoria dei donatori a quelle tradizionalmente agevolate come donne in gravidanza, anziani e malati cronici.

Dove vaccinarsi

Nella maggior parte delle Regioni, i donatori di sangue si vaccinano gratuitamente nello studio del medico di famiglia o negli ambulatori vaccinali della Asl. La prima opzione riguarda Friuli Venezia Giulia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Puglia, Umbria, Marche, Sardegna, Sicilia, Calabria, Lazio, Molise, Abruzzo, Toscana e Campania. La seconda modalità è prevista in Veneto, Val d’Aosta, Basilicata, province di Trento e Bolzano, Toscana, Umbria, Sicilia, Calabria, Lazio, Abruzzo e Campania.

Tre Regioni (Val d’Aosta, Emilia Romagna e Liguria) consentono la vaccinazione gratuita per i donatori nei servizi trasfusionali.

Influenza e carenze di sangue

Oltre alla profilassi contro l’influenza, l’iniziativa punta anche a limitare le carenze di sangue che solitamente si registrano nei mesi del picco influenzale:  Se da una parte – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns – serve una migliore e puntuale programmazione della chiamata dei donatori per effettuare le donazioni da parte delle associazioni e federazioni del volontariato del sangue, il problema dell’epidemia influenzale, che proprio a gennaio-febbraio raggiunge il suo picco, non può essere trascurato. Per questo insieme al volontariato ci siamo attivati per far inserire i donatori tra le categorie a cui viene offerta la vaccinazione. Ora che il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale auspichiamo un’adesione massiccia da parte dei donatori”.

Per vaccinarsi è necessario presentare un documento che attesti l’iscrizione ad una associazione di donatori o un certificato di avvenuta donazione per accedere al servizio. Dopo la somministrazione del vaccino i donatori dovranno attendere 48 ore prima di poter effettuare una donazione.

 

 

 

 

 

 

Torna su
Infusioni a domicilio o in strutture vicine al domicilio del paziente per garantire l’aderenza terapeutica

Le infusioni a domicilio o presso gli “Infusion Center” garantiscono la completa aderenza al piano terapeutico prescritto dal medico, evitando disagi e costi per raggiungere il centro clinico. *In collaborazione con Domedica


La somministrazione di terapia in ospedale è un’attività molto impegnativa sia per chi la effettua (il centro) che per chi la riceve (il paziente). Il centro clinico deve essere attrezzato con strumenti e personale in numero adeguato e possedere spazi necessari dove accogliere i pazienti in attesa e quelli che effettuano le somministrazioni. Dal lato del paziente c’è un impegno di tempo enorme (proprio e di almeno un caregiver) per recarsi in ospedale a ricevere la somministrazione con intervalli anche importanti (giornalieri, settimanali o mensili), a cui si aggiungono i costi per raggiungere la struttura (carburante, pedaggi, parcheggi e spesso giornate di lavoro perse per lui e per il caregiver). Altro aspetto non meno importante è l’esposizione a un ambiente potenzialmente infetto come l’ospedale, dove il paziente incontra un certo numero di persone (altri pazienti) e di operatori sanitari che sono, gioco forza, veicolo d’infezioni. La somministrazione delle infusioni a domicilio e negli Infusion Center riduce questo rischio, permettendo ai pazienti di ricevere la terapia in un ambiente sicuro, confortevole e meno esposto agli agenti infettivi.

Tutti i vantaggi delle infusioni a domicilio

La somministrazione di farmaci infusivi in vena a domicilio è tutt’altro che semplice, perché richiede una importante complessità gestionale. Nel dettaglio, vanno gestiti:

  • I rinnovi dei Piani terapeutici;
  • Le relazioni con le farmacie per il ritiro del farmaco;
  • La catena del freddo (dove richiesto) per la consegna a domicilio del farmaco;
  • La somministrazione (con venipuntura, PICC o CVC);
  • La gestione di eventuali pompe infusionali;
  • Le procedure di emergenza per la gestione di eventuali effetti collaterali;
  • Lo smaltimento del materiale utilizzato per le infusioni;
  • Il reporting al centro clinico.

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program, garantisce il disegno accurato di tutti i processi e le procedure (incluse quelle di emergenza ed eventuali risk management plan), con il coinvolgimento di medici esperti nella gestione della patologia oggetto della terapia e delle aziende che commercializzano il farmaco, un forte coordinamento centrale attraverso il proprio patient care center per l’organizzazione di tutte le attività e la conferma degli appuntamenti ai pazienti, il reporting al centro clinico e la gestione delle eventuali segnalazioni di farmacovigilanza.

I Patient support program di Domedica si completano con la condivisione, concordata con i medici esperti coinvolti nel disegno del programma, di informazioni utili a educare i pazienti all’acquisizione di stili di vita corretti, che favoriscono il miglioramento della salute e della qualità di vita.

Infusion Center: un importante valore aggiunto quando ci sono più pazienti in una stessa località

Gli Infusion Center di Domedica giocano un ruolo importante all’interno dei servizi offerti ai pazienti, tanto quanto le infusioni a domicilio, quando ci sono diversi pazienti che abitano nei dintorni di una stessa località lontana dal centro clinico.

I pazienti di quella determinata zona geografica hanno la possibilità di ricevere la terapia raggiungendo una struttura molto più vicina al loro domicilio rispetto all’ospedale. Gli Infusion Center hanno diversi vantaggi:

  • Riducono i tempi di spostamento dei pazienti perché rispetto agli ospedali sono localizzati molto più vicino ai pazienti;
  • Riducono i tempi di attesa in struttura perché i pazienti sono convocati secondo precisi appuntamenti e permangono in struttura solo il tempo strettamente necessario ad effettuare l’infusione.

Gli Infusion Center e le infusioni a domicilio di Domedica  offrono la possibilità ai medici di poter garantire una corretta terapia anche a quei pazienti che vivono più distanti dai centri clinici o che, a causa della propria patologia o condizione sociale, non sarebbero in grado di recarsi regolarmente in ospedale. La speranza è che in futuro sempre più pazienti possano beneficiare di servizi in grado di migliorare la loro qualità di vita e l’efficacia della terapia prescritte dal medico.

 

A cura di Domedica

 

Torna su
Liste d’attesa, Grillo: “Pronto il nuovo piano nazionale”

 

 

Il ministro della Salute annuncia di aver trasmesso il documento alle regioni: “I direttori generali che non mettono l’efficienza delle liste d’attesa al primo posto potranno essere rimossi dall’incarico”


“Ho trasmesso alle Regioni il nuovo Piano nazionale di governo delle liste di attesa. Il piano mancava da quasi 10 anni e conteneva generiche azioni di governo. Ora mettiamo regole certe e stanziamo fondi per dire basta alle attese infinite per una visita medica o un esame diagnostico. Presto insieme alle Regioni garantiremo tempi certi per ogni prestazione”. L’annuncio è del ministro della Salute, Giulia Grillo, in un comunicato diffuso oggi.

Le risorse

“Grazie ai 350 milioni previsti in Legge di Bilancio per il triennio 2018-20 – spiega Grillo – il aiuteremo i territori a potenziare i servizi di prenotazione implementando i Cup digitali e tutte le misure per rendere più efficiente il sistema”. Il ministro spiega che “non erano mai state stanziate risorse dedicate specificatamente alle liste d’attesa”.

Monitoraggio

L’autonomia delle Regione non verrà intaccata, ma il ministero
Salute “garantirà il monitoraggio dei percorsi diagnostico-terapeutici, ma anche delle prestazioni ambulatoriali in regime libero-professionale”. L’Osservatorio nazionale sulle liste di attesa del ministero della Salute sarà la cabina di regia, con il compito di assicurare “un monitoraggio effettivo sui servizi sanitari e quindi sull’applicazione concreta del diritto alla salute”. Ma sarà anche “uno stimolo per le Regioni”.

I direttori generali

Secondo il ministro, le aziende sanitarie saranno spinte a “competere per offrire i servizi migliori, attivando un circolo virtuoso con ricadute positive sulle persone, ma anche sui lavoratori del Ssn, che devono sentirsi maggiormente valorizzati”. Nel frattempo, i direttori generali “saranno valutati anche in base al raggiungimento degli obiettivi di salute connessi agli adempimenti dei Lea: questo – conclude Grillo – significa che chi non mette l’efficienza delle liste d’attesa al primo posto del suo mandato, potrà essere rimosso dall’incarico”.  Il Piano prevede nuove classi di priorità per le prestazioni ambulatoriali, trasparenza sui tempi massimi di attesa, nuove regole sull’attività intramoenia e aperture al privato accreditato.

 

 

 

Torna su
Censis, la salute degli italiani tra disuguaglianze e cure fai-da-te

Presentato il 52esimo Rapporto sulla condizione sociale del Paese. La soddisfazione per il Ssn varia dal 79% del Nord Est al 40% del Sud. Sempre più cittadini curano piccoli disturbi in autonomia

Diseguaglianze

Fai-da-te

 

Torna su
Integratori e prodotti naturali: l’Iss apre un sito web per segnalare rischi

Su VigiErbe.it operatori sanitari e cittadini potranno segnalare possibili reazioni avverse. Le informazioni inviate saranno valutate da un comitato scientifico

Un sito per segnalare possibili reazioni avverse dopo l’utilizzo di integratori alimentari, tisane, medicinali omeopatici e altri prodotti naturali. Si chiama “Vigierbe.it” ed è stato messo a punto dell’Istituto superiore di sanità (Iss), riporta l’Ansa.  Sia medici che operatori sanitari e cittadini possono inviare una segnalazione di fitovigilanza: basta seguire le istruzioni per la compilazione della scheda online. Le informazioni saranno valutate da un comitato scientifico composto da esperti e verranno condivise a livello nazionale ed internazionale contribuendo alla migliore conoscenza del profilo di rischio di questi prodotti.

“Naturale” non vuol dire sempre “sicuro”

Sempre più persone fanno ricorso a preparati erboristici, di medicina tradizionale cinese e ayurvedica, così come vitamine e probiotici per mantenersi in salute, migliorare il proprio aspetto fisico o per arginare ansia e insonnia. “A volte – spiega l’Iss – si è spinti all’uso di questi prodotti anche nella convinzione che le sostanze naturali che li compongano siano di per sé garanzia di sicurezza. Tuttavia anche questi preparati possono provocare eventi avversi, in alcuni casi anche gravi”.

Le informazioni sulle possibili reazioni avverse, ricorda l’Iss, sono importanti soprattutto nelle donne in gravidanza, nei bambini, negli anziani e nelle persone che assumono cronicamente farmaci.

 

Torna su
Pazienti onco-ematologici nel Lazio: appello delle associazioni per esami diagnostici più “accessibili”

Pazienti onco-ematologici nel Lazio: appello delle associazioni per esami diagnostici più “accessibili”

“Far viaggiare il sangue e non il paziente” è il motto di 24 associazioni. Chiedono di valorizzare e rendere più efficiente la rete Labnet, che consente la circolazione dei campioni tra centri di cura e laboratori


“Far viaggiare il sangue e non il paziente, abbattendo gli ostacoli per semplificare l’accesso alla diagnostica d’eccellenza”. È l’appello a sostegno dei circa 20mila pazienti onco-ematologici del Lazio lanciato oggi da Salute donna Onlus, in collaborazione con una rete di altre 23 associazioni, nel corso di un convegno organizzato nella sede del Consiglio regionale. Le associazioni chiedono di valorizzare e rendere più efficiente la rete Labnet, network per la circolazione dei campioni di sangue tra i laboratori dei Centri di ematologia. “Si tratta di una problematica puramente organizzativa – commenta Annamaria Mancuso, presidente di Salute Donna onlus – che, se presa in considerazione, potrebbe migliorare di gran lunga la qualità di vita dei pazienti con tumori del sangue, sia dal punto di vista fisico sia sociale che economico. Le reti sono uno strumento importante anche per evitare i costi ai pazienti e alle aziende sanitarie pubbliche”.

Meno burocrazia

Il progetto LabNet nasce con una finalità assistenziale: garantire a tutti i pazienti la stessa accuratezza negli esami diagnostici, indipendentemente dal Centro presso il quale sono in cura. Il paziente esegue il prelievo di sangue presso il Centro ematologico che lo ha in carico e l’ematologo spedisce il campione con un corriere dedicato al laboratorio di riferimento aderente al network dei laboratori certificati.

Le associazioni puntano il dito contro “lacci e lacciuoli burocratici”, che spesso rendono difficile spedire un campione biologico da un centro clinico, dove è stato prelevato al paziente, al laboratorio di un altro Centro ematologico, questo a dispetto dell’assoluta disponibilità degli operatori sanitari. “Spesso è necessaria l’autorizzazione aziendale o regionale per consentire la spedizione dei campioni tra laboratori di ospedali del Ssn anche all’interno della stessa Regione, o tra Regioni diverse – spiega Marco Vignetti, presidente Fondazione Gimema e vicepresidente Ail – per questo sarebbe importante poter formalizzare e ufficializzare un processo che già accade, senza nessun costo aggiuntivo. La spedizione e la gestione del campione biologico sono a carico di Gimema, nel pieno rispetto di tutte le norme sulla circolazione dei campioni biologici e della privacy. La nostra richiesta agli interlocutori politici regionali del Lazio – sottolinea Vignetti – è di intervenire in modo virtuoso autorizzando e semplificando la circolazione dei campioni nell’ambito dei laboratori inter ed extra-Regione, risparmiando ai pazienti la fatica e i costi per spostarsi da un Centro all’altro solo per fare prelievi nel laboratorio più idoneo a seconda della necessità”.

Le associazioni dei pazienti onco-ematologici lamentano da tempo criticità nella circolazione dei campioni biologici. “Far spostare il malato da un Centro all’altro sta diventando una brutta consuetudine – sottolinea Felice Bombaci, coordinatore Gruppi Ail Pazienti malattie ematologiche – gli spostamenti comportano disagi e fatica per i pazienti e le loro famiglie oltre ad aumento dei costi diretti e indiretti. Oltre al rischio che, per evitare spostamenti, vengano rimandate o non eseguite le analisi necessarie con il conseguente pericolo di una mancata accuratezza della diagnosi e una non appropriata scelta terapeutica”.

Il presidente della VII Commissione sanità del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Simeone, ha proposto un’audizione sul tema: “Alla ripresa dei lavori, l’anno nuovo, dovremo ripetere questo incontro in Commissione e avviare le procedure per stendere un protocollo”. Nel Lazio i laboratori di riferimento per le leucemie acute sono a Roma sono dislocati al Policlinico Tor Vergata, del Policlinico Umberto I della Sapienza Università di Roma e del Policlinico Universitario Agostino Gemelli. Tutte le Ematologie laziali fanno riferimento a questi laboratori sia per le indagini di citogenetica e biologia molecolare necessarie ad effettuare le diagnosi sia utili a monitorare la malattia e la risposta ai trattamenti.

 

 

Torna su
Pazienti più consapevoli con il consenso elettronico

La tecnologia aiuta a informare meglio le persone che partecipano alle sperimentazioni cliniche. Dal numero 164 del magazine. *In collaborazione con Exom Group


Trasparenza, completezza, chiarezza e comprensibilità dell’informazione sui possibili rischi e benefici garantiscono il rispetto dei diritti del paziente e della sua decisione consapevole ed autonoma di partecipare ad uno studio clinico. La comunicazione e l’acquisizione delle informazioni sono quindi la prima fase della procedura del consenso, cioè preliminari alla seconda fase che è quella della raccolta della firma, manuale o elettronica, sul modulo del consenso informato. Per fornire a ciascun soggetto un’adeguata quantità di informazioni e spiegarne il significato è necessario che il medico sperimentatore dedichi del tempo.

Perché un paziente consapevole è importante

Da una recente indagine condotta su circa un centinaio di medici emerge che in oltre il 70% dei casi il tempo medio per finalizzare un consenso informato varia dai 15 ai 60 minuti, di cui circa la metà è impiegato nella discussione con il paziente. In alcuni casi capita che i pazienti, ansiosi di partecipare, possono firmare il modulo di consenso informato, anche se non hanno capito appieno che cosa la loro partecipazione allo studio significhi davvero. Tuttavia, i pazienti che non sono soddisfatti o non capiscono il processo di consenso informato hanno maggiori probabilità di ritirarsi da uno studio rispetto a quelli che sono soddisfatti del processo. Per favorire la partecipazione e la permanenza del paziente nello studio clinico, è fondamentale aumentarne la consapevolezza attraverso una comunicazione più efficace e immediata: il consenso informato per mezzo di dispositivi elettronici (e-consent) può aiutare anche con elementi multimediali, come grafica o video per descrivere le caratteristiche essenziali dello studio al fine di facilitare la comprensione, in particolare per le persone con un basso livello d’istruzione o un’alfabetizzazione limitata o per i minori. L’aggiunta di domande per valutare la comprensione delle informazioni relative allo studio corregge eventuali malintesi e garantisce una decisione consapevole da parte del paziente.

Consenso informato: Italia caso virtuoso

Mentre negli Usa il consenso informato elettronico, anche perché raccomandato da una specifica linea guida della Fda, è già stato utilizzato con successo in vari studi clinici, altrettanto non si può dire per l’Europa: a oggi le esperienze sono molto poche e limitate a progetti pilota in Francia, Svezia ed Uk, ma con poche decine di pazienti.

In un contesto europeo così povero di esperienze, per una volta tanto, si differenzia l’Italia. Qui da oltre un anno è stato avviato, in 40 centri sperimentali, uno studio osservazionale, che prevede il coinvolgimento di centinaia di pazienti, nel quale il consenso informato viene raccolto in forma elettronica. L’applicativo denominato Genius Engage, progettato, sviluppato e gestito da Exom Group srl, disponibile sia come un’app multimediale su tablet, sia come web app scaricabile dal paziente sul suo smartphone è integrata con la scheda raccolta dati elettronica (eCRF),al fine di garantire il rispetto integrale delle procedure.

A rafforzamento della conformità regolatoria della firma elettronica “avanzata” del consenso da parte del paziente, il medico ne deve conferma­re sia l’identità sia la sua volontaria firma. Al termine della procedura una copia del modulo di consenso firmato elettronica­mente da entrambi i soggetti, viene stam­pata e conservata come documentazione originale dell’avvenuto consenso.

Il 90% dei centri utilizzano il consenso elettronico

La disponibilità di un audit trial permette di ricostruire l’intero processo in qual­siasi momento successivo. A oggi oltre il 90% dei centri utilizzano regolarmente il consenso elettronico e già alcune centi­naia di pazienti hanno confermato la loro decisione di partecipare allo studio, espri­mendo il loro gradimento per l’innova­tiva procedura, nell’87% dei casi. Molto apprezzata (86%) è risultata inoltre la fase in cui il paziente deve rispondere ad alcu­ne semplici domande per valutare il suo livello di comprensione dello studio. Pa­zienti meglio informati hanno maggiori probabilità di decidere con consapevolez­za se partecipare, possono gestire meglio le loro aspettative dallo studio e possono diventarne partner attivi.

 

Torna su
Italiassistenza: servizi per migliorare l’aderenza nelle terapie orali

I nuovi Patient Support Program (Psp) integrano l’assistenza specialistica con approccio multidisciplinare fornendo soluzioni avanzate a supporto del paziente cronico, con l’obiettivo di monitorare e facilitare il percorso terapeutico. Dal numero 164 del magazine. *In collaborazione con Italiassistenza


Italiassistenza Spa è la Home Care Company leader in Italia nell’ambito della progettazione ed erogazione di servizi di supporto al paziente a sostegno dell’aderenza alla terapia (‘’Patient support program’’, Psp). La società è specializzata nella progettazione, fornitura e gestione di servizi di supporto remoto e assistenza domiciliare infermieristica, medica e socio-assistenziale, counseling, supporto psicologico e fisioterapico: opera tramite le sue sedi di Milano e Reggio Emilia, dalle quali coordina una rete nazionale capillare di medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti e di centri di assistenza domiciliare accreditati.

Con oltre 15 anni di esperienza ed oltre 30 Psp attivi in 22 aree terapeutiche, con oltre 15 mila accessi domiciliari e 45 mila counseling call effettuate solamente negli ultimi dodici mesi, Italiassistenza è il principale provider in Italia del settore. La qualità dei servizi, la professionalità degli operatori, la copertura capillare del territorio e la costante innovazione sono il valore aggiunto di Italiassistenza, supportato oggi da strumenti tecnologici innovativi (Crm, portali web, app native, devices) progettati e sviluppati con approccio modulare e personalizzato sulla base delle esigenze degli stakeholder di riferimento.

Patient support program

I Programmi di supporto al paziente consistono in un set coordinato di servizi specialistici erogati al paziente da operatori qualificati che, in coordinamento con il medico specialista, garantiscono continuità assistenziale dal presidio ospedaliero alle mura domestiche, agevolano il percorso terapeutico e riducono i fattori di rischio della non aderenza. Nello specifico i Psp, grazie ad attività di monitoraggio e di assistenza continuativa, consentono un incremento immediato del tasso di aderenza alla terapia, arrivando, con servizi personalizzati, a raggiungere livelli di aderenza ottimali.

Oggi l’aderenza alle terapie tra i pazienti affetti da malattie croniche arriva mediamente al 60%, un valore inaccettabile. Un paziente su due non assume correttamente i farmaci e questo impatta fortemente sulla sua salute, sulla sua vita sociale e lavorativa e sui costi dell’intero Servizio sanitario nazionale. Commenta Stefano Caporali, amministratore delegato di Italiassistenza: “Gli ultimi dati in nostro possesso indicano statistiche di superamento del 95% di aderenza per i pazienti che partecipano ai nostri programmi: la professionalità e l’esperienza della nostra rete territoriale di professionisti sanitari e dei nostri operatori di centrale operativa, sotto il coordinamento del nostro team di Program manager sono il ‘cuore’ dei servizi a supporto dell’aderenza dei pazienti nei nostri Psp”.

Italiassistenza progetta e implementa servizi integrati con approccio multi-disciplinare, che consentono di massimizzare l’engagement ed empowerment del paziente in tutti gli ambiti: educazione sanitaria, supporto emotivo e counseling psicologico, coaching ad un corretto stile di vita. Dice Fabio Tinello, project development leader Italiassistenza: “In fase di design del Psp e progettazione del Patient journey, Italiassistenza mette in campo tutta l’esperienza di settore maturata in 15 anni combinata al proprio know-how tecnologico. Le nuove piattaforme che utilizziamo nei nostri Psp favoriscono l’engagement ed empowerment dei pazienti, ne monitorano l’aderenza terapeutica e forniscono informazioni in tempo reale ai medici dei centri ospedalieri.” Nello specifico, nell’ambito delle terapie orali, Italiassistenza ha progettato e attivato percorsi di supporto specialistici e soluzioni tecnologiche dedicate sviluppate assieme ai propri partner tecnologici.

Supporto infermieristico

L’infermiere riveste un ruolo fondamentale nel percorso di supporto al paziente ed ai suoi caregiver. A partire dal primo contatto durante l’incontro conoscitivo con il medico ed il paziente al centro, stabilisce una relazione di fiducia con il paziente stesso garantendo continuità al percorso di cura ospedale-territorio. Durante gli incontri a domicilio poi l’infermiere consegna al paziente tutto il materiale di supporto necessario per gestire al meglio la terapia e gli illustra le modalità di utilizzo delle soluzioni a disposizione a supporto del monitoraggio dell’aderenza alla terapia (diario paziente, device di monitoraggio dell’aderenza alla terapia, leaflet e vademecum, informazioni per l’accesso ai servizi del portale web e delle app dedicate), sensibilizzandolo sul tema dell’aderenza alla terapia.

Durante ciascun contatto con il paziente, l’infermiere applica un ascolto attivo, e fornisce un sostegno “umano” e professionale, che accompagna il paziente e i caregiver nel percorso terapeutico: verifica inoltre la corretta compilazione dei diari paziente e il corretto utilizzo e manutenzione dei device di monitoraggio dell’aderenza, propone al paziente o al caregiver questionari di rilevazione del rischio di non aderenza nonché di impatto della terapia e della patologia sulla vita lavorativa, per fornire strumenti di monitoraggio addizionali al medico del centro, con attenzione costante a quanto segnalato dal paziente e nel rispetto degli adempimenti richiesti dalla normativa sulla farmacovigilanza. Le informazioni sono condivise con i medici dei centri tramite la piattaforma centralizzata di Italiassistenza e sono consultabili dagli specialisti tramite un’area riservata di un portale web a loro dedicato.

Supporto psicologico

I pazienti affetti da patologie croniche hanno difficoltà ad affrontare la diagnosi iniziale e, successivamente, il percorso terapeutico e gli effetti della terapia farmacologica anche sul lavoro e sulla vita sociale del paziente: manifestano spesso disagi e si sentono isolati nell’affrontare questo nuovo percorso di vita. Il servizio di counseling psicologico e supporto emotivo personalizzato consiste in un percorso calato sulla realtà del singolo paziente. La figura di riferimento rimane sempre il medico specialista del centro clinico che valuta la necessità di indirizzare il paziente a tale servizio.

Nello specifico, in ambito di terapie orali, viene proposto un percorso di counseling per supportare il paziente nel percorso di accettazione della patologia e degli effetti sulla vita personale, fornirgli gli strumenti per affrontare il percorso terapeutico e rispettare l’aderenza alla terapia. Il servizio prevede di alternare incontri individuali face2face a domicilio del paziente a contatti telefonici pianificati. Nell’ambito degli incontri o delle call propone al paziente questionari di rilevazione della qualità della vita nonché di impatto della terapia e della patologia sulla vita quotidiana e lavorativa, con il fine di fornire ulteriori strumenti di monitoraggio al medico del centro, sempre nel rispetto degli adempimenti richiesti dalla normativa sulla farmacovigilanza.

Tutte le informazioni raccolte dallo psicologo sono condivise con i medici dei centri tramite la piattaforma Crm, in modalità “integrata”. Il valore aggiunto dell’approccio multidisciplinare di Italiassistenza è proprio la competenza ed esperienza nel fornire a pazienti e medici dei Centri servizi di supporto e monitoraggio integrati in chiave “olistica”: le tecnologie sviluppate contribuiscono a rendere possibile la condivisione dei dati raccolti dai vari professionisti in veste “integrata” e in un formato facilmente consultabile dai medici dei centri.

Italiassistenza, Omnys ed Intellettiva in partnership per monitorare l’aderenza nelle terapie orali

Italiassistenza ha sviluppato l’Adherence Suite, un set di moduli software e device integrati con Crm e portali web, dedicati alla rilevazione continua dell’aderenza del paziente per fornire al medico un efficace strumento di monitoraggio del percorso terapeutico del suo Paziente, in collaborazione con Omnys Srl, una software house che vanta una pluriennale esperienza sia nella progettazione di piattaforme digitali che nella “System Integration” e gestione di progetti IoT. Oggi Italiassistenza propone PluggyMed, una nuova soluzione innovativa e non invasiva per il monitoraggio dell’aderenza di terapie orali che, integrata con la piattaforma tecnologica di Italiassistenza, rappresenta uno strumento per la raccolta di un patrimonio informativo preziosissimo per lo specialista ospedaliero.

La soluzione PluggyMed è fornita da Intellettiva Srl, una startup – nata da una joint-venture tra Palladio Group S.p.A. e Omnys S.r.l. – che si occupa di progettare e sviluppare soluzioni tecnologiche per il mondo della sanità e delle aziende farmaceutiche con il fine di migliorare la vita quotidiana dei pazienti. La soluzione è composta da un astuccio in cartoncino personalizzato per lo specifico blister che racchiude il packaging primario del farmaco, da un dispositivo elettronico in grado di connettersi all’astuccio e di raccogliere e trasmettere i dati relativi al consumo di farmaco in modalità sicura e da una piattaforma in cloud che colleziona i dati inerenti il consumo e fornisce funzionalità di controllo e monitoraggio remoto di tutti i device in uso. La combinazione di queste tre componenti rappresenta la soluzione completa a supporto del monitoraggio dell’aderenza dei pazienti alla terapia orale che Italiassistenza integra nei propri Psp.

L’astuccio di cartoncino

Grazie all’utilizzo di una tecnologia innovativa, l’estrazione di una pastiglia dal blister viene rilevata dal dispositivo e comunicata alla piattaforma cloud. I benefici derivanti dall’utilizzo della carta sono svariati: si tratta di una soluzione che non impatta sulla catena di produzione del farmaco e che, a fronte di costi contenuti, è adattabile a qualunque packaging disponibile sul mercato ed è personalizzabile a livello grafico in base alle specifiche esigenze dell’azienda farmaceutica committente.

Il dispositivo elettronico

Il dispositivo elettronico è in grado di trasmettere autonomamente e in tempo reale le estrazioni delle pastiglie dal blister. Non necessita di essere abbinato ad uno smartphone e può essere configurato e gestito da remoto.

 

Torna su
Integratori alimentari, per la Cassazione non sussiste il reato di comparaggio

Secondo la Corte si tratta di meri alimenti, non riconducibili alla categoria di "specialità medicinali o altro prodotto ad uso farmaceutico". *In collaborazione con Portolano Cavallo


Con sentenza n. 51946 del 16 novembre 2018, la Corte di Cassazione, sezione VI, ha escluso la configurabilità del reato di comparaggio nel caso di integratori alimentari. La Corte ha infatti riconosciuto gli integratori alimentari come meri alimenti, non riconducibili alla categoria di “specialità medicinali o altro prodotto ad uso farmaceutico” oggetto del reato di cui agli articoli 170 – 172 del R. D. 1265 del 1934.

Il reato di comparaggio

Come noto, il comparaggio è un reato caratteristico del settore sanitario. Infatti, possono incorrere nelle pene previste per questo reato medici, veterinari o farmacisti che accettino denaro o altra utilità al fine di “agevolare, con prescrizione mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodotto a uso farmaceutico”. Sono soggetti alle medesime pene anche coloro che danno o promettono a sanitari o farmacisti denaro o altra utilità al medesimo fine.

Inoltre, quando il fatto è commesso dai produttori o dai commercianti di specialità mediche o altro prodotto farmaceutico, ad esempio attraverso l’attività degli informatori scientifici, il ministro della Salute, anche a prescindere dall’esercizio dell’azione penale, può imporre la chiusura dell’officina di produzione e del locale in cui è commercializzato il prodotto, per un periodo massimo di tre mesi. Infine, il ministro della Salute può revocare la registrazione delle specialità medicinali o l’autorizzazione per la preparazione e l’importazione ai fini della vendita di altri prodotti ad uso farmaceutico.

Il caso di specie

Nel caso specifico relativo alla pronuncia n. 51946 del 2018, è stato contestato ad alcuni medici di aver ricevuto favori e regali (buoni carburante dal valore di 50 euro, pagamento di cene ed elargizione di somme di denaro) in cambio del compimento di atti in contrasto con i doveri d’ufficio, in particolare la prescrizione di prodotti realizzati dalla società elargitrice di tali regali. Nel negare la configurabilità della fattispecie di reato, il collegio giudicante ha avuto l’opportunità di precisare la definizione di farmaco e di specialità medicinale.

In particolare, gli integratori alimentari vengono definiti dalla Corte come “prodotti alimentari specifici, assunti nella regolare alimentazione, volti a favorire l’assunzione di determinati principi nutritivi” che, in quanto tali, non hanno proprietà terapeutiche né capacità di prevenire e curare malattie. Per tali motivi, non sono configurabili come medicinali né assimilabili ad alcun prodotto ad uso farmaceutico. Eventuali corresponsioni di denaro volte a promuovere la diffusione di integratori alimentari non sono pertanto suscettibili di condanna ai sensi degli articoli 170 – 172 del R.D. n. 1265 del 1934.

L’impatto di questa pronuncia

In un momento in cui il mercato sta conoscendo una grande espansione di integratori alimentari, nutraceutici, probiotici, spesso promossi nei confronti dei medici attraverso informatori scientifici, questa pronuncia appare particolarmente interessante in quanto contribuisce a delimitare il campo di applicazione del reato di comparaggio in relazione all’oggetto, ossia alla categoria merceologica interessata. In passato, il Tribunale di Firenze ha ritenuto, allo stesso modo, che non sussiste il reato di comparaggio nell’ipotesi di dazione o promessa di denaro o altra utilità in relazione al latte in polvere, considerato anch’esso un mero alimento. Dunque il criterio che sembra tracciato dalla giurisprudenza fino ad oggi è che il reato di comparaggio non sia applicabile alle condotte che riguardano prodotti alimentari, seppure inerenti alla salute o alla qualità della vita. Naturalmente ciò non toglie che determinate condotte possano essere rilevanti sotto altri profili (anche penali), diversi dal reato di comparaggio.

A cura di Elisa Stefanini (Counsel) e Erica Benigni (Associate)

Homepage Digital & life sciences

 

Torna su
Effetti collaterali dei farmaci: i Patient support program per identificarli e gestirli al meglio

Attraverso i programmi di patient empowerment, Domedica educa il paziente e i caregiver su come gestire correttamente gli effetti collaterali dei farmaci e indirizzare le notifiche, riducendo le preoccupazioni del paziente e consentendo un miglior monitoraggio da parte del medico. *In collaborazione con Domedica


L’insorgenza di effetti collaterali durante le cure è una delle cause di ridotta o non aderenza alla terapia: di fronte infatti ai primi disagi causati dai farmaci, i pazienti possono tendere ad abbandonare la cura o ad assumere dosi ridotte senza nemmeno consultare il medico. Per far fronte a questo problema, Domedica favorisce la consapevolezza e la responsabilizzazione del paziente attraverso programmi di patient empowerment che promuovono la corretta gestione degli effetti collaterali.

Coscienza e conoscenza: le leve principali nella gestione di effetti collaterali

Per effetti collaterali ed eventi avversi s’intendono i segni, i sintomi o le alterazioni degli esami di laboratorio o diagnostici che il paziente o il medico rileva nel corso della terapia e che potrebbero o meno essere associate al farmaco/ farmaci che il paziente sta assumendo. Alcuni di questi sono frequenti quali: infezioni, stanchezza, ipotensione, nausea, stitichezza, diarrea, sanguinamenti, ecc…

È importante che il paziente sia consapevole della possibile insorgenza di questi effetti collaterali o che comunque sappia di dover far riferimento al medico se dovessero insorgere, soprattutto se si tratta di effetti mai verificatisi precedentemente.

È per questo motivo che quasi tutti i Patient support program di Domedica hanno un taglio “educational”: il paziente consapevole del proprio ruolo attivo nella gestione del proprio percorso di cura si garantirà la maggior efficacia possibile dal trattamento che sta assumendo.

La farmacovigilanza

Altre importante valore che i Patient support programs di Domedica generano è nei confronti dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), alla quale devono giungere tutte le segnalazioni di eventi avversi insorti in pazienti in trattamento con qualsiasi farmaco, per gli adempimenti di farmacovigilanza.

La farmacovigilanza tutela la salute pubblica attraverso l’analisi di tutte le segnalazioni di eventi avversi ed effetti collaterali che arrivano sia dai sanitari (medici, infermieri, farmacisti e chiunque lavora con pazienti che assumono farmaci) che dalle aziende farmaceutiche, che nella loro attività di informazione e formazione continua sul corretto uso dei propri farmaci ai medici prescrittori raccolgono e trasmettono queste segnalazioni.

La procedura di farmacovigilanza è applicata non solo sui farmaci ma anche sui dispositivi medici e su qualsiasi elemento legato al farmaco (confezione, blister, siringhe, autoiniettori, impianti, ecc…) a garanzia della massima qualità, conformità e sicurezza del prodotto farmaceutico.

Nell’erogazione dei Patient support programs, Domedica garantisce la piena conformità alla procedura di farmacovigilanza, inviando ai canali preposti le segnalazioni raccolte dai pazienti in 24 ore dalla notifica, o immediatamente nel caso di eventi avversi gravi, quali l’ospedalizzazione o il decesso.

Rapporti umani, sfera emotiva, qualità della vita ma anche piena conformità alle procedure che garantiscono e preservano la salute pubblica sono le parole chiave su cui Domedica basa il proprio lavoro da 13 anni, ricevendo il continuo apprezzamento dagli operatori della salute e dai pazienti.

A cura di Domedica

 

Torna su
L’errore nella prescrizione del farmaco

 

 

 

Lo "sbaglio" nel mondo medico porta con sé una serie di considerazioni di carattere tecnico e giuridico. Nell'articolo di presentazione di questa nuova rubrica, si analizzeranno le sfumature terminologiche (e anche giurisprudenziali) del concetto di "errore". *Con il contributo non condizionante di Boehringer Ingelheim


Nell’ambito di una crescente attenzione su una serie di temi, tra loro collegati, che vanno dal diritto alla salute alla sicurezza delle cure, dal miglioramento del sistema-sanità al travagliato regime delle responsabilità professionali, il tema dell’errore nella prescrizione del farmaco in campo medico ha catalizzato una crescente attenzione sia in sede mediatica sia in sede giuridica. Soprattutto giurisprudenziale.
È quindi opportuno un richiamo d’attenzione, a partire dal profilo concettuale.

Le nozioni di errore

Da tempo immemorabile il sapere comune ha elaborato una nozione di errore che è poi stata accolta nel sapere giuridico (in diritto privato, penale, amministrativo).
Per ‘errore’ si intende, anzitutto, una conoscenza falsa: se, alle ore 11, Tizio crede che sia mezzogiorno, questa sua conoscenza costituisce “errore”. Per ‘errore’ si intende, altresì, una condotta con risultato improprio (una condotta che viene posta in essere per un determinato fine, ma, essendo tecnicamente inadeguata per tale fine, non produce alcun risultato o produce un risultato diverso da quello programmato): se Tizio, volendo correggere l’ora indicata dal proprio orologio, ne forza la corona premendola verso la cassa (anziché tirarla verso l’esterno) compie un “errore”. Per meglio sottolineare le due nozioni, è possibile parlare di errore gnoseologico nel primo caso, e di errore tecnico (oppure errore di esecuzione) nel secondo caso.

Ovvio che le due nozioni possono essere collegate e che, nel concreto, l’errore gnoseologico possa essere fattore causale dell’errore tecnico: infatti si consideri che, quando Tizio forza la corona dell’orologio spingendola verso la cassa, l’errore tecnico può dipendere dal credere, erroneamente, che la corona diventi operativa spingendola verso la cassa. Tale rapporto (in cui l’errore gnoseologico è alla fonte dell’errore tecnico) non è, tuttavia, concettualmente necessario: un soggetto, quand’anche conosca benissimo le posizioni operative della corona, può compiere quel gesto sbagliato magari per semplice distrazione (sta pensando ad altro), oppure può compierlo in mera sede di condotta maldestra (e allora, in casi di tal natura, l’errore gestuale non ha radici in un errore gnoseologico).

L’errore in campo medico e nella prescrizione del farmaco

L’errore, in campo medico, si presenta nella tipologia già consolidata nel sapere comune.
Un caso tipico di errore gnoseologico, in campo medico, è l’errore diagnostico: il refertante, in presenza della patologia A, non ravvisa alcuna patologia oppure ravvisa la patologia B. Se, invece, il chirurgo, nel corso di un intervento di ptosi del sopracciglio (lifting), per distrazione o per forza eccessiva applicata allo strumento, lede il nervo sovraorbitario (cagionando ipoestesia tattile nella zona frontale sovrastante, ma questo è profilo ulteriore) si tratta di un errore di esecuzione.

Il nesso tra errore gnoseologico ed errore tecnico

In campo medico viene in particolare evidenza il nesso tra errore gnoseologico ed errore tecnico: infatti una diagnosi errata può determinare una prescrizione errata (così come può determinare una manovra errata). Tuttavia, l’errore di esecuzione (in una estrazione dentaria, in una manovra in assistenza al parto, in una incisione chirurgica, ecc.) può verificarsi anche in assenza di un preesistente o concomitante errore gnoseologico. Nello specifico, l’errore nella prescrizione del farmaco è verosimile che abbia a monte, prevalentemente, un errore di natura gnoseologica: infatti, la prescrizione può essere errata (farmaco inutile o dannoso) in conseguenza a un errore diagnostico; oppure, la prescrizione può essere errata perché si ritiene, erroneamente, che il farmaco alfa sia idoneo a fronteggiare la patologia A.

Per altro verso, neppure può escludersi che, alle radici do un errore gnoseologico (circa l’efficacia di un farmaco), stia a monte un errore tecnico, in quanto, per frettolosità o incapacità, il medico non abbia eseguito correttamente l’anamnesi o abbia omesso investigazioni o ricerche tecnicamente necessarie o quantomeno opportune (sul paziente in concreto, oppure in letteratura).

Errore, negligenza e imperizia nel mondo del diritto

Si noti che, ai fini della disciplina privatistica degli atti giuridici, l’errore è specificamente menzionato in sede normativa; invece, a fini risarcitori, l’errore non è menzionato, e rileva in maniera indiretta attraverso le nozioni di negligenza oppure di imperizia. In concreto: se Tizio ha commesso un errore (come la prescrizione di un farmaco inefficace), e se ciò risulta riconducibile a negligenza o imperizia, in tal caso l’errore è giuridicamente rilevante e sanzionabile (in sede civile e/o penale, è da vedersi).

La negligenza e l’imperizia, sono, da sempre, due elementi fondamentali della “rimproverabilità” e, quindi, della responsabilità): la negligenza è la mancanza di quelle cautele che (nel caso) ogni professionista normalmente serio deve avere a cuore; la imperizia è la mancanza di quelle conoscenze e abilità che (nel caso) devono appartenere alla dotazione di ogni professionista normalmente serio.
Ovviamente, in molti casi si verserà in zona d’ombra, cosicché non sarà facile decidere se una prescrizione errata sia riconducibile, o meno, a negligenza oppure ad imperizia (o, persino, ad entrambe); ma, in caso di controversia, il giudice dovrà pur sempre decidere (e lo farà, verosimilmente, in base alle indicazioni dei periti).

“Approprietezza/inapropriatezza” nella prescrizione del farmaco: una tappa significativa in un travagliato percorso evolutivo

Oggi è sempre più diffusa la nozione di approprietezza. Nella legge Gelli, per esempio, si parla di uso appropriato delle risorse; e nella legge sul consenso informato (art. 2 della legge numero 12 del 16 gennaio 2018) sta scritto che il medico deve avvalersi di mezzi appropriati allo stato del paziente. Di appropriatezza, del resto, si parla ormai da tempo nelle decisioni giurisprudenziali in tema di responsabilità.

Quale il rapporto tra errore e inappropriatezza? Da un lato si potrà continuare a ritenere che l’inappropriatezza sarà da valutare, ai fini risarcitori, attraverso la tradizionale nozione dell’errore. Quindi: se l’inappropriatezza implica un errore (gnoseologico o di esecuzione) e se questo errore è riconducibile a negligenza o imperizia, ne deriverà responsabilità in caso di danno ingiusto. Tuttavia, è verosimile che la nozione di inapproprietezza soppianterà gradualmente la nozione dell’errore, cosicché quest’ultima, soprattutto nel campo della responsabilità medica (tranne una sfera ristretta di casi clamorosi) verrà tendenzialmente emarginata.

In futuro si parlerà di prescrizione inappropriata

Sulla base di considerazioni non superficiali è formulabile la previsione che, d’ora innanzi, si parlerà sempre meno di prescrizione errata, e si parlerà sempre più di prescrizione inappropriata. E c’è da espettarsi che la nozione di “inappropriatezza” verrà modellata (dalla giurisprudenza) in un senso ben più ampio rispetto alla nozione, classica, di “errore” (una prescrizione infatti, potrà essere ritenuta “non errata”, tuttavia di efficacia non ottimale per il caso concreto, e, quindi, “non appropriata”). In definitiva, è possibile che la nozione di inappropriatezza andrà a costituire una tappa ulteriore di quel cammino che, venendo da lontano, è orientato a incrementare i diritti della persona (e a rafforzare, di riflesso, le aspettative risarcitorie): una tappa destinata a costituire un nuovo terreno di sfida, culturale e ideologico e giuridico, nel difficile e dinamico equilibrio tra diritti della persona e tutela delle professioni.

A cura di Giovanna Marzo – Presidente dell’associazione Auxilia Iuris

Home page Progetto Recap, Risk evaluation in clinical practice

Per iscriversi alla Fad Ecm e seguire i webinar in programma, collegati a questa pagina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Medicina scienza e ricerca

 

Sperimentazioni cliniche in Italia: nel 2017 calo del 15%

L’Agenzia italiana del farmaco ha pubblicato il nuovo rapporto. Lo scorso anno sono stati condotti 564 trial contro i 660 del 2016. Valgono comunque il 18% del totale europeo


Nel 2017 sono stati condotti in Italia 564 trial clinici. Un numero in calo del 15% rispetto ai 660 del 2018. Rispetto al totale europeo valgono comunque il 18%, contro il 20,3% dell’anno precedente. È quanto emerge dal 17esimo Rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia pubblicato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

Meno sperimentazioni cliniche

Secondo Aifa, il calo di sperimentazioni cliniche “potrebbe essere dovuto essere dovuto in parte a una contrazione delle sperimentazioni globali o europee”. Ma il dato potrebbe riflettere anche “i nuovi approcci nelle strategie di sviluppo dei farmaci, con l’uso sempre più diffuso di trial complessi, che racchiudono in una singola application due o anchepiù trial, che in passato sarebbero stati presentati come trial individuali, anche di fasi differenti”. Un’ipotesi, questa, che per l’agenzia del farmaco è supportata dal fatto che “l’unica fase di trial in aumento è quella tradizionalmente ricondotta sotto la definizione di fase I, che però è rappresentata prevalentemente da trial complessi di fase I-II o I-III piuttosto che da trial tradizionali di fase I”.

Fonte AIFA

Il primato dell’oncologia

In linea con gli anni precedenti, circa metà delle sperimentazioni cliniche in Italia riguarda l’area oncologica ed emato-oncologica. Il calo dei trial nel 2017 si è distribuito comunque in modo abbastanza omogeneo su tutte le altre aree terapeutiche.

Cresce la ricerca sulle malattie rare

Continua a crescere il trend dei trial nell’area delle malattie rare: rappresentano il 25.5% del totale (24.8% nel 2016). Nell’80% dei casi si tratta di sperimentazioni profit, con una distribuzione equilibrata fra le varie fasi di sperimentazione. Da notare che, nel complesso, oltre il 31% delle sperimentazioni di fase I riguarda le malattie rare.

Una su quattro è no-profit

Le sperimentazioni no profit continuano ad aumentare in percentuale sul totale delle sperimentazioni condotte in Italia: nel 2017 salgono a quota 26,4% (25,8% nel 2016). Tuttavia, l’incremento corrisponde a una diminuzione in numero assoluto di sperimentazioni (da 170 a 149), sebbene più contenuta rispetto alle sperimentazioni profit.

La cooperazione europea

Aifa presenta nel report anche i dati relativi alla partecipazione dell’Italia al progetto Voluntary harmonization procedure (Vhp) per la valutazione congiunta dei protocolli clinici che si svolgono in più Stati dell’Ue. Nel 2017 si è registrato un calo del 10% del numero totale condotto in Europa. Il numero assoluto di richieste di partecipazioni dell’Italia alle Vhp è sceso di cinque punti percentuali.

Per quanto riguarda le sperimentazioni multinazionali sembra che la riduzione globale abbia coinvolto l’Italia in percentuale minore rispetto al resto d’Europa: il nostro Paese si è confermato, infatti, tra i primi “Reference Member States” dopo Regno Unito e Repubblica Ceca.

Bando per la ricerca indipendente

Nel Rapporto sono riassunti anche i dati relativi alle domande di partecipazione al bando Aifa per la Ricerca indipendente 2017. Le domande sono cresciute fino 428 rispetto alle 343 del 2016.

La maggior parte degli studi ha riguarda malattie rare e popolazioni fragili con polimorbidità. Oltre la metà delle domande è relativa a studi interventistici, equamente distribuiti soprattutto fra le fasi II, III e IV. Oltre un terzo sono studi osservazionali e meno del 10% sono revisioni o meta-analisi.

 

 

 

 

 

Torna su
Vaccini Mpr, più si taglia la spesa più cala la copertura

 

Vaccini Mpr, più si taglia la spesa più cala la copertura

Questo è quanto emerge da una ricerca condotta dall'Università Bocconi di Milano e pubblicata sull'European Journal of Public Health a cui ha partecipato anche Walter Ricciardi, presidente dell'Iss. Secondo lo studio, l'immunizzazione per morbillo, parotite e rosolia diminuisce dello 0,5% per ogni 1% di taglio ai fondi economici

Più si taglia la spesa, più cala la copertura. Segno meno intorno allo 0,5% per ogni riduzione della spesa dell’1%. Questo è quanto emerge da una ricerca condotta dall’Università Bocconi di Milano e pubblicata sull’European Journal of Public Health. Alla redazione dell’articolo hanno lavorato Veronica Toffolutti, Alessia Melegaro e David Stuckler con Martin McKee (London School of hygiene and tropical medicine) e Walter Ricciardi (presidente dell’Istituto superiore di sanità).

Proporzionalità diretta

Le recenti tendenze mostrano che la causa principale dell’epidemia di morbillo, che colpisce diversi paesi europei, è la diminuzione della copertura vaccinale, che può essere attribuita principalmente alla diffusione di teorie antiscientifiche. Tuttavia, non ne è l’unica causa. Lo studio mostra che anche i tagli alla spesa sanitaria pubblica giocano un ruolo importante, con la copertura vaccinale contro morbillo, parotite e rosolia (Mpr), che diminuisce di 0,5 punti percentuali per ogni taglio di spesa dell’1%. Gli studiosi hanno confrontato la copertura vaccinale all’età 24 mesi in 20 regioni italiane con la rispettiva spesa sanitaria reale annua pro-capite per il periodo 2000-2014, una volta considerata la forza del movimento anti-vax. “Abbiamo osservato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è cresciuta costantemente dal 2000 al 2009 ad un tasso medio annuo del 3,5%. Mentre è scesa di circa il 2% all’anno tra il 2010 e il 2014. Analogamente, la copertura Mpr è passata dal 74,1% nel 2000 al 90,6% nel 2012. Ha poi invertito il corso, scendendo all’85,1% nel 2014. Ben al di sotto del 95% che costituisce l’immunità di gregge”, ha affermato Veronica Toffolutti.

La gestione locale della spesa

Poiché i tagli sono stati diversi da regione a regione, gli autori possono confrontare gli effetti delle diverse variazioni. Osservano che le regioni che hanno subito i maggiori tagli di bilancio hanno anche registrato la maggiore diminuzione della copertura vaccinale, mentre le regioni che sono riuscite ad aumentare il proprio budget sanitario sono state addirittura in grado di migliorare la copertura Mpr. La Valle d’Aosta, ad esempio, ha subito un calo del 6% della spesa sanitaria e dell’11% della copertura Mpr. La Sardegna, con un aumento del 2% della spesa, ha registrato un aumento dell’immunizzazione pari al 3,8%. “La nostra analisi suggerisce che le misure di austerità adottate in Italia hanno contribuito in modo significativo alla recrudescenza del morbillo”, scrivono gli autori. “L’Italia sta affrontando il problema del basso tasso di vaccinazione con una combinazione di misure legislative e di aumenti di bilancio. Sarà importante monitorare questi sviluppi, non solo per informare la politica in Italia, ma in tutta Europa, dove molti paesi si trovano ora ad affrontare problemi simili”.

 

 

 

 

 

Torna su
Il caregiver familiare in Italia: una figura da tutelare

 

Il caregiver familiare in Italia: una figura da tutelare

Assume un ruolo sempre più rilevante e deve far fronte a una crescente richiesta di assistenza, a causa soprattutto dell’aumento della popolazione anziana. Tuttavia, nel nostro Paese, al contrario di quanto accade in Europa, gode ancora di poche tutele. *In collaborazione con Domedica


Il caregiver familiare è la persona che assiste un proprio congiunto ammalato e/o disabile. È una figura rilevante nella società odierna che deve far fronte a una sempre maggiore richiesta di assistenza, a causa soprattutto dell’aumento della popolazione anziana e con cronicità la cui aspettativa di vita è notevolmente aumentata grazie ai progressi della medicina.

I compiti del caregiver familiare

I compiti del caregiver familiare dipendono dalle condizioni del paziente e possono andare dall’assistenza totale – con il caregiver che si sostituisce interamente al paziente nello svolgimento di tutte le attività (es. alimentazione, igiene personale, somministrazione dei farmaci) – al semplice supporto emotivo/affettivo di cui chiunque ha bisogno per fronteggiare una malattia e la conseguente terapia.

Tra questi due estremi ci sono numerosi compiti che il caregiver familiare potrebbe essere chiamato a svolgere: dall’accompagnare il paziente alle visite di controllo periodiche in ospedale, al rifornimento di farmaci o medical device necessari alla prosecuzione delle terapie, al disbrigo di pratiche amministrative e burocratiche, ecc…

Rischio stress

Il caregiver familiare è una figura fortemente esposta a stress e isolamento, e non è raro che presenti sintomi depressivi. Per aiutare chi, per cause di forza maggiore, si ritrova investito di tale ruolo, l’associazione americana “National family caregivers association” ha stilato un elenco di consigli:

  • Far in modo che la malattia dell’assistito non sia costantemente al centro della propria attenzione;
  • Rispettarsi e apprezzarsi per il compito impegnativo che si sta svolgendo;
  • Prendersi cura di se stesso, oltre che del proprio assistito;
  • Trovare spazi e momenti di svago;
  • Vigilare sulla comparsa di sintomi di depressione;
  • Accettare l’aiuto di altre persone;
  • Imparare il più possibile sulla patologia dell’assistito;
  • Difendere i propri diritti come persona e come cittadino.

Il caregiver in Italia

Dal 1998 al 2016, la quota di caregiver in Italia è passata dal 22,8% al 33,1%. In generale, il caregiver è nella maggioranza dei casi una donna (35,4%, rispetto al 30,7% di caregiver uomini). Mentre l’età media di chi fornisce aiuti è di circa 50 anni per entrambi i generi (dati Istat 2018). Nel nostro Paese è ampiamente diffuso un modello di assistenza familiare, tanto che i familiari stretti rappresentano i caregiver nel 73,5% dei casi (dati Censis 2012).

In Italia un milione di persone si prendono cura di genitori non autosufficienti e quasi il 40% dei lavoratori ha un familiare a cui dare assistenza. Secondo il Rapporto 2015 del Censis, in Italia i caregiver sono più di 3 milioni, pari al 5,5% della popolazione.

La normativa

Fino al 2017 la normativa sul caregiver familiare esisteva solo in alcune regioni quali l’Emilia Romagna, la Campania e l’Abruzzo. Un primo passo è stato fatto lo scorso aprile 2017 con tre disegni di legge per il riconoscimento ai caregiver della malattia professionale e della tutela previdenziale e assicurativa, ad esempio il riconoscimento di un anno di contributi previdenziali ogni cinque anni di assistenza, la copertura assicurativa per le “vacanze assistenziali” intese come i periodi in cui il caregiver è impossibilitato a prestare la sua assistenza, ecc….

Nel settembre dello stesso anno i tre disegni di legge sono stati riuniti in un testo unico, che però è stato oggetto di numerose critiche da parte di associazioni e onlus di settore che hanno contestato il limite del riconoscimento solo formale della figura del caregiver familiare, rinominata “Prestatore volontario di cura”, e l’assenza sostanziale di tutele reali e di fondi pubblici da destinare al supporto di queste persone.

Al momento, l’iter legislativo è in stallo, ma in Italia il riconoscimento del lavoro di cura è un tema di fondamentale importanza anche nei confronti della Comunità europea perché la normativa italiana non è in linea con le legislazioni di altri Paesi europei (es. Francia, Spagna, Polonia) che riconoscono il ruolo del caregiver e delle specifiche tutele.

A cura di Domedica

 

 

 

 

 

Torna su
Malattia di Crohn, arriva in Italia ustekinumab

 

 

Malattia di Crohn, arriva in Italia ustekinumab

È stato approvato in Italia con l’indicazione per il trattamento della patologia attiva di grado da moderato a grave in pazienti che hanno avuto una risposta inadeguata o sono risultati intolleranti alla terapia convenzionale o ad un antagonista del TNFa o che hanno controindicazioni mediche per tali terapie


È stata approvata in Italia la nuova terapia per la malattia di Crohn. Si tratta di ustekinumab di Janssen, che fa parte della classe di anticorpi monoclonali indicati per questa patologia. Ustekinumab è stato approvato in Italia con l’indicazione per il trattamento della patologia attiva di grado da moderato a grave in pazienti che hanno avuto una risposta inadeguata o sono risultati intolleranti alla terapia convenzionale o ad un antagonista del TNFa o che hanno controindicazioni mediche per tali terapie.

La terapia

Il farmaco colpisce contemporaneamente due target. Va ad agire più a monte del processo infiammatorio responsabile della malattia di quanto sia stato possibile fare fino a ora. I dati hanno mostrato la rapidità dell’azione già nel breve periodo e, parallelamente, la persistente durata dell’effetto del farmaco. A due anni, nel 75% dei pazienti in terapia con ustekinumab la malattia è risultata in remissione. “Oggi il più grande bisogno ancora non soddisfatto delle persone affette dalla malattia di Crohn”, ha detto Silvio Danese, dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano (MI), “è combinare un miglioramento repentino, che possa risolvere la dolorosa fase acuta, con l’efficacia mantenuta nel lungo periodo, per permettere al paziente di stare bene negli anni senza dover affrontare ricadute e cambi di terapie. Questa nuova opzione terapeutica apre per la prima volta un ampio orizzonte fino a ora inesplorato, quello del più lungo periodo libero da malattia mai osservato fino a ora”.

L’impatto sociale della patologia

Oltre agli evidenti disturbi clinici, infatti, la malattia di Crohn è spesso causa di disagio sociale. “Ha un importante impatto su diversi aspetti della vita quotidiana”, ha spiegato Enrica Previtali, presidente di Amici Onlus, l’associazione che tutela le persone colpite da Mici. “Rende difficili tanto le relazioni personali e più intime, quanto quelle lavorative e sociali. È una malattia di cui non si parla, perché imbarazzante, per via dei sintomi che la caratterizzano. Spesso i malati soffrono in silenzio – ha detto. A volte rischiano il posto di lavoro per le numerose assenze a cui sono costretti. È fondamentale che di questa malattia si parli e la si conosca”.

Gli studi

I risultati dello studio Uniti sono stati pubblicati su The New England Journal of Medicine nel novembre 2016. Il farmaco ha mostrato in circa il 40% dei pazienti una risposta clinica di controllo dei sintomi già a partire dalla terza settimana dalla somministrazione. Tra i pazienti trattati con una dose di mantenimento del farmaco ogni 8 o 12 settimane, rispettivamente nel 53% e 48,8% dei casi c’è stata una remissione di malattia alla 44ma settimana.
Se questo studio ha mostrato l’efficacia e la sicurezza della terapia a 1 anno, il successivo studio Im-Uniti, ne ha confermato gli stessi benefici di risultati e sicurezza a due anni. Gli stessi tassi di remissione, infatti sono stati mantenuti fino alla 92ma settimana di terapia.

La somministrazione

La somministrazione di ustekinumab prevede solo la prima induzione per via endovenosa presso il centro e poi la terapia di mantenimento da farsi ogni tre mesi per via sottocutanea. “Una cosa non da poco per la persona che deve gestire una terapia cronica”, commenta Amici. “Si tratta di quattro iniezioni all’anno, che il paziente si può fare a casa da solo”.

 

 

 

Torna su
Superticket e spesa per i farmaci: prove tecniche di manovra

Superticket e spesa per i farmaci: prove tecniche di manovra

In un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano il ministro della Salute, Giulia Grillo, spiega che punterà all’abolizione del superticket su visite ed esami. E punta il dito contro la spesa per i farmaci. Per il dg Aifa tetto retributivo e rapporto di esclusività


Cancellare il superticket su diagnostica e visite specialistiche. Rimodulare i ticket aiutando le fasce di popolazioni meno abbienti. Intervenire sulla spesa farmaceutica, a cominciare dai prezzi dei farmaci innovativi come quelli contro l’epatite C. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, affida a un’intervista rilasciata oggi al Fatto Quotidiano la sintesi di alcune priorità del suo mandato. Un assaggio dei temi che probabilmente scalderanno il dibattito sulla prossima manovra finanziaria, la prima del Governo M5S-Lega.

Superticket, dialogo con il Mef

Se sui superticket il ministro riferisce di un dialogo positivo aperto con il ministero dell’Economia, sul fronte dei medicinali le indicazioni politiche arriveranno da un documento a cui sta lavorando il Tavolo sulla governance farmaceutica istituito quest’estate. “In questi anni – spiega il ministro al Fatto – a fronte di drastici tagli ai servizi della sanità pubblica, la spesa per i farmaci è lievitata, fino a sfiorare i 30 miliardi nel 2017. E questa spesa è esplosa perché non è stata governata”. Secondo Grillo, bisogna “smettere di spendere troppo, cioè male, in alcuni settori”. E bisogna anche “intervenire innanzitutto sul costo di farmaci, pure preziosi, come quelli per l’epatite C”.

Spendere meglio

A sostegno del ministro, una nota del gruppo M5s in Commissione Affari Sociali alla Camera: “Il Governo sta lavorando per dare ai cittadini una sanità più accessibile. L’abolizione della tassa di 10 euro su visite specialistiche e analisi (il cosiddetto superticket), per cui si sta impegnando il ministro Grillo, va esattamente in questa direzione. È una misura che aiuterà tanti italiani, soprattutto quelli in condizioni più disagiate. Ci auguriamo quindi che il dialogo con il ministero dell’Economia, finora positivo, conduca a questo importante risultato”. Per quanto riguarda la spesa farmaceutica, invece, i deputati pentastellati assicurano che “il taglio agli sprechi” non si tradurrà in un danno ai pazienti, ma in nuovo approccio che consenta di “spendere con criterio, avvantaggiando i cittadini e non solo le aziende farmaceutiche come fatto finora”.

Il contratto del Dg Aifa

Nel pomeriggio, rispondendo a un Question time alla Camera, Giulia Grillo è tornata sulla nomina del direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Luca Li Bassi. Il contratto di lavoro del nuovo dg, al momento in fase di definizione, contemplerà “un tetto retributivo” e anche un “rapporto di esclusività”. Dunque il divieto di “svolgere altre attività sia pubblica che privata, incluse nomine all’Ema”. Il ministro rivendica questa scelta: “Anche in questa direzione va colto il cambiamento rispetto alle esperienze del passato, che hanno registrato, sempre con riguardo al trattamento economico, emolumenti vicino al milione di euro per anno”, ricorda il ministro.

 

Torna su
Monitoraggio Lea 2016: 14 Regioni promosse, male Calabria e Campania

Monitoraggio Lea 2016: 14 Regioni promosse, male Calabria e Campania

Il ministero della Salute pubblica i risultati del monitoraggio sull’erogazione dei Lea, che riguarda 33 indicatori. Su 16 regioni analizzate, 14 sono adempienti. In netto miglioramento Puglia, Molise e Sicilia

monitoraggio lea

La maggior parte delle Regioni italiane supera l’esame sull’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea). Il ministero della Salute ha pubblicato oggi i risultati del monitoraggio relativo al 2016 e riferito ai 33 indicatori della cosiddetta “Griglia Lea”. Su 16 Regioni monitorate, 14 risultano “adempienti”, mentre Calabria e Campania (sottoposte a Piani di rientro) si collocano nella classe “inadempiente”.

Le due Regioni bocciate, spiega il ministero, dovranno superare le criticità rilevate su alcune aree dell’assistenza tra cui, in particolar modo, quelle degli screening, della prevenzione veterinaria, dell’assistenza agli anziani e ai disabili, dell’assistenza ai malati terminali, dell’appropriatezza nell’assistenza ospedaliera (es. parti cesarei)”.

Monitoraggio Lea: il trend 2012-2016

Il monitoraggio dei Lea viene curato dalla Direzione generale della programmazione sanitaria del ministero. In sostanza, si analizza la capacità delle Regioni di garantire ai cittadini l’erogazione dell’assistenza secondo standard di appropriatezza e qualità. L’aggiornamento annuale del set di indicatori rende flessibile la Griglia, capace di adattarsi ai nuovi indirizzi politici-programmatori ed in grado di intercettare gli aspetti che via via si individuano.

I 33 indicatori della Griglia Lea sono ripartiti tra l’attività di prevenzione collettiva e sanità pubblica, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera erogate dalle regioni. Analizzando il trend 2012-2016 che nel periodo considerato il numero di regioni “adempienti” è altalenante e tendenzialmente in crescita (10 nel 2012, 9 nel 2013, 13 nel 2014, 11 nel 2015, 14 nel 2016). Meritano nota le conferme, nell’ultimo biennio, di Veneto, Toscana, Piemonte ed Emilia Romagna (con punteggi superiori a 200). E il netto miglioramento di Puglia, Molise e Sicilia. Resta comunque una significativa variabilità geografica (ma anche temporale) nell’erogazione dei Lea tra le diverse Regioni.

Resta comunque una significativa variabilità geografica (ma anche temporale) nell’erogazione dei Lea tra le diverse Regioni. Il Veneto guida il gruppo delle Regioni “virtuose” con 209 punti, ma il divario con la Sicilia (163 punti) è ampio, mentre Calabria e Campania si fermano rispettivamente a un punteggio di 144 e 124.

 

Torna su
Alzheimer, sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia

Alzheimer, sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia

Uno studio di Rand Corporation ha analizzato sei Paesi europei, tra cui anche l'Italia, dimostrando che la carenza di personale e centri specializzati per la presa in carico dei pazienti, rischiano di rallentare diagnosi e cura


È sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia. Secondo uno studio effettuato dalla Rand Corporation, organizzazione di ricerca no-profit con sede negli Stati Uniti, i sistemi sanitari di alcuni paesi europei non dispongono delle risorse e strutture necessarie per trasferire un trattamento efficace per l’Alzheimer all’uso clinico diffuso. I ricercatori hanno esaminato i sistemi sanitari di Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito ed hanno analizzato le sfide infrastrutturali che dovrebbero affrontare questi Paesi a partire dal 2020 in caso di un’impennata improvvisa del numero di pazienti.

L’analisi

Lo studio ha rilevato che la criticità principale è la carenza di specialisti che possano eseguire la diagnosi dei pazienti che potrebbero mostrare segni precoci di Alzheimer. In alcuni Paesi il numero di medici specialisti è limitato, senza considerare la scarsità di strutture in grado di somministrare il trattamento di infusione ai pazienti. Secondo le previsioni, il numero di malati di Alzheimer nei Paesi ad alto reddito dovrebbero quasi raddoppiare tra il 2015 e il 2050.

“A fronte dei continui sforzi non è stato fatto abbastanza per preparare i sistemi sanitari nazionali a gestire a livello strutturale e organizzativo tale sfida”, ha affermato Jodi Liu, autrice principale dello studio e ricercatrice di policy presso Rand. “Anche se non vi è la certezza che una terapia dell’Alzheimer venga approvata a breve, il nostro lavoro suggerisce che i leader della sanità nell’Unione Europea dovrebbero iniziare a pensare a come rispondere a questa svolta”.

Lo scenario che si prospetta

L’analisi suggerisce che i sistemi sanitari di alcuni Paesi europei non hanno risorse sufficienti per diagnosticare e trattare l’elevato numero di pazienti con malattia di Alzheimer allo stadio iniziale. I tempi di attesa massimi previsti vanno da cinque mesi per il trattamento in Germania ai 19 mesi per la valutazione in Francia. Il primo anno senza tempi di attesa sarebbe il 2030 in Germania, il 2033 in Francia, il 2036 in Svezia, il 2040 in Italia, il 2042 nel Regno Unito e il 2044 in Spagna. In Germania e Svezia il principale ostacolo infrastrutturale sarebbe la capacità di infusione.

Negli altri quattro Paesi, i tempi di attesa dovuti alla carenza di specialisti e alla capacità di infusione ritarderebbero il trattamento di un numero più elevato di pazienti. La disponibilità di specialisti è il principale fattore di limitazione della tempestività di trattamento in Francia, nel Regno Unito e in Spagna. “Ciascuno dei Paesi che abbiamo studiato è caratterizzato da una serie peculiare di limitazioni del proprio sistema sanitario. Affrontare queste problematiche potrebbe diventare molto impegnativo”, ha affermato Liu.

Rimborsi, regolamentazione e pianificazione

Per i ricercatori sarà necessaria una combinazione di politiche di rimborso, di regolamentazione e di pianificazione della forza lavoro per affrontare le limitazioni di ciascun sistema sanitario. La ricerca è stata realizzata grazie al contributo incondizionato di Biogen, azienda leader a livello mondiale nel settore delle biotecnologie applicate alle neuroscienze per diverse patologie, tra cui la malattia di Alzheimer.

 

Torna su
La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

Una terapia efficace passa per l’assunzione dei medicinali come prescritto dal medico. La consegna del farmaco a domicilio aiuta i pazienti a seguire il percorso di cura sollevandoli dallo stress degli spostamenti e garantendo la massima qualità dal ritiro alla consegna. *In collaborazione con Domedica


La consegna del farmaco a domicilio, oltre a essere una comodità, è uno dei servizi in grado di aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia. Assumere con costanza i farmaci prescritti dal medico, monitorare le proprie scorte e recarsi in farmacia per rifornirsi di nuove confezioni possono sembrare all’apparenza incombenze non difficili da portare a termine.

I vantaggi della consegna del farmaco a domicilio

Se si considera però che per tantissime malattie croniche la dispensazione dei farmaci è a carico esclusivo delle farmacie ospedaliere, gli spostamenti che i pazienti, o i loro caregiver, devono affrontare per rifornirsi di farmaci diventano ostacoli significativi, che potrebbero indurre i pazienti a interrompere il trattamento in attesa di rifornirsi. Poter ricevere il farmaco a casa, senza affrontare scomodi spostamenti

  • aiuta a garantire la costanza della terapia;
  • migliora la qualità di vita dei pazienti ;
  • genera risparmi per i pazienti e le loro famiglie, quantificabili non solo in costi per gli spostamenti ma anche in giornate di lavoro non più perse per provvedere al solo rifornimento di farmaci.

 I Patient support program e la consegna proattiva

Per migliorare l’aderenza alla terapia del paziente, i Patient support program sono la soluzione più efficace. I Patient support program non solo garantiscono che il paziente sia supportato in ogni fase del percorso di cura, ma garantiscono pure la corretta e ricorrente consegna del farmaco a domicilio rispondendo alle esigenze non solo dei pazienti, ma anche delle farmacie e dei medici. Per effettuare la consegna domiciliare dei farmaci a dispensazione ospedaliera è infatti fondamentale

  • coinvolgere i farmacisti ospedalieri;
  • garantire che il farmaco sia ritirato e viaggi a temperatura controllata e secondo altissimi standard qualitativi;
  • pianificare i ritiri con la farmacia e le consegne con i pazienti;
  • coordinare eventuali ritardi o differimenti nel ritiro o nella consegna.

Logistica efficiente

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program che prevedono la consegna del farmaco a domicilio, si avvale della partnership di fornitori di eccellenza nel campo del trasporto dei farmaci, che operano sia a livello nazionale che internazionale. In qualsiasi momento Domedica è in grado di

  • controllare la posizione del mezzo di trasporto;
  • controllare la temperatura alla quale viaggia il farmaco;
  • ricevere informazioni sull’esito della consegna.

La consegna del farmaco a domicilio è un altro dei servizi con cui Domedica supporta i medici e i pazienti per ottenere il massimo dell’efficienza dalla terapia, evitando interruzioni legate alla difficoltà al rifornimento e aumentando la qualità di vita dei pazienti, che possono dedicare il tempo e le risorse risparmiate ad attività più piacevoli e di valore per se stessi e per le loro famiglie.

A cura di Domedica

 

Torna su
Manovra, Gimbe: “Al Ssn servono quattro miliardi”

 

 

 

 

 

 


Il ministro della Salute, Giulia Grillo, dice “un miliardo in più”. Le Regioni chiedono il doppio. Ma secondo la Fondazione Gimbe per un vero rilancio della sanità pubblica servono almeno quattro miliardi di euro. “Alla vigilia della discussione sulla Legge di Bilancio 2019 numerose legittime richieste degli stakeholder della sanità rischiano di rimanere disattese. Al momento, infatti, le risorse necessarie sembrano ben lontane da quelle che il nuovo esecutivo potrà assicurare alla sanità pubblica”, sottolinea la Fondazione in una nota. Risorse che dovrebbero garantire rinnovi contrattuali, sblocco del turnover, nuovi Lea, eliminazione del superticket e borse di studio per specializzandi

I numeri

Gimbe ha passato al setaccio alcune cifre tirate in ballo dal dibattito pubblico su sanità e manovra finanziaria. “Cifre a volte sovrastimate in maniera opportunistica dai singoli stakeholder, a volte divenute oggetto di strumentalizzazione politica”, spiega la Fondazione. Ecco, in sintesi, i dati analizzati da Gimbe:

  • Fondo sanitario nazionale 2019. Rimane quello fissato dalla Legge di Bilancio 2017 così come rideterminato dal Decreto 5 giugno 2017, ovvero 114,396 miliardi di euro. “In altri termini – sottolinea Gimbe – l’attuale Governo al momento non ha previsto alcun aumento del fondo sanitario nazionale, visto che il miliardo di euro in più rispetto al 2018 era già stato definito dal precedente esecutivo”.
  • Rinnovi contrattuali: un miliardo. La stima, riportata nel luglio 2018 dal presidente della Commissione salute alla Conferenza Stato Regioni Saitta in audizione presso la Commissione Igiene e Sanità, è inclusiva di quanto recentemente stimato dall’Aran per la dirigenza medica e veterinaria: 560 milioni, di cui 500 per l’aumento del 3,48% degli stipendi pubblici e 60 per garantire l’indennità di esclusività della massa salariale. Per i fondi contrattuali per il trattamento economico accessorio della dirigenza nel 2019 sono disponibili 30 milioni, dei 437 milioni totali stanziati dalla Legge di Bilancio 2018 sino al 2026.
  • Sblocco del turnover: 1.100 milioni. La stima di Saitta coprirebbe circa 20mila assunzioni nel Ssn, previa rimozione del vincolo di spesa sui valori del 2004 ridotta dell’1,4%.
  • Borse di studio per il corso di formazione specifica in medicina generale: 40 milioni. Già assegnati dal fondo sanitario, secondo quanto dichiarato dal ministro Grillo, per finanziare insieme alle Regioni 840 borse aggiuntive per un totale di 2.093.
  • Borse di studio per le scuole di specializzazione: 250-300 milioni. Saitta stima 2.600 borse non finanziate rispetto al fabbisogno formativo a un costo medio annuo di circa 25.000 euro. La stima complessiva non può tuttavia essere precisa, sia per la differente durata delle scuole di specializzazione, sia perché il numero di borse appare sovrastimato anche alla luce del poco noto fenomeno delle “borse perdute” che deve essere necessariamente arginato.
  • Nuovi Lea: da 800 milioni a 1,6 miliardi. La prima stima è della relazione tecnica che ha dato il via libera alla “bollinatura” del testo del Dpmc sui nuovi LEA da parte della Ragioneria Generale dello Stato. La seconda è della Conferenza delle Regioni e Province autonome che ritiene insufficiente tale copertura perché contabilizza potenziali risparmi.
  • Eliminazione superticket: 350 milioni. Secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti nel Rapporto sul Coordinamento della Finanza Pubblica 2018, il superticket nel 2017 ha “pesato” per 413,7 milioni, da cui sono stati decurtati nella stima i 60 milioni già stanziati dalla Legge di Bilancio 2018, ma non ancora utilizzati per mancato accordo sulla bozza di decreto da parte della Conferenza delle Regioni e province autonome. La stima potrebbe essere sovrastimata perché alcune Regioni nel corso del 2018 hanno già deliberato la sua eliminazione parziale o totale.
  • Ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico: 32 miliardi. La stima complessiva è riportata dalla Corte dei Conti nella Deliberazione 9 marzo 2018 intitolata “L’attuazione del programma straordinario per la ristrutturazione edilizia l’ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario”.
  • Residuo pay-back farmaceutico 2013-2016: circa 920 milioni. Tale importo, quasi interamente contabilizzato come entrata nel bilancio dello Stato, è attualmente oggetto di contenzioso e potrebbe, seppur in parte, trasformarsi in una voce di passività per la finanza pubblica.

Manovra 2019, invertire la tendenza

“Escludendo i potenziali effetti del contenzioso sul pay-back, oltre che ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico che richiedono un piano pluriennale di investimenti che non possono gravare sul fondo sanitario, e stimando realisticamente in 1.200 milioni l’impatto dei nuovi Lea per sbloccare i nomenclatori tariffari, la cifra necessaria per il fondo sanitario 2019 raggiunge i 4 miliardi”, commenta Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Una cifra irraggiungibile: “Una simile disponibilità di risorse nel 2019 è assolutamente irrealistica nonostante l’impegno della ministra Grillo a reperire altri fondi, la sua determinazione a non farsi ‘commissariare dal Mef’ e la possibilità di recuperare ulteriori risorse dal disinvestimento da sprechi e inefficienze. La sanità, al momento, non rappresenta affatto una priorità per Di Maio e Salvini”. Secondo il presidente di Gimbe, la legge di Bilancio e la nota di aggiornamento del Def 2018 dovrebbero invertire la tendenza. “Se così non fosse – conclude Cartabellotta – il 23 dicembre invece di festeggiare il 40esimo compleanno del Ssn, prepariamoci serenamente a intonarne il requiem”.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Antibiotici, Ema raccomanda di limitare l’uso di fluorochinoloni e chinoloni

 

 


Dalla farmacovigilanza europea arrivano raccomandazioni per limitare l’uso di due classi di antibiotici. Si tratta di fluorochinolonici e chinolonici, oggetto di una revisione degli effetti indesiderati potenzialmente di lunga durata e invalidanti da parte del Comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (Prac) dell’Ema. Lo annuncia l’Agenzia europea dei medicinali in una nota.

Effetti indesiderati

La revisione – spiega Ema – ha tenuto conto delle opinioni dei pazienti, degli operatori sanitari e degli accademici presentate durante un’audizione pubblica a giugno 2018. “Molto raramente – sottolinea l’agenzia regolatoria – i pazienti trattati con antibiotici fluorochinoloni e chinoloni, hanno subito effetti indesiderati di lunga durata e invalidanti, la maggior parte dei quali interessavano principalmente muscoli, tendini, ossa e sistema nervoso”.  In seguito alla valutazione di questi effetti indesiderati, il Prac ha raccomandato di ritirare dal commercio alcuni farmaci, compresi tutti quelli che contengono un particolare antibiotico chinolonico. Questo perché sono autorizzati solo per infezioni che non devono essere più trattate con questa classe di antibiotici.

Le raccomandazioni

Per i restanti antibiotici fluorochinolonici, il Prac raccomanda di non utilizzarli:

  • per trattare infezioni non gravi o che potrebbero migliorare senza trattamento (come infezioni alla gola);
  • per prevenire la diarrea del viaggiatore o le infezioni ricorrenti del tratto urinario inferiore (infezioni delle urine che non si estendono oltre la vescica);
  • per trattare pazienti che hanno avuto in precedenza gravi effetti collaterali con un antibiotico fluorochinolonico o chinolonico;
  • per il trattamento di infezioni lievi o moderatamente gravi a meno che altri medicinali antibatterici comunemente raccomandati per queste infezioni non possano essere usati;

Il Prac raccomanda, invece, di utilizzarli “con cautela” specialmente per gli anziani, per i pazienti con problemi renali, per i pazienti che hanno avuto un trapianto di organo o quelli che sono stati trattati con un corticosteroide sistemico. Questi pazienti sono a più alto rischio di danno al tendine causati da antibiotici fluorochinolonici e chinolonici.

Avvertenze per i medici

Il Prac ha anche raccomandato agli operatori sanitari di avvisare i pazienti di interrompere il trattamento con un antibiotico fluorochinolonico al primo segno di un effetto collaterale che coinvolga muscoli, tendini o ossa (come tendini infiammati o lacerati, dolore o debolezza muscolare e dolore o gonfiore alle articolazioni), oppure il sistema nervoso (come la sensazione di spilli e aghi, stanchezza, depressione, confusione, pensieri suicidari, disturbi del sonno, problemi della vista e dell’udito e alterazione del gusto e dell’olfatto).

Le informazioni di prodotto dei singoli antibiotici fluorochinolonici – conclude la nota di Ema – saranno aggiornate per riflettere le restrizioni dell’uso. Le raccomandazioni del Prac saranno ora inviate al comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Ema che adotterà il parere definitivo dell’agenzia.

 

 

 

Torna su
Manovra, Gimbe: “Buio pesto per la sanità pubblica”

 

 


“Dalla Nota di aggiornamento al Def 2018 emergono tutte le contraddizioni di una manovra che porta alle stelle il debito sacrificando le tutele pubbliche. Con la sanità che resta fuori dall’agenda politica, nonostante le dichiarazioni di intenti”. È il giudizio della Fondazione Gimbe sulla Nota di aggiornamento al Def 2018 (NaDef) pubblicata la scorsa settimana dal Governo. “Dopo quasi un decennio di tagli e definanziamenti destinati al risanamento della finanza pubblica – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – da un Governo che si definisce ‘del Cambiamento’ ci si aspettava che la sanità pubblica fosse rimessa al centro dell’agenda politica, tenendo conto del programma contenuto nel ‘Contratto’. Invece, nonostante l’aumento del debito pubblico, tutela della salute, ricerca e sviluppo e innovazione non hanno diritto di cittadinanza nella manovra di fine anno”. L’unica “ragionevole certezza” – sottolinea la fondazione in una nota –  è che il miliardo aggiuntivo stanziato dal precedente esecutivo rimarrà indenne. Gimbe analizza i tre contenuti principali della Nadef 2018: la revisione delle stime finanziari, le problematiche rilevanti identificate e le azioni previste.

Le stime finanziarie

“La NaDef 2018  – scrive Gimbe – azzarda una crescita del Pil del 3,1% nel 2019 che schizza al 3,5% nel 2020 per poi tornare al 3,1% nel 2021, ma contiene l’aumento percentuale della spesa sanitaria a 0,8% nel 2019, 1,9% nel 2020 e 2% nel 2021. Questo primo dato certifica che la crescita della spesa sanitaria nel triennio 2019-2021 rimane ben al di sotto di quella stimata per il Pil nominale. Inoltre, considerato che l’indice dei prezzi del settore sanitario è superiore all’indice generale dei prezzi al consumo, la restrizione in termini di spesa reale è ancora più marcata”.

Rispetto al Def 2018, la NaDef 2018 aumenta dello 0,1% per anno il rapporto spesa sanitaria/PIL (6,5% nel 2019 e 6,4% nel 2020 e nel 2021), ma – sottolinea Gimbe – “non conferma l’attesa inversione di tendenza annunciata dal premier Conte in occasione del discorso per la fiducia”. Parallelamente, aumentano le stime della spesa sanitaria rispetto al Def 2018: 117,239 miliardi di euro per il 2019 (+ 857 milioni); 119,452 per il 2020 (+ 880 milioni) e 121,803 per il 2021 (+ 909 milioni).

“Rimane poco comprensibile – puntualizza la Fondazione – il notevole incremento (+ 2,4%) della spesa sanitaria dal 2017 al 2018 stimato in ben 2,732 miliardi: dai 113,6 miliardi già certificati per il 2017 ai 116,331 stimati per il 2018. Considerato che tutte le Regioni hanno raggiunto un sostanziale pareggio di bilancio, come interpretare gli oltre 2,9 miliardi di spesa sanitaria previsti nel 2018? È un via libera a spendere in libertà in questi ultimi due mesi? Concretizza una (inverosimile) ‘iniezione’ straordinaria di liquidità di fine anno? Oppure – incalza la fondazione –  si tratta di una sofisticata mossa contabile, se non di una clamorosa svista?”.

I problemi rilevanti

Quanto all’analisi sulle “problematiche rilevante” contenuta nella NaDef, Gimbe rileva alcune “clamorose contraddizioni”. Da un lato, si vuole “migliorare la garanzia dell’erogazione dei Lea in modo uniforme su tutto il territorio nazionale”, dall’altro il Governo ha già confermato il via libera al regionalismo differenziato che, spiega Gimbe, aumenterà le diseguaglianze. Seconda contraddizione: “Si propone di aumentare l’attenzione per la promozione e la prevenzione della salute, senza prevedere azioni correlate né tantomeno risorse”. E ancora: “E’ anacronistico – sostiene Cartabellotta – affermare che bisogna ‘prepararsi ai cambiamenti derivanti dal progresso scientifico e dall’innovazione tecnologica’, ovvero si continua ad ignorare il ritardo decennale nell’adozione di tecnologie innovative per trasformare l’assistenza sanitaria”.

Le azioni previste

Rispetto alle cinque azioni prioritarie individuate nel documento, Gimbe esamina – punto per punto – le intenzioni del Governo. Ecco cosa emerge dall’analisi della Fodnazione:

Personale. Confermata la volontà di “completare i processi di assunzione e stabilizzazione del personale” e l’aumento delle borse di studio per medicina generale e specializzazioni. Il costo già stimato dalla Fondazione Gimbe è di 1,1 miliardi per assumere 20.000 professionisti sanitari, di 250-300 milioni per le borse di studio di specializzazione e 40 milioni (già stanziati) per il corso di formazione specifica in medicina generale. Nessun cenno ai rinnovi contrattuali (si stima un miliardo).

Miglioramento della governance della spesa sanitaria. Azioni limitate a farmaci e dispositivi: risoluzione dei contenziosi sul payback farmaceutico, nuove modalità di calcolo di scostamenti dai vincoli della spesa farmaceutica per acquisti diretti e del tetto della farmaceutica convenzionata 2017-2018, adeguamento per il 2019 dei criteri per la contrattazione del prezzo dei farmaci, specifiche direttive per l’acquisizione delle categorie merceologiche sanitarie. Nessuna stima delle risorse potenzialmente recuperabili da tali azioni.

Promozione dell’innovazione e della ricerca. Oltre all’istituzione dell’Anagrafe nazionale dei vaccini proposte l’implementazione del Fascicolo sanitario elettronico in tutte le Regioni, la connessione dei vari sistemi informativi per tracciare il percorso del paziente e l’estensione della tracciabilità dei medicinali al settore veterinario. Non stimati gli investimenti necessari e le risorse recuperabili.

Attuazione, monitoraggio e aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). Previste due azioni rilevanti: la definizione degli standard per l’assistenza territoriale e l’avvio del nuovo Piano nazionale per il governo delle liste di attesa. Nessun cenno allo sblocco dei nomenclatori tariffari dei “nuovi” Lea per i quali manca la copertura finanziaria (stima ministero 800 milioni, stima Regioni 1.600 milioni), né di effettuare un consistente “sfoltimento” delle prestazioni incluse. Subordinata alla “garanzia degli equilibri economico-finanziari del Ssn” la revisione della disciplina della compartecipazione alla spesa e delle esenzioni. Nessun cenno all’eliminazione del superticket.

Investimenti nel patrimonio edilizio sanitario e ammodernamento tecnologico delle attrezzature. Una cabina di regia definirà le priorità per gli interventi di edilizia sanitaria relative all’adeguamento antisismico (zone I e II), all’osservanza delle norme antincendio e all’adeguato ammodernamento tecnologico. Nessuna stima delle risorse necessarie, né alcun riferimento a quelle della Corte dei Conti che ha stimato in 32 miliardi il costo per ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico.

 

 

 

Torna su
I seggiolini antiabbandono diventano legge

Sempre attenti ai miglioramenti vi proponiamo questo articolo readatto da "Segugio" che ci pare importante non solo per gli autombilisti che hanno bebè a bordo! 

La Redazione del Sito 

 

 

02/10/2018

 

 

In particolare, l’articolo 1 del Disegno di legge modifica l’articolo 172 del Codice della Strada, introducendo l’obbligo di utilizzare un congegno salva bebè quando si trasporta in auto un bambino di età inferiore ai 4 anni. L’articolo 2 prevede invece il diritto di informazione per i cittadini sull’obbligo e sull’utilizzo di tali sistemi mentre all’articolo 3 viene specificato che le famiglie potranno beneficiare di agevolazioni fiscali per il loro acquisto.

Nella news “Seggiolini antiabbandono: le ultime novità sulla sicurezza dei più piccoli” abbiamo già specificato che i seggiolini dovranno essere dotati di un dispositivo che emette un segnale acustico e uno visivo per avvertire gli adulti della presenza del bimbo quando si spegne l’auto. Per tutti coloro che invece hanno già comprato un seggiolino omologato, si potrà probabilmente optare per sistemi indipendenti da installare nei diversi sediolini.

Sanzioni severe per chi non rispetta l’obbligo

La mancata presenza del dispositivo antiabbandono verrà configurata come reato amministrativo. Per i trasgressori sono previste multe comprese tra gli 81 e i 326 euro; nel caso di recidiva nei due anni successivi alla violazione, sarà applicata la sanzione accessoria della sospensione della patente per un periodo di tempo che varia tra i 15 giorni e i 2 mesi.

La reazione dell’ADOC

L’Associazione difesa orientamento consumatori esprime soddisfazione per l’approvazione della nuova norma. “Accogliamo positivamente l’introduzione dell’obbligo di installare i seggiolini antiabbandono in auto”, commenta Roberto Tascini, Presidente dell’ADOC, “obbligo che incontra la nostra richiesta di introdurre norme più severe e maggiori controlli sul corretto utilizzo dei seggiolini in auto. La previsione di dotare obbligatoriamente i seggiolini di un dispositivo di allarme antiabbandono non può che incontrare il nostro più ampio favore, così come la previsione di incentivi fiscali per l’acquisto”.

La stessa ADOC sottolinea anche come serva in Italia una “rivoluzione culturale” che faccia comprendere al meglio l’importanza e il corretto utilizzo dei seggiolini. Secondo le stime dell’Associazione, infatti, il 20% delle famiglie non usa il sediolino auto per i propri figli (o comunque non lo utilizza costantemente.

Sistemi antiabbandono già in commercio

Da un paio di mesi è disponibile il nuovo sistema di sensori integrati BebèCare, sviluppato da Samsung e installato in alcuni seggiolini Chicco (Chicco modello Oasys 0+ e Oasys i-Size). Il dispositivo è in grado di rilevare la presenza dei piccoli e avvisare i genitori affinché non li dimentichino. Per contrastare questo fenomeno sono presenti in commercio anche i braccialetti digitali, che una volta indossati dal conducente ricordano con scritte luminose la presenza del bebè a bordo. 

Qualche consiglio per i genitori

Ricordiamo che installare i seggiolini per neonati sul sedile passeggero anteriore con l’airbag frontale attivato può causare gravi traumi al bimbo in caso di incidente. Stesso discorso per chi utilizza seggiolini del Gruppo 0+ posizionandoli nel senso di marcia: uno scontro frontale può provocare la rottura del collo del bambino, che in quella fascia d’età ha la testa troppo pesante rispetto al corpo. In generale, installare qualsiasi seggiolino in maniera errata (posizione o senso), oppure con cintura non bene posizionata, può costituire un grave rischio di lesioni per i più piccoli.

Non dimentichiamo la polizza RC Auto

La sicurezza non deve riguardare solo i bambini, perché le regole della strada impongono anche che l’auto sia coperta da una regolare polizza assicurativa. Quella migliore sul mercato si trova sempre su Segugio.it, il portale che confronta le RC Auto delle principali compagnie operanti in Italia. Segugio.it mette anche a disposizione dei propri utenti il Polizzometro, uno strumento che permette agli utenti di conoscere velocemente i costi medi delle assicurazioni auto/moto per ogni singola provincia.

A cura di: Paola Campanelli

 

Torna su
Il telehealth: benefici del supporto a distanza

 

 

 

Dare ai medici e al team ospedaliero la possibilità di monitorare i pazienti nella loro quotidianità può generare degli enormi impatti positivi sia sull’esito delle cure che sulla continuità assistenziale. *In collaborazione con Domedica


Per telehealth si intende l’insieme di tecnologie e di personale che sono in grado di monitorare, assistere e informare “da remoto” i pazienti e i loro caregiver, e trasferire i dati e le informazioni così raccolte ai medici e allo staff clinico dell’ospedale che li ha in cura.

Monitoraggio a casa come in ospedale: il primo vantaggio del telehealth

I servizi di telehealth possono essere divisi in due anime distinte ma intimamente integrate: la prima riguarda la raccolta e la consultazione dei dati clinici.
In base alla modalità di raccolta dati, il telehealth prevede:

  • L’utilizzo di device medicali semplici, che il paziente autogestisce a casa e con i quali rileva autonomamente, e in accordo con le indicazioni del medico, parametri come: pressione arteriosa, pulsazioni, glicemia, peso, passi e consumo calorico. I valori rilevati sono trasmessi in tempo quasi reale a una piattaforma accessibile dallo staff del centro clinico, che può visionarli e prendere delle determinazioni in merito.
  • L’utilizzo di device medicali più complessi, quali l’elettrocardiografo (per l’effettuazione dell’elettrocardiogrammma) o il fluoroscopio (per l’effettuazione delle radiografie) usati da medici e infermieri per eseguire questi esami a domicilio. Anche in questo caso i dati sono caricati su una piattaforma accessibile al team ospedaliero che ha in cura il paziente, insieme ai referti che vengono stilati da cardiologi o radiologi del team dedicato al telehealth.
  • La possibilità, per i medici dei centri clinici, di accedere ai referti delle analisi effettuate in laboratorio su campioni biologici e tamponi raccolti da infermieri o fisioterapisti direttamente a casa dei pazienti.

L’altra anima del telehealth, imprescindibile dalla raccolta dati, è il monitoraggio del paziente, che viene effettuato da personale sanitario a questo dedicato: sono prevalentemente infermieri e medici che costituiscono la parte “umana” del telehealth. Con il loro operato garantiscono da un lato che i pazienti siano aderenti alle indicazioni del medico curante, dall’altro si interfacciano con i medici e lo staff del centro clinico per portare alla loro attenzione casi che sono fuori dal livello di normalità concordato. Questi professionisti effettuano un primo filtro sulla normalità dei parametri raccolti dai pazienti con i device, la refertazione di Ecg e radiografie e i limiti di normalità delle analisi sui campioni biologici. Per portare a termine questi compiti, si occupano di:

• Monitorare e controllare tutti i parametri
• Contattare pazienti e caregiver per la raccolta di dati aggiuntivi
• Effettuare video-chiamate per visite di follow up, per educazione alla corretta gestione della terapia e all’uso dei device medicali o all’auto-somministrazione di farmaci
• Contattare il centro clinico per la comunicazione dei casi pazienti.

Un sistema così complesso nasce e funziona su una base comune e concordata con i medici e lo staff del centro clinico. Queste linee guida, protocolli e procedure operative sanciscono il corretto funzionamento di tutto il sistema, e garantiscono che le varie componenti – umane e tecnologiche – interagiscano tra loro in modo integrato ed efficace.

Telehealth: supporto remoto a 360°

Il telehealth agevola l’approccio olistico alla cura del paziente, integrando la componente diagnostica a quella assistenziale. Offre la possibilità di tenere il paziente a casa, controllato e monitorato come in ospedale, ma senza il disagio di spostamenti anche impegnativi.
I beneficiari del telehealth sono principalmente i pazienti e i caregiver che sono al centro della
rete di supporto, ma anche i medici e tutto lo staff sanitario che segue il paziente, che attraverso questo approccio è in grado di sentirsi sereno rispetto al controllo e supporto continuo che ricevono i pazienti e intervenire con tempestività su quei pazienti che ne hanno davvero bisogno, senza il rischio che per inconsapevolezza, pigrizia, superficialità, questi dimentichino di seguire le indicazioni fornite dal medico o dimentichino di interfacciarsi con lui in momenti prestabiliti (per esempio al ritiro del referto degli esami). Tutti i servizi erogato da Domedica hanno una base di telehealth variabile e dipendente dal tipo di programma, arricchita in vario modo da attività finalizzate all’awareness, all’educazione, al supporto emotivo e psicologico dei pazienti e dei caregiver.

A cura di Domedica

 

 

 

Torna su
Zanzare “modificate” per ridurre le malattie infettive

 

Clima impazzito e globalizzazione stanno dando una mano ai vettori di virus, che iniziano a diffondersi anche in paesi prima liberi da patologie. Secondo gli infettivologi bisogna agire e in fretta: in Italia sono in crescita casi di West Nile, Chikungunya, Dengue, Zika e intanto una risposta potrebbe arrivare dalle tecnologie emergenti, Ogm e non, che mirano a modificare gli insetti per renderli innocui. Dal numero 162 del magazine


“Dalle 23,30 spegnere gli impianti di aerazione, pulire le verdure degli orti prima di mangiarle, ritirare o coprire i giochi dei bambini”. Un giovedì ordinario a Piove di Sacco in Veneto, dove il sindaco è stato costretto, sul finire di agosto, a indire una disinfestazione straordinaria causa una rilevazione elevata di West Nile virus. E dire che il comune non rientrava nemmeno tra quelli indicati dalla Regione per misure preventive contro i vettori di malattie infettive (la zanzara comune Culex pipiens nel caso del West Nile, ma anche zecche etc.). Un messaggio – quello comunicato ai cittadini in vista della procedura contro gli insetti – che suona quasi anacronistico nel 2018.

Un po’ perché rimanda agli anni del dopoguerra quando il Ddt (dicloro-difenil-tricloroetano) venne usato a tappeto sul territorio italiano per debellare la malaria; un po’ perché viene da chiedersi se negli ultimi 50-60 anni la tecnologia non abbia messo a punto strategie in grado di sostituire l’uso degli insetticidi, utili per lo scopo, ma con conseguenze importanti sull’ecosistema, la fauna e gli esseri umani. E in effetti, in un periodo in cui è (purtroppo) tornato di moda parlare di malattie vettoriali, le biotecnologie potrebbero contribuire (forse in maniera innocua) alla prevenzione di infezioni da virus come Chikungunya, Dengue, Zika e West Nile. Patologie per le quali a oggi, non esistono né vaccini né farmaci efficaci e su misura.

Abbiamo un problema

Difficile non essersene accorti. Negli ultimi tempi e in particolare nell’ultima estate torrida del 2018, il numero di zanzare in circolazione è sembrato aumentare in maniera esponenziale. Probabilmente basterebbe la comune esperienza empirica per accorgersi che le punture di questi insetti sono notevolmente aumentate. Ma se questo non bastasse i dati di sorveglianza ne sono un’ulteriore conferma. Dati che mostrano anche come le malattie vettoriali sono in aumento. Per citarne alcuni, i casi della forma neuro-invasiva di West Nile (la peggiore) tra giugno e settembre 2017 erano stati 14. Un anno dopo nello stesso periodo 148. Dieci volte di più.

Per la seconda volta in dieci anni inoltre, in Italia si è verificata un’epidemia di Chikungunya, infezione veicolata dalla Aedes albopictus, la zanzara tigre. “È evidente che c’è qualcosa che non va – spiega Massimo Galli presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) – queste avvisaglie non da poco, ci fanno concludere che è opportuno riprendere in mano la questione”. Per questo motivo, qualche settimana fa la stessa società aveva chiesto alle istituzioni di iniziare a lavorare il prima possibile a un Piano nazionale per combattere zanzare e zecche portatrici delle malattie vettoriali. In modo da ottenere risultati significativi già a partire dal prossimo anno.

“Questo non significa che in tutto questo tempo non si sia fatto niente – ci tiene a precisare Galli – esistono circolari ministeriali e linee guida dell’Iss. Inoltre l’Italia da tempo è inclusa in un network europeo che si occupa di sorveglianza. A fronte però di piani e progetti definiti, il dubbio è che non siano stati applicati in maniera adeguata a livello locale; o che tutto questo ancora non basti. Ora stiamo cercando di capire quali sono state le criticità e se sia il caso di affrontare il problema sulla base di una nuova pianificazione”.

Le cause

Globalizzazione e clima impazzito sono probabilmente le cause del fenomeno descritto dai dati e da Galli. Forse non le uniche ma le più intuitive, che combinandosi tra di loro hanno portato a un aumento dei casi di malattie infettive. È probabile infatti che le condizioni climatiche delle ultime stagioni abbiano favorito localmente un aumento delle attività dei vettori. Per quanto riguarda il West Nile virus (Wnv), Galli spiega che l’estate prolungata e l’inverno mite del 2018 potrebbero aver aumentato la sopravvivenza delle uova di zanzare comuni: “L’anno scorso ne sono state deposte molte – continua – e quest’anno se ne sono schiuse altrettante, per cui la popolazione, almeno in determinate aree geografiche, deve essere aumentata più del solito.

Il secondo fatto determinante è che una parte di uova fossero portatrici del Wnv: il virus infatti può essere trasmesso dalla madre alla progenie, a differenza di quanto accade con il virus Chikungunya. Il che significa che il virus supera l’inverno dentro le uova e sarà già presente nelle nuove popolazioni di zanzara la prossima stagione”. Il Wnv probabilmente è arrivato in Italia con gli uccelli migratori, che sopravvivono all’infezione e fungono da serbatoi.

Nonostante esistano due tipi di Culex pipiens, una in grado di pungere l’uomo (ma incapace di trasmettere l’infezione intra-specie) e una gli uccelli, il clima anche in questo caso potrebbe aver giocato un ruolo importante creando le condizioni per l’ibridazione tra i due biotipi di Culex. Proprio questi ibridi, capaci di attaccare gli animali serbatoio e gli essere umani, sarebbero quindi le vere truppe d’assalto di West Nile.

“È successo lo scorso anno in Grecia e ci sono avvisaglie che stia succedendo anche in Italia” afferma Galli. Il Chikungunya invece pare sia approdato in Italia in aereo: i ceppi che hanno causato le due epidemie italiane, diversi tra loro, sono arrivati infatti entrambi dal subcontinente indiano, distanza che si può coprire solo in questo modo. Una volta arrivato nel Belpaese a diffondere l’infezione sono bastate le zanzare tigre “italiane”: il virus Chikungunya può essere trasmesso tra gli esseri umani con una puntura.

La tecnica del “batterio diverso”

Che cosa utilizzare dunque, oltre agli insetticidi non sempre ecofriendly e causa spesso di resistenza da parte dei vettori? La prima risposta arriva dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) che da diverso tempo sta lavorando a un progetto che mira alla sterilizzazione (non tramite tecniche di modica genetica) dei maschi delle zanzara tigre. Maurizio Calvitti referente del progetto spiega che un tempo i maschi della Aedes albopictus (che non pungono, solo le femmine lo fanno) venivano sterilizzati con radiazioni mutagene di tipo gamma per ottenere lo stesso risultato, ma l’insetto così trattato risultava debole e “poco attraente”.

Così i ricercatori hanno provato a percorrere altre vie e hanno scoperto che modicando i batteri, che negli insetti hanno una funzione fondamentale per la riproduzione, si potevano ottenere maschi sterili e con una normale attività. È quella che lui chiama la tecnica del “batterio diverso”. “Per prima cosa abbiamo provato a rimuovere questi batteri – spiega Calvitti – ma i maschi diventavano deboli e morivano prima ed erano perciò inutili. Allora abbiamo provato a sostituire quelli della zanzara tigre con i batteri del genere Wolbachia della comune, attraverso tecniche di micro iniezione embrionale. L’Aedes albopictus li ha accettati e ha ripreso la sua vitalità, in modo da essere allevata in laboratorio.

Quando in seguito l’abbiamo fatta incrociare con le femmine selvatiche, non erano più in grado di fecondarle. I maschi modificati con questa tecnica possono perciò essere immessi nell’ambiente per sterilizzare le femmine selvatiche, tra cui quelle portatrici delle infezioni. In questo modo si ha una riduzione progressiva dei livelli di popolazione”. Ma non finisce qui. Il batterio Wolbachia (innocuo per l’uomo e comunemente presente in gran parte degli insetti) svolge anche un’altra funzione: interferisce con la capacità della zanzara di acquisire la malattia da un portatore umano e trasmetterla a un altro. “Studiando i batteri del moscerino della frutta (sempre stesso genere ma con varianti genetiche) – continua Calvitti – abbiamo visto che lo proteggevano da alcune malattie.

Così abbiamo provato a inserirlo nelle zanzare tigre (sempre con stessa tecnica) e nell’ambito del progetto europeo Infravec 2 in collaborazione con il dipartimento di virologia dell’Istituto Pasteur di Parigi, abbiamo visto che erano meno capaci di trasmettere le malattie: avevano una competenza del 10-20% rispetto al 100% delle zanzare selvatiche (il lavoro è stato pubblicato su PLoS Neglected tropical diseases, ndr)”.

La prima volta dell’Europa

Dopo i primi esperimenti in laboratorio ora i ricercatori stanno ottenendo i permessi a livello europeo per sperimentazioni in campo aperto. E se per l’Europa è la prima volta, perché solo adesso per via dei cambiamenti climatici inizia a essere a rischio, in Paesi dove malattie simili sono frequenti, come Usa e Cina, azioni simili si stanno già facendo. Nel luglio del 2017, Verily, divisione scientica di Google, in collaborazione con l’Università del Kentucky e con l’approvazione dell’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti, rilasciò in California venti milioni di zanzare Aedes aegypti sterilizzate con la stessa tecnica (trial scientico Debug Fresno).

Nessun pericolo per l’ecosistema

Obiettivo dei ricercatori dell’Enea non è dunque eradicare la zanzara tigre – anche se la sua scomparsa non influirebbe troppo sull’ecosistema, essendo di per sé una specie aliena invasiva per il Mediterraneo, già fonte di alterazione – ma solo ridurne la popolazione, e con essa la probabilità di essere punti e infettati. Il Wolbachia tra l’altro è un batterio innocuo che muore al di fuori del suo ospite, per cui non vi è nessuna probabilità di alterare l’ecosistema.

Il prossimo passo ora sarà vedere se i risultati ottenuti nei laboratori (nel semicampo) dal biocida (il maschio è stato registrato come biocida biologico) saranno confermati anche nelle condizioni di tipo operativo. “In futuro una società di disinfestazione invece di usare prodotti chimici potrebbe usare gli insetti maschi sterili, diventando ‘disinfestatori biologici’. O ancora il biocida potrebbe essere venduto al dettaglio. Dipende dagli esiti delle applicazioni in campo aperto”.

Le zanzare Ogm

La seconda risposta al problema delle malattie vettoriali potrebbe arrivare dalle zanzare geneticamente modificate. Il Polo d’innovazione di genomica, genetica e biologia (Polo Ggb), un ente no profit, privato a partecipazione pubblica, con sede in Umbria e Toscana, ha attivato diversi progetti di ricerca contro le zanzare vettori di malattie e in particolare il genere Anopheles Gambiae, responsabile della trasmissione della malaria. Greta Immobile Molaro amministratore delegato del Polo, spiega che al momento i ricercatori stanno lavorando con la tecnica di editing genetico Crispr-cas9 per mettere a punto due diverse linee transgenetiche di zanzare:

“La prima ha l’obiettivo di generare maschi in grado di produrre una progenie solo maschile distruggendo il cromosoma X durante la formazione degli spermatozoi. Significa che se un giorno venisse rilasciata nell’ambiente, la zanzara Ogm sbilancerebbe il rapporto maschi/femmine riducendo il numero di coppie fertili e portando al collasso la popolazione. La seconda linea sfrutta la tecnologia del gene drive che introduce una modifica genetica”. Proprio questa ricerca negli ultimi giorni di settembre è stata pubblicata su Nature Biotechnology afferma di Andrea Crisanti, dell’Imperial College di Londra (la ricerca è stata finanziata dalla Bill & Melinda Gates Foundation nell’ambito del progetto Target Malaria e Infravec2 e il Polo Ggb è partner italiano).

La tecnica del gene drive

I ricercatori dell’Imperial College di Londra hanno utilizzato la tecnica Crispr-cas9 per realizzare un gene drive in grado di attaccare il gene “doublesex”, responsabile dello sviluppo dei caratteri femminili nelle zanzare. Se alterato, non produce effetti sui maschi, ma fa sì che le femmine crescano con i caratteri di entrambi i sessi. Di conseguenza perdono il pungiglione e diventano incapaci sia di pungere che di riprodursi. La cosa straordinaria, come sottolinea Immobile, è l’aver fatto saltare tutte le regole mendeliane: se infatti normalmente un frammento di Dna ha il 50% di probabilità di trasmettersi alla generazione successiva, con la tecnica del gene drive (i drive sono elementi genetici in grado di copiarsi da soli) utilizzata da Crisanti la percentuale è superiore al 95%.

Il che significa – come hanno verificato nello studio – che si può ottenere la totale eliminazione di popolazioni di zanzare dopo sole 7/11 generazioni. Dopo 4 o 5 mesi dall’inizio del test in acqua infatti, non c’erano più uova e a differenza delle prove precedenti, dove il gene target era differente, non vi sono stati casi di zanzare resistenti. La speranza è che il rilascio controllato di popolazioni di zanzare portatrici del gene drive, in natura porti a una riduzione della popolazione no all’eradicazione della malaria. La tecnica inoltre potrebbe essere adattata anche agli altri generi di zanzare e usata contro Zika, dengue, febbre gialla, West Nile e così via.

Gli esperimenti di Terni

Ora un campione di zanzare riprogrammate è già stato trasferito presso il Polo Ggb dove si trovano camere climatiche di grandi dimensioni (6 x 6 metri) dove vengono simulate in maniera perfetta le condizioni ambientali semi-naturali delle zone in cui la malaria è endemica. “Non solo vengono riprodotte temperatura e umidità ma anche altri aspetti come il ciclo solare” precisa Immobile, che sottolinea anche come siano “camere assolutamente sicure da cui non esce e soprattutto entra niente.

Facciamo studi ecologici – continua – per vericare l’effettiva capacità delle zanzare Ogm di interagire con quelle selvatiche. Ma anche studi di longevità, di persistenza del transgene attraverso le generazioni successive, di verica dell’effettiva capacità della tecnologia di abbattere la popolazione nel tempo. Durante la sperimentazione raccoglieremo dati sulla numerosità della popolazione, sulla relativa fecondità e sulle modalità di reazione alla tecnologia messa in campo”. Se tutto andrà per il meglio fra qualche anno si passerà alla terza e ultima fase: il rilascio controllato in Africa.

Il rilascio (pilota) in Burkina Faso

Intanto sempre sul finire di settembre in Burkina Faso verrà eseguito il primo rilascio sperimentale su scala ridotta di zanzare maschi sterili geneticamente modificate della specie An. Coluzzii. “Abbiamo avuto l’approvazione da parte dell’Agenzia nazionale per la biosicurezza del Burkina Faso – conclude Immobile – è un primo rilascio che ha l’obiettivo di valutare la capacità operativa del consorzio Target malaria e allo stesso tempo formare il personale e trasferire la tecnologia ai ricercatori del Burkina Faso, che piano piano dovranno imparare a fare il rilascio, a sottomettere un dossier, recuperare i primi dati di popolazione. Servirà anche a comprendere la capacità di adattamento delle zanzare geneticamente modificate all’ambiente in termini di sopravvivenza e di dispersione delle stesse nella popolazione di zanzare autoctone”.

 

Torna su
Un nuovo test del sangue per la diagnosi precoce della Sla

Un gruppo di ricercatori italo-tedesco ha presentato un esame del sangue che attraverso la concentrazione dei neurofilamenti può confermare la diagnosi di Sla e anche la differenziazione rispetto ad altre malattie neurologiche. Il test consente inoltre di fare una previsione del decorso di malattia


Scienziati e clinici li tengono sotto stretta osservazione da diverso tempo: i neurofilamenti (“neurofilament light chain”, Nfl) infatti potrebbero rivelarsi un ottimo strumento per diagnosticare precocemente le malattie neurodegenerative come la Sla (sclerosi laterale amiotrofica) o la sclerosi multipla. Lo conferma anche una recente scoperta che dimostra l’utilità di un test per misurare la concentrazione di neurofilamenti nel siero dei pazienti e di conseguenza diagnosticare la malattia.

Il nuovo test del sangue per la diagnosi precoce della Sla – sviluppato dal gruppo di ricerca tedesco-italiano guidato da Markus Otto dell’Università di Ulm e di Federico Verde Verde dell’Università di Milano e dell’Auxologico – rende possibile una differenziazione rispetto alle altre malattie neurologiche. Senza prelievo di liquido cerebrospinale ma solo del sangue. Metodica molto più semplice, quindi non traumatico per i pazienti e soprattutto ripetibile nel tempo. Il lavoro è stato pubblicato su Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry.

I neurofilamenti

I neurofilamenti sono proteine che costituiscono “l’impalcatura” delle cellule nervose come i motoneuroni. Se queste degenerano, come nel corso della sclerosi laterale amiotrofica, i frammenti dell’impalcatura proteica vengono rilasciati in circolo. Di conseguenza nei pazienti con la Sla la concentrazione del biomarcatore aumentata: precedenti studi hanno già documentato questo effetto nel liquor.

L’aiuto della tecnologia

“Negli anni scorsi i processi di misurazione nel campo della proteomica si sono fortemente sviluppati” ha spiegato il primo autore Federico Verde, ricercatore del dipartimento di Neurologia dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano e dell’Università Statale di Milano. “Grazie a ciò diviene possibile la rilevazione di biomarcatori come Nfl in concentrazioni molto basse e persino nel siero”. Il nuovo test ematico si fonda sulla cosiddetta tecnologia Single Molecule Array (Simoa).

Una conferma della diagnosi

L’affidabilità del nuovo metodo diagnostico è stata verificata su 124 pazienti della Clinica neurologica universitaria (Rku) di Ulm e su 159 controlli. Tra questi ultimi vi erano pazienti con altre malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson così come partecipanti privi di malattie neurologiche degenerative o infiammatorie. Di fatto la concentrazione di Nfl nel sangue dei pazienti con Sla si è mostrata essere la più alta (fatta eccezione per la malattia di Creutzfeldt-Jakob) e ha reso possibile una diagnosi differenziale. Il confronto delle misurazioni ha consentito inoltre ai ricercatori di stabilire una soglia diagnostica di concentrazione di Nnf nel sangue per la sclerosi laterale amiotrofica: se è superata, la diagnosi di Sla è rafforzata.

Il decorso della malattia

Inoltre gli autori hanno mostrato che il livello misurato del biomarcatore correla con l’aggressività del decorso della malattia. “I pazienti con Sla con una più alta concentrazione di Nfl nel sangue subiscono un più veloce peggioramento clinico ed hanno in media un tempo di sopravvivenza più breve”, spiega Otto. Il biomarcatore Nfl è misurabile già poco tempo dopo l’esordio dei primi sintomi e possibilmente permetterà di tracciare anche la risposta a future terapie.

I prossimi passi

In futuro l’affidabilità del nuovo test su sangue deve essere verificata in coorti più ampie ed omogenee. Se il test si confermerà valido, sarebbe appropriato per esempio per la diagnosi precoce in famiglie con la variante ereditaria della Sla oppure per pazienti per i quali per ragioni mediche non possa essere effettuata una puntura lombare. Questo metodo di analisi aggiuntivo potrebbe essere impiegato anche nel corso di studi clinici.

Tre volte importante

“La rilevanza dello studio è triplice” conclude Vincenzo Silani, del cui team di ricercatori e clinici in Auxologico fa parte Verde. “Anzitutto esso arricchisce la clinica della Sla di un nuovo test diagnostico che si affianca alle indagini cliniche, neurofisiologiche e di neuroimmagine. Inoltre promuove il sangue a materiale biologico di primaria rilevanza diagnostica. In un ambito clinico nel quale le indagini biochimiche erano tradizionalmente limitate al liquido cerebrospinale. Infine introduce un test di probabile futuro impiego per il monitoraggio della risposta a trattamenti sperimentali nel corso di trial farmacologici”.

Ne abbiamo parlato nell’articolo “La grande scommessa dei neurofilamenti” sul numero di giugno 2018 di AboutPharma and medical devices 

 

Torna su
Sperimentazionicliniche.it, nasce il portale per orientare i cittadini

Dal 22 ottobre sarà attiva una piattaforma che ha l’obiettivo di guidare cittadini, pazienti e medici sulle sperimentazioni cliniche avviate nel nostro paese. A promuoverlo l'Osservatorio malattie rare insieme a Trial scanning. Se ne è parlato durante un recente evento organizzato da Afi

Conto alla rovescia sulle sperimentazioni cliniche in Italia. Da lunedì 22 ottobre sarà attivo un portale che ha l’obiettivo dichiarato di orientare cittadini, pazienti e medici sulle sperimentazioni cliniche avviate nel nostro paese. Si chiama “Sperimentazionicliniche.it” e lo promuovono l’Osservatorio malattie rare (Omar) e Trial scanning. Alle spalle c’è una testata giornalistica – con una redazione e un comitato scientifico di esperti del settore a supporto – diretta da Ilaria Ciancaleoni Bartoli, che si occupa di analizzare e diffondere informazioni riguardanti studi attivi, focus su patologie, aggiornamenti normativi e analisi del processo della ricerca clinica.

La notizia della nuova piattaforma digitale è stata data il 12 ottobre scorso, nel corso dell’evento “Importanza della ricerca clinica per la cura delle malattie: coinvolgimento del paziente, del cittadino, dei media”, organizzato da Afi (Associazioni farmaceutici industria), che si è svolto a Milano in piazza Città di Lombardia. Proprio in quella sede, da più parti era stata posta la questione dell’enorme “buco” informativo riguardante disponibilità e accessibilità di trial a beneficio dei pazienti italiani, nonostante Aifa censisca il dato e l’esistenza di fonti internazionali (es. ClinicalTrials.gov, Eudract etc.) di difficile se non impossibile consultazione, non solo per i cittadini ma anche per gli addetti ai lavori.

Le caratteristiche della piattaforma

Pensata per superare le criticità e alimentare lo sviluppo della ricerca clinica in Italia, sperimentazionicliniche.it sarà una piattaforma composta da tre strumenti: un portale di informazione, un motore di ricerca e un think tank. Sulla scorta del modello dell’Osservatorio malattie rare, partner del progetto, il portale sarà registrato e condotto come una testata giornalistica. Svolgerà inoltre un’attività costante di ufficio stampa e social media management, per consentire una migliore diffusione delle informazioni riguardanti il settore.

Un contributo significativo all’attività sarà dato dalle partnership con gli attori del sistema. Le associazioni di pazienti, per esempio, che avranno la possibilità di incorporare il motore di ricerca direttamente nel loro sito. Ma anche le società medico scientifiche, con le quali si svilupperanno collaborazioni per la condivisione e l’approfondimento delle informazioni.

Perché portare la ricerca clinica in piazza

L’incontro organizzato da Afi è stato l’occasione anche per spiegare in modo comprensibile il concetto di ricerca clinica e dell’importanza del ruolo del paziente all’interno di questo processo. La scelta di una piazza per parlare di questi temi non è stata casuale. È da considerare, infatti, come la metafora della volontà degli attori in gioco nella filiera del farmaco, di confrontarsi senza barriere per ascoltare e comprendere i bisogni e le esigenze di tutti. Senza dimenticare il ruolo di ognuno di loro: dalle aziende alle istituzioni, dalle associazioni ai mezzi di comunicazione.

I temi dell’incontro

Cos’è la sperimentazione clinica? Chi la progetta? Chi la conduce? Cosa c’è dietro un mondo così poco conosciuto?  Sono alcune delle domande a cui hanno provato a rispondere tutti i partecipanti dell’evento organizzato da Afi. “L’organizzazione di questa giornata – ha spiegato Alessandro Rigamonti, presidente Afi – è un chiaro segnale di come il benessere delle persone, debba passare da una significativa sinergia tra istituzioni, aziende , enti pubblici e cittadini. Tutti questi attori devono far parte di un circolo virtuoso, coinvolti in un processo di evoluzione in grado di condurre verso sempre una maggiore presenza di “human medicine”, in cui ci sia sempre un costante coinvolgimento degli attori in gioco. Dal ricercatore, al medico, al paziente fino ai suoi familiari”.

Il ruolo strategico dell’innovazione

Ma in che modo mettere in pratica tutto ciò? Una grossa mano può arrivare dall’innovazione. Per esempio sfruttando le potenzialità delle tecnologie digitali al servizio della sperimentazione clinica: “Vogliamo diventare leader nella sperimentazione clinica in Europa?”.  Ha commentato Giuseppe Recchia, vp medical & scientific di Gsk. “Allora non basta risolvere le inefficienze attuali, bisogna cogliere le nuove opportunità che arrivano dall’innovazione digitale. In questa direzione stanno prendendo sempre più piede le cosiddette terapie digitali. Trattamenti in cui il paziente diventa attore principale del percorso di cura Un paziente che diventando sempre più attento ed esperto della materia, in grado quindi di affrontare meglio la terapie e allontanare la paura. Per tutti questi motivi non possiamo fare a meno di considerarlo punto centrale di tutti i processi di ricerca”.

Torna su
Vaccino influenzale quadrivalente, nuovo parere positivo dall’Ema Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti

Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016 e protegge da quattro ceppi di virus dell’influenza: A(H3N2), A(H1N1) e due ceppi del virus di tipo B.2 Il vaccino QIVc è ottenuto con il metodo di produzione basato su colture cellulari. Entro dicembre 2018 dovrebbe arrivare l'ok della Commissione Ue


Arriva l’ok del Chmp per un nuovo vaccino influenzale quadrivalente prodotto su colture cellulari (QIVc). Si prevede che entro fine anno la Commissione Europea esamini la raccomandazione del Chmp per dare il via libera all’immissione in commercio.

Il farmaco

Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016 e protegge da quattro ceppi di virus dell’influenza: A(H3N2), A(H1N1) e due ceppi del virus di tipo B.2 Il vaccino QIVc è ottenuto con il metodo di produzione basato su colture cellulari che consente di evitare più facilmente mutazioni di virus che si possono invece verificare utilizzando il metodo di produzione tradizionale su uova. Il vaccino quadrivalente prodotto su colture cellulari offrirebbe, secondo alcuni studi, maggiore corrispondenza fra i ceppi virali del vaccino e quelli circolanti.
Gordon Naylor, presidente dell’azienda produttrice Seqirus è lieto nel dare la notizia. “Siamo pronti a collaborare con le autorità sanitarie e i medici vaccinatori per mettere a disposizione il nuovo vaccino il più velocemente possibile”.

Dal mercato americano a quello europeo

Seqirus produce il vaccino influenzale quadrivalente basato su colture cellulari nei suoi impianti del North Carolina (Stati Uniti). L’azienda è stata in grado di aumentare rapidamente la produzione e questo la rende uno dei maggiori produttore mondiale di vaccini basati su questa tecnologia. Negli Stati Uniti fornisce oltre 20 milioni di dosi di vaccino influenzale quadrivalente basato su colture cellulari e vuole ora rispondere alle esigenze di mercato anche in Europa. Nel Vecchio continente Seqirus commercializza già il vaccino influenzale adiuvato per gli over 65.

 

Torna su
Farmaci veterinari, Parlamento Ue approva il nuovo regolamento

Ora manca l’ok del Consiglio europeo, atteso entro l’anno. Disco verde anche per le nuove regole sui mangimi medicati. Stretta sull’uso degli antibiotici


Disco verde dal Parlamento Ue al nuovo Regolamento europeo sui farmaci veterinari. La plenaria di Strasburgo ha approvato ieri, dopo un iter di quattro anni, le nuove regole che entreranno in vigore nel 2022. Ora manca solo l’ultimo passaggio: l’adozione formale da parte del Consiglio europeo, attesa entro la fine dell’anno. L’Europarlamento ha anche dato il via libera al nuovo Regolamento sui mangimi medicati.

Lotta ai superbatteri

La lotta all’antibiotico-resistenza è il filo rosso che attraversa le nuove regole proposte dall’Ue. “Si tratta di un importante passo avanti per la salute pubblica. Al di là degli agricoltori o dei proprietari di animali – ha commentato la relatrice Françoise Grossetête (Ppe) – l’uso di medicinali veterinari riguarda tutti noi, perché ha un impatto diretto sul nostro ambiente e sul nostro cibo, in breve, sulla nostra salute. Grazie a queste regole, saremo in grado di ridurre il consumo di antibiotici negli allevamenti, un’importante fonte di resistenza che viene poi trasmessa all’uomo. La resistenza agli antibiotici è una vera spada di Damocle, che minaccia di rimandare il nostro sistema sanitario al Medioevo”.

Nuove regole

Con le nuove regole, l’Ue afferma che i farmaci veterinari non devono in nessun caso servire a migliorare le prestazioni o compensare la scarsa cura dell’animale. Si limita, inoltre, l’uso di antimicrobici come misura preventiva, in assenza di segni clinici di infezione (noto come uso profilattico), e per singoli animali e non gruppi. Infine, i farmaci potranno essere utilizzati solo se pienamente giustificati da un veterinario nei casi in cui vi è un alto rischio di infezione. L’uso metafilattico (cioè il trattamento di un gruppo di animali quando si manifestano segni di infezione) dovrebbe essere l’ultima risorsa, e si potrà utilizzare solo dopo che un veterinario ha diagnosticato l’infezione e prescritto gli antimicrobici.

Per contribuire ad affrontare la resistenza agli antibiotici, la legislazione dà alla Commissione europea la facoltà di selezionare quelli da riservare esclusivamente al trattamento degli esseri umani. Per incoraggiare la ricerca su nuovi antimicrobici, la legislazione prevede incentivi, tra cui periodi più lunghi di protezione per la documentazione tecnica sui nuovi medicinali e la protezione commerciale per i principi attivi innovativi.

Il Regolamento disciplina anche il mceccanismo della prescrizione “a cascata” (es. uso di farmaci per l’uomo in assenza di opzioni terapeutiche), la vendita online (vietata) dei farmaci veterinari, la pubblicità di questi prodotti, i contenuti della ricetta veterinaria valida in tutta l’Ue.

I veterinari

“Le nuove regole – commenta in una nota l’Anvmi, l’associazione dei medici veterinari italiani – affidano al medico veterinario un compito centrale nella gestione dei medicinali destinati agli animali, rafforzandone anche il ruolo a tutela della salute pubblica. Solo il medico meterinario, infatti, può prescrivere i farmaci da somministrare agli animali, sia che si tratti di animali allevati, destinati alla produzione di alimenti, sia che si tratti di animali da compagnia che vivono una sempre più stretta convivenza con le famiglie. Ogni decisione sul farmaco veterinario, a scopo di prevenzione o di terapia, deve passare per una decisione e una diagnosi veterinario, il quale stabilirà – sotto la propria responsabilità –  se e quale farmaco prescrivere e quanto utilizzarne”.  Il nuovo ruolo risponde ai  principi di “uso prudente”, lotta all’antibiotico-resistenza e  “one health”: la salute animale e quella umana sono strettamente collegate.

Dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale europea, il Regolamento sarà direttamente applicabile all’Italia senza recepimento. “Alcune novità europee – sottolinea l’Anvmi – non sono in realtà tali per l’Italia, precorritrice di misure contro abusi e rischi, come la vendita on line di medicinali veterinari che nel nostro Paese è già soggetta a un rigoroso divieto”. L’Italia farà da apripista anche su un altro fronte: dal primo gennaio 2019 diventa obbligatoria la ricetta elettronica veterinaria, che consentirà di tracciare i consumi di farmaci anche nell’ottica di monitorare il consumo di antibiotici.

 

Torna su
Patologie del fegato, Novartis e Pfizer fanno squadra

Le due società svilupperanno separatamente dei trattamenti mettendo in associazione dei loro farmaci


Novartis e Pfizer fanno squadra contro le patologie del fegato. Un mercato questo molto lucrativo secondo le aziende che sperimenteranno nuovi farmaci.

Le sperimentazioni

La compagnia svizzera e quella americana collaboreranno allo sviluppo di una combinazione terapeutica che coinvolgerà medicinali già in sviluppo separatamente da entrambe le società. Nello specifico sono trial focalizzati sulla steatosi non alcolica (Nash). Dietro a questa decisione c’è l’esigenza di porre rimedio a disturbi metabolici come obesità e diabete che diventeranno sempre più un problema di salute globale. Durante i test, le compagnie sperimenteranno il farmaco di Novartis tropifexor in varie combinazioni con altri medicinali di Pfizer. L’idea è quella di rendere inefficace Nash sotto più punti di vista attraverso un approccio multiterapeutico. Per esempio le molecole di Pfizer operano sulla steatosi, mentre quelle del partner combattono le infiammazioni e le lesioni fibrotiche.

Un ampio mercato

All’interno di questo contesto si sono mosse grandi aziende del calibro di Pfizer, Novartis, Gilead e Allergan che hanno visto un potenziale di mercato di 20-35 miliardi di dollari secondo quanto rivela Reuters. Nell’alleanza che si prospetta ora per Novartis e Pfizer sono inserite anche Intercept Pharmaceuticals e la francese Genfit.

 

 

Torna su
Esami superflui in corsia, Gimbe: routine costosa e inappropriata

Un position statement della Fondazione auspica iniziative per ridurre la ripetizione “meccanica” dei test per i pazienti ricoverati. Così da evitare sprechi di risorse, ma anche alcuni rischi per la salute


Una stretta sugli esami superflui in ospedale. È quella auspicata da un position statement pubblicato dalla Fondazione Gimbe. “In base alle evidenze scientifiche – spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – oggi possiamo affermare sia che la continua ripetizione dei test di laboratorio nei pazienti ospedalizzati genera sprechi e danni, sia che la loro riduzione non ha alcun impatto negativo sulla sicurezza dei pazienti”.

Esami superflui in ospedale

Secondo Gimbe, la continua ripetizione di esami di laboratorio di routine nei pazienti ricoverati “effetti avversi prevenibili”, sia clinici (es. anemia da ospedalizzazione, aumento della mortalità nei pazienti con patologie cardiopolmonari) sia economici (es. esecuzione di ulteriori test diagnostici, trasfusioni inappropriate, aumento della durata della degenza). Da notare, ricorda la Fondazione, che “se gli esami di laboratorio rappresentano meno del 5% della spesa ospedaliera, l’impatto economico è molto più elevato perché i loro risultati influenzano circa due terzi delle decisioni cliniche relative ad ulteriori test diagnostici o interventi terapeutici”.

Dietro una routine ritenuta costosa e inappropriata ci sarebbero diversi fattori: “Il fenomeno è molto complesso – sottolinea Cartabellotta – e le prescrizioni ripetute di esami di laboratorio nei pazienti ospedalizzati conseguono alla variabile interazione di vari fattori: medicina difensiva, incertezza diagnostica, sottostima degli effetti avversi, scarsa consapevolezza dei costi, mancato feedback sulla prescrizione dei test, differente background formativo dei medici”.

Gli interventi

Nel suo documento Gimbe sottolinea come le evidenze scientifiche documentino l’efficacia di vari interventi per ridurre i test di laboratorio inappropriatamente ripetuti in ospedale, senza che questi comportino l’aumento di eventi avversi, come mancate diagnosi, re-ospedalizzazioni e o mortalità. Tre gli interventi, la formazione, l’audit & feedback ai professionisti sull’appropriatezza delle prescrizioni e la loro restrizione tramite cartella clinica informatizzata. Ma non basta: “Nonostante l’efficacia dei singoli interventi una riduzione significativa e prolungata dei test superflui si ottiene dalla loro combinazione multifattoriale, coinvolgendo opinion leader clinici e decisori per promuovere il cambiamento nell’organizzazione ed estendendo gli interventi a tutti i professionisti sanitari e non solo ai medici prescrittori”, conclude Cartabellotta.

 

Torna su
Presente e futuro nella ricerca digitale

Nel campo delle sperimentazioni cliniche fatica a prendere corpo l'utilizzo della tecnologia. Eppure il dibattito sulle potenzialità delle soluzioni digitali in questo settore è rilevante. Lo affronteremo nella nuova rubrica al via su AboutPharma, dal titolo “Presente e futuro della ricerca clinica digitale”, realizzata in collaborazione con Exom Group


In tempi in cui la tecnologia digitale è parte integrante della nostra vita quotidiana, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la conduzione degli studi clinici. Una delle ragioni potrebbe essere che questa area è generalmente lenta nell’adottare nuove tecnologie. Le cause? Diverse, tra queste la stretta regolamentazione a cui è sottoposta. Certo, alcuni potrebbero sottolineare che comunque da molti anni esiste la raccolta elettronica dei dati (Edc) o la gestione dei documenti in un Trial master file (Tmf) elettronico. Tuttavia rivoluzionare le sperimentazioni cliniche richiede molto di più che l’implementazione di software.

Occorre avere la mentalità e la visione digitale per comprendere le esigenze delle varie parti interessate (pazienti, medici, ricercatori, sponsor). Occorre implementare soluzioni innovative e dirompenti, per soddisfare le esigenze specifiche di ciascuna delle parti coinvolte. Infine, serve avere il coraggio di essere in prima fila per promuovere il cambiamento dei processi.

Le difficoltà degli studi clinici

Le sfide più importanti negli studi clinici sono oggi l’aumento della complessità operativa, il reclutamento dei pazienti, la pressione normativa e la riduzione dei tempi per la commercializzazione, tutti associati a un aumento dei costi. Combinando le tecnologie digitali, con metodologie avanzate e competenze approfondite, è possibile semplificare le attività dei ricercatori. La digitalizzazione di alcuni processi può aumentare il reclutamento e il coinvolgimento dei pazienti per una partecipazione attiva allo studio, sia localmente sia a distanza. In questo modo si possono ridurre i costi e aumentare la qualità e le prestazioni.

Il futuro digitale della ricerca clinica

Con questa rubrica “Presente e futuro della ricerca clinica digitale”, vogliamo darvi conto del dibattito in corso circa le potenzialità offerte dall’implementazione di soluzioni digitali innovative e dirompenti negli studi clinici. Ma dimostrare anche come queste tecnologie impattino sui processi, sulle tempistiche, metriche e sui costi. Negli articoli che seguiranno andremo ad analizzare le varie fasi di uno studio clinico, dalla fattibilità, alla raccolta dati e documenti, al controllo del rischio, al monitoraggio e all’analisi. Inoltre discuteremo di come queste fasi possono essere gestite mediante l’utilizzo di appropriati tool tecnologici al fine di migliorarne l’efficienza e la qualità. Verranno anche presentati diversi case study. Tali casi dimostrano l’impatto positivo sulle metriche e sugli indici di performance. Infine faremo il punto sui nuovi orizzonti tecnologici quali l’Intelligenza artificiale (AI), la chatbot e sui nuovi modelli di studio clinico che vedono il paziente al centro (Patient’s centric study) controllato da remoto attraverso applicazioni di telemedicina.

A cura di Exom Group

 

Torna su
Antibiotici, continua il calo della ricerca e sviluppo secondo l’Ocse

Dal 1983 al 2012, il numero di antibiotici approvati dalla Fda è diminuito drasticamente. Inoltre, stando ai dati 2016, ci sono sempre meno aziende farmaceutiche disposte a investire in R&D in quest'area. Delle 18 del 1990 ne sono rimaste solo sei


Continua il calo della ricerca e sviluppo sugli antibiotici. Lo conferma l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che ha prodotto un report sul tema.

Meno ricerca e meno aziende

I numero dell’Ocse parlano chiaro. Dal 1983 al 2012, il numero di antibiotici approvati dalla Fda è diminuito drasticamente. Inoltre, stando ai dati 2016, ci sono sempre meno aziende farmaceutiche disposte a investire in R&D in quest’area. Delle 18 del 1990 ne sono rimaste solo sei.

Fonte: Ocse

 

Per quanto riguarda le approvazioni si è passati dalle 16 del trienni ’83-87 al minimo storico di due tra il 2008 e il 2012. Significativo, però, il rimbalzo dal 2013 al 2016 con tre approvazioni in più rispetto al quadriennio precedente. Bisognerà attendere un trend continuativo per capire se la ripresa c’è davvero o è solo un fuoco di paia. Allo stato attuale, vedendo i numeri, la discesa è drammatica. Dall’88 al 92 ci sono state 14 autorizzazioni, 10 tra il 1993 e il 1997, 7 tra il 1998 e il 2002 e cinque tra il 2003 e il 2007.

 

Fonte: Ocse

 

Le difficoltà e gli ostacoli

Il crollo globale è dovuto soprattutto a motivi economici e alla mancanza di incentivi di mercato. Mancano i ritorni per gli investimenti e ai fatturati che non soddisfano gli appetiti delle aziende. In aggiunta ci sono anche nuove sfide scientifiche e mediche verso cui stanno convergendo le grandi multinazionali. In questo senso vanno considerate anche le difficoltà nella scoperta e nella sintetizzazione di nuove terapie antibiotiche. Si pensi che solo l’1,5% degli antibiotici in fase preclinica arriva sul mercato. Vero è che ci sono sempre maggiori studi e indagini per la scoperta di nuove molecole naturali (oceani, deserti o parti animali), ma anche qui la ricerca si scontra con difficoltà logistiche (abissi, zone impervie) e gli alti costi nel recuperarle e analizzarle.

L’antibioticoresistenza

E si ritorna sempre lì, alle infezioni resistenti agli antibiotici. Risuona l’avviso dell’Oms sugli effetti potenzialmente devastanti dell’aumento dell’aggressività di questi batteri a causa di un armamentario terapeutico non all’altezza. Nel 2018 sono state 47 milioni le infezioni antibioticoresistenti di cui il 60% di natura respiratoria. Il 20% ha riguardato il gonococco (responsabile della gonorrea). Dallo schema si evidenziano quattro Paesi dell’area Ocse  in cui la situazione è seria. Messico, Giappone, Stati Uniti e Turchia. Questi due con oltre 9 milioni e mezzo di infezioni. L’Italia si attesta nella parte alta della “classifica” con circa 0,5 milioni di casi.

 

Fonte: Ocse

 

Torna su
Influenza, approvato in Europa il primo vaccino quadrivalente prodotto in colture cellulari

Via libera dalla Commissione Ue. L’obiettivo dell’azienda Seqirus è portarlo sul mercato per la stagione 2019-2020. Dai dati “real world” alcuni possibili vantaggi rispetto  alle opzioni standard di produzione su uova


Arriva in Europa il primo vaccino antinfluenzale quadrivalente prodotto in colture cellulari.  La Commissione Ue ha approvato l’immissione in commercio di Flucelvax Tetra per l’utilizzo a partire dai nove anni di età. Ad annunciarlo è una nota dell’azienda Seqirus, società australiana del gruppo Csl.

Colture cellulari vs uova

Secondo i  dati “real world” citati da Seqirus  i vaccini antinfluenzali prodotti in colture cellulari potrebbero essere più efficaci di quelli prodotti con i metodi tradizionali nelle stagioni interessate da difficoltà di adattamento dei ceppi vaccinali alla crescita nelle uova (l’opzione “standard”). A dicembre 2018 l’azienda ha presentato uno studio alla Canadian Immunization Conference (CIC) relativo ad un’analisi effettuata su oltre 1,3 milioni di cartelle cliniche, che ha evidenziato come negli Stati Uniti, durante la stagione influenzale 2017-18, il vaccino quadrivalente in coltura cellulare è stato più efficace del 36,2% rispetto ai vaccini quadrivalenti standard coltivati su uova nella prevenzione delle sindromi influenzali nelle persone a partire dai 4 anni.

La ricerca, sottolinea l’azienda,  ha dimostrato che “alcuni virus H3N2, quando vengono coltivati ​​su uova, subiscono cambiamenti che portano ad una riduzione dell’efficacia dei vaccini antinfluenzali stessi. Quando il vaccino viene invece prodotto con procedimenti interamente estranei alla coltura su uova, come quella su substrato cellulare, il componente H3N2 è in grado di offrire una protezione più mirata, e pertanto potenzialmente migliore”.

Pronto per la stagione 2019-2020

Il nuovo vaccino sarà disponibile per la stagione 2019-2020.  Seqirus produce vaccini influenzali basati su colture cellulari presso la sua struttura di Holly Springs, nel North Carolina (USA). Il portfolio dell’azienda comprende anche Fluad, un vaccino antinfluenzale trivalente adiuvato indicato per gli anziani sopra i 65 anni di età. Per la stessa fascia di età, l’azienda sta anche sviluppando un vaccino quadrivalente adiuvato. Seqirus è stata costituita nel luglio 2015, in seguito all’acquisizione da parte di Csl delle attività di Novartis relative ai vaccini antinfluenzali e alla successiva integrazione con bioCsl. 

 

Torna su
Sanità pubblica “intasata”: anche gli ospedali privati chiedono una nuova governance

Nell’ultimo anno circa 20 milioni di italiani hanno sperimentato le criticità delle liste d’attesa per prestazioni specialistiche e ricoveri. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Aiop, che chiede di aumentare l’offerta dei servizi promuovendo l’integrazione tra pubblico e privato


Rinuncia alle cure, ricorso al privato, accessi inappropriati in Pronto Soccorso e viaggi verso altre Regioni. Sono alcune delle conseguenze di una sanità pubblica afflitta da liste d’attesa troppo lunghe. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) presentato oggi al Senato: nell’ultimo anno, circa 20 milioni di italiani hanno sperimentato la criticità delle liste d’attesa per accedere a prestazioni specialistiche, oppure per un ricovero in ospedale.

I numeri

Secondo il report “Ospedali e Salute 2018”, realizzato per Aiop da Ermeneia, nell’ultimo anno, le liste d’attesa più lunghe – oltre i 60 e fino a 120 giorni – hanno interessato il 35,6% degli utenti per le visite specialistiche, il 31% per i piccoli interventi ambulatoriali, il 22,7% per gli accertamenti diagnostici e il 15% per i ricoveri in ospedale pubblico per interventi più gravi. Hanno un certo peso anche le attese tra i 30 e i 60 giorni, soprattutto per l’accesso a visite specialistiche (22,6%), accertamenti diagnostici (20%) e ricoveri (18,3%).

Le liste d’attesa sono  – secondo il report – la prima causa di rinuncia alle cure (51,7%, +4,1 punti rispetto al 2017), e concorrono ad alimentare, da un lato la spesa out-of-pocket, dall’altro la mobilità sanitaria: oltre il 30% degli utenti, infatti, per accedere più rapidamente a una visita o a un esame, sceglie di rivolgersi ad altre strutture, di pagare privatamente le prestazioni o ricorrere ad ospedali in altre regioni.

Accessi evitabili al Pronto Soccorso

Per evitare le attese si ricorre spesso a un uso improprio del Pronto Soccorso.  Oltre la metà degli italiani in lista d’attesa (10,6 milioni) ha vissuto almeno un’esperienza di accesso al Pronto Soccorso,  registrando, nel 20,7% dei casi, ulteriori attese, in media tra le 3 e le 10 ore prima di essere visitati. Oltre il 50% ricorre ai presidi di emergenza quando non non trova una risposta dalla medicina territoriale e in almeno un caso su quattro ricorre al Pronto Soccorso per per ridurre i tempi di accesso a visite, accertamenti diagnostici e ricoveri. Le conseguenze per l’efficienza del sistema sono intuibili.

Le difficoltà di accesso minano la fiducia verso la sanità pubblica. In generale, un italiano su tre, tra coloro che hanno avuto esperienze di liste d’attesa e/o di Pronto Soccorso, si dichiara insoddisfatto del Servizio Sanitario della propria regione, soprattutto degli ospedali pubblici (32,6%) e delle strutture delle Asl (28,6%), in percentuale minore, invece, degli ospedali privati accreditati (18,3%) e delle cliniche a pagamento (14,3%).

Suggerimenti

Per migliorare la gestione delle liste d’attesa, oltre l’80% degli utenti suggerisce di ampliare gli orari di visita degli ambulatori di medicina generale e un utilizzo integrato di altri ospedali pubblici di zona. Oltre  il 50% degli utenti, pur di arginare il fenomeno, sarebbe disposto a pagare un ticket più alto.

Il ruolo della sanità privata

“A causa delle liste d’attesa, molti cittadini si trovano costretti a rinunciare alle cure, a pagarle direttamente o a migrare nelle regioni nelle quali l’offerta sanitaria è programmata meglio, in termini quali-quantitativi, per ricevere un’assistenza sanitaria efficiente, efficace e in tempi ragionevoli”, commenta Barbara Cittadini, presidente di Aiop. La proposta dell’associazione è di “aumentare l’offerta dei servizi erogati , promuovendo la piena integrazione tra la componente di diritto pubblico e quella di diritto privato del Ssn, al fine di consentire l’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie, nei rispettivi territori di appartenenza”.

Sileri (M5S): “Il privato può integrare ma non sostituire”

“Per noi la sanità è prima pubblica”, sottolinea Pierpaolo Sileri, presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato. “Quando si è sistemata la sanità pubblica, può esserci quella privata, come integrazione e non come sostituzione. Poi, è evidente, è una scelta del cittadino dove farsi curare. Vorremmo un Ssn – prosegue Sileri – omogeneo, buono se non ottimo, su tutto il territorio nazionale”. Per riuscirci servono risorse, soprattutto umane: “Stiamo cercando le soluzioni e andrà rinnovato il contratto dei medici. Ma sono necessarie assunzioni, è necessario colmare gli spazi vuoti all’interno dei Pronto Soccorso, dove mancano i medici, e rivedere tutta la rete del personale sanitario”.

Coletto: rivedere tetto per la spesa privata accreditata

Secondo Luca Coletto, sottosegretario alla Salute, vanno rivisti i tetti per la spesa privata accreditata: “Il Patto della Salute è una grande opportunità, come lo è stato la scorsa volta, e lo sarà anche questa volta. Daremo un vestito nuovo alla sanità, riprogrammando, revisionando e ristrutturando questo Ssn . Il Patto potrebbe essere uno dei veicoli per revisionare e rimodulare il tetto. Io penso che gestendolo al meglio si possa addirittura spendere meno e – conclude Coletto – avere migliori risultati”.

 

Torna su
Rapporto Crea: “La sanità continua a restare fuori dalle priorità dei governi”

L’analisi degli economisti di Tor Vergata sul Ssn: luci e ombre di un sistema che garantisce buoni livelli di salute, ma deve fare i conti con definanziamento, iniquità e disparità geografiche. Payback, Hta e governance in nodi principali per la farmaceutica


“La sensazione è che la sanità continui a rimanere fuori dalle priorità dei Governi che si succedono alla guida del Paese. Questa percezione assume concretezza con la conferma del finanziamento già previsto per il Servizio sanitario nazionale (Ssn): una scelta che non dà seguito alle promesse elettorali di un (ri) finanziamento della sanità pubblica”. Così il 14° Rapporto Sanità del Consorzio Crea dell’Università di Roma Tor Vergata fotografa l’assenza di svolte radicali rispetto al passato sul fronte del finanziamento pubblico per la sanità. Lo scrivono gli economisti Federico Spandonaro e Barbara Polistena nell’introduzione al rapporto, da loro curato, che fotografa ogni anno luci e ombre del Ssn. Un sistema che garantisce buoni livelli di salute, ma deve fare i conti con definanziamento, iniquità e disparità geografiche. E con un gap sempre più evidente, in termini di spesa pubblica, con i Paesi dell’Europa occidentale.

Finanziamento e spesa

Il settore pubblico rappresenta la principale fonte di finanziamento della spesa sanitaria in tutti i Paesi Ue, ma mentre nei Paesi dell’Ue-Ante 1995 (sostanzialmente quelli occidentali) fa fronte in media all’80,5% della spesa sanitaria corrente, in Italia questo quota risulta pari al 74,0%, avvicinandosi ai livelli dei Paesi dell’UE-Post 1995 (in gran parte a quelli dell’Est), che si posizionano al 72,2%.

Complessivamente la spesa sanitaria italiana è ormai inferiore del 31,3% rispetto a quella dei Paesi dell’Europa occidentale. E, sebbene il gap risulti tendenzialmente stabile rispetto all’anno precedente, la stabilizzazione del gap è solo “apparente”, in quanto dovuta alla massiccia contrazione nominale della spesa sanitaria che si è verificata in due specifiche realtà: la Grecia (per effetto del default) e nel Regno Unito (per effetto della Brexit). Sul fronte della spesa pubblica, il divario tra l’Italia e l’Ue-Ante 1995 ha raggiunto il 36,8%, mentre per quanto riguarda la spesa privata il gap è dell’8,5%.

Famiglie e consumi sanitari

Il 79,0% (circa 20,4 milioni di nuclei) delle famiglie italiane ha speso per consumi sanitari, a fronte del 58,0% del 2013. Alla maggiore frequenza del ricorso a spese private, è associata una riduzione della spesa media effettiva pro-capite (-1,2% rispetto all’anno precedente). Il 17,6% delle famiglie residenti (4,5 milioni) hanno dichiarato di aver cercato di limitare le spese sanitarie per motivi economici (100.000 in più rispetto al 2015), e di queste 1,1 milioni le hanno annullate del tutto

Il disagio economico per le spese sanitarie, combinazione di impoverimento per consumi sanitari e “nuove” rinunce per motivi economici, è sofferto dal 5,5% delle famiglie, ed è più presente al Sud (7,9% delle famiglie).

Aspettativa di vita

L’Italia ha un’aspettativa di vita alla nascita di 85,6 anni per le donne e 81 per gli uomini. Anche la speranza di vita residua a 65 anni (19,4 anni per gli uomini e 22,9 per le donne) è, per entrambi i generi, più alta di un anno rispetto alla media Ue.

Nel nostro Paese si vive di più, ma anche meglio. La speranza di vita in buona salute alla nascita in Italia si attesta a 67,6 anni per gli uomini e 67,2 anni per le donne e quella a 65 anni è pari a 10,4 anni per gli uomini e 10,1 per le donne, contro una media Ue inferiore (pari rispettivamente a 9,8 e 10,1 anni).

Divario Nord-Sud

Resta ampio il divario tra Nord e Sud, con oltre un anno di svantaggio in termini di aspettativa di vita nelle Regioni del Mezzogiorno, che diventano 3 per il dato a 65 anni. Tuttavia, le aspettative di vita nelle Regioni del Sud sono migliori di quanto ci si potrebbe aspettare sulla base del loro livello di sviluppo economico: Grecia e Portogallo, ad esempio, pur con un Pil pro-capite paragonabile a quello del nostro meridione, registrano performance peggiori di tutte le Regioni italiane, Campania esclusa. E quest’ultima, comunque, va molto meglio di tutti i Paesi dell’Ue orientale. Questo è il risultato – spiega il Crea – del meccanismo redistributivo alla base del Ssn, il quale permette alle Regioni più povere di avere risorse comunque sufficienti per la sanità.

Politiche sanitarie e industriali

Il titolo del 14° Rapporto Sanità è “Misunderstandings”. Secondo gli autori, uno dei “malintesi” ricorrenti nel dibattito pubblico sul settore sanitario è il seguente: “Continuare a pensare che la politica sanitaria si esaurisca con la sola ‘gamba’ delle politiche assistenziali, dimenticando quella delle politiche industriali”. Riflessione, questa, che per gli autori riporta alla necessità di approfondire il rapporto tra sostenibilità e sviluppo economico, tra sostenibilità e innovazione.

Il settore farmaceutico è il terreno ideale per questo tipo di riflessione: “Un settore – scrivono Spandonaro e Polistena – attualmente alla ricerca di una nuova governance. Sebbene i problemi siano numerosi, in sostanza il problema si è scatenato a seguito del contenzioso generatosi sui pay-back: il misunderstanding sta nel rischio di pensare che la nuova governance possa basarsi su una banale revisione degli algoritmi di calcolo del pay-back, finalizzata a ridurre i motivi di contesa. Che l’algoritmo si possa semplificare, e anche migliorare, è certo: che la sua revisione possa essere risolutiva è, invece, largamente dubitabile”.

Spesa farmaceutica sostenibile

Secondo gli economisti è necessaria una visione olistica, preceduta da un’analisi approfondita delle ragioni che incentivano il contenzioso: “Il punto di partenza del ragionamento non può essere la dimensione pay-back: nel 2017 la somma da ripianare è pari a 1,3 miliardi di euro, ovvero al 6,9% della spesa farmaceutica effettiva: spesa effettiva perché al netto di sconti e pay-back legati ai Managed Entry Agreements (MEA). I meccanismi richiamati, insieme agli importanti risparmi derivanti dalle genericazioni, hanno sin qui garantito la sostenibilità della spesa farmaceutica. La loro efficacia è indubbia: sebbene i confronti di spesa con gli altri Paesi siano molto difficili, a causa delle diverse poste rilevate, considerando che l’Italia è fra i pochi Paesi che rileva tutta la spesa, si può affermare con ragionevole certezza che la spesa italiana è significativamente inferiore a quella media Ue, e questo in primo luogo grazie ad un prezzo medio delle molecole inferiore”.

Abbattere i silos

Il tema della governance, secondo gli economisti di Tor Vergata, deve essere declinato insieme a quello del tetto di spesa e anche a quello delle politiche industriali: “Il doppio tetto, a cui si aggiungono i due distinti Fondi per i farmaci innovativi, configura un sistema di silos che non ha ragione di essere e comporta elementi significativi di inefficienza. L’abbattimento di questi silos fra farmaceutica e altre forme assistenziali, ma anche la valutazione dell’indotto generato dal settore, dovrebbero quindi essere tra gli obiettivi primari da raggiungere per poter garantire la sostenibilità dell’innovazione”. Sull’agenda della nuova governance dovrebbe esserci anche, secondo gli economisti del Crea, un’attenta riflessione sul ruolo della spesa farmaceutica privata.

Le sfide dell’Hta

L’analisi prosegue con un apprezzamento verso il fiorire in Italia, sebbene in ritardo, di richiami all’Health technology assessment (Hta). E avverte sulla portata delle sfide future:  “I prossimi anni metteranno in profonda crisi i sistemi di valutazione sinora utilizzati: le cosiddette advanced therapies, come già la medicina di precisione, pongono formidabili sfide al sistema di Hta, nella misura in cui la crescente targettizzazione implica uno scenario del tutto nuovo, con farmaci (e in generale tecnologie) per indicazioni così “strette” da essere riferibili a gruppi di pazienti di ‘dimensione’ sempre più assimilabile a quelle che si incontrano nelle malattie rare.  Questo a sua volta – sottolineano Spandonaro e Polistena – implica prezzi anche altissimi per rendere le molecole remunerative. A sua volta, la crescita dei prezzi delle tecnologie implica una sempre maggiore concentrazione delle risorse su pochi soggetti”. Una sfida sul piano della sostenibilità, ma anche dell’etica.

 

Torna su
Radiologi, esclusione del compito di suggerire altri esami o consulti di altri specialisti

Secondo una sentenza è esclusa l'imputabilità per i professionisti del settore che non invitano all'approfondimento con altri esami diagnostici. Ecco un caso di studio specifico. *CON IL CONTRIBUTO NON CONDIZIONANTE DI BOEHRINGER INGELHEIM


La signora X Y si era sottoposta a visita mammografica presso un ospedale e, all’esito di detta visita, il medico aveva stilato referto radiologico che evidenziava, in corrispondenza del quadrante esterno della mammella destra, pressoché sul piano equatoriale, una piccola formazione opaca, di forma ovoidale e di natura benigna. Dopo tale evento, si era sottoposta a periodici controlli, con cadenza sostanzialmente semestrale. Successivamente la donna si era sottoposta a una nuova mammografia e, in tale occasione, il medico che aveva eseguito l’esame radiologico non aveva ritenuto opportuna l’esecuzione di altri esami di approfondimento.

A seguito di una terza mammografia presso il medico che aveva eseguito l’esame radiologico aveva stilato referto radiografico che concludeva come segue: “Obiettività rx del tutto stazionaria rispetto ad ultima indagine; in particolare risulta immodificato il raggruppamento di piccole calcificazioni al quadrante esterno. Si consiglia nuovo controllo unicamente alla mammella destra fra 6-8 mesi”.

Dopo un po’ di tempo la signora si era nuovamente sottoposta a mammografia e, in tale occasione, l’esame radiologico era stato eseguito ancora dal precedente medico, il quale aveva stilato referto radiologico del seguente tenore: “Lo studio della mammella dx effettuato con mammografia nel piano frontale ed obliquo medio laterale con tecniche differenziate documenta la presenza di addensamento, a profili sfrangiati ed irregolari del diam. trasverso max di circa 3-4 cm localizzato al quadrante supero/esterno dx. Sono inoltre presenti in adiacenza all’addensamento sopradescritto alcune piccole calcificazioni raggruppate stabili rispetto a precedenti controlli. A completamento della indagine mammografica è stata eseguita indagine etg, che viene allegata che conferma e documenta la presenza di lesione solida etero di 3-4 cm con piccoli noduli satelliti. Si richiede ricovero ospedaliero per accertamenti e cure del caso”.

Successivamente, la paziente era stata ricoverata e sottoposta a intervento chirurgico d’urgenza, seguito da esame istologico, che aveva sorretto la diagnosi di “carcinoma duttale infiltrante dall’elevato grading (43) e metastasi linfonodali in tre dei ventisei linfonodi esaminati”.

Danni e responsabilità prospettati

Ciò considerato in fatto, la signora X.Y. e poi gli eredi lamentavano i danni derivati dagli esiti della vicenda delineata, addebitando, a due medici colpa professionale/responsabilità extracontrattuale, e, all’ospedale, responsabilità contrattuale, in relazione alla tardiva diagnosi. Si costituiva in giudizio la struttura resistendo alla pretesa attorea, mentre i due medici rimanevano contumaci.

Primo grado

Il Tribunale, dopo l’effettuazione di tre consulenze medico legali, ha respinto la domanda risarcitoria (compensando le spese di lite) argomentando, in particolare, che innanzi tutto andava condiviso il giudizio espresso da uno dei consulenti, il quale, in sintesi, aveva escluso che la condotta posta in essere dai sanitari convenuti fosse passibile di censure, in quanto questi erano medici radiologi (e, dunque, non clinici e neppure chirurghi) e non potevano sostituirsi a questi ultimi, non rientrando nei loro compiti quello di visitare la paziente, anche in considerazione delle difficoltà e delle insidie che comporta la delicatissima semiologia mammaria. In sostanza, l’esame mammografico, da solo, non era sufficiente alla formulazione di una diagnosi senologica corretta, in quanto esso deve seguire o precedere la valutazione clinica da parte dello specialista, senologo od oncologo, cui, nel caso di specie, la Sig.ra X.Y. aveva ritenuto di non doversi rivolgere, anche se ciò avrebbe probabilmente consentito una diagnosi più precoce del tumore.

Secondo grado

La Corte di appello respingeva l’appello, confermando integralmente la sentenza di primo grado.

Corte di cassazione

La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile. Sono almeno le due le massime di rilievo astraibili dalla sentenza.
A) “quand’anche fosse addebitabile al medico un ritardo nella diagnosi, in concreto nessun effettivo danno ne sarebbe conseguito a carico della signora. Ciò in quanto l’esito infausto sarebbe stato, ugualmente, inevitabile (ancorché, di pochi mesi, ritardato) e, d’altra parte, il deterioramento delle condizioni complessive di vita, sotto i profili analiticamente illustrati anche nell’atto di appello, non avrebbe avuto differenti manifestazione e progressione”.
B) “entrambi i sanitari intervenuti erano radiologi, chiamati ad eseguire la mammografia e a darne corretta lettura, e non rientrava nei loro compiti suggerire lo svolgimento di altri esami o richiedere un consulto di altri specialisti, di talché la mancata esecuzione dell’approfondimento diagnostico, che era stato consigliato alla paziente nel certificato medico (anteriore alle radiografie), non poteva essere imputato loro; in assenza di uno specifico comprovato addebito colposo, elevabile nei confronti dei medici radiologi, perde rilievo la disamina della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dagli stessi tenuti e l’evento letale poi purtroppo verificatosi.

Commento

La prima massima è percepibile nei seguenti termini: l’esito infausto era inevitabile (sarebbe accaduto anche in presenza di diagnosi corretta e tempestiva); le condizioni di vita avrebbero subìto, comunque, il medesimo deterioramento; non sarebbe configurabile, quindi, un danno incrementale collegabile al ritardo diagnostico. Forse qualche approfondimento, o qualche assestamento di formulazione, avrebbe potuto apparire doveroso (per esempio, in rapporto al “ritardo di qualche mese nel decesso”: ma, in ogni caso, il senso è chiaro.
La seconda massima è di maggiore interesse. Il principio fissato va nel senso che ogni medico va identificato in rapporto alle proprie funzionalità specifiche; quindi, il radiologo fa e deve fare il radiologo, e allora non gli si chieda di fare anche il clinico. Quindi, se la prestazione radiologica è seguita da un danno per mancanza di raccordo clinico, ciò non è imputabile al radiologo. Questa massima è interessante perché alcune precedenti sentenze apparivano di segno opposto: infatti andavano in un senso, per così dire, ‘olistico’ (e cioè nel senso che il radiologo è comunque un medico, talché il suo orizzonte di responsabilità va riferito, pur con precisazioni e limiti, alla salute del paziente nel suo complesso).
La seconda massima farà discutere, e anche parecchio; ma, almeno per ora, farà trarre un sospiro di sollievo ai radiologi (e non solo). Farà riflettere chi si occupa di prevenzione del rischio sanitario che dovrà interrogarsi circa il dovere di creare un collegamento tra il radiologo e il clinico.

A cura di Giovanna Marzo – Presidente dell’associazione Auxilia Iuris

 

Torna su
Vaccini, ecco come si stanno muovendo le Regioni

Il primo rapporto dell’Osservatorio strategie vaccinali, presentato al Senato, fotografa i modelli organizzativi: un “puzzle” di soluzioni diverse persino da un’Asl all’altra, ma anche tanti punti in comune

vaccini

Regione che vai, strategia vaccinale che trovi. Con differenze persino tra un’Asl e l’altra e criticità sparse. Ma anche buone pratiche comuni. È, in estrema sintesi, il bilancio emerso dal primo rapporto dell’Osservatorio strategie vaccinali presentato oggi al Senato, frutto di una ricerca coordinata da Michele Conversano, direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Asl di Taranto e da Federico Spandonaro, economista di Crea Sanità-Tor Vergata.

“I dati – spiega Daniela D’Angela, ricercatrice del Crea – derivano da una survey indirizzata a tutti i direttori dei dipartimenti di Prevenzione presenti sul territorio nazionale (circa 80). Le principali informazioni analizzate riguardano tipologie di vaccinazioni offerte (incluse o meno nel Pnpv 2017-2019); struttura organizzativa dei servizi vaccinali; presenza di anagrafe vaccinale informatizzata, modalità di accesso della popolazione alle sedute vaccinali, nonché iniziative di comunicazione per promuovere l’adesione ai programmi vaccinali”. Ecco, in sintesi, alcuni dei risultati principali.

L’offerta gratuita dei vaccini

Per quanto riguarda l’offerta gratuita delle vaccinazioni previste dal Piano Nazionale, tutte le Regioni dichiarano di aver adeguato il proprio calendario, almeno per l’età pediatrica, mentre il 95,5% degli intervistati afferma di aver avviato tutte le campagne di vaccinazione raccomandate per l’adulto/anziano.

Friuli Venezia Giulia, Marche, Puglia e Sicilia risultano regioni particolarmente “virtuose” in merito all’offerta, in quanto oltre a quella inserita fra i Livelli essenziali di assistenza (Lea) l’offerta è stata ampliata con altre vaccinazioni (ad es. encefalite da zecca, epatite A, ecc..).

Dati frammentati

A proposito dell’anagrafe vaccinale il report segnala un’eccessiva frammentazione dei sistemi informativi. Dato da non sottovalutare visto il percorso di realizzazione di un’anagrafe unica nazionale, prevista per il 2019 dal Pnpv. Se per le vaccinazioni pediatriche, si tutti i Servizi considerati sono provvisti di un’anagrafe vaccinale informatizzata. Nel 54% dei casi questa copre l’intera Regione, limitandosi negli altri casi al territorio di competenza delle singole aziende sanitarie.

Se si focalizza l’attenzione sulle vaccinazioni dell’adulto/anziano la situazione peggiora sensibilmente: il 34% degli operatori lamenta la totale assenza di un’anagrafe vaccinale informatizzata per queste fasce d’età. Infatti, selezionando unicamente i territori in cui l’anagrafe vaccinale dell’adulto/anziano è disponibile, emerge che solo nel 14% dei casi i medici di famiglia vi hanno accesso.

Politiche vaccinali

Quasi la totalità degli intervistati afferma che la governance delle politiche vaccinali attuate dalle Regioni è affidata a un’apposita commissione individuata a livello regionale. Una criticità emerge in merito alle figure incluse nelle commissioni vaccinali: se, infatti, in tutte le Regioni i dipartimenti di prevenzione (o strutture equivalenti) contribuiscono attivamente alle politiche vaccinali, non si può dire lo stesso dei docenti universitari, coinvolti in 10 Regioni, e dei rappresentanti delle società scientifiche dei medici di assistenza primaria, presenti addirittura solo in 6 di esse.

Gare d’acquisto

Quanto all’approvvigionamento dei vaccini, l’indagine rileva una sostanziale uniformità fra le procedure adottate nei Servizi vaccinali italiani: sono le Regioni, infatti, a occuparsi sia della scelta dei prodotti da utilizzare nel 77-86% dei casi (le due percentuali si riferiscono, da un lato, alle vaccinazioni adulto/anziano e, dell’altro, a quelle pediatriche).

Pediatri poco coinvolti

La vaccinazione pediatrica è affidata in modo esclusivo ai Servizi vaccinali secondo quasi il 90% degli aderenti all’indagine. In alcune Regioni è presente un modello in cui i pediatri di libera scelta supportano i Servizi vaccinali, affiancandoli nell’immunizzazione pediatrica.

Vaccini per gli adalti

La somministrazione delle vaccinazioni dell’adulto/anziano merita un discorso a parte, in quanto risulta di competenza dei Mmg secondo il 91% degli intervistati per l’antinfluenzale, il 72% per l’antipneumococcica e solo il 25% per l’anti-zoster. Per quest’ultima vaccinazione sono state fatte al momento scelte differenti in relazione probabilmente ad alcuni fattori peculiari del prodotto, spiega il report: “La difficoltà per i Mmg nella destagionalizzazione della somministrazione rispetto all’antinfluenzale, l’incompleta conoscenza delle indicazioni per un vaccino di recente introduzione e, soprattutto, i problemi di stoccaggio presentati da un vaccino vivo attenuato, che richiede più di altri il rispetto della catena del freddo”.

Il medico di famiglia

Il 42% degli intervistati ha risposto che la partecipazione alle attività vaccinali da parte dei Mmg non è obbligatoria, pur essendo prevista dall’Accordo collettivo nazionale (Acn) che ne disciplina gli obblighi convenzionali, e solo il 17% ritiene che i Mmg eseguano un’azione di chiamata attiva delle vaccinazioni.

La comunicazione

La sanità pubblica predilige ancora una comunicazione tradizionale per l’attività di comunicazione e promozione vaccinale. Sono molto diffusi l’utilizzo di materiale divulgativo cartaceo (locandine, brochure, ecc.), i siti web istituzionali, gli interventi sui mass-media locali e quelli nelle scuole, mentre molto scarsa è la comunicazione sui social network.

 

Torna su
Aifa, aperto un tavolo permanente per i pazienti

L’Aifa intende adesso privilegiare il coinvolgimento attivo di tutti i cittadini e pazienti riservando loro uno spazio esclusivo


Aperto un tavolo permanente per i pazienti in seno all’Aifa secondo le linee guida del Documento in materia di Governance farmaceutica. In sostanza i pazienti entreranno in pianta stabile all’interno dell’Agenzia italiana del farmaco per migliorare la consultazione con le associazioni dei pazienti all’interno di Open Aifa.

Il tavolo permanente

Nell’iniziativa da sempre dedicata agli incontri con tutti gli interlocutori dell’Agenzia, l’Aifa intende adesso privilegiare il coinvolgimento attivo di tutti i cittadini e pazienti riservando loro uno spazio esclusivo. L’Agenzia invita pertanto i pazienti, riuniti in associazione o anche singoli cittadini portatori di tematiche inerenti al farmaco, come accesso, ricerca, sicurezza, a contattarla all’indirizzo openaifa@aifa.gov.it e a consultare la pagina dedicata per prendere visione e sottoscrivere il regolamento di partecipazione.

Il contributo all’attività regolatoria

L’apertura di questo canale di dialogo rappresenta un contributo prezioso per l’attività regolatoria “perché – è scritto sul sito dell’Agenzia – portatore di esperienze reali e competenze che miglioreranno il raggiungimento dell’obiettivo primario che per l’Aifa è la promozione e tutela della salute dei cittadini”. L’agenda e i resoconti saranno resi disponibili sul portale istituzionale dell’Agenzia.

La survey sul patient engagement

Abbiamo preparato una survey il cui obiettivo è stimolare una riflessione e quantificare consapevolezza, aspettative e motivazioni nella relazione tra industria e pazienti.
Ogni contributo è prezioso e può aiutarci a disegnare nuovi percorsi e a scrivere un nuovo capitolo sul settore bio-farmaceutico italiano.
Il questionario richiede soltanto pochi minuti. I dati saranno raccolti in anonimo e utilizzati in maniera aggregata a fini formativi e/o di ricerca sul tema.

Clicca e partecipa alla survey

 

Torna su
Spesa globale per i medicinali, entro il 2023 salirà a 1,5 trilioni di dollari

 

 

Secondo il report "2018 Global use of medicines: 10 healthcare predictions for 2019" di Iqvia, il mercato farmaceutico arriverà a circa 1,5 trilioni di dollari entro il 2023 con un tasso di crescita annuo tra il 3% e il 6%. Nel 2018 la spesa si è attestata a 1,2 trilioni


Il traino della crescita

A guidare questa accelerata sono gli Stati Uniti e i mercati cosiddetti emergenti. Rispettivamente crescono del 4-7% e del 5-8%. Per quanto riguarda gli Usa ci sono vari fattori che spingono verso questi risultati. Innanzi tutto il prezzo dei farmaci di marca, le cui fette di mercato sono minacciate dalla scadenza brevettuale. In Europa la crescita è più lenta (1-4%) contro il 4,7% dei precedenti cinque anni. Nel 2018 in Giappone la spesa è stata di 86 miliardi, mentre in Cina di 137 miliardi. Mentre Tokyo potrebbe perdere terreno, Pechino potrebbe salire a 140-170 miliardi entro il 2023 con una crescita del 3-6% annua.

Nuovi farmaci

Iqvia prevede che nei prossimi cinque anni potrebbero arrivare circa 54 nuove sostanze all’anno sul mercato, tenendo conto, comunque, della crescita dei generici e dei biosimilari. Addirittura la crescita nei mercati più robusti potrebbe aggirarsi intorno al 50% entro il 2023. Certo l’impatto della scadenza brevettuale si farà sentire. Circa 120 miliardi tra il ’19 e il ’23, con l’80% di questa somma concentrato negli Usa. Inoltre il mercato dei biosimilari potrebbe triplicare.

 

 

 

Torna su
Bugiardino digitale, Ema apre una consultazione pubblica

Sotto esame la bozza dei principi fondamentali che costituiranno la base per l’elaborazione e l’uso nella Ue delle “ePI”, le informazioni sui medicinali in formato elettronico, che includono il foglietto illustrativo per il paziente e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari


Una consultazione pubblica sulla bozza di regole per un bugiardino elettronico armonizzato in tutta Europa. A lanciarla è l’Agenzia europea dei medicinali (Ema), spiegando che gli stakeholder potranno inviare i loro commenti entro il 31 luglio 2019.

Il documento sottoposto a consultazione contiene i principi fondamentali che costituiranno la base per l’elaborazione e l’uso nella Ue delle “ePI”, le informazioni sui medicinali in formato digitale, che includono il foglietto illustrativo per il paziente e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari. La bozza è il frutto del lavoro fatto nel 2018 da Commissione europea, Ema e la rete dei direttori delle agenzie del farmaco nazionali (Hma). Queste istituzioni hanno condotto un dialogo con pazienti, operatori sanitari, esperti in affari regolatori dell’industria farmaceutica. Ne sono derivati alcuni “principi fondamentali” per un approccio armonizzato in tutta la Ue.

Il bugiardino digitale

Le informazioni sul prodotto di un medicinale nell’Ue – ricorda l’Ema in una nota –  comprendono il foglio illustrativo per i pazienti e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari. Questi documenti accompagnano ogni singolo medicinale autorizzato nell’U e spiegano come dovrebbe essere usato e prescritto. Il foglio illustrativo è attualmente fornito nella scatola del farmaco e può anche essere trovato, principalmente come documento pdf, sui siti web dei regolatori. Tuttavia – sottolinea l’agenzia europea del farmaco –  le piattaforme digitali aprono ulteriori possibilità di divulgare le informazioni sul prodotto elettronicamente. I principi chiave descrivono i benefici attesi dal bugiardino elettronico, inteso come complementare (e certo non sostitutivo) alla versione cartacea e le modalità in cui questa innovazione può inserirsi nel quadro legislativo esistente.

Un’altra tappa per l’e-Health

“L’elaborazione di informazioni elettroniche sul prodotto per i medicinali – commenta Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare – è un passo importante nella digitalizzazione della sanità e dell’assistenza e sono convinto che le ePI possano apportare benefici pratici e tangibili sia ai cittadini che agli operatori sanitari. Attendo con interesse i risultati della consultazione, perché è fondamentale che le ePI soddisfino le aspettative delle parti interessate e dei cittadini in tutta l’Ue”. Dopo la consultazione, sarà concordata la versione definitiva del documento.

 

Torna su
Payback, soddisfazione da Giulia Grillo. “Ora assunzioni nel Ssn”

Il ministro della Salute commenta il Dl Semplificazioni da poco approvato in via definitiva alla Camera e si sofferma su due punti: ripiano dei tetti di spesa e nuova occupazione nella sanità


C’è soddisfazione da parte del ministro della Salute Giulia Grillo sulla questione payback. Adesso Lungotevere Ripa vuole guardare avanti e punta ad assunzioni nel Ssn. “Posso tirare un sospiro di sollievo. La norma sul payback farmaceutico nel decreto Semplificazioni, approvato in via definitiva alla Camera, è una svolta storica. Abbiamo creato i presupposti per recuperare 2,4 miliardi che andranno alle Regioni e cioè ai cittadini. Ma non mi fermo, la battaglia sul personale è il prossimo obiettivo” dichiara il ministro.

Risolto il contenzioso con le aziende

“Abbiamo finalmente risolto un braccio di ferro tra imprese del farmaco e Regioni che durava da sei anni”, prosegue Grillo. “L’accordo sul payback per gli anni 2013-17 impegna le industrie a erogare 2,4 miliardi allo Stato per ripianare lo sforamento della spesa farmaceutica. Questo significa un importante flusso di risorse che giungerà alle Regioni dopo anni di stallo causato da ricorsi ai tribunali. L’accordo permette a tutti noi di guardare avanti con più serenità al futuro del nostro Servizio sanitario nazionale e garantisce anche ai produttori una migliore programmazione. Rivendico il merito di aver fatto sedere al tavolo le parti che fino a quel momento non erano riuscite a trovare un accordo” chiarisce.

Assunzioni nel Ssn

Dopo il payback, Grillo si concentra su un’altra questione spinosa, ossia lo sblocco delle assunzioni del comparto pubblico. “Questo Dl certamente non poteva contenere tutte le norme che il Movimento e io come ministro avremmo voluto. Ma m’impegno a portare avanti le nostre grandi battaglie per la sanità pubblica. La prossima sfida da vincere è il superamento del tetto dell’1,4% per il personale per lo sblocco delle assunzioni in sanità, anche a costo di un confronto serrato con una parte della Ragioneria dello Stato, che pure fa il suo lavoro, ma credo che sia totalmente anacronistica. Non ci si può più abbarbicare a regole che sono state giuste in un tempo completamente diverso. Bisogna guardare la realtà. Il Ssn ha bisogno di nuove assunzioni” puntualizza il ministro.

La professione medica

Altro elemento su cui si sofferma il ministro riguarda la professione medica.“Rivendico anche l’importanza di un’altra norma inserita nel decreto che darà ossigeno alla medicina generale” spiega, “per far fronte al grave problema della carenza di medici di famiglia, diamo la possibilità, anche a chi non avrà ancora completato il corso di formazione, di poter ricevere l’incarico fino al 31 dicembre 2021. Questo permetterà di ampliare l’offerta dei medici di famiglia e garantirà linfa nuova al sistema. Ed è solo uno degli step che riguardano il post laurea dei medici che intendo riformare profondamente per garantire un futuro alla sanità del nostro Paese”, conclude Giulia Grillo.
Nel decreto Semplificazioni è infine prevista una norma che estende la validità delle graduatorie per le procedure concorsuali per l’assunzione di personale medico, tecnico-professionale e infermieristico, bandite dalle aziende e dagli enti del Servizio sanitario nazionale fino al 31 dicembre 2019.

 

Torna su
Plasma per farmaci salvavita: in Italia aumentano le donazioni

Nel 2018, secondo il Centro nazionale sangue, sono stati raccolti 840 mila chilogrammi, 4 mila in più rispetto all’anno precedente. Si avvicina l’obiettivo dell’autosufficienza dal mercato nordamericano. Le associazioni: “Ancora un piccolo sforzo”


Nel 2018 è cresciuta in Italia la raccolta di plasma, fondamentale per la produzioni di farmaci salvavita. Sono stati raccolti 840 mila chilogrammi, circa 4 mila in più rispetto al 2017. Un dato in linea con gli obiettivi del Programma nazionale plasma, che prevede il raggiungimento dell’autosufficienza dal mercato nordamericano entro il 2010. A darne notizia è una nota del Centro nazionale sangue (Cns) dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

La raccolta di plasma nelle Regioni

Quasi tutte le Regioni nel 2018 hanno rispettato gli obiettivi del Programma nazionale plasma, con Marche e Sicilia che hanno superato la soglia prevista. Soltanto il Molise ha raccolto meno dell’80% di quanto programmato. Le Regioni in cui si dona più plasma sono le Marche, il Friuli Venezia Giulia e la Val D’Aosta, che sfiorano o superano i 20 chilogrammi ogni mille abitanti. Più distanti dagli obiettivi, invece la Campania, la Calabria e il Lazio, con le ultime due che però hanno aumentato la raccolta in linea con le richieste.

Il traguardo dell’autosufficienza

“I risultati ottenuti dal sistema italiano, che a differenza di quelli di paesi come Usa e Germania anche per il plasma si basa sulla donazione totalmente volontaria e non remunerata, sono notevoli, e ci permettono di garantire più del 70% del fabbisogno per tutti i plasmaderivati necessari ai pazienti italiani”, commenta Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns. Ma c’è ancora da fare: “Per arrivare agli obiettivi del Piano – spiega Liumbruno – dovremmo aumentare la raccolta di circa 20mila chilogrammi entro il 2020, uno sforzo che è alla portata del sistema sangue italiano. Basti pensare che i nostri risultati sono ottenuti con 2,1 donazioni di plasma in media l’anno per ogni donatore che effettua questo tipo di donazioni, una cifra largamente inferiore a quella di altri paesi. Per raggiungere i 20 mila chilogrammi in più basterebbe che ogni in centro di raccolta si facessero tre donazioni di plasma in più ogni settimana”. Il Cns, il Civis (coordinamento delle associazioni dei donatori) e l’Associazione Italiana immunodeficienze primitive (Aip onlus), per i cui pazienti i farmaci plasmaderivati sono salvavita, chiedono quindi “un piccolo sforzo” da parte di tutti.

 

Torna su
Cronicità, ecco i modelli più avanzati di presa in carico del paziente

A quasi tre anni dall’approvazione del Piano nazionale della cronicità, alcune Regioni hanno avviato importanti iniziative di riorganizzazione dell’assistenza territoriale per la gestione dei malati cronici. I casi di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL


A quasi tre anni dall’approvazione del Piano nazionale della cronicità, emanato nel 2016 dal Ministero della Salute per armonizzare a livello nazionale le iniziative volte a promuovere l’assistenza ai pazienti affetti da patologie croniche, la loro incidenza sul Servizio sanitario in termini epidemiologici ed economici sta assumendo un peso sempre maggiore. Le principali patologie croniche (cardiovascolari, respiratorie, oncologiche, neurodegenerative, diabete) caratterizzate da un lento e progressivo declino delle funzioni fisiologiche, sono infatti la principale causa di morte in Italia come in tutti i paesi industrializzati.

Contestualmente al tentativo di definizione di una cornice nazionale, alcune Regioni hanno avviato importanti iniziative di riorganizzazione dell’assistenza territoriale per la gestione della cronicità. Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana rappresentano i modelli più avanzati e consolidati di cui dettagliamo alcune caratteristiche salienti, rimandando per maggior approfondimento al Working paper di Assobiomedica “I nuovi modelli di assistenza sul territorio e i servizi a valore aggiunto dell’industria”.

Il modello lombardo

Secondo il modello lombardo, la presa in carico del paziente cronico si attua lungo due direttrici. Il superamento della frammentazione del percorso di cura – promuovendo un’integrazione operativa di tipo funzionale fra gli erogatori di servizi sanitari e sociosanitari – e l’avvio di una nuova piattaforma organizzativa e tecnologica per la gestione delle cronicità, riconducibile agli approcci di Population health management, evoluzione della precedente sperimentazione CReG.

Grazie alla Banca dati assistito (Bda), la popolazione è stata stratificata in base ai consumi sanitari pregressi in tre livelli di intensità clinico-assistenziale. 1° livello di fragilità clinica con quattro o più patologie; 2° livello di cronicità polipatologica con due-tre patologie; 3° livello di cronicità in fase iniziale con una patologia.

La riorganizzazione dei processi erogativi, ha visto l’introduzione di un nuovo soggetto, l’ente gestore della cronicità. Ha il compito di garantire le necessarie connessioni e interdipendenze organizzative fra i diversi attori del sistema sanitario. Inoltre, è atto ad assicurare le funzioni di accompagnamento della presa in carico e il coordinamento della rete assistenziale dei professionisti coinvolti.

Il modello emiliano

Il perno del modello emiliano è rappresentato dalla valorizzazione tecnico-professionale degli Mmg. Tale valorizzazione avviene nell’ambito di nuove forme aggregative strutturali sul territorio, con il coinvolgimento attivo degli specialisti, degli infermieri e degli altri operatori socio-sanitari.

Compimento di tale modello è l’istituzione della casa della salute quale presidio fisico facilmente raggiungibile. Si tratta di un “luogo”dove sono coordinati tutti i servizi sanitari tramite percorsi assistenziali integrati ospedale-territorio. La presa in carico della cronicità è così garantita attraverso percorsi di cura multidisciplinari che prevedono l’integrazione tra i servizi sanitari, ospedalieri e territoriali, e quelli sociali.

Il modello toscano

La riorganizzazione dei servizi territoriali in Toscana ha come fulcro uno specifico modello di sanità d’iniziativa, definito Expanded chronic care model (Eccm). Tale modello si fonda sull’interazione fra un paziente cronico esperto/informato e un team proattivo multiprofessionale, coordinato dal Mmg. All’interno di questo modello  viene valorizzato il ruolo dell’infermiere professionale e dell’operatore socio-sanitario secondo i diversi stadi della patologia. Il team prende in carico sia gli aspetti strettamente clinici sia quelli più generali di sanità pubblica, integrando l’aspetto sanitario con quello sociale.

La presa in carico dei pazienti cronici sul territorio è attuata grazie al ruolo centrale e complementare delle Aggregazioni funzionali territoriali (Aft). Si tratta di  strutture fisiche, parte della riorganizzazione della medicina di base, in cui sviluppare il sistema di presa in carico proattiva e precoce dei malati cronici, finalizzata al rallentamento dell’evoluzione clinica e alla riduzione delle complicanze.

Il modello veneto

Piuttosto innovativo anche il nuovo modello territoriale del Veneto. Prevede la costituzione di team multiprofessionali e multidisciplinari. Tali team sono composti da medici di famiglia, specialisti ambulatoriali interni e ospedalieri, medici di continuità assistenziale, infermieri, operatori socio-sanitari, assistenti sociali, psicologi. Si tratta di quelle che vengono definite “Medicine di gruppo integrate” e garantiscono la corretta presa in carico delle cronicità.

Il ridisegno della filiera di assistenza territoriale assegna un ruolo particolarmente rilevante alle cure domiciliari e alle strutture intermedie, al cui interno assume valenza strategica l’ospedale di comunità, struttura caratterizzata da brevi ricoveri rivolto ai malati cronici che periodicamente necessitano di controlli o terapie particolari.

Verso una presa in carico del paziente a domicilio

In questi percorsi di evoluzione dell’assistenza territoriale a livello regionale, l’ambito domiciliare risulta essere uno strumento fondamentale per la presa in carico dei pazienti cronici, spesso anziani e affetti da più patologie che acuiscono gli aspetti di criticità cliniche e di fragilità sociali. Nonostante i tentativi descritti di implementare i servizi sanitari territoriali, spesso i pazienti non trovano fuori dall’ospedale risposte adeguate ai loro bisogni clinico-assistenziali. Uno dei livelli in cui è possibile ricomporre la filiera della cura e dell’assistenza è proprio il domicilio, dove Vivisol e gli Homecare service provider operano quotidianamente per aumentare la qualità di vita dei pazienti.

A cura di Vivisol

 

Torna su
Consiglio superiore di sanità: Franco Locatelli è il nuovo presidente

Il direttore del Dipartimento di Oncoematologia e terapia cellulare e genica dell’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma nominato durante la seduta di insediamento del nuovo Css. Paolo Vineis e Paola Di Giulio i vicepresidenti


Franco Locatelli è il nuovo presidente del Consiglio superiore di sanità (Css). Bergamasco, classe 1960, lavora dal 2010 all’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, dove attualmente dirige il Dipartimento di Oncoematologia e terapia cellulare e genica. La nomina è arrivata oggi durante la seduta di insediamento dei nuovi membri dell’organismo consultivo del ministero della Salute. Nel dicembre scorso Locatelli era a capo dell’équipe che gestito il caso di Alex, il piccolo paziente affetto linfoistiocitosi emofagocitica (HLH), trasferito dall’Ospedale Great Ormond Street di Londra al Bambino Gesù per un trapianto di cellule staminali emopoietiche.

Il nuovo Css

Locatelli prende il posto che è stato di Roberta Siliquini, alla guida del Css prima dell’azzeramento – seguito da accese polemiche – voluto a dicembre scorso dal ministro della Salute, Giulia Grillo. Nelle scorse settimane il ministro ha firmato il decreto per la nomina dei 30 nuovi membri del Consiglio superiore di sanità (Css). Oggi, con un tweet, Grillo ha augurato a Locatelli e a tutto il Css buon lavoro: “È l’inizio di una felice collaborazione di cui il Paese ha bisogno”, ha scritto il ministro.

Nella seduta odierna sono stati nominati anche i vicepresidenti: Paolo Vineis e Paola Di Giulio. Vineis, nato ad Alba nel 1951, è professore ordinario di epidemiologia all’Imperial College London. Di Giulio, nata a Brindisi nel 1955, è professore associato di Scienze infermieristiche a Torino.

“Siamo particolarmente onorati di poter offrire il contributo del nostro Ospedale ad un’Istituzione così importante come il Consiglio superiore di sanità. La nomina del prof. Franco Locatelli come presidente e quella del prof. Bruno Dallapiccola come presidente di sezione, rappresentano per noi il riconoscimento del grande lavoro svolto in questi anni nel campo della ricerca e della medicina pediatrica” è il commento di Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Locatelli: “Lavoriamo nell’interesse del Paese”

In serata, una nota del ministero della Salute riporta il primo commento di Locatelli:  “Sono straordinariamente onorato della fiducia riposta nella mia persona dal ministro della Salute e da tutti i colleghi del Consiglio Superiore di Sanità, metterò al servizio di questa fondamentale istituzione tutte le mie capacità e la mia più incondizionata disponibilità a lavorare nel miglior interesse del Paese. Sono certo che, con il contributo determinante di tutte le componenti del Consiglio Superiore di Sanità, vi sarà modo di svolgere un servizio utile per rispondere nel modo più compiuto alle sempre più complesse sfide, anche biotecnologiche, che pertengono all’ambito sanitario e che connotano i tempi attuali e quelli prossimi venturi”.

Come funziona

Il ministro della Salute si rivolge al Consiglio, oltre che nei casi espressamente stabiliti dalla legge, in tutti gli altri in cui vi sia da definire questioni di valenza tecnico scientifica prima dell’adozione di atti legislativi, regolamentari o amministrativi. Inoltre, il Consiglio ha una funzione propositiva relativamente a tematiche emergenti e di attualità per il sistema sanitario.

Alla riunione di insediamento sono stati eletti anche i presidenti delle diverse sezioni in cui si articola il Css:

Sezione I

Presidente: Prof. Bruno Dalla Piccola, Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù

Vicepresidente: Prof. Giovanni Scambia, Direttore Scientifico della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli

Sezione II

Presidente: Prof. Paolo Pederzoli, professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università degli Studi di Verona

Vicepresidente: Prof. Luca Benci, professore di Diritto Sanitario – Università di Firenze

Sezione III

Presidente: Prof. Massimo Rugge, Ordinario di Anatomia Patologica ed Oncologia – Università degli studi di Padova

Vicepresidente: Prof. Carlo Foresta, Ordinario di Endocrinologia – Università di Padova

Sezione IV

Presidente: Prof. Vito Martella, Ordinario di Malattie Infettive degli animali domestici – Università di Bari

Vicepresidente: Prof. Mario Alberto Battaglia, Professore Ordinario di Igiene e Sanità Pubblica – Università di Siena

Sezione V

Presidente: Prof. Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’IRCCS “Mario Negri” di Milano

Vicepresidente: Prof. Mario Barbagallo Professore Ordinario di Geriatria – Università di Palermo.

Nel complesso, il Css è composto da trenta membri di nomina, in carica per tre anni, individuati in base alle loro competenze nelle discipline in cui si articola la sanità pubblica italiana e ventotto membri di diritto.

 

Torna su
Antibiotico-resistenza: in Europa i superbatteri non arretrano

Gli antibiotici sono armi sempre più spuntate e il fenomeno “non mostra segni di diminuzione”. A dirlo è una relazione congiunta del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) e dell’Autorità europea per la sicurezza elementare (Efsa) sulle malattie trasmissibili tra uomo e animali


In Europa gli antibiotici per trattare le malattie trasmissibili tra animali e uomo funziona sempre meno. A dirlo è una relazione congiunta del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) e dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), in cui si afferma che l’antibiotico-resistenza “non mostra segni di diminuzione”.

I dati principali

La relazione presenta i dati raccolti da 28 Stati membri dell’Ue su esseri umani, suini e vitelli di età inferiore a un anno. Il report conferma l’aumento della resistenza agli antibiotici già individuata negli anni precedenti. In particolare, segnala come gli antimicrobici usati per trattare malattie come la campilobatteriosi e la salmonellosi stanno perdendo sempre più efficacia.  Secondo il rapporto, che si riferisce ai dati del 2017, in alcuni Paesi la resistenza ai fluorochinoloni (come la ciprofloxacina) nei batteri del genere campylobacter è talmente alta che tali antimicrobici non funzionano più per il trattamento di casi gravi di campilobatteriosi. La maggior parte dei Paesi ha riferito che la salmonella nell’uomo è sempre più resistente ai fluorochinoloni. Nel caso della salmonella, la multi-farmaco resistenza (ovvero la resistenza a tre o più antimicrobici) è elevata sia nell’uomo che negli animali. Nel caso del campylobacter sono stati percentuali da alte ad altissime di batteri resistenti alla ciprofloxacina e alle tetracicline.

Campanello d’allarme

“Il rapporto – commenta Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare – dovrebbe far squillare ancora una volta campanelli d’allarme: evidenzia che stiamo entrando in un mondo in cui infezioni comuni diventano sempre più difficili – e talvolta impossibili – da trattare. Tuttavia politiche ambiziose, promosse da alcuni Paesi in cui si limita l’uso degli antimicrobici, hanno portato a una diminuzione della resistenza ad essi. Dunque, prima che i campanelli d’ allarme diventino sirene assordanti, assicuriamoci di agire sempre più tutti insieme, in ogni Paese e in tutti i settori della sanità pubblica, della salute animale e dell’ambiente sotto l’ombrello di un approccio unitario alla salute (One Health)”.

Politiche rigorose

Secondo gli esperti, bisogna insistere con le azione per il contrasto all’antibiotico-resistenza: “Abbiamo visto che quando gli Stati membri hanno attuato politiche rigorose, la resistenza agli antimicrobici negli animali è diminuita. Le relazioni annuali delle agenzie europee e nazionali includono di ciò esempi degni di nota. Ciò dovrebbe servire da ispirazione per altri Paesi “, sottolinea Marta Hugas, responsabile scientifico capo all’Efsa.

Nel giugno 2017 la Commissione europea ha adottato un piano d’azione sanitario unitario dell’UE contro la resistenza antimicrobica. Anche i nuovi regolamenti Ue sui farmaci veterinari e i mangimi medicato contengono misure per promuovere un uso più appropriato degli antibiotici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Malattie rare: i pazienti chiedono una vera integrazione tra assistenza sanitaria e sociale

In occasione della Giornata mondiale focus sulle difficoltà di conciliare vita quotidiana, cure e occupazione. Una ricerca Omar-Datanalysis fotografa, invece, i "falsi miti". Il ministro Grillo: "Rinnovato il tavolo per il piano nazionale"


La qualità di vita dei malati rari (e dei loro caregiver) si tutela con un vera integrazione tra assistenza sanitaria e sociale. È la conclusione a cui arriva un’indagine su oltre 3 mila pazienti e caregiver realizzata da Eurordis in 48 Paesi europei e presentata oggi a Roma dalla Federazione italiana malattie rare (Firm Uniamo onlus) in occasione della dodicesima Giornata mondiale delle malattie rare. Il titolo della ricerca è emblematico: “Juggling care and daily life”. Rimanda ai “salti mortali” che pazienti e caregiver devono compiere ogni giorno per affrontare le conseguenze di una malattia rara. Alcuni numeri rendono bene l’idea: 7 intervistati su 10 sono “costretti” a limitare o sospendere il proprio lavoro; l’80% segnala difficoltà nel gestire semplici attività come faccende domestiche, preparazione dei pasti e shopping; due terzi dei caregiver dedicano più di due ore al giorno ad attività legate alla malattia delle persone che assistono. Inevitabile l’impatto sull’umore: pazienti e familiari dicono di essere “infelici o depressi” tre volte in più rispetto al resto della popolazione. Una condizione aggravato dal rischio isolamento sociale e stigmatizzazione.

Una sfida impegnativa

“La maggior parte delle persone con malattia rara e i loro caregiver – commenta Tommasina Iorno, presidente di Fimr Uniamo – devono coordinare una serie di attività fondamentali per la gestione della malattia come procurarsi i medicinali, provvedere alla loro somministrazione a domicilio e fuori casa; organizzare le terapie riabilitative e le visite mediche; gestire gli esami specialistici per ottenere la diagnosi corretta, ottenere l’esenzione e il riconoscimento dell’invalidità e dei diritti necessari per accedere ai diversi servizi di supporto sociale, di comunità e di ‘sollievo’ per la famiglia, senza trascurare la gestione dell’inclusione scolastica e lavorativa”. Una sfida assai impegnativa.  La senatrice Paola Binetti, presidente dell’Intergruppo parlamentare sulle malattie rare,  auspica un lavoro proficuo tra Camera e Senato per valutare una normativa ben strutturata in grado di rispondere ai bisogni sanitari e sociali dei pazienti, ma anche alle esigenze dei caregiver”.

Lacune italiane

In Italia la Federazione italiana malattie rare invita a una riflessione su alcuni punti deboli della gestione delle malattie rare. Ad esempio:

  • la corretta identificazione di centri di competenza per la presa in carico per gestire il follow-up dei pazienti, centri che devono avere caratteristiche ben precise e devono assicurare la multidisciplinarietà, in particolare una coorte di specialisti adeguati e la cosiddetta transitional care, cioè il passaggio dall’età pediatrica all’età dell’adulto con un setting di cure appropriato;
  • la mancanza di un seguito al Piano Nazionale Malattie Rare 2013-2016, scaduto due anni fa;
  • L’assenza di registri adeguati e corrispondenti alle nuove frontiere di ricerca;
  • Il supporto alle Reti europee per le malattie rare per la loro concreta integrazione nel nostro Ssn.

L’attesa per la diagnosi

Una delle altre criticità emerse dall’indagine riguarda la diagnosi della malattie rare.  Riconoscerle spesso si rivela un compito arduo per i medici e i pazienti dichiarano di dover attendere dai 5 ai 7 anni prima di ottenere una diagnosi appropriata, sottoponendosi fino a 8 visite mediche diverse. Nel 40% dei casi, sottolinea Fimr Uniamo, la diagnosi si rivela scorretta.

Il bisogno di informazione

L’indagine rileva anche un livello scarso comunicazione e informazione. Il 67% del campione lamenta di aver ricevuto in maniera non corretta le informazioni relative alla propria condizione, il 33% addirittura in maniera “estremamente sbagliata”. Più del 70% non si reputa informato a dovere sui propri diritti connessi alle conseguenze della patologia, al possibile aiuto finanziario e agli importanti servizi sanitari a cui potrebbe accedere. Il 75% degli intervistati definisce come “time-consuming”  alcune attività, come la ricerca di informazioni sulla patologia e dei medici ‘giusti’, lo spostamento per raggiungere i Centri di riferimento e fissare un appuntamento. Ben il 64% dichiara di riscontrare difficoltà nell’organizzazione.

Falsi miti (anche sui farmaci)

Alla “piaga” delle fake news nel campo della salute è dedicata un’altra indagine, realizzata da Osservatorio Malattie Rare in collaborazione con Datannalysis. I risultati, diffusi oggi, raccontano come gli italiani non abbiano le idee chiare sulle malattie rare. Più della metà pensa che colpiscano una persona su 100, mentre la soglia fissata per la definizione di rarità è una ogni 2000. Quasi tutti ritengono che le malattie rare siano di origine genetica, poco più della metà del campione però ritiene anche che possano essere sessualmente trasmissibili. C’è confusione anche sulle terapie: due terzi dei cittadini contattati pensa che i farmaci per le malattie rare siano solo sperimentali. Ma in Europa, solo nel 2018, ne sono stati approvati 21.

La giornata mondiale

A livello mondiale, la Giornata delle malattie rare si celebra in oltre 94 Paesi. In Italia, coordinata da Uniamo in qualità di “alleanza nazionale” di Eurordis, con un ricco programma di eventi in diverse città italiane. Una mobilitazione a cui si sommano numerose iniziative promosse da associazioni, istituzioni, strutture d’eccellenza e, più in generale, dalle varie animale del sistema salute.  Alla Camera è stato presentato ieri il libro “Malattie rare, i nostri figli raccontano” del giornalista Claudio Barnini:  “È sempre complicato – spiega l’autore – poter parlare di malattie riferite ai minori, delle difficoltà nella cura, del loro percorso di vita interrotto da lunghe degenze, con conseguenze psicologiche sia per loro sia per i famigliari e costi sociali considerevoli. I genitori spesso lasciano il lavoro per poter garantire ai figli l’accudimento e l’attenzione di cui necessitano”. Secondo Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità, per affrontare le criticità sanitarie e sociali in questo campo occorre “collaborazione ra i diversi soggetti interessati, che sono pazienti, ricercatori, clinici e istituzioni. Si tratta di saper lavorare in sinergia, al fine di condividere storie di vita e buone pratiche che hanno portato nel tempo a sviluppare reti”.

La politica

Si fa sentire anche la politica. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, partecipando a Roma a un convegno sulle malattie rare, spiega: “Abbiamo recentemente rinnovato il tavolo per redigere il nuovo piano nazionale per le malattie rare, che era fermo da un paio di anni. In particolare puntiamo molto sul lavoro del professor Bruno Dallapiccola, che è stato nominato anche nel Consiglio Superiore di Sanità ed è un nostro referente in generale per diverse di queste tematiche. Il lavoro è tanto – sottolinea il ministro – e spero che il risultato sia proficuo e più veloce possibile”. Il ministro ha anche annunciato alcuni “numeri” del bando per la ricerca sanitaria 2019, i cui vincitori sono stati pubblicati oggi: 18 progetti sui 235 finanziati (pari al 7,65%) sono per malattie rare, per un totale finanziato di circa 6,1 milioni di euro, sui 93 milioni assegnati”.

L’industria

Una mano tesa ai pazienti è quella della ricerca farmaceutica. “Far tornare il sorriso ai tanti bambini affetti da malattie rare. E alle loro famiglie. Con soluzioni terapeutiche che ancora non ci sono o migliorando quelle già esistenti. Il paziente deve sentire la vicinanza delle imprese del farmaco e di tutti i ricercatori. E i risultati non mancano”, commenta Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria.

“Negli Usa – ricorda Scaccabarozzi –  quasi il 60% dei farmaci approvati nel 2018 sono per malattie rare: 34 su 59 di cui molti first-in-class, cioè capostipiti di nuove terapie. In Europa sono state oltre 2.100 le designazioni di farmaci orfani dal 2000 a oggi. E in Italia è aumentato negli ultimi anni dal 10% al 25,5% il peso degli studi clinici – nel complesso oltre 140 – sulle malattie rare”. Ma non ci si può accontentare: “Si può fare di più. Tutti insieme e con una crescente collaborazione pubblico-privato per potenziare il lavoro di squadra e per migliorare la qualità di vita di tanti pazienti in attesa di una risposta alla loro malattia. E per dare un nome – conclude il presidente di Farmindustria – a quelle patologie che spesso sono ancora degli ‘X-file’”.

 

Torna su
Mercato e digitalizzazione, il prodotto non può più essere centrale

 

 

Con il paziente che diventa sempre più consumatore devono cambiare gli approcci al business. Il rischio di rimanere indietro è troppo alto e per questo le imprese devono abituarsi all'idea che o si cambia o si fallisce e quindi bisogna offrire servizi, oltre che prodotti


Nel binomio mercato e digitalizzazione, il singolo prodotto non può più essere centrale nella strategia di un’azienda. Il rischio di fallire è troppo alto e i modelli di business vanno rinverditi.

Consumatore e competitività

A mettere i puntini sulle “i” è Elia Ganzi Business operations & established portfolio director di Roche durante il suo intervento a Wired health 2019 a Milano il 13 marzo. “C’è l’avvento del cliente. Dopo quasi un secolo di business-centre stiamo assistendo a un cambio di paradigma molto profondo”, spiega. “Ci sarà uno spartiacque tra le aziende che rischiano di restare indietro e quelle che sapranno ristrutturarsi. I pazienti stanno diventando sempre più clienti dei servizi grazie ai trend tecnologici e social che lo vogliono più critico e informato. Si hanno maggiori aspettative sull’accesso personalizzato alle terapie e ciò riguarda tutti i settori industriali”.

Uno dei problemi secondo Ganzi è che il mondo farmaceutico è molto intermediato. Non sempre c’è il contatto tra paziente e azienda. Per questo serve una rete di servizi che l’impresa deve mettere a disposizione. E qui il secondo problema, la competitività. “Il farma è in ritardo da questo punto di vista anche perché sta aumentando la competizione in più settori”. I competitor non sono più solo nell’ambito healthcare, ma anche nell’It o dei servizi. Senza considerare poi nuovi soggetti come Amazon o Google che stanno entrando prepotentemente nel mercato. “Chi arriva sul mercato per primo non rimarrà primo a lungo”, chiosa Ganzi. “Certamente è un bene per i pazienti e clinici per la moltitudine di soluzioni, ma per l’industria è un problema. Non si vince più col prodotto”. conclude Ganzi.

Ridurre i tempi

Sull’argomento sono intervenuti anche Massimo Visentin, presidente e amministratore delegato di Pfizer Italia, e Michele Perrino, presidente e amministratore delegato di Medtronic Italia. “Per sviluppare un farmaco nuovo ci vogliono 15 anni con una spesa di 2,5 miliardi di dollari. Non possiamo fare aspettare i pazienti – spiega Visentin – e servono soluzioni nuove. Una su tutte l’intelligenza artificiale. Un medico legge circa 200-300 articoli all’anno. Con i sistemi di Ia se ne può leggere un milione. Questo accelererebbe i processi”. C’è anche un discorso di partership da fare. “Dobbiamo cambiare il business così come non è stato fatto negli ultimi 60 anni. Cambia di conseguenza anche la governance e le necessità di cercare altrove partnership”, dice Perrino. “Cambiano i profili aziendali, la tecnologia e l’attenzione sul mercato che non è più quello di un fornitore del device che invece vuole creare un offerta di presa in carico. Le implicazioni sono enormi”, continua l’ad di Medtronic. In questo senso le acquisizioni e le alleanze anche extrasettore sono cruciali per sviluppare nuovi businesse e non rimanere indietro.

 

 

 

Torna su
Antibiotici, stretta sull’uso di fluorochinoloni e chinoloni

Destinato soprattutto a chi usa questi farmaci . 

La Redazione del Sito

 

Antibiotici, stretta sull’uso di fluorochinoloni e chinoloni

Dopo che l’Ema ha riesaminato il rischio di reazioni avverse, una nota dell’Aifa segnala ai medici restrizioni e casi da valutare con prudenza.  Farmaci a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico saranno ritirati dal commercio

antibiotici

Arrivano restrizioni all’uso di antibiotici chinolonici e fluorochinolonici. Le annuncia una nota informativa dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), a seguito di una revisione dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema) su potenziali reazioni avverse legate all’uso di questi farmaci. La nota, condivisa con le aziende titolari dell’Aic, riporta una serie di comunicazioni importanti relativi alla sicurezza di farmaci contenenti fluorochinoloni (ciprofloxacina – levofloxacina – moxifloxacina – pefloxacina – prulifloxacina – rufloxacina – norfloxacina – lomefloxacina)  e chinoloni. Per i prodotti a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico è previsto il ritiro dal mercato.

Indicazioni per i medici

“Sono state segnalate – spiega Aifa – con gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici reazioni avverse  invalidanti, di lunga durata e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso.Di conseguenza, sono stati rivalutati i benefici ed i rischi di tutti gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici e le loro indicazioni nei paesi dell’Ue”. Da qui la raccomandazione ai medici affinché non prescrivano questi medicinali:

  • per il trattamento di infezioni non gravi o autolimitanti (quali faringite, tonsillite e bronchite acuta);
  • per la prevenzione della diarrea del viaggiatore o delle infezioni ricorrenti delle vie urinarie inferiori;
  • per infezioni non batteriche, per esempio la prostatite non batterica (cronica);
  • per le infezioni da lievi a moderate (incluse la cistite non complicata, l’esacerbazione acuta della bronchite cronica e della broncopneumopatia cronica ostruttiva – BPCO, la rinosinusite batterica acuta e l’otite media acuta), a meno che altri antibiotici comunemente raccomandati per queste infezioni siano ritenuti inappropriati;
  • ai pazienti che in passato abbiano manifestato reazioni avverse gravi ad un antibiotico chinolonico o fluorochinolonico.

Se la prescrizione non rientra in questi casi, l’Aifa raccomanda comunque particolare prudenza verso anziani, pazienti con compromissione renale, pazienti sottoposti a trapianto d’organo solido ed a quelli trattati contemporaneamente con corticosteroidi. Da evitare l’uso concomitante di corticosteroidi con fluorochinoloni.

Le reazioni avverse

L’Ema ha riesaminato gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici per uso sistemico ed inalatorio per valutare il rischio di reazioni avverse gravi e persistenti invalidanti e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso. Le reazioni avverse gravi a carico del sistema muscoloscheletrico includono tendinite, rottura del tendine, mialgia, debolezza muscolare, artralgia, gonfiore articolare e disturbi della deambulazione.

Gli effetti gravi a carico del sistema nervoso periferico e centrale includono neuropatia periferica, insonnia, depressione, affaticamento e disturbi della memoria, oltre che compromissione della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. Tuttavia, ricorda Aifa, sono stati segnalati soltanto pochi casi di queste reazioni avverse invalidanti e potenzialmente permanenti, ma è verosimile una sotto-segnalazione. Di conseguenza, la decisione di prescrivere chinoloni e fluorochinoloni dev’essere presa dopo un’attenta valutazione dei benefici e dei rischi in ogni singolo caso.

 

 

Torna su
Rete oncologica, la Conferenza Stato-Regioni ratifica le nuove linee guida

Il documento, frutto del lavoro di un tavolo istituzionale coordinato da Agenas, ha ricevuto il via libera. Bevere: “Una road map per equità, qualità e uniformità delle cure”


“Una road map per equità, qualità e uniformità delle cure”. Così Francesco Bevere, direttore generale dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), commenta le “Nuove linee guida organizzative e raccomandazioni per la rete oncologica ospedale-territorio” approvate da un’intesa in Conferenza Stato-Regioni. Il documento è frutto del lavoro di un Tavolo istituzionale coordinato da Agenas e composto da rappresentanti del ministero della Salute, di Regioni e PA, Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Istituto superiore di sanità (Iss). Ai lavori hanno contributo anche 27 società scientifiche.

I punti fondamentali

Una nota di Agenas ricorda alcuni punti fondamentali delle nuove linee guida: individuazione delle strutture più adatte al trattamento a seconda della tipologia dei tumori, allocazione ottimale dei farmaci innovativi, costituzione di team interdisciplinari e per condividere conoscenza e capacità tecniche, nonché campagne di informazione sulle opportunità offerte dall’organizzazione a rete.

“Oggi – spiega Bevere – consegniamo al sistema sanitario un documento che ha la finalità di  garantire su tutto il territorio nazionale una precoce presa in carico del paziente oncologico ed equità di accesso alle cure, dalla prima diagnosi fino all’accompagnamento al fine vita. Punto di forza di questa road map è la valorizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (Pdta), elemento cruciale per superare quella frammentarietà del percorso di cura affinché non vi siano più pazienti disorientati e non adeguatamente informati nel passaggio da un setting assistenziale all’altro”.

Coordinamento e monitoraggio

Entro 90 giorni dall’accordo (adottato ieri 17 aprile) il ministero della Salute istituirà il Coordinamento generale delle Reti oncologiche, mentre l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) si doterà di un Osservatorio per il monitoraggio delle reti oncologiche per garantire aggiornamento e omogeneità di funzionamento. “L’Osservatorio per il monitoraggio e la valutazione delle Reti oncologiche consentirà una fotografia dei progressi compiuti e delle eventuali carenze persistenti, consegnando ai cittadini una fonte di informazione di dati in trasparenza continuamente aggiornati”, spiega Alessandro Ghirardini, dirigente dell’Ufficio Revisione e monitoraggio delle reti cliniche e sviluppo organizzativo di Agenas.

 

Torna su
Dupilumab, via libera dalla Commissione europea per il trattamento dell’asma grave

L'Europa ha approvato il farmaco per l'uso negli adulti e negli adolescenti dai 12 anni in su come trattamento di mantenimento aggiuntivo per la patologia respiratoria con infiammazione di tipo 2


La Commissione europea ha approvato dupilumab per l’uso negli adulti e negli adolescenti dai 12 anni in su come trattamento di mantenimento aggiuntivo per l’asma grave con infiammazione di tipo 2.

Dupilumab in Ue

“Questa approvazione segna un momento importante per adolescenti e adulti nell’Unione europea che soffrono di asma grave con infiammazione di tipo 2”, ha dichiarato John Reed, responsabile della ricerca e dello sviluppo di Sanofi. “Negli studi clinici, dupilumab non solo ha ridotto le riacutizzazioni e l’uso di corticosteroidi orali, ma ha anche migliorato la funzionalità polmonare e la qualità della vita complessiva dei pazienti. Dupilumab offre una nuova opzione di trattamento per coloro che rimangono inadeguatamente controllati con i farmaci attuali, compresi quelli che dipendono dalla somministrazione orale corticosteroidi – che possono avere effetti collaterali potenzialmente gravi se usati cronicamente”.

Le persone affette da asma grave non adeguatamente controllata sulla terapia in corso continuano ad avere problemi di respirazione. “Tutto ciò può comportare imprevisti in grado di ridurre in maniera significativa la qualità della vita”, ha dichiarato Tonya Winders, Presidente di Global allergy and asthma patient latform (Gaapp).”Gaapp fornisce nuovi trattamenti progettati per aiutare i pazienti affetti da asma grave a prendere il controllo dei loro sintomi e andare avanti con le loro vite quotidiane”.

I risultati degli studi

Nello studio di Fase 2b, entro la settimana 12, il farmaco ha migliorato il Fev1 fino al 26% (rispetto al 10% del placebo) nei pazienti con eosinofili nel sangue superiore o uguale a 300 cellule / microlitro. Entro la 24esima settimana più della metà dei pazienti trattati con dupilumab ha eliminato completamente i corticosteroidi orali e l’uso complessivo è diminuito del 70% (rispetto al 42% per il placebo). Negli studi clinici sull’asma, la reazione avversa più comune è stata l’eritema nel sito di iniezione. La reazione anafilattica è stata riportata raramente nel programma di sviluppo dell’asma.

 

Torna su
Farmaci veterinari, l’Ue limita la vendita online

Farmaci veterinari, l’Ue limita la vendita online

L'obiettivo, oltre a quello di limitare l'uso degli antibiotici, è anche quello di evitare che vengano venduti medicinali potenzialmente pericolosi. La vendita telematica si riferirà solo ai medicinali per animali senza obbligo di ricetta


Alla fine la decisione attesa dal settore è arrivata e l’Ue limita la vendita online dei farmaci veterinari. Federfarma esprime soddisfazione per la scelta finale dell’Unione Europea che non consentirà la vendita indiscriminata di tutti i farmaci veterinari tramite il canale telematico.  Questa decisione capovolge il precedente orientamento del Parlamento europeo che, in prima lettura, si era espresso favorevolmente per la totale apertura alle vendite via internet.

Si cambia prospettiva: i farmaci veterinari come quelli umani

La scelta finale è stata formalizzata il 13 giugno 2018 dagli ambasciatori degli Stati membri. Nello specifico si utilizzano gli stessi criteri dei farmaci ad uso umano. La vendita online si riferirà solo ai medicinali veterinari senza obbligo di ricetta.  Le istituzioni europee hanno consapevolmente tenuto conto dell’estrema pericolosità di una scelta che avrebbe alimentato fortemente un mercato nero di prodotti. In primis degli antibiotici, il cui uso sconsiderato è alla base della piaga della resistenza antimicrobica.

Italia maglia nera nell’antibiotico resistenza

Il nostro Paese è stabilmente nelle prime posizioni in Europa per numero di pazienti che non rispondono alle terapie antibiotiche. Marco Cossolo, presidente di Federfarma ha detto che è pronto a sostenere l’iniziativa. “Offriamo fin da subito la piena collaborazione delle farmacie affinché venga sviluppata al più presto una campagna di comunicazione istituzionale tesa ad aumentare la consapevolezza dei nostri pazienti su un uso appropriato degli antibiotici.”

Il nuovo regolamento europeo

Si sta lavorando per migliorare la normativa sul tema dell’abuso di antibiotici. “In Italia  la nuova ricetta elettronica veterinaria, che partirà alla fine di quest’anno, sarà certamente di grande aiuto. Permetterà al ministero della Salute di monitorare analiticamente tutto il consumo del farmaco veterinario sul nostro territorio. Anche in questo caso, da parte nostra daremo piena collaborazione al ministero della Salute. Le farmacie faranno totalmente la loro parte e si adopereranno con il massimo impegno affinché la ricetta elettronica possa essere tempestivamente implementata”, ha concluso Cossolo.

 

Torna su
Vendita della cannabis light a rischio, bocciatura del Consiglio superiore di sanità

Vendita della cannabis light a rischio, bocciatura del Consiglio superiore di sanità

L’organo consultivo raccomanda “che siano attivate, nell'interesse della salute individuale e pubblica e in applicazione del principio di precauzione, misure atte a non consentire la libera vendita dei suddetti prodotti”

È già guerra contro la vendita di cannabis light in commercio da qualche mese in Italia. Proprio in un momento di boom del settore che ha portato all’apertura di diversi esercizi commerciali dedicati. Contro la cannabis leggera si è espresso il Consiglio superiore di sanità (Css) in un parere richiesto a febbraio dal segretariato generale del ministero della Salute. L’organo consultivo raccomanda – in un documento in possesso dell’Adnkronos Salute – “che siano attivate, nell’interesse della salute individuale e pubblica e in applicazione del principio di precauzione, misure atte a non consentire la libera vendita dei suddetti prodotti”.

Una pericolosità non può essere esclusa

I dubbi posti al Css riguardano quesiti sulla sicurezza del prodotto. In particolare è stato chiesto all’organo un parere sulla pericolosità per la salute umana. Punto su cui il Consiglio ha replicato che “la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggera’, non può essere esclusa”. Prima di tutto perché la biodisponibilità di Thc anche a basse concentrazioni consentite dalla legge (0,2%-0,6%) non è trascurabile sulla base dei dati di letteratura, come spiega ancora il Css.

Un potenziale accumulo pericoloso

“Per le caratteristiche farmacocinetiche e chimico-fisiche – continua la motivazione – il Thc e altri principi attivi inalati o assunti con le infiorescenze di cannabis sativa possono penetrare e accumularsi in alcuni tessuti. Tra cui cervello e grasso, ben oltre le concentrazioni plasmatiche misurabili. Tale consumo avviene al di fuori di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta. Di conseguenza anche gli effetti psicotropi che potrebbero essere prodotti, sia a breve che a lungo termine, non sono valutabili”.

Un rischio non adeguatamente valutato

Secondo il Css inoltre il rischio relativo al consumo di tali prodotti non è stato adeguatamente valutato. Soprattutto in considerazione di specifiche condizioni: come età, patologie concomitanti, stati di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione ecc. Tutte situazioni particolari in cui l’assunzione del prodotto percepita come “sicura” e “priva di effetti collaterali” potrebbe portare a danni per se stessi o per altri (feto, neonato, guida in stato di alterazione) sempre secondo quanto ha specificato il Css.

Una vendita della cannabis light è possibile?

Al Consiglio è stato poi chiesto se tali prodotti potessero essere messi in commercio ed eventualmente a quali condizioni. In risposta è stato riferito che “tra le finalità della coltivazione della canapa industriale (previste dalla legge 242/2016) non è inclusa la produzione delle infiorescenze. Né la libera vendita al pubblico. Pertanto la vendita dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, qualunque ne sia il contenuto di Thc, pone certamente motivo di preoccupazione. Visto il parere espresso sulla sua pericolosità”.

Non resta che attendere

Il ministero della Salute avrebbe anche richiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, proprio alla luce delle considerazioni espresse dal Css. Parere però che non sarebbe ancora arrivato.

 

Torna su
Nuovi dati per la terapia genica contro la beta talassemia

Nuovi dati per la terapia genica contro la beta talassemia

Sono stati presentati durante l’Eha i risultati di due studi clinici su LentiGlobin, terapia sviluppata da Bluebird bio. Alcuni tipi di pazienti (con genotipo non grave) hanno raggiunto l’indipendenza dalle trasfusioni. La domanda di autorizzazione prevista entro il 2018


Ancora un passo avanti verso la terapia genica contro la beta talassemia. Nuovi dati arrivano dal Congresso della società europea di ematologia (Eha), dove Bluebird bio ha presentato i risultati di due studi. Il primo è il trial di fase I/II Northstar (HGB-204), giunto al termine, condotto su pazienti adolescenti e adulti affetti da beta talassemia trasfusione-dipendente (Tdt) con qualsiasi genotipo. Il secondo uno studio clinico multicentrico di Fase III Northstar-2 (HGB-207), ancora in corso, che sta testando la terapia genica sperimentale LentiGlobinTM per il trattamento di pazienti affetti da Tdt con un particolare genotipo (non β0/β0).

Senza trasfusioni

“I dati dei due studi indicano che un trattamento effettuato una sola volta con LentiGlobin potrebbe agire sulla causa genetica scatenante la Tdt” ha affermato David Davidson, Chief Medical Officer di bluebird bio. “Grazie al perfezionamento del processo di produzione, la maggior parte dei pazienti affetti dalla patologia con genotipo non β0/β0 è risultata trasfusione-indipendente e sta producendo un livello totale di emoglobina normale o quasi normale”.

La β-talassemia trasfusione dipendente

La β-talassemia è la malattia ereditaria del sangue più diffusa al mondo. Ne sono affetti circa 300 mila pazienti, di cui 6-7 mila solo in Italia. L’incidenza più alta si ha nelle due Isole maggiori, nelle regioni meridionali del Paese e nell’area del Polesine. ll 60-80% dei pazienti presenta normalmente una forma grave (talassemia major) che necessita di un trattamento trasfusionale regolare. Le trasfusioni, tuttavia, comportano dei rischi, tra cui l’inevitabile accumulo di ferro, che può causare danni a diversi organi e ridurre l’aspettativa di vita dei pazienti. Per questo vengono utilizzati anche farmaci per eliminare il ferro in eccesso. Questo particolare tipo di paziente è detto affetto da β-talassemia trasfusione dipendente.

Maggior sicurezza ed efficacia

La sicurezza e l’efficacia di LentiGlobin nei pazienti con Tdt sono state valutate nello studio di Fase I/II Northstar (HGB-204). Per migliorare gli esiti clinici, è stato impiegato un processo di produzione perfezionato per ottenere il prodotto farmaceutico LentiGlobin. Lo scopo dello studio di Fase III Northstar-2 (HGB-207), tuttora in corso, consiste dunque nel valutare la sicurezza e l’efficacia di LentiGlobin, attraverso il processo di produzione perfezionato, nei pazienti affetti da Tdt con genotipo non β0/β0.

Cambiare la storia dei pazienti

“Questi perfezionamenti – afferma ricorda Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di oncoematologia e medicina trasfusionale dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – hanno portato a livelli sempre più elevati del numero di copie del vettore virale in vivo e di emoglobina, osservati nei pazienti. Hanno determinato un miglioramento delle caratteristiche della terapia genica – continua il professore, che sta sperimentando la terapia partecipando allo studio Northstar-2– tali da portare alla prolungata indipendenza da trasfusioni nella stragrande maggioranza dei pazienti. I dati raccolti negli oltre tre anni nello studio Northstar indicano come  LentiGlobin potrebbe permettere alla maggior parte dei pazienti con genotipo non β0/β0 di raggiungere l’indipendenza da trasfusioni a lungo termine. Cambiando la storia naturale per numerosi pazienti.”

Gli studi clinici condotti sinora

“La terapia è stata sperimentata prima fuori dall’Europa – racconta Locatelli –  con uno studio (Hgb204) che ha coinvolto centri in Usa, Australia e Tailandia. Già con questo primo trial la larga maggioranza (8 su 10) dei pazienti con Tdt β+ (cioè soggetti che pur mostrando una dipendenza trasfusionale mostrano una produzione residua di emoglobina nell’ordine dei 3-5 gr/dL) hanno raggiunto indipendenza trasfusionale. Ora si stanno analizzando i dati di follow up a tre anni e mezzo dal trattamento. Sulla base di questi primi risultati promettenti, l’approccio di trasduzione delle cellule è stato ulteriormente rifinito e migliorato e sono stati avviati due altri studi. Il Hgb207 per i pazienti β+ e Hgb212, per i soli pazienti β0/β0, ossia portatori di un difetto genetico che comporta l’assenza completa delle catene β -globiniche. Ambedue gli studi sono stati estesi anche all’Europa con la partecipazione di 5 centri europei in Francia, Germania, UK e Italia a Roma, presso l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù”.

Una domanda di autorizzazione entro il 2018

La strada per presentare la domanda di autorizzazione alla commercializzazione nell’Unione Europea sembra vicina, come sottolinea Davidson, che spera di poterla presentare entro la fine dell’anno. “Nel frattempo continuiamo a lavorare in stretta collaborazione con gli sperimentatori clinici e le autorità regolatorie per portare a termine i nostri studi clinici tuttora in corso. In modo da offrire ilprima possibile questa importante opzione terapeutica ai pazienti.”

Dentro i percorsi di approvazione accelerata

Bluebird bio sta sviluppando LentiGlobin con l’obiettivo di presentare domanda per ottenere le approvazioni di Fda ed Ema per il trattamento della Tdt e dell’anemia falciforme grave. Intanto LentiGlobin ha ottenuto lo stato di farmaco orfano dall’ente statunitense e da quello europeo per il trattamento della beta talassemia e dell’anemia falciforme grave. Inoltre in entrambi i casi è entrato a far parte dei rispetti percorsi di approvazione accelerata per il trattamento di queste patologie del sangue.

 

Torna su
Farmaci falsificati, due terzi sono contro l’impotenza

Farmaci falsificati, due terzi sono contro l’impotenza

Presentata a Roma, durante la settimana nazionale contro la contraffazione, la campagna “La tua salute vale di +” a cura della Società italiana di urologia. Medicinali al secondo posto dopo il settore dell’abbigliamento.


Il commercio di farmaci contraffatti, secondo i dati del Consiglio d’Europa, supera di 25 volte quello delle sostanze stupefacenti. Un problema molto rilevante, che rientra nell’economia sommersa di tipo criminale e dunque difficile da quantificare in modo esatto. A lanciare l’allarme è la Società italiana di urologia (Siu), che presenta la nuova campagna “La tua salute vale di +”, per sensibilizzare i cittadini e contrastare questo fenomeno a partire dall’acquirente, con una serie di iniziative tradizionali e social.  La campagna e alcuni dati sul mercato dei farmaci contraffatti sono stati presentati oggi a Roma, in occasione della settimana nazionale contro la contraffazione. Nelle farmacie e nei centri di urologia che collaborano con la Siu sarà distribuito un opuscolo che contiene un decalogo di comportamento molto chiaro e altre importanti informazioni.

I numeri dei farmaci falsificati

Quasi 18mila controlli, per oltre 2,4 milioni di confezioni e quattro milioni di fiale o compresse sequestrati, in totale 6,4 milioni di farmaci contraffatti tolti dal mercato in quattro anni (2013-2017) dal comando dei Carabinieri per la tutela della salute (Nas). Oltre 200 persone arrestate e 3.200 denunciate, quasi 2mila segnalate e 4.600 sanzioni amministrative comminate. Numeri imponenti a cui si sommano altri 7mila interventi di controllo nel 2018. Numeri enormi, che vedono spiccare per tipologia i farmaci per la disfunzione erettile o altre problematiche della sfera sessuale maschile. Secondo l’Aifa, la tipologia di farmaci più sequestrata in Italia è quella per il trattamento delle disfunzioni erettili (60-70% del totale). Seguono prodotti a base di tossina botulinica altri in cui gli integratori alimentari sono stati utilizzati per celare la presenza illecita di principi attivi farmaceutici.

I canali di vendita

In Italia, difficilmente i farmaci contraffatti trovano spazio nei canali di vendita legali, come le farmacie, ma le vendite illegali, in particolar modo sui siti web, continuano ad aumentare. “Non si tratta solamente di un problema economico, ma soprattutto di una minaccia alla salute pubblica – spiega Domenico Di Giorgio direttore dell’Ufficio qualità prodotti e contrasto al crimine farmaceutico dell’Aifa – Nello specifico il mercato illegale dei prodotti per la sfera sessuale utilizza prevalentemente il canale web: i clienti si approvvigionano da siti pirata, o da sex shop e altri negozi non farmaceutici che si riforniscono dagli stessi siti. La rete di collaborazione strutturata da Aifa permette di evitare che prodotti pericolosi per la salute vengano offerti anche su piattaforme legali – come Facebook o Twitter – cui il paziente si rivolge con fiducia in considerazione dell’ampia notorietà che diviene sinonimo di affidabilità. La collaborazione già da anni implementata da Aifa con eBay ha portato, nel 2017, all’implementazione di misure di sensibilizzazione degli utenti eBay, alla rimozione di oltre 3.000 offerte sul sito italiano”.

Cosa contengono

A rischiare sono coloro che ne fanno uso, affidandosi necessariamente a canali distributivi non verificati, al web, al mercato nero. Nel recente rapporto “Illicit trade: converging criminal networks”(2016), si legge che il 32% dei farmaci contraffatti non contiene principi attivi, il 20% ne contiene in quantità non corrette, il 21,4% è composto da ingredienti sbagliati, il 15,6% ha corrette quantità di principi attivi ma un packaging falso, l’8,5% contiene alti livelli di impurità e contaminanti.

L’iniziativa degli urologi

“La Società italiana di urologia ha deciso di prendere una posizione forte sul tema della contraffazione per sensibilizzare la popolazione sui pericoli legati all’acquisto dei farmaci attraverso canali non ufficiali e senza il consiglio dello specialista – spiega Walter Artibani, segretario generale della Siu – Sono ancora troppi gli imbarazzi dei pazienti maschi nel parlare al medico delle difficoltà sotto le lenzuola insieme con l’illusione di poter disporre ad un prezzo sensibilmente più basso di farmaci altrimenti più costosi”.

“I farmaci contraffatti – precisa Vincenzo Mirone, responsabile comunicazione della Siu – costituiscono un grave rischio per la salute pubblica. Nel migliore dei casi questi farmaci contengono un principio attivo senza alcuna efficacia, ma in molti casi questi farmaci contengono elementi pericolosissimi per la salute: le analisi svolte sui prodotti sequestrati hanno consentito per esempio di trovare vernici stradali e gesso, in alcuni casi sono state trovate tracce di arsenico e veleno per topi”.

Miliardi in fumo

Giulia Ponticelli, dirigente della Divisione II della Direzione generale alla per la lotta alla contraffazione dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, suggerisce una riflessione sul peso economico della contraffazione: “Secondo una recente indagine dell’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (Euipo) – spiega – i prodotti contraffatti presenti sul mercato italiano causano, ogni anno, perdite per oltre 8,6 miliardi di euro. In Italia, i danni da contraffazione colpiscono, subito dopo il settore dell’abbigliamento, (oltre 3 miliardi di vendite perse, quasi il 7% del giro d’affari legale), proprio il settore dei farmaci (oltre 2,2 miliardi di perdite, pari all’8%). È quindi davvero importante un’iniziativa come questa, che mira alla sensibilizzazione dei cittadini-consumatori, con l’obiettivo di accrescere la consapevolezza sui rischi e sugli effetti della contraffazione nel settore farmaceutico, contribuire nella diffusione di un modello di consumo consapevole ed informato e, conseguentemente, depotenziare la domanda di beni contraffatti”.

In campo le farmacie

In campo anche le farmacie. Il presidente di Federfarma Servizi, Antonello Mirone, riassume così l’impegno dei farmacisti: “Partecipare attivamente allo sviluppo della capacità di autotutela del cittadino dai rischi del web, contribuendo a renderlo capace di difendere la propria salute. L’autenticità del farmaco e la sua sicurezza rappresentano per noi e per le nostre farmacie la prima garanzia di tutela della collettività sociale, per questo – conclude –  continueremo a combattere strenuamente e in ogni sede il fenomeno della contraffazione”.

 

Torna su
Camera e Senato, ecco le commissioni che si occuperanno di sanità

Camera e Senato, ecco le commissioni che si occuperanno di sanità

A Montecitorio, Marialucia Lorefice (M5S), parlamentare alla seconda legislatura, guida la commissione Affari Sociali. A Palazzo Madama la commissione Igiene e Sanità affidata a Pierpaolo Sileri (M5S), chirurgo e ricercatore


Entra nel vivo la XVIII legislatura. Camera e Senato hanno formato le commissioni, comprese quelle che si occuperanno di sanità, entrambe a guida pentastellata. A Montecitorio, Marialucia Lorefice (M5S) è stata eletta presidente della commissione Affari Sociali. A Palazzo Madama, Pierpaolo Sileri (M5S), chirurgo e ricercatore, è stato eletto presidente della commissione Igiene e Sanità.

La commissione Affari Sociali

Marialucia Lorefice è nata a Ispica, in provincia di Ragusa, ed è attivista del Movimento Cinque Stelle dal 2012. È stata eletta per la prima volta a Montecitorio nel 2013 e durante la XVII legislatura ha già fatto parte della Commissione Affari Sociali, occupandosi – riporta l’Ansa – in particolare di indennizzi per sangue infetto, ma anche cyberbullismo. Tra i disegni di legge che l’hanno vista prima firmataria, uno prevedeva in particolare l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero.

Sono stati eletti vicepresidenti Rossana Boldi (Lega) e Michela Rostan (Liberi e Uguali). Sul sito della Camera è disponibile l’elenco di tutti i componenti della Commissione Affari Sociali.

La commissione Igiene e Sanità

 

Pierpaolo Sileri, nato a Roma, è chirurgo, ricercatore e docente di chirurgia generale all’Università di Tor Vergata. Ha completato gli studi presso le università di Oxford e Illinois, ed è stato eletto per la prima volta in Parlamento alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Alla prima esperienza politica, ma per anni in campo nella sanità, Sileri – riporta l’Ansa – ha legato il suo nome alle denunce contro la scarsa trasparenza di alcuni concorsi universitari.

Sono stati eletti vicepresidenti Maria Cristina Cantù (Lega) e Vasco Errani (Liberi e Uguali). Sul sito del Senato è disponibile l’elenco di tutti gli altri componenti della Commissione Igiene e Sanità.

 

Torna su
I Patient support program migliorano la qualità di vita dei pazienti

I Patient support program migliorano la qualità di vita dei pazienti

Con i Patient support program i pazienti affrontano meglio la malattia e seguono con più attenzione le terapie prescritte dal medico. *In collaborazione con Domedica


I Patient support program allargano il concetto di assistenza, ponendo il paziente al centro di una rete di supporto integrata che ha come diretta conseguenza il miglioramento della qualità di vita del paziente, dell’aderenza del paziente al piano terapeutico prescritto dal medico e dell’efficacia della terapia perché assunta come prescritto dal medico. Dopo aver riscosso molto interesse in Europa, i Patient support program sono una realtà consolidata anche in Italia, dove sono stati portati e sviluppati per la prima volta, nel 2005, da Domedica.

Metodologia dei Patient support program

La causa principale di inefficacia delle terapie farmacologiche è correlata alla bassa aderenza dei pazienti ad assumerle secondo prescrizione. Il tasso di non aderenza nelle patologie croniche può superare di gran lunga il 50%. Questo comportamento ha come conseguenza il ridotto controllo delle malattie trattate con conseguente aumento della richiesta degli interventi di assistenza sanitaria e dell’incidenza di morbilità e mortalità correlate. Con evidenti svantaggi sia per i pazienti che per il sistema sanitario.

I Patient support program disegnati ed erogati da Domedica si basano su alcuni principi fondamentali che sono:

  • il coinvolgimento dei medici per la definizione dei contenuti e delle modalità di assistenza da erogare ai propri pazienti;
  • supporto emotivo e psicologico ai pazienti;
  • assistenza ai pazienti per aumentarne la loro consapevolezza rispetto a quattro fattori: patologia; importanza dell’aderenza al piano terapeutico e alle indicazioni prescritte dal medico; informazioni per la migliore gestione della propria condizione (anche h24, sette giorni su sette); stili di vita che impattano positivamente la propria salute e la qualità di vita.

Inoltre, attraverso le visite (mediche, infermieristiche e fisioterapiche) erogate nei Patient support program (al centro clinico, al domicilio o ai centri infusionali, ovvero strutture territoriali dedicate) è possibile ridurre al minimo gli spostamenti dei pazienti verso le strutture ospedaliere per attività assistenziali deputabili ai programmi di supporto. Grazie  alla piattaforma tecnologica di Domedica, certificata anche come medical device, è possibile erogare i servizi citati anche solo da remoto, evitando le più onerose visite a domicilio.

I principali benefici per il paziente

I Patient support program hanno un approccio “patient centric”. La chiave non è la terapia né la malattia, ma la persona nella sua interezza e nella sua rete di relazioni che diventano anch’esse di fondamentale importanza nella cura. La rete di supporto costruita intorno al malato è costituita da personale sanitario e non, in grado di prendersi carico del paziente a 360 gradi.

Il paziente può contare su un punto di riferimento gratuito e facile da raggiungere (solitamente un numero verde è la porta di accesso al programma). A rispondere in tempo reale sono professionisti preparati e competenti che orientano il paziente in accordo a quanto definito con il medico specialista.

In questo modo il paziente è supportato non solo dal punto di vista della gestione pratica della malattia, ma anche dal punto di vista emotivo, psicologico e di day care, ovvero nella vita quotidiana che continua nonostante la malattia.

I vantaggi per i medici, il sistema sanitario e le life science company

I Patient support program offrono supporto ai medici che sono così sicuri che i loro pazienti sono assistiti con servizi e informazioni da loro conosciute e avallate, sgravati in questo modo da una serie di telefonate di natura puramente informativa da parte dei pazienti che il programma di supporto gestisce. In questo modo, il medico può destinare il tempo guadagnato ad attività a maggior valore aggiunto.

Durante le visite di controllo i medici possono essere più focalizzati sulla clinica. I pazienti seguiti dai programmi di supporto risultano già ragguagliati rispetto ad alcune informazioni, che non hanno più bisogno di chiedere al medico. Attraverso l’accesso alla piattaforma di Domedica sulla quale vengono raccolti i dati di programma, il medico può inoltre comodamente controllare il percorso del paziente in programma e monitorare i dati che più gli interessano.

La continuità assistenziale e il miglioramento dell’aderenza hanno ricadute positive anche sul Ssn che gode dell’impattato positivo dei Patient support program. Di fatto c’è un minor ricorso a terapie più costose per pazienti la cui condizione di salute si aggrava a causa della mancanza di aderenza, un ridotto accesso al pronto soccorso e alle visite specialistiche e una ridotta ospedalizzazione.

Per le life science company il vantaggio principale è la massimizzazione dell’efficacia del farmaco o device perché correttamente assunto/utilizzato e l’aumento del “valore” del farmaco perché “accompagnato” anche da un programma che aiuta i pazienti, le famiglie e i clinici. Va infine sottolineato che, grazie alla piattaforma di Domedica, è possibile raccogliere una quantità sensibile di real data, una risorsa fondamentale per confermare e verificare l’efficacia dei farmaci.

 Contributo sponsorizzato

 

Torna su
Pubblicità delle professioni sanitarie, per il Consiglio di Stato rimane l’obbligo di indicare il direttore sanitario

Pubblicità delle professioni sanitarie, per il Consiglio di Stato rimane l’obbligo di indicare il direttore sanitario

A innescare il dibattito la decisione di un comune della provincia di La Spezia che ha sospeso l’autorizzazione all’esercizio ambulatoriale a una società che aveva omesso di indicare in alcuni annunci pubblicitari le generalità del medico responsabile della struttura. *In collaborazione con Portolano Cavallo


Il Consiglio di Stato, in una sentenza pubblicata l’8 giugno 2018 (n. 3467), ha stabilito che la norma della legge n. 175 del 1992 che impone l’obbligo di segnalare nome, cognome e titoli professionali del direttore sanitario su qualunque materiale promozionale è ancora vigente, non essendo stata abrogata dal decreto Bersani (d.l. 223/2006).
Come noto, il decreto Bersani (d.l. 223/2006) ha liberalizzato la promozione delle professioni sanitarie. Tuttavia, l’assenza di un’indicazione espressa nel decreto di quali norme della precedente disciplina siano state abrogate ha generato incertezze sui limiti e le condizioni a cui è oggi soggetta la pubblicità delle professioni sanitarie.

Il fatto

Un Comune della provincia di La Spezia ha sospeso l’autorizzazione all’esercizio dell’attività ambulatoriale odontoiatrica ad una società che aveva omesso di indicare in alcuni annunci pubblicitari nome, cognome e titoli professionali del medico responsabile della direzione sanitaria della propria struttura.
La violazione riguardava un cartellone pubblicitario situato all’ingresso della struttura. Questo, pur non precisando le generalità della direzione sanitaria del centro, invitava a visionare tali informazioni sul sito web della società proprietaria del centro odontoiatrico. La società ha quindi presentato ricorso al tribunale amministrativo regionale per la Liguria (Tar) per ottenere l’annullamento del provvedimento sanzionatorio del Comune. In seguito, dato l’esito sfavorevole del giudizio di primo grado, ha presentato appello al Consiglio di Stato.

L’incertezza sulle norme abrogate

Al centro della disputa c’è l’attuale vigenza della legge n. 175 del 1992. Prima del decreto Bersani, questa legge disciplinava l’attività promozionale svolta dai professionisti sanitari, subordinandola ad una serie di vincoli e requisiti. In particolare, il provvedimento sanzionatorio contestato è stato adottato ai sensi dell’articolo 4, comma 2, della legge, che stabilisce l’obbligo di segnalare nome, cognome e titoli professionali del direttore sanitario di riferimento su qualunque materiale dal contenuto promozionale.

Il decreto Bersani, nel riconoscere la libertà della pubblicità informativa in ambito sanitario, ha disposto l’abrogazione delle disposizioni legislative previgenti che prevedevano “il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine”. In altre parole, il decreto Bersani ha abrogato le norme previgenti che si ponevano in contrasto con il principio di liberalizzazione della pubblicità sanitaria, senza però identificarle con precisione.

Le decisioni della giurisprudenza

Nella questione sottoposta al Tar, il ricorrente ha contestato il provvedimento sanzionatorio. Sosteneva che l’obbligo di indicare negli annunci pubblicitari i riferimenti del direttore sanitario della struttura interessata, previsto dalla vecchia legge n. 175/1992, dovesse ritenersi superato dall’emanazione del decreto Bersani.
Tuttavia, con sentenza n. 802 del 27 ottobre 2017, il Tar della Liguria ha ritenuto che il decreto Bersani abbia abrogato soltanto le “disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di pubblicità informativa dei servizi professionali ovvero (al)le norme che si pongano in contrasto con i principi di libertà, trasparenza e veridicità della pubblicità, nonché di non equivocità delle informazioni veicolate”. La norma che prevede l’obbligo di indicazione del direttore sanitario non rientrerebbe tra queste e dunque sarebbe ancora in vigore.

La società sanzionata ha quindi impugnato la sentenza del Tar davanti al Consiglio di Stato che, tuttavia, ha confermato la pronuncia di primo grado.
In particolare il Consiglio di Stato ha chiarito che sono state abrogate dal decreto Bersani quelle norme della legge n. 175/1992 che limitavano la possibilità di fare pubblicità di stampo medico-sanitario. Ossia quelle che la consentivano solo con determinate modalità (applicazione di targhe, inserzioni sugli elenchi telefonici, e attraverso periodici professionali, giornali quotidiani ed emittenti radiotelevisive locali). Inoltre, sono state abrogate le norme relative ai divieti di svolgimento di pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e relative al prezzo e costi complessivi delle prestazioni. Al contrario, sono ancora vigenti quelle norme volte a fornire determinate informazioni minime a tutela della collettività, in applicazione di un principio di trasparenza e veridicità delle comunicazioni pubblicitarie.

Quindi, secondo il Consiglio di Stato, l’obbligo di indicare le generalità del medico responsabile della direzione sanitaria “non contrasta affatto con i principi di liberalizzazione introdotti dalla normativa del 2006. Intende, invece, definire alcuni contenuti minimi del messaggio pubblicitario, finalizzati a tutelare gli utenti finali”. Pertanto, tale obbligo deve ritenersi ancora in vigore.

Una decisione in parte inattesa

La decisione del Consiglio di Stato (come del resto quella del Tar) sembra sotto certi aspetti incoerente con quanto la Corte di Cassazione aveva deciso, il 24 gennaio 2012, in un diverso caso, peraltro sempre verificatosi nella provincia della Spezia (Corte di Cassazione Civile Sez. III, 09/03/2012, n. 3717).
In quell’occasione, infatti, la Corte di Cassazione aveva ritenuto che l’intera legge n. 175/1992, incluse le sanzioni disciplinari previste in caso di violazione, fosse stata abrogata dal decreto Bersani. Tuttavia, secondo il Consiglio di Stato, tale sentenza verteva in realtà su differenti profili, ossia sulla successione temporale delle norme e sull’ampiezza del potere disciplinare degli ordini professionali. Non poteva, quindi, venire in rilievo nel caso in oggetto.

Al contrario, il Consiglio di Stato evidenzia come il decreto Bersani fosse volto alla rimozione dei divieti di pubblicità per le professioni sanitarie ma non anche alla rimozione di ogni procedimentalizzazione e controllo nell’esercizio della pubblicità. Pertanto taluni limiti e requisiti previsti dalla vecchia legge non possono ritenersi abrogati.
Questo approccio della giurisprudenza amministrativa, seppure in teoria condivisibile, rischia di non risolvere, ma anzi di aumentare, il livello di incertezza nell’applicazione delle norme sulla pubblicità sanitaria. Infatti lascia sostanzialmente all’interprete la definizione di quali norme della vecchia legge debbano o meno ritenersi abrogate. Il timore, dunque, è che questa sentenza possa sollevare, per gli operatori del settore, ulteriori dubbi applicativi.

A cura di Luca Gambini (partner) e Elisa Stefanini (counsel) – Portolano Cavallo

Homepage Digital & life sciences

 Contributo sponsorizzato

 

 

 

Torna su
Vaccini, a scuola basta l’autocertificazione. Sull’obbligo deciderà il Parlamento

Vaccini, a scuola basta l’autocertificazione. Sull’obbligo deciderà il Parlamento

Circolare congiunta dei ministeri della Salute e dell’Istruzione. Non sarà necessario presentare la certificazione ufficiale dell’Asl entro il 10 luglio. Nel frattempo, Lega e M5S lavoreranno in Parlamento a una modifica della legge sull’obbligo. L’annuncio del ministro Grillo: “Aspetto un bimbo e lo vaccinerò”


Per il prossimo anno scolastico non sarà necessario presentare entro il 10 luglio la certificazione ufficiale dell’Asl che provi l’avvenuta vaccinazione. Basterà un’autocertificazione, anche dopo quella data. È quanto prevede una circolare congiunta presentata oggi dal ministro della Salute, Giulia Grillo, e dal ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti.  Grillo spiega infatti che la data di scadenza del 10 luglio anche per la presentazione dell’autocertificazione “non è perentoria” e aggiunge che in ogni caso, “la mancata presentazione della documentazione non comporterà la decadenza dell’iscrizione scolastica”. Una linea morbida, annunciata assieme ad altre novità: l’implementazione dell’Anagrafe nazionale vaccini e l’istituzione di un tavolo ministeriale composto da “esperti indipendenti”. Spazio anche a una parentesi personale, con il ministro Grillo che dà notizia della sua maternità, rispondendo a una domanda sui vaccini: “Aspetto un figlio e lo vaccinerò”, assicura.

La circolare congiunta sui vaccini

La circolare dei due ministeri, che Grillo definisce “un atto di tolleranza burocratica” semplifica essenzialmente due aspetti, riassunti così:

  • per i minori da 6 a 16 anni, quando non si tratta di prima iscrizione scolastica, resta valida la documentazione già presentata per l’anno scolastico 2017-2018;
  • se il minore non deve effettuare nuove vaccinazioni o richiami; per i minori da 0 a 6 anni e per la prima iscrizione alle scuole (minori 6 – 16 anni), basta una dichiarazione sostitutiva di avvenuta vaccinazione.

L’anagrafe nazionale vaccini

Per semplificare la vita delle famiglie, ed evitare ulteriori certificazioni anche nei casi di cambio di residenza, il ministero della Salute sta predisponendo un decreto per l’istituzione dell’Anagrafe nazionale vaccini. L’Anagrafe nazionale ancora non è stata attuata dopo ben 334 giorni dalla nuova legge sui vaccini del 2017. Consentirà di monitorare i programmi vaccinali, di conoscere le ragioni delle mancate vaccinazioni e di misurare progressi e criticità del sistema. Sarà uno strumento utile anche alla vaccino-vigilanza, che – spiega il ministero – potrà riferire puntualmente sugli eventi avversi riferiti ai vaccini impiegati e metterà a sistema i dati delle Regioni. Attraverso il sistema nazionale degli eventi avversi gestito da Aifa, le segnalazioni potranno essere comunicate dai professionisti sanitari e dai soggetti vaccinati o dai loro genitori.

Il tavolo di esperti

Al via anche un Tavolo ministeriale di esperti indipendenti sui temi vaccinali, coordinato da Vittorio De Micheli. Un organismo che avrà anche il compito di affrontare “il fenomeno della diffidenza e del dissenso vaccinale” e di “aggiornare il piano nazionale di prevenzione vaccinale”. Inoltre si occuperà della sorveglianza attiva degli eventi avversi ai vaccini, dello standard di funzionamento dei servizi vaccinali e della formulazione di piani di intervento straordinario su eventi di rischio attuale o potenziale, come ad esempio in riferimento ad un piano di eliminazione del morbillo e della rosolia congenita. Gli esperti indipendenti, ovvero “privi di rapporti finanziari con i produttori di vaccini, saranno scelti da Ministero e Regioni nel mondo professionale, scientifico e istituzionale. Un Tavolo, commenta il ministro Grillo, “di grande importanza, a partire dalla priorità che è quella di vincere la diffidenza antivaccinale diffusa in parte della popolazione”.

Una proposta di legge per rivedere l’obbligo

Se la circolare interviene per una semplificazione burocratica, la disputa sull’obbligatorietà dei vaccini si sposta in Parlamento. “A breve – spiega il ministro Grillo – ci sarà una proposta di legge parlamentare, alla quale la maggioranza sta lavorando, per modificare l’obbligatorietà dei vaccini come prevista dal decreto Lorenzin. Non manterremo l’obbligo come è oggi, vogliamo una obbligatorietà flessibile che consideri le diverse situazioni”. Una proposta che sarà presentata entro pochi giorni e sicuramente farà discutere: “Il dibattito è importante, ma non si deve trasformare in lotta tra tifoserie”, auspica Grillo. “Se ci sono dei genitori che hanno dei dubbi legittimi – afferma il ministro – si rivolgano a noi e al ministero per avere chiarimenti. La via da seguire è infatti la corretta informazione, sapendo che i vaccini sono importanti e che le famiglie devono essere tranquille”.

I prezzi dei vaccini

Infine, un riferimento ai costi della vaccinazione. Il ministro annuncia che è stata chiesta una rinegoziazione dei prezzi e che “tutte le aziende farmaceutiche si sono impegnate a bloccare l’aumento dei prezzi dei vaccini fino al 2022 e ad applicare sconti che possono arrivare fino al 50%”. In questo modo, conclude il ministro, “si va anche incontro alla necessaria sostenibilità finanziaria dei programmi vaccinali da attuare”.

LE SLIDE

 

Torna su
Liste d’attesa, trasparenza sui tempi solo in cinque Regioni

Liste d’attesa, trasparenza sui tempi solo in cinque Regioni

A dirlo è uno studio della Fondazione Gimbe, analizzando i risultati preliminari di un monitoraggio indipendente sulla rendicontazione pubblica dei tempi di attesa. Promosse Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Valle d’Aosta e P.A. di Bolzano


La maggior parte delle Regioni italiane bocciate in materia di trasparenza sulle liste d’attesa. A dirlo sono i primi risultati di un monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe sulla rendicontazione pubblica dei tempi di attesa. Un’analisi che premia cinque Regioni: Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Valle d’Aosta e P.A. di Bolzano. E assegna una maglia nera a Campania, Molise e Toscana.

L’iniziativa del ministro e lo studio Gimbe

Lo scorso 14 giugno, in vista della predisposizione del nuovo Piano nazionale di governo delle liste d’attesa (Pngla), il ministro della Salute Giulia Grillo ha inviato a Regioni e Province autonome una circolare finalizzata a raccogliere informazioni capillari sulle modalità di gestione delle liste di attesa e dell’attività libero-professionale intramuraria. “Considerato l’interesse del nuovo esecutivo per la spinosa questione dei tempi di attesa – spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GImbe – abbiamo deciso di rendere noti i risultati preliminari del monitoraggio indipendente sugli adempimenti di Regioni e Province autonome”. Informazioni che, secondo quanto previsto dal cosiddetto “decreto trasparenza” (Dlgs 14 marzo 2013, n. 33), dovrebbero essere rese pubblicamente disponibili a tutti i cittadini.

In questa prima fase dello studio, spiega la Fondazione, la ricerca dei documenti è stata effettuata sia tramite la consultazione diretta dei siti web istituzionali di Regioni e Province autonome sia tramite ricerche Google utilizzando varie parole chiave: “liste di attesa”, “liste d’attesa”, “tempi di attesa”, “tempi d’attesa”.

Tutte le Regioni e Province autonome rendono disponibili sia le delibere di recepimento del Pngla 2010-2012 sia i Piani Regionali per il governo delle liste di attesa. Dopo la pubblicazione della prima versione, tali piani sono stati variamente aggiornati o integrati dal 2010 al 2018. Dai siti istituzionali emerge un quadro molto eterogeneo, riassunto così dalla Fondazione Gimbe:

  • Campania, Molise e Toscana non rendono disponibile alcun report.
  • Calabria, Lombardia e Umbria rimandano ai siti web delle aziende sanitarie, senza effettuare alcuna aggregazione dei dati a livello regionale.
  • 9 Regioni e una Provincia autonoma rendono disponibile solo l’archivio storico sui tempi di attesa con range temporali e frequenza degli aggiornamenti molto variabili: Provincia autonoma di Trento dal 2013 al 2017, Abruzzo dal 2013 al 2014, Friuli-Venezia Giulia dal 2009 al 2014, Liguria dal 2017 a marzo 2018, Marche da settembre 2014 a maggio 2018, Piemonte dal 2009 al 2017, Puglia da aprile 2012 a ottobre 2017, Sardegna da ottobre 2014 ad aprile 2018, Sicilia solo ottobre 2013, Veneto da gennaio 2017 ad aprile 2018.

Solo 5 Regioni offrono sistemi avanzati di rendicontazione pubblica sui tempi di attesa:

  • La Provincia autonoma di Bolzano riporta per 58 prestazioni i tempi di attesa nelle aziende sanitarie riferiti ad un preciso giorno di riferimento del mese precedente (30 maggio 2018).
  • La Valle d’Aosta riporta i tempi di attesa nelle aziende sanitarie per oltre 100 prestazioni riferite al mese precedente (giugno 2018).
  • L’Emilia-Romagna, tramite un portale ad hoc, permette di conoscere per 50 prestazioni il numero e la percentuale di prenotazioni erogate dalle aziende sanitarie entro i tempi massimi previsti. I report sono elaborati a cadenza settimanale dal gennaio 2016 e sono disponibili anche report storici dal gennaio 2015. Il sistema permette anche di confrontare le performance per singola prestazione tra differenti aziende sanitarie.
  • Il portale della Regione Lazio offre per 44 prestazioni le stesse modalità di rendicontazione dell’Emilia Romagna, ma non permette di confrontare le performance per singola prestazione tra differenti aziende sanitarie. I dati sono elaborati a cadenza settimanale a partire dal 21 maggio 2018, ma non è disponibile alcun archivio storico.
  • La Basilicata, tramite un portale ad hoc, permette di conoscere in tempo reale i tempi di attesa per le prestazioni erogate da ciascuna azienda sanitaria e di consultare l’archivio storico 2014-2018 dei tempi medi di attesa per tutte le prestazioni in tutte le strutture sanitarie. Non consente, invece, di confrontare in tempo reale i tempi di attesa per singola prestazione tra differenti strutture.

Un auspicio

I risultati preliminari dello studio  dimostrano che la trasparenza sui tempi di attesa rimane in larga parte disattesa dalle Regioni. “Al fine di contrastare questo inaccettabile livello di mancata trasparenza – conclude Cartabellotta – la Fondazione Gimbe auspica che il nuovo Piano nazionale per il governo delle liste di attesa definisca criteri univoci per rendicontare pubblicamente i tempi di attesa, per consentire ai cittadini di partecipare attivamente al miglioramento dei servizi sanitari e per fornire a Istituzioni e ricercatori una base univoca di dati per confrontare le performance regionali, anche ai fini di un inserimento di tale indicatore nel monitoraggio degli adempimenti Lea”.

 

Torna su
Malattie autoinfiammatorie e qualità di vita: ancora poca cultura

Malattie autoinfiammatorie e qualità di vita: ancora poca cultura

A Roma un confronto tra esperti e associazioni di pazienti. Obiettivo? Accendere i riflettori su malattie ancora poco conosciute. Nel frattempo, risultati confortanti dalle ultime terapie. *In collaborazione con Novartis


Febbre continua, dolori articolari, manifestazioni cutanee, ma soprattutto la difficoltà a vivere una vita normale. Sono solo alcuni dei sintomi e delle conseguenze per chi scopre di essere affetto da patologie autoinfiammatorie: malattie rare che incidono fortemente sulla qualità di vita di giovani e famiglie. Per promuovere la consapevolezza sociale su questi temi, il valore della comunicazione familiare e medico-paziente, l’educazione e l’informazione su tali patologie, Novartis ha organizzato il 22 giugno scorso a Roma un confronto tra gli esperti del settore sanitario, i pazienti e le associazioni che sostengono i malati e le loro famiglie.

Malattie autoinfiammatorie, diagnosi difficile

“Le patologie auto infiammatorie sono state conosciute in profondità in epoca abbastanza recente e sono trattate e curate prevalentemente dai pediatri reumatologi – spiega Luigi Sinigaglia, direttore del Dipartimento di Reumatologia e Scienze mediche del Centro traumatologico G. Pini Cto di Milano – Si tratta di malattie sistemiche che possono dare sintomi molto disparati ma hanno quasi tutte un substrato di tipo genetico. È molto complicato fare una diagnosi precoce perché sono malattie in cui la diagnosi viene fatta solo dopo aver escluso tutta una serie di altre patologie che possono interessare tutta la sfera della medicina interna”. Eppure più precocemente si interviene, più possibilità ci sono di guarire o di mandare in remissione queste malattie “perché oggi abbiamo a disposizione delle terapie straordinariamente efficaci”, sottolinea Sinigaglia.

Accendere i riflettori

La giornata di approfondimento ha evidenziato la necessità di far conoscere patologie sconosciute a molti e accendere i riflettori sull’impatto che hanno sulla vita quotidiana dei pazienti.  “Credo che sia un terreno su cui è necessario fare grande cultura – continua Sinigaglia – e cercare di diffondere il concetto che queste malattie sono meno rare di quanto si pensi”. All’incontro di Novartis si è discusso soprattutto di Criopirinopatie, Traps, Febbre Mediterranea Familiare e malattia di Still, che sia in ambito pediatrico che nell’adulto presentano sintomi come febbre, dolori articolari, e da rush cutaneo E a volte da dolore addominale.

Nuove terapie

“Nel passato non c’erano farmaci, queste malattie erano considerate orfane di terapie. Fino a qualche anno fa l’unica terapia era il cortisone – spiega Marco Cattalini, pediatra e responsabile del servizio Reumatologia pediatrica degli Spedali Civili di Brescia – che ha degli effetti collaterali devastanti in età pediatrica: blocca completamente la crescita, ritarda lo sviluppo osseo, causa un aumento del peso, porta instabilità dell’umore e altera il normale accrescimento del bambino”.

Con il tempo e tanta ricerca, si è giunti ad una grande rivoluzione. È stato scoperto un anticorpo per curare tre malattie rare: la febbre mediterranea familiare (FMF), il deficit di mevalonato chinasi (MKDkd) e la sindrome periodica associata al recettore 1 del fattore di necrosi tumorale (TRAPS). Il farmaco è il canakinumab. A coordinare il trial clinico per la sperimentazione della terapia è stato Fabrizio De Benedetti, responsabile della Reumatologia dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. “Queste tre malattie sono diverse l’una dall’altra, però hanno come caratteristica principale quello di essere indotte dall’esagerata produzione dell’IL1β (interleuchina1beta). Il canakinumab in maniera specifica neutralizza questa molecola. La sperimentazione clinica – chiarisce l’esperto –  è stata molto positiva nei suoi risultati e quindi il farmaco è stato approvato dalla Emea e dalla Fda su queste tre malattie”. Il canakinumab però, per queste tre specifiche malattie, non è ancora rimborsabile dal SSN, ma De Benedetti è fiducioso: “La rimborsabilità, come già ottenuta per CAPS e AIGS, avverrà molto presto”.

Pazienti giovani e qualità di vita

I giovani affetti da patologie autoinfiammatorie difficilmente riescono a condurre una vita normale come i propri coetanei. Chiara, una ragazza che oggi ha 19 anni e soffre di febbre mediterranea familiare, ha raccontato che i primi sintomi della malattia sono sopraggiunti ad appena tre anni e tutta la sua infanzia l’ha trascorsa lontano dagli amici e dalla scuola a causa dei continui attacchi febbrili e dolori forti. La ragazza ha confessato che di grande aiuto le è stato il supporto dello psicologo, “una figura professionale che il Ssn non sempre prevede e invece – evidenzia Cattalini – sarebbe assolutamente utile perché è futile curare l’aspetto ‘organico’ se non si interviene anche sull’aspetto psicologico”.

Transizione delicata

Ma quando il paziente non è più in età pediatrica, chi se ne prende cura? Questo è il momento più delicato, i ragazzi che raggiungono l’età adulta, con la malattia ancora attiva, tendono a perdere fiducia nelle cure, non vanno più dal medico. Questo processo di passaggio dalla cura pediatrica alla cura dell’adulto viene definito “processo di transizione”, spiega Angelo Ravelli, docente di Pediatria all’Università di Genova e direttore dell’UOC Clinica Pediatrica e Reumatologica all’Istituto Gaslini di Genova. “È fondamentale che ci sia comunicazione tra pediatra reumatologo e reumatologo dell’adulto perché queste malattie in molti casi continuano fino alla tarda adolescenza. È importante che i reumatologi dell’adulto siano, da una parte, formati alle caratteristiche principali, alle necessità dei bambini con queste malattie e, dall’altra parte, che siano anche disponibili ad accoglierli, che abbiano quindi dei servizi e delle iniziative dedicate ai pazienti pediatrici che raggiungono l’età adulta. Ci sono dati che dimostrano che molti ragazzi che raggiungono l’età adulta tendono a interrompere le cure e questo può portare a seri danni. Queste sono malattie, essendo caratterizzate da un’infiammazione cronica, se non vengono curate come si deve, possono portare a danni anche irreversibili per gli organi, come per il rene, il cuore, il polmone, l’occhio e le articolazioni”.

Fare rete

Ravelli, insieme ai suoi colleghi, propone, quindi, la creazione di una rete di transizione a livello nazionale. “Insieme ad altri reumatologi dell’adulto – spiega l’esperto – abbiamo avviato alcuni mesi fa un processo collaborativo tra reumatologia pediatrica e reumatologia dell’adulto. Una rete di transizione che deve identificare dei centri di reumatologia dell’adulto in tutte le Regioni d’Italia e formare i reumatologi dell’adulto sulle malattie autoinfiammatorie, ma anche sui problemi psicologici, attitudinali, sociologici, che sono molto diversi da quelli dell’adulto-anziano e in genere sono seguiti dalla reumatologia dell’adulto. Al momento abbiamo visto solo esempi locali, ma ora – conclude Ravelli – bisogna mirare ad un processo di transizione uniforme, omogeneo e generalizzato a livello italiano”.

Contenuto sponsorizzato

 

Torna su
Carenza vitamina D, esperti internazionali definiscono una nuova soglia

 

 

Carenza vitamina D, esperti internazionali definiscono una nuova soglia

Un lavoro pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology definisce i valori per valutare l’ipovitaminosi D. Una posizione discussa a Milano in occasione del VII congresso Cuem (Clinical update in Endocrinology and Metabolism)


Una nuova soglia per stabilire il deficit di vitamina D. È l’obiettivo di un paper (Vitamin D: assays and the definition of hypovitaminosis D: results from the 1st international conference on controversies in Vitamin D) pubblicato sulla rivista British Journal of Clinical Pharmacology e discusso nei giorni scorsi a Milano in occasione del VII Cuem (Clinical update in Endocrinology and Metabolism). Il lavoro è frutto di un summit che lo scorso anno ha riunito a Pisa 25 esperti da tutto il mondo per una consensus internazionale sul cosiddetto “ormone del sole”.

Il ruolo della vitamina D

La vitamina D ha un ruolo importante nella salute dell’osso: “Quando si riscontra uno stato di ipovitaminosi D – spiega Andrea Giustina, ordinario di Endocrinologia al San Raffaele di Milano e presidente di Gioseg (Glucocorticoid induced osteoporosis skeletal endocrinology group) – si interviene somministrando il colecalciferolo o altri precursori della vitamina D. Trattandosi di un ormone, e non di una vitamina come erroneamente si crede, è fondamentale quindi accertarne il deficit, definire la  gravità della carenza nel singolo individuo: questo ci permette di intervenire in forma personalizzata”.

I nuovi valori

Oggi per valutare lo stato vitaminico D si fa riferimento al dosaggio sierico del metabolita circolante, la 25 idrossi-vitamina D [25 (OH) D]. Nonostante le differenti definizioni di ipovitaminosi proposte da diverse società scientifiche ed istituzioni nazionali ed internazionali, la sua concentrazione nel sangue è considerata il miglior biomarker.

Il nuovo paper afferma che valori di [25 (OH) D] inferiori a 12 ng/ml riflettono una condizione sfavorevole per la salute ossea, un ridotto assorbimento del calcio, una scarsa mineralizzazione ossea e vengono associati ad un aumentato rischio di rachitismo e/o di osteomalacia. E soltanto quelli superiori a 20 ng/mL sono considerati sicuri e sufficienti per la salute dell’osso.

Passi avanti e sfide aperte

“Questo consenso è a suo modo storico – sottolinea Giustina – in quanto per la prima volta sono state individuate soglie ideali e condivise dai più grandi esperti espressi dalla comunità scientifica per definire una condizione carenziale o di insufficienza di Vitamina D. Questo non vuol dire – precisa l’esperto – che tutti i problemi in questo ambito siano risolti: infatti, se da un lato non abbiamo ancora raggiunto una standardizzazione a livello mondiale delle tecniche di misurazione, dall’altro, dagli studi clinici ci arrivano talvolta risultati contradditori spesso legati proprio alle soglie di intervento”. Due facce della stessa medaglia: “Gli effetti della somministrazione di vitamina D – continua Giustina – variano molto a seconda della condizione più o meno carenziale di partenza. La supplementazione su soggetti carenti mostra, infatti, effetti significativi, mentre su soggetti mediamente non carenti, non ci si possono attendere risultati altrettanto validi. La definizione di ipovitaminosi D a cui sono giunti gli esperti ne rappresenta un importante passo avanti per la gestione clinica sulla base di criteri condivisi a livello internazionale. Le prossime consensus – conclude l’esperto – daranno l’opportunità a questo gruppo di esperti di affrontare i problemi ancora sul tappeto”.

 

 

 

Torna su
Invecchiamento, nel 2030 in Italia cinque milioni di anziani con disabilità

Invecchiamento, nel 2030 in Italia cinque milioni di anziani con disabilità

Dal meeting annuale di Italia Longeva le proiezioni Istat sulla “bomba demografica” che minaccia il welfare. Nel 2050 ogni 100 lavoratori ci saranno 63 anziani da sostenere contro i 35 di oggi. La sfida della Long term care


Se oggi gli over65 rappresentano un quarto della popolazione italiana, nel 2050 diventeranno più di un terzo. Di questi almeno quattro milioni saranno sopra la soglia degli 85 anni e circa cinque milioni dovranno convivere con la disabilità. È lo scenario che emerge dalle proiezioni realizzate dall’Istat per Italia Longeva, la Rete nazionale sull’invecchiamento e la longevità attiva. Questi e altri dati sono stati presentati oggi a Roma nel corso della terza edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine, la due giorni di approfondimento (che si chiude domani 12 luglio) sulle sfide della Long term care. I numeri descrivono una “bomba demografica” che impatterà pesantemente sul welfare: nel 2050 ogni 100 lavoratori ci saranno 63 anziani da sostenere contri i 35 di oggi.

Un circolo vizioso

L’invecchiamento porta con sé l’incremento di condizioni patologiche che richiedono cure a lungo termine e una crescita delle persone non autosufficienti. Di conseguenza – sottolinea Italia Longeva – crescerà la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani, ma anche quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura dei nostri vecchi.

La cronicità

Il peso delle cronicità si farà sentire sempre più. Nei prossimi dieci anni circa otto milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, come ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie.  “Curarli tutti in ospedale – commenta Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – equivarrebbe a trasformare Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna e Firenze in grandi reparti a cielo aperto. È evidente, quindi, che le cure sul territorio non rappresentano più un’opzione, ma un obbligo per dare una risposta efficace alla fragilità e alla non autosufficienza dei nostri anziani, che si accompagnerà anche a una crescente solitudine. Le stime Istat per Italia Longeva ci dicono che, nel 2030, potrebbero arrivare a quattro milioni e mezzo gli ultra 65enni che vivranno da soli, e di questi, un milione e 200mila avrà più di 85 anni”.

L’assistenza

A preoccupare gli esperti non sono soltanto le previsioni. Il potenziamento dell’assistenza domiciliare e della residenzialità fondata sulla rete territoriale di presidi socio-sanitari e socio-assistenziali – sottolinea Italia Longeva è ancora un privilegio per pochi, con forti disomogeneità a livello regionale. “Le famiglie – commenta ancora Bernabei – pilastro del nostro welfare, saranno sempre meno numerose, pertanto i servizi sociosanitari, che già oggi coprono solo un quarto del fabbisogno, dovranno essere integrati sempre più dal supporto di badanti, da nuove forme di mutualità e, probabilmente, da un ritorno allo spirito di comunità. C’è poi la disabilità – aggiunge Bernabei – che diventerà la vera emergenza del futuro e il principale problema di sostenibilità economica nel nostro Paese. Essere disabile vuol dire avere bisogno di cure a lungo termine che, solo nel 2016, hanno assorbito 15 miliardi di euro, dei quali ben tre miliardi e mezzo pagati di tasca propria dalle famiglie”.

Boeri (Inps): “Non possiamo contare soltanto sulle famiglie”

Uno scenario in evoluzione che richiede impegni concreti da parte delle istituzioni. “Nei prossimi 50 anni – commenta Tito Boeri, presidente dell’Inps – le generazioni maggiormente a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione italiana. Non è pensabile rispondere a una domanda crescente di assistenza di lungo periodo basandosi pressoché interamente sul contributo delle famiglie. Ci vogliono politiche di riconciliazione fra lavoro e responsabilità famigliari che modulino gli aiuti in base allo stato di bisogno, ad esempio sembra opportuno rimodulare i permessi della legge 104/92 in base al bisogno effettivo di assistenza.”

Disparità geografiche

Come in altri ambiti dell’assistenza sanitaria, anche la Long term care paga il prezzo delle disparità geografiche. Al Nord, un over65 ha il triplo delle possibilità di essere ospitato in una residenza sanitaria assistenziale rispetto a un cittadino del Sud, e ha a disposizione circa il quintuplo di assistenza domiciliare, in termini di ore e di servizi. “Fatalmente – commenta ancora Bernabei – questa disparità riguarda anche il trend di crescita dell’aspettativa di vita libera da disabilità, che è quasi appannaggio esclusivo degli anziani del Settentrione”. Ma i dati poco incoraggianti sulla disponibilità di posti letto nelle strutture sociosanitarie pubbliche e private, e sul numero di ore dedicate alle cure domiciliari, mostrano un’offerta disomogenea nelle varie regioni, con un divario che va oltre le disuguaglianze Nord-Sud.

“Sicuramente – commenta Andrea Urbani, direttore generale della Programmazione sanitaria al ministero della Salute –  bisogna indentificare modelli migliori di gestione della cronicità. Il Piano nazionale cronicità (Pnc) contiene una serie di indicazioni per armonizzare la gestione dell’assistenza. Attraverso cabina di regia del Pnc abbiamo nei primi mesi di quest’anno lanciato una ricognizione per conoscere i modelli i modelli organizzativi dei singoli Servizi sanitari regionali. Dobbiamo poi ragionare – aggiunge Urbani – sul fatto che il nostro sistema di welfare è ancora organizzato per comparto. Serve, invece, una vera integrazione tra sociale e sanitario”

Puntare sulla tecnoassistenza

“Dobbiamo evitare che l’Italia diventi un enorme ma disorganizzato ospizio – avverte Bernabei – nel quale resteranno pochi giovani costretti a lavorare a più non posso per sostenere milioni di anziani soli e disabili. E a questo scopo prevenire le malattie non basterà. Visto il numero di over85, bisognerà far fronte alla inevitabile perdita di autonomia, investendo in reti assistenziali, competenze e tecnologia, la famosa tecnoassistenza che propugniamo da anni. In altre parole, scommettere su una Long-Term Care matura e moderna, che si rivelerà il vero banco di prova per il futuro del Paese. Se perdiamo questa partita, i numeri, che grazie all’Istat già conosciamo, ci schiacceranno. E sarà vana – conclude Bernabei – qualsiasi altra riforma della sanità, del lavoro o della previdenza sociale”.

 

 

Leggi anche: Long term care, l’Italia investe solo 10% della spesa sanitaria e perde il confronto con l’Europa

 

Torna su
Long term care, l’Italia investe solo il 10% della spesa sanitaria e perde il confronto con l’Europa

Long term care, l’Italia investe solo il 10% della spesa sanitaria e perde il confronto con l’Europa

Nei Paesi del Nord Europa si va oltre il 25 per cento. Qui si spendono 15 miliardi di euro, di cui solo 2,4 destinati alle cure domiciliari. I dati di una nuova indagine realizzata da Italia Longeva


L’Italia è il Paese più longevo d’Europa, ma non brilla per investimenti in Long term care, l’assistenza indispensabile se si vuole gestire al meglio invecchiamento della popolazione, cronicità, disabilità e non autosufficienza. Spendiamo, infatti, poco più del 10% della spesa sanitaria, me nel Nord Europa ci sono Paesi che superano il 25 per cento. È quanto emerge dalla seconda indagine sull’Assistenza domiciliare in Italia (Adi) realizzata da Italia Longeva e presentata al ministero della Salute in occasione degli Stati generali dell’assistenza a lungo termine.

L’investimento per la Long terme care vale dunque circa 15 miliardi di euro. Di questi, solo 2,3 miliardi (l’1,3% della spesa sanitaria totale) sono destinati all’erogazione di cure domiciliari, con un contributo a carico delle famiglie di circa 76 milioni di euro.

“Mentre la cronicità dilaga e la disabilità diventerà la vera emergenza del futuro – commenta Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – l’assistenza domiciliare continua ad avere un ruolo marginale e ad essere fortemente sottodimensionata rispetto ai bisogni dei cittadini. Con il risultato che gli anziani continuano ad affollare i Pronto Soccorso, mentre i familiari sono alla disperata ricerca di badanti cui affidare i propri cari dimessi dall’ospedale, sempre che possano permetterselo”.

Long term care sotto la lente

L’indagine di Italia Longeva riguarda 35 aziende sanitarie distribuite in 18 Regioni, che offrono servizi territoriali a circa 22 milioni di persone. Il trend dell’offerta di cure domiciliari agli anziani si conferma in crescita (+0,2% rispetto al 2016), ma resta ancora un privilegio per pochi: ne gode solo 3,2% degli over65 residenti in Italia, con una forte variabilità a seconda delle aree del Paese, se non all’interno della stessa Regione, per quanto riguarda l’accesso al servizio, le prestazioni erogate rispetto quelle inserite nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le ore dedicate a ciascun assistito, la natura pubblica o privata degli operatori e il costo pro capite dei servizi.

In media, le aziende sanitarie coinvolte nell’indagine garantiscono ai loro anziani l’87% delle 31 prestazioni a più alta valenza clinico-assistenziale previste nei Lea, arrivando, in alcuni casi, ad offrire fino al 100% dei servizi, come avviene a Catania, Chieti e Salerno.

Un chiaro esempio di disomogeneità arriva dai dati sul numero di accessi in un anno (si va da un minimo di 8 ad un massimo di 77) e le ore di assistenza dedicate al singolo anziano (da un minimo di 9 ad un massimo di 75). In tutti i casi, si tratta soprattutto di interventi a carattere infermieristico e, a seguire, fisioterapico e medico. Anche i costi per la presa in carico di un singolo paziente sono variabili: da 543 fino a mille euro.

 

 

Torna su
Consumo di farmaci e spesa in crescita: tutti i numeri del Rapporto Osmed 2017

Consumo di farmaci e spesa in crescita: tutti i numeri del Rapporto Osmed 2017

Aifa aggiorna i dati sull’uso dei medicinali in Italia. La spesa farmaceutica totale segna +1,2% rispetto al 2016 e sfiora i 30 miliardi di euro. Cala la spesa territoriale a carico del Ssn.  Focus sui farmaci innovativi


Cresce la spesa farmaceutica, ma il segno “più” non vale per tutte le sue componenti. Nel complesso, comunque, i consumi sono aumentati del 4,3% tra il 2016 e il 2017 e la spesa totale nazionale ha registrato un incremento dell’1,2%, raggiungendo 29,8 miliardi di euro. È questo uno dei dati principali del Rapporto Osmed 2017 presentato oggi a Roma dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). In 360 pagine, l’ente regolatorio descrive l’evoluzione dei consumi di medicinali nel nostro Paese, dalla variabilità regionale alla spesa per i farmaci innovativi, dai generici alla crescita dei biosimilari.

Trend di spesa

Nel 2017 in media, per ogni cittadino italiano, la spesa per farmaci è stata di circa 492 euro. La spesa farmaceutica territoriale complessiva è stata pari a 21.715 milioni di euro, in calo rispetto all’anno precedente (-1,4%). La spesa pubblica territoriale – che include la spesa per i farmaci erogati in regime di assistenza convenzionata e in distribuzione diretta e per conto di classe A – è stata di 12.909 milioni di euro, cioè il 59,4% della spesa farmaceutica territoriale. Il dato ha registrato, rispetto all’anno precedente, una sensibile riduzione del -6,5%, dovuta principalmente alla diminuzione della spesa per i farmaci in distribuzione diretta e per conto (-13,7%).

La spesa a carico dei cittadini (che include la compartecipazione) per i medicinali di classe A acquistati privatamente e quella per i farmaci di classe C, è stata di 8.806 milioni euro: +7,1% rispetto al 2016.

La spesa per l’acquisto di medicinali da parte delle strutture sanitarie pubbliche (pari al 40% della spesa farmaceutica totale) è stata di 12,1 miliardi di euro (194,6 euro pro capite) e ha fatto registrare nel corso dell’anno un decremento del -0,7% rispetto al 2016.

Consumo di farmaci

Nel 2017 le dosi di medicinali consumate al giorno ogni mille abitanti sono state 1.708,2.  In media, ogni italiano ha assunto al giorno circa 1,7 dosi di farmaco. Il 66,2% delle dosi è stato erogato a carico del Ssn, mentre il restante 33,8% riguarda farmaci pagati dal cittadino (acquisto privato di classe A, classe C con ricetta e automedicazione).

Per quanto riguarda l’assistenza territoriale complessiva, pubblica e privata, sono state dispensate quasi due miliardi di confezioni (+3,2% in un anno). Un trend influenzato principalmente dall’aumento delle confezioni dei farmaci di classe A erogati in distribuzione diretta e per conto (+21,5%), dei farmaci di automedicazione (+10,4%), dei farmaci in classe C con ricetta (+7,8%) e dei farmaci di classe A acquistati privatamente dal cittadino (+2,8%).

Le categorie più prescritte

I farmaci per il sistema cardiovascolare si confermano nel 2017 la categoria più consumata dagli italiani (mentre scendono al secondo posto in termini di spesa), seguiti dai farmaci dell’apparato gastrointestinale e metabolismo, dai farmaci del sangue e organi emopoietici, dai farmaci per il Sistema nervoso centrale e da quelli per l’apparato respiratorio.

I farmaci antineoplastici e immunomodulatori si collocano al primo posto in graduatoria tra le categorie terapeutiche a maggiore impatto di spesa farmaceutica pubblica. Rispetto al 2016 aumentano consumi (+6,7%) e spesa (+12,9%) dei farmaci antineoplastici e immunomodulatori acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche.

Dati per età e genere

Il report analizza nel dettaglio l’uso dei farmaci nella popolazione, anche grazie ai dati del sistema Tessera Sanitaria. La prevalenza d’uso dei farmaci nella popolazione italiana è in media del 66,1% (61,8% negli uomini e 70,2% nelle donne). Con una comprensibile variabilità legata all’età: si passa da circa il 50% nella popolazione fino ai 54 anni, a oltre il 95% nella popolazione anziana con età superiore ai 74 anni. E alcune di genere: nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, nella quale le donne mostrano una prevalenza media d’uso superiore a quella degli uomini, con una differenza di dieci punti percentuali.

Nella popolazione pediatrica si registra una prevalenza d’uso dei medicinali del 49,9%, maggiore nei maschi rispetto alle femmine (50,7% vs 48,9%), con un picco nel primo anno di età: la metà dei bambini riceve almeno una prescrizione nel corso dell’anno.  L’uso di antibiotici è concentrato maggiormente nei primi quattro anni di vita e dopo i 75 anni. Si conferma una maggiore prevalenza d’uso nelle donne di farmaci antineoplastici e immunomodulatori (tra i 35 e i 74 anni), per il Sistema nervoso centrale (a partire dai 35 anni) e per l’apparato muscolo-scheletrico.

Variabilità regionale

La spesa farmaceutica pubblica regionale erogata in regime di assistenza convenzionata è stata pari a 8.116 milioni di euro, a fronte di 580 milioni di ricette emesse e 1,1 miliardi di confezioni di farmaci dispensati.

Per i farmaci in regime di assistenza convenzionata di Classe A-Ssn, la Puglia è la Regione con la quantità massima di consumi (1.088,3 DDD/1.000 abitanti die), seguita dall’Umbria (1.078,2) e dalla Calabria (1.060). La spesa lorda pro capite più alta si registra in Campania (204,09 euro pro capite), seguita da Puglia (203,68) e Abruzzo (201,78).

La Provincia autonoma di Bolzano è quella con livelli di spesa e consumi meno elevati, pari a 123,30 euro pro capite e 720,3 dosi giornaliere ogni mille abitanti. Le Regioni del Nord registrano livelli inferiori di spesa convenzionata rispetto alla media nazionale; Sud e Isole mostrano valori di spesa superiori.

Equivalenti e biosimilari

Il 79,4% delle dosi consumate ogni giorno in regime di assistenza convenzionata è costituito da medicinali a brevetto scaduto, che rappresentano il 59% della spesa convenzionata.

Quattro inibitori di pompa risultano tra i primi 20 principi attivi a brevetto scaduto a maggiore spesa convenzionata. In aumento l’utilizzo dei biosimilari, soprattutto delle epoetine (+65,1% rispetto al 2016) e della somatropina (+101,8%), con effetti positivi sulla spesa.

Registri di monitoraggio e accordi di rimborsabilità condizionata

Il Rapporto Osmed ci aggiorna anche sui Registri dei farmaci sottoposti a monitoraggio: nel 2017 ne risultano 212, di cui 122 attivi, 61 in fase di sviluppo (cartaceo) e 29 chiusi. All’interno dei Registri sono stati raccolti complessivamente i dati relativi a 1,6 milioni di trattamenti e 1,5 milioni di pazienti. Il maggior numero di trattamenti è stato registrato per i farmaci appartenenti alla categoria del sangue e degli organi emopoietici (principalmente i nuovi anticoagulanti orali) e per i farmaci antineoplastici e immunomodulatori.

Farmaci orfani

Al 31 dicembre 2017 risultano commercializzati in Italia 92 farmaci orfani sul totale dei 99 autorizzati dall’Ema negli ultimi 16 anni. La spesa a carico del Ssn per i farmaci orfani è stata nell’anno di circa 1,6 miliardi di euro, corrispondente al 7,2% della spesa complessiva.

Farmaci innovativi

Nel corso del 2017 sono stati riconosciuti innovativi otto farmaci, tre dei quali indicati nel trattamento dell’infezione cronica da virus dell’epatite C.

Nel 2017 la spesa per i farmaci innovativi (sia con innovatività piena che condizionata) è stata pari a 1,6 miliardi di euro, con una riduzione del -38% rispetto al 2016. Considerando i farmaci innovativi (con innovatività piena) con accesso ai fondi ai sensi della Legge di Bilancio 2017 (due da 500 milioni ciascuno), la spesa è stata pari a 900,3 milioni di euro per gli innovativi non oncologici e a 409,2 milioni di euro per gli innovativi oncologici. Considerando, però, i valori al netto dei payback relativi agli accordi di rimborsabilità condizionata, la spesa per gli innovativi non oncologici è stata pari a 143,7 milioni di euro, mentre non risultano ancora versati payback da parte delle aziende farmaceutiche relativamente agli innovativi oncologici.

In sostanza, è stato speso soltanto poco più delle metà di quel miliardo di euro stanziato per i due fondi ad hoc per l’innovazione. “Le risorse avanzate – commenta il direttore generale dell’Aifa, Mario Melazzini –  rimangono all’interno del Ssn, un domani queste risorse potrebbero essere allocate specificatamente sulla farmaceutica, ma è una decisione che spetta alla politica. I fondi sono un contenitore estremamente utile, ma noi dobbiamo essere pronti a garantire una risposta al paziente, anche nell’ipotesi non ci dovessero essere più, mi auguro di no ma nel caso in cui non ci fossero dobbiamo garantire la sostenibilità della spesa”.

Per quanto riguarda i consumi, nel 2017 sono state dispensate 13,4 milioni di dosi giornaliere rispetto ai 12 milioni nel 2016 e 9,2 milioni nel 2015. Le Regioni con la maggior spesa per i farmaci innovativi nel 2017 sono state la Lombardia (285,8 milioni di euro), la Campania (201,8 milioni di euro) e il Lazio (141,3 milioni di euro).

 

Torna su
fda, approvato un farmaco contro il vaiolo

Fda approvato un farmaco contro il vaiolo

Una delle indicazioni di questo medicinale è l'utilizzo in caso di attacco batteriologico. A sviluppare il farmaco è stata l'azienda Siga Technologies insieme all'Autorità di ricerca e sviluppo biomedicale avanzata del governo americano


Approvato un farmaco contro il vaiolo. La Food and drug administration americana ha dato il suo via libera a un medicinale che potrebbe avere un secondo fine. Quello di contrastare ipotetici attacchi bioterroristici. La considerazione di questa “seconda via”, arriva proprio dalla Fda.

Bioterrorismo

Il nome dell’antivirale è tecovirimat. Il vaiolo è stato dichiarato eradicato nel 1980, dopo che l’ultimo caso si è verificato nel 1977. Il medicinale non è stato sperimentato su pazienti umani e sugli animali ha dimostrato una buona efficacia. “Questo nuovo trattamento ci offre una opzione addizionale se mai il vaiolo dovesse essere usato come arma bioterroristica – afferma il direttore dell’Fda Scott Gottlieb -. Questo è il primo prodotto che riceve l’approvazione prioritaria come contromisura per minaccia medica”. Un lavoro questo iniziato quasi vent’anni fa. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001 nel mondo è cresciuto il timore di attentati terroristici anche con armi chimiche e batteriologiche. Gli Stati Uniti, solidi nella loro tradizionale esigenza di assicurare la “sicurezza nazionale”, si sono mossi per tempo.

L’iter

Il farmaco è stato designato per la procedura accelerata e quella di farmaco orfano. Il medicinale è stato sviluppato da Siga Technologies, ma a partecipare alle sperimentazioni c’è stato anche l’Autorità di ricerca e sviluppo biomedicale avanzata del governo americano (Barda).

 

 

Torna su
L’errore nella prescrizione del farmaco

L’errore nella prescrizione del farmaco

Lo "sbaglio" nel mondo medico porta con sé una serie di considerazioni di carattere tecnico e giuridico. Nell'articolo di presentazione di questa nuova rubrica, si analizzeranno le sfumature terminologiche (e anche giurisprudenziali) del concetto di "errore". *Con il contributo non condizionante di Boehringer Ingelheim


Nell’ambito di una crescente attenzione su una serie di temi, tra loro collegati, che vanno dal diritto alla salute alla sicurezza delle cure, dal miglioramento del sistema-sanità al travagliato regime delle responsabilità professionali, il tema dell’errore nella prescrizione del farmaco in campo medico ha catalizzato una crescente attenzione sia in sede mediatica sia in sede giuridica. Soprattutto giurisprudenziale.
È quindi opportuno un richiamo d’attenzione, a partire dal profilo concettuale.

Le nozioni di errore

Da tempo immemorabile il sapere comune ha elaborato una nozione di errore che è poi stata accolta nel sapere giuridico (in diritto privato, penale, amministrativo).
Per ‘errore’ si intende, anzitutto, una conoscenza falsa: se, alle ore 11, Tizio crede che sia mezzogiorno, questa sua conoscenza costituisce “errore”. Per ‘errore’ si intende, altresì, una condotta con risultato improprio (una condotta che viene posta in essere per un determinato fine, ma, essendo tecnicamente inadeguata per tale fine, non produce alcun risultato o produce un risultato diverso da quello programmato): se Tizio, volendo correggere l’ora indicata dal proprio orologio, ne forza la corona premendola verso la cassa (anziché tirarla verso l’esterno) compie un “errore”. Per meglio sottolineare le due nozioni, è possibile parlare di errore gnoseologico nel primo caso, e di errore tecnico (oppure errore di esecuzione) nel secondo caso.

Ovvio che le due nozioni possono essere collegate e che, nel concreto, l’errore gnoseologico possa essere fattore causale dell’errore tecnico: infatti si consideri che, quando Tizio forza la corona dell’orologio spingendola verso la cassa, l’errore tecnico può dipendere dal credere, erroneamente, che la corona diventi operativa spingendola verso la cassa. Tale rapporto (in cui l’errore gnoseologico è alla fonte dell’errore tecnico) non è, tuttavia, concettualmente necessario: un soggetto, quand’anche conosca benissimo le posizioni operative della corona, può compiere quel gesto sbagliato magari per semplice distrazione (sta pensando ad altro), oppure può compierlo in mera sede di condotta maldestra (e allora, in casi di tal natura, l’errore gestuale non ha radici in un errore gnoseologico).

L’errore in campo medico e nella prescrizione del farmaco

L’errore, in campo medico, si presenta nella tipologia già consolidata nel sapere comune.
Un caso tipico di errore gnoseologico, in campo medico, è l’errore diagnostico: il refertante, in presenza della patologia A, non ravvisa alcuna patologia oppure ravvisa la patologia B. Se, invece, il chirurgo, nel corso di un intervento di ptosi del sopracciglio (lifting), per distrazione o per forza eccessiva applicata allo strumento, lede il nervo sovraorbitario (cagionando ipoestesia tattile nella zona frontale sovrastante, ma questo è profilo ulteriore) si tratta di un errore di esecuzione.

Il nesso tra errore gnoseologico ed errore tecnico

In campo medico viene in particolare evidenza il nesso tra errore gnoseologico ed errore tecnico: infatti una diagnosi errata può determinare una prescrizione errata (così come può determinare una manovra errata). Tuttavia, l’errore di esecuzione (in una estrazione dentaria, in una manovra in assistenza al parto, in una incisione chirurgica, ecc.) può verificarsi anche in assenza di un preesistente o concomitante errore gnoseologico. Nello specifico, l’errore nella prescrizione del farmaco è verosimile che abbia a monte, prevalentemente, un errore di natura gnoseologica: infatti, la prescrizione può essere errata (farmaco inutile o dannoso) in conseguenza a un errore diagnostico; oppure, la prescrizione può essere errata perché si ritiene, erroneamente, che il farmaco alfa sia idoneo a fronteggiare la patologia A.

Per altro verso, neppure può escludersi che, alle radici do un errore gnoseologico (circa l’efficacia di un farmaco), stia a monte un errore tecnico, in quanto, per frettolosità o incapacità, il medico non abbia eseguito correttamente l’anamnesi o abbia omesso investigazioni o ricerche tecnicamente necessarie o quantomeno opportune (sul paziente in concreto, oppure in letteratura).

Errore, negligenza e imperizia nel mondo del diritto

Si noti che, ai fini della disciplina privatistica degli atti giuridici, l’errore è specificamente menzionato in sede normativa; invece, a fini risarcitori, l’errore non è menzionato, e rileva in maniera indiretta attraverso le nozioni di negligenza oppure di imperizia. In concreto: se Tizio ha commesso un errore (come la prescrizione di un farmaco inefficace), e se ciò risulta riconducibile a negligenza o imperizia, in tal caso l’errore è giuridicamente rilevante e sanzionabile (in sede civile e/o penale, è da vedersi).

La negligenza e l’imperizia, sono, da sempre, due elementi fondamentali della “rimproverabilità” e, quindi, della responsabilità): la negligenza è la mancanza di quelle cautele che (nel caso) ogni professionista normalmente serio deve avere a cuore; la imperizia è la mancanza di quelle conoscenze e abilità che (nel caso) devono appartenere alla dotazione di ogni professionista normalmente serio.
Ovviamente, in molti casi si verserà in zona d’ombra, cosicché non sarà facile decidere se una prescrizione errata sia riconducibile, o meno, a negligenza oppure ad imperizia (o, persino, ad entrambe); ma, in caso di controversia, il giudice dovrà pur sempre decidere (e lo farà, verosimilmente, in base alle indicazioni dei periti).

“Approprietezza/inapropriatezza” nella prescrizione del farmaco: una tappa significativa in un travagliato percorso evolutivo

Oggi è sempre più diffusa la nozione di approprietezza. Nella legge Gelli, per esempio, si parla di uso appropriato delle risorse; e nella legge sul consenso informato (art. 2 della legge numero 12 del 16 gennaio 2018) sta scritto che il medico deve avvalersi di mezzi appropriati allo stato del paziente. Di appropriatezza, del resto, si parla ormai da tempo nelle decisioni giurisprudenziali in tema di responsabilità.

Quale il rapporto tra errore e inappropriatezza? Da un lato si potrà continuare a ritenere che l’inappropriatezza sarà da valutare, ai fini risarcitori, attraverso la tradizionale nozione dell’errore. Quindi: se l’inappropriatezza implica un errore (gnoseologico o di esecuzione) e se questo errore è riconducibile a negligenza o imperizia, ne deriverà responsabilità in caso di danno ingiusto. Tuttavia, è verosimile che la nozione di inapproprietezza soppianterà gradualmente la nozione dell’errore, cosicché quest’ultima, soprattutto nel campo della responsabilità medica (tranne una sfera ristretta di casi clamorosi) verrà tendenzialmente emarginata.

In futuro si parlerà di prescrizione inappropriata

Sulla base di considerazioni non superficiali è formulabile la previsione che, d’ora innanzi, si parlerà sempre meno di prescrizione errata, e si parlerà sempre più di prescrizione inappropriata. E c’è da espettarsi che la nozione di “inappropriatezza” verrà modellata (dalla giurisprudenza) in un senso ben più ampio rispetto alla nozione, classica, di “errore” (una prescrizione infatti, potrà essere ritenuta “non errata”, tuttavia di efficacia non ottimale per il caso concreto, e, quindi, “non appropriata”). In definitiva, è possibile che la nozione di inappropriatezza andrà a costituire una tappa ulteriore di quel cammino che, venendo da lontano, è orientato a incrementare i diritti della persona (e a rafforzare, di riflesso, le aspettative risarcitorie): una tappa destinata a costituire un nuovo terreno di sfida, culturale e ideologico e giuridico, nel difficile e dinamico equilibrio tra diritti della persona e tutela delle professioni.

A cura di Giovanna Marzo – Presidente dell’associazione Auxilia Iuris

 

Torna su
Federfarma e consumatori, ecco il nuovo protocollo d’intesa

Federfarma e consumatori, ecco il nuovo protocollo d’intesa

Undici associazioni hanno firmato insieme ai rappresentanti dei farmacisti sulla sostenibilità consumeristica. Il protocollo promuove progetti di collaborazione tra consumatori e farmacie. Attenzione soprattutto su sprechi e trasparenza dei prezzi


Un nuovo protocollo d’intesa tra Federfarma e consumatori. Undici associazioni hanno firmato insieme ai rappresentanti dei farmacisti sulla sostenibilità consumeristica. Il protocollo promuove progetti di collaborazione tra consumatori e farmacie. Punto di partenza sono gli obiettivi di sostenibilità di Federfarma messi a punto nel Manifesto per la sostenibilità consumeristica.

Nuove collaborazioni tra cittadini e professionisti

Il manifesto è stato realizzato nell’ambito di Consumers’ Forum, associazione di cui sono soci i firmatari di questo protocollo. Consumers’ Forum aderisce a ASviS, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Ossia una rete di realtà della società civile che promuove la consapevolezza dell’agenda 2030. Focus soprattutto sull’uso dei farmaci e la riduzione agli sprechi. Senza dimenticare “la lotta alla contraffazione e la tutela dei consumatori negli acquisti on line, la trasparenza dei prezzi e la diffusione dei farmaci generici/equivalenti”, afferma Roberto Tobia, tesoriere di Federfarma. “L’associazione continua a lottare contro gli sprechi legati alla distribuzione diretta. Le Asl, aperte poche ore al giorno, sono scomode da raggiungere. Spesso consegnano quantitativi esagerati di farmaci. Questi finiscono inutilizzati se il paziente deve cambiare o interrompere la terapia. Le cose cambiano con la distribuzione in farmacia. i medicinali possono essere ritirati sotto casa e i consumi sono monitorati”, continua Tobia. “Solo per le confezioni si sprecano otto miliardi l’anno in Italia. Si può fare davvero molto”, commenta Riccardo Quintili, direttore de “Il Salvagente”.

I firmatari

A fianco delle firma di Federfarma troviamo Adiconsum, Adoc, Asso-Consum, Assoutenti, Casa del consumatore, Confconsumatori, Lega consumatori, Movimento consumatori, Movimento difesa del cittadino, Ui.Di.Con., Unione nazionale consumatori.

 

Torna su
È colpa di un gene se i farmaci per la schizofrenia non funzionano

È colpa di un gene se i farmaci per la schizofrenia non funzionano

La scoperta introduce l’uso della genetica nello sviluppo di terapie personalizzate in psichiatria. A scoprirlo un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'Iit-Istituto italiano di tecnologia


Si chiama Dysbindin il gene coinvolto nella risposta agli antipsicotici. Non tutti infatti rispondono allo stesso modo e se i farmaci per la schizofrenia non funzionano, la colpa sembrerebbe essere di una variante genetica associata al gene. A identificarlo un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’Iit-Istituto italiano di tecnologia. La scoperta è stata realizzata grazie allo studio di un campione di pazienti adulti con schizofrenia e di adolescenti ai primi esordi, e dell’analisi di tessuti cerebrali post-mortem.  Potrebbe permettere di definire trattamenti farmacologici personalizzati in campo psichiatrico, con particolare attenzione ai disturbi cognitivi. Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è stato coordinato da Francesco Papaleo, responsabile del laboratorio di Genetics of Cognition dell’Iit a Genova, con il sostegno della Compagnia di San Paolo.

La ricerca di un test predittivo

I farmaci oggi disponibili per le persone affette da schizofrenia e altre patologie psichiatriche riescono a migliorare solo parzialmente le alterazioni cognitive e solo per un certo gruppo di persone. Inoltre, non esistono test biologici che permettono di predire quale sia il trattamento migliore per i diversi individui. I ricercatori hanno lavorato per individuare variazioni genetiche che fossero correlabili sia alla risposta ai farmaci antipsicotici, sia a un comportamento cognitivo deficitario, a sua volta legato alla regolazione della dopamina nel cervello (target di molti farmaci antipsicotici e neurotrasmettitore chiave coinvolto in tali patologie).

Il ruolo di Dysbindin

Il gruppo di ricerca ha analizzato la popolazione di pazienti con schizofrenia. Ha così individuato un sottogruppo di pazienti che presentava una variazione genica in un gene chiamato Dysbindin. Il quale è implicato nella regolazione del meccanismo alla base del sistema dopaminergico del cervello. Una variante altera la funzionalità dei recettori per la dopamina nella corteccia cerebrale, scatenando di conseguenza disturbi cognitivi. I ricercatori hanno poi studiato i meccanismi cerebrali alla base dell’interazione tra gli antipsicotici e queste variazioni genetiche in soggetti sani, pazienti con schizofrenia e modelli murini. E hanno scoperto che i farmaci hanno un’azione efficace nel potenziare i recettori dopaminergici nella corteccia prefrontale. Ovvero nel ripristinare le performance cognitive superiori, solo nei portatori della variante genica di Dysbindin.

Lo studio americano Catie

Il team ha confermato e replicato la scoperta grazie all’accesso alla banca dati del trial clinico americano Catie. Grazie ad esso è stato possibile osservare un grosso campione di soggetti con schizofrenia. Pazienti provenienti da diversi centri clinici, esposti al trattamento con un unico farmaco antipsicotico e seguiti cognitivamente e clinicamente per 18 mesi.  Il lavoro segna un punto di svolta perché introduce l’uso della genetica nello sviluppo di terapie personalizzate in psichiatria. Così come avviene già in altre specialità come  l’oncologia.

 

Torna su
Farmaci in vacanza: il decalogo della Società italiana di farmacologia

Farmaci in vacanza: il decalogo della Società italiana di farmacologia

I consigli dei farmacologi sui medicinali da portare in viaggio (soprattutto se si parte con i bambini) e su come conservarli nei giorni più caldi


Farmaci in vacanza? Meglio seguire i consigli degli esperti. La Società italiana di farmacologia (Sif) ha, infatti, messo a punto un vero e proprio decalogo. “Oltre ai teli da spiaggia, le creme solari e un buon libro – si legge in una nota della Sif – non potranno mancare in valigia anche alcuni farmaci. Per chi già segue terapie croniche, ma anche per la prevenzione. I più accorti, infatti, vorranno essere preparati nel caso si abbia qualche piccolo incidente con la salute proprio in viaggio. E sia che andremo in un posto caldo sia al fresco, al mare o in montagna, dovremo fare molta attenzione a come conserveremo la nostra piccola ‘farmacia’ portatile”.

Farmaci in vacanza: parola agli esperti

I consigli della Società italiana di farmacologia sono articolati in due elenchi. Il primo riguarda suggerimenti relativo all’uso e alla conservazione dei medicinali.

  • Un farmaco va sempre conservato in un luogo fresco ed asciutto, a temperature non superiori ai 24°C;
  • Preferire le formulazioni solide a quelle liquide, in quanto, in generale, meno sensibili alle temperature elevate;
  • Se viaggiamo in auto, i farmaci vanno trasportati nell’abitacolo più fresco. Se viaggiamo in aereo è meglio nel bagaglio a mano: nelle stive degli aerei la temperatura scende anche di molti gradi sotto lo zero;
  • Se sei in terapia con farmaci salvavita, ricordarti di portare con sé la prescrizione medica;
  • Non sostituire mai la confezione originale del farmaco, è questa che rende riconoscibile il farmaco stesso, riporta la data di scadenza e contiene il foglietto illustrativo, utile se si ha qualche problema o se lo deve consultare per te un’altra persona che non ti conosce e non ha preparazione medica;
  • Controllare sempre il foglietto illustrativo del farmaco, alcuni farmaci possono causare reazioni da fotosensibilizzazione, che possono presentarsi come dermatiti, eczemi e altre manifestazioni cutanee;
  • Non conservare i farmaci in ambiente umido: l’umidità può alterare compresse, capsule e cerotti medicati;
  • Conservare in frigorifero gli sciroppi e i colliri e le preparazioni liquide.

Un promemoria

Il secondo elenco è dedicato ai farmaci da non dimenticare a casa.

In generale, i farmaci che potrebbero servire sono:

  • Un antidolorifico/antipiretico come il paracetamolo (da utilizzare anche nei bambini).
  • Un antinfiammatorio come l’ibuprofene.
  • Un farmaco per il trattamento delle cinetosi (mal d’auto, mal di mare, etc.).
  • Un cortisonico per via iniettabile, utile in caso di reazione allergica.
  • Un antibiotico a largo spettro da assumere per via orale, se viaggiamo con bambini anche in formulazione pediatrica.
  • Pomate a base di cortisone e di antistaminici, che possono essere utili nelle punture di insetti, eritemi solari o contatti con meduse (da utilizzare anche nei bambini).
  • Un farmaco per l’iperacidità gastrica o un procinetico.
  • Un antidiarroico e un antiemetico. Se si viaggia con un bambino può essere utile anche una soluzione reidratante orale, che può aiutare il piccolo a recuperare i sali minerali persi con il vomito o la diarrea.
  • Un piccolo kit di pronto soccorso: disinfettante, garze sterili e cerotti.

Infine, un messaggio particolare rivolto a chi viaggia in compagnia di bambini:  “Se viaggiamo con un bambino e andiamo in una zona dove può essere difficile reperire medicinali – sottolinea la Sif – è opportuno prima di partire consultare il pediatra su cosa mettere in valigia, in base alle esigenze del bambino, altrimenti sono sufficienti due o tre farmaci base”.

 

Torna su
Distribuzione di farmaci agli indigenti, accordo tra Banco farmaceutico e Croce rossa

Distribuzione di farmaci agli indigenti, accordo tra Banco farmaceutico e Croce rossa

I firmatari sono stati Francesco Rocca, presidente di Cri e Filippo Ciantia, direttore generale di Bf. Il successo a livello locale del progetto ha fatto sì che venisse sperimentato anche a livello nazionale


Il 24 giugno è stato firmato un accordo sulla distribuzione di farmaci agli indigenti. A sottoscriverlo Banco farmaceutico e Croce rossa. Con l’arrivo dell’estate, ci sono alcune categorie di medicinali più richieste, soprattutto dagli anziani in gravi difficoltà economiche. La collaborazione è stata già sperimentata a livello locale, ma ora il piano è di portarla anche a livello nazionale.

La raccolta e la distribuzione

Molti anziani abbandonano le cure per problemi economici. L’Istat rileva che quasi il 40% di loro ha dovuto rinunciare, almeno una volta, alle cure. La raccolta avverrà attraverso un sistema di donazioni aziendali di prodotti di cui si occuperà Banco farmaceutico. La Cri, poi, li distribuirà su tutto il territorio nazionale. In particolare saranno distribuiti sciroppi, integratori, creme e antisettici. Nel 2017, Banco farmaceutico ha raccolto quasi un milione e mezzo di farmaci, per un valore economico di oltre un milione di euro. Con i medicinali donati – grazie a oltre 14 mila volontari, 3.851 farmacie e 25 aziende farmaceutiche – sono state aiutate oltre 578 mila persone in difficoltà, assistite da 1.722 enti caritativi convenzionati con la Fondazione Banco farmaceutico onlus.

Il progetto locale e nazionale

A firmare l’accordo sono stati Francesco Rocca, presidente della Croce rossa italiana e Filippo Ciantia, direttore generale di Banco farmaceutico. Per i firmatari il problema della povertà è un problema sottovalutato. Ma le condizioni di indigenza sono evidenti e colpiscono un’ampia fetta della popolazione. A livello territoriale il progetto ha funzionato ed è per questo che la partnership si è allargata in tutto lo stivale. Un impulso importante alla lotta alla povertà, hanno ribadito le due associazioni firmatarie.

 

Torna su
Commissione Ue, approvazione di erenumab per la prevenzione dell’emicrania

Commissione Ue, approvazione di erenumab per la prevenzione dell’emicrania

Il 17 maggio 2018 è arrivato l'ok della Fda, quella di Swissmedic, in Svizzera, il 13 luglio 2018 e la registrazione Tga australiana il 3 luglio dello stesso anno. Ulteriori domande di registrazione sono in corso presso altre autorità sanitarie di tutto il mondo

prevenzione dell'emicrania

Novartis ha annunciato l’approvazione di erenumab da parte della Commissione Europea per la prevenzione dell’emicrania negli adulti che sperimentano quattro o più giorni di emicrania al mese. Erenumab è stato approvato nell’Unione Europea, in Svizzera, negli Stati Uniti e in Australia. La decisione è applicabile a tutti i 28 Stati Membri dell’Unione Europea, più Islanda, Norvegia e Liechtenstein. Il 17 maggio 2018 è arrivata quella della Fda e la registrazione Tga australiana il 3 luglio 2018. Infine quella di Swissmedic, in Svizzera, il 13 luglio 2018. Ulteriori domande di registrazione sono in corso presso altre autorità sanitarie di tutto il mondo.

Come funziona il farmaco

Funziona mediante il blocco di un recettore chiamato “recettore del peptide correlato al gene della calcitonina”. Il recettore svolge un ruolo critico nella mediazione del dolore invalidante dell’emicrania. I 2600 pazienti del programma clinico trattati con erenumab hanno registrato riduzioni significative del numero di giorni mensili di emicrania. Ottimo anche il profilo di sicurezza e tollerabilità simile al placebo1-3. Erenumab può essere auto-somministrato, oppure somministrato da un’altra persona ogni quattro settimane.

Lo studio

L’analisi al quindicesimo mese, di uno studio di estensione in aperto di 5 anni sull’emicrania episodica ha dato risultati positivi. Ha dimostrato che tra i pazienti trattati con erenumab 70 mg, 1 su 4 (26%) era completamente libero da episodi di emicrania.
Paul Hudson, ceo di Novartis Pharmaceuticals, ha detto che “erenumab ha
costantemente dimostrato, negli studi clinici, di essere efficace nel prevenire l’emicrania e nel ridurre il peso di questa malattia”.

 

Torna su
La consegna del farmaco a domicilio migliora l'aderenza alla terapia

 

Una terapia efficace passa per l’assunzione dei medicinali come prescritto dal medico. La consegna del farmaco a domicilio aiuta i pazienti a seguire il percorso di cura sollevandoli dallo stress degli spostamenti e garantendo la massima qualità dal ritiro alla consegna. *In collaborazione con Domedica


La consegna del farmaco a domicilio, oltre a essere una comodità, è uno dei servizi in grado di aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia. Assumere con costanza i farmaci prescritti dal medico, monitorare le proprie scorte e recarsi in farmacia per rifornirsi di nuove confezioni possono sembrare all’apparenza incombenze non difficili da portare a termine.

I vantaggi della consegna del farmaco a domicilio

Se si considera però che per tantissime malattie croniche la dispensazione dei farmaci è a carico esclusivo delle farmacie ospedaliere, gli spostamenti che i pazienti, o i loro caregiver, devono affrontare per rifornirsi di farmaci diventano ostacoli significativi, che potrebbero indurre i pazienti a interrompere il trattamento in attesa di rifornirsi. Poter ricevere il farmaco a casa, senza affrontare scomodi spostamenti

  • aiuta a garantire la costanza della terapia;
  • migliora la qualità di vita dei pazienti ;
  • genera risparmi per i pazienti e le loro famiglie, quantificabili non solo in costi per gli spostamenti ma anche in giornate di lavoro non più perse per provvedere al solo rifornimento di farmaci.

 I Patient support program e la consegna proattiva

Per migliorare l’aderenza alla terapia del paziente, i Patient support program sono la soluzione più efficace. I Patient support program non solo garantiscono che il paziente sia supportato in ogni fase del percorso di cura, ma garantiscono pure la corretta e ricorrente consegna del farmaco a domicilio rispondendo alle esigenze non solo dei pazienti, ma anche delle farmacie e dei medici. Per effettuare la consegna domiciliare dei farmaci a dispensazione ospedaliera è infatti fondamentale

  • coinvolgere i farmacisti ospedalieri;
  • garantire che il farmaco sia ritirato e viaggi a temperatura controllata e secondo altissimi standard qualitativi;
  • pianificare i ritiri con la farmacia e le consegne con i pazienti;
  • coordinare eventuali ritardi o differimenti nel ritiro o nella consegna.

Logistica efficiente

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program che prevedono la consegna del farmaco a domicilio, si avvale della partnership di fornitori di eccellenza nel campo del trasporto dei farmaci, che operano sia a livello nazionale che internazionale. In qualsiasi momento Domedica è in grado di

  • controllare la posizione del mezzo di trasporto;
  • controllare la temperatura alla quale viaggia il farmaco;
  • ricevere informazioni sull’esito della consegna.

La consegna del farmaco a domicilio è un altro dei servizi con cui Domedica supporta i medici e i pazienti per ottenere il massimo dell’efficienza dalla terapia, evitando interruzioni legate alla difficoltà al rifornimento e aumentando la qualità di vita dei pazienti, che possono dedicare il tempo e le risorse risparmiate ad attività più piacevoli e di valore per se stessi e per le loro famiglie.

A cura di Domedica

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Per il 2019 è previsto un superamento dei tetti di spesa per circa 2,4 miliardi

Secondo le analisi di Iqvia, le aziende farmaceutiche saranno nuovamente chiamate a ripianare il 50% dell'eccedenza della spesa farmaceutica per acquisti diretti per un totale di 1,2 miliardi di euro


In base ai consumi rilevati da Iqvia, ci sarà un nuovo superamento dei tetti di spesa farmaceutica per acquisti diretti nel 2019. Infatti, secondo i calcoli di Iqvia, si prevede un disavanzo di circa 2,4 miliardi di euro rispetto ai 2,1 miliardi di euro del 2018.

L’esborso per le aziende

Anche quest’anno, insomma, il tetto di spesa per acquisti diretti fissato per il 2019 non sarà sufficiente. E le aziende farmaceutiche saranno nuovamente chiamate a ripianare il 50% dell’eccedenza della spesa farmaceutica per acquisti diretti (payback) per un totale di circa 1,2 miliardi di euro. La restante parte verrà invece ripianata dalle Regioni in base al loro superamento del budget assegnato.

Nuovo sforamento

Per il 2019, il finanziamento totale del fabbisogno sanitario nazionale è stato fissato a 114,4 miliardi di euro, circa un miliardo in più rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda gli acquisti diretti di farmaci (compresi quelli acquistati in distribuzione diretta e per conto), a partire da quest’anno, a seguito dello scorporo della spesa per i gas medicinali, il tetto di spesa è stato ridotto dal 6,89% al 6,69% del totale fabbisogno, pari a 7,6 miliardi di euro. In realtà, si prevede che questa spesa supererà i 10 miliardi di euro (+5,2% rispetto al 2018). Sono esclusi da questo computo i farmaci innovativi e innovativi oncologici che rientrano in due fondi da 500 milioni di euro ciascuno.

Rallenta la spesa del canale ospedaliero

Iqvia prevede che la spesa per acquisti diretti di classe H (farmaci somministrati soltanto in ospedale) rallenterà rispetto agli anni precedenti. Infatti, nel 2019, i nuovi lanci di farmaci non avranno un impatto significativo e, inoltre, il recente ingresso sul mercato di biosimilari e altri generici avrà un impatto positivo sulla riduzione della spesa.

…ma c’è moderata crescita per la fascia A

Anche per gli acquisti diretti di farmaci di classe A si prevede un trend di crescita moderato (+2,4%) passando da 4,0 a 4,1 miliardi di euro. Nel complesso la spesa per acquisti diretti è prevista in aumento del 5,2%. Su questo aumento incide il fatto che alcuni farmaci oncologici perderanno lo status di innovatività durante l’anno.

I fondi per l’innovazione

In base ai dati raccolti finora,Iqvia si attende il superamento del tetto del fondo per i farmaci innovativi non oncologici. Infatti, grazie al progressivo debellamento dell’epatite C, avvenuto grazie ai nuovi farmaci (anti-Hcv), si prevede che il tetto prefissato di 500 milioni non sarà raggiunto. Per quanto riguarda il fondo per i farmaci oncologici innovativi, a differenza dell’anno scorso, non si prevede invece lo sfondamento, anche se la spesa prevista è vicina ai 500 milioni di euro stanziati.

La spesa convenzionata

Riguardo alla spesa convenzionata, esaurito l’effetto delle genericazioni più importanti, le previsioni parlano di una nuova timida crescita (+0,9%). La previsione è che comunque la convenzionata registrerà un avanzo positivo di circa 780 milioni di euro. “Bisogna trovare dei meccanismi che attutiscano questo impatto per consentire all’industria di continuare a investire nell’innovazione. È ora – dichiara Sergio Liberatore, amministratore delegato di Iqvia Italia – di ragionare sul pagamento della terapia in base al beneficio che ne trae il paziente. In breve, bisogna iniziare a misurare il costo dei nuovi farmaci confrontandolo con la riduzione delle spese connesse all’assistenza, la diminuzione del numero dei ricoveri, la prevenzione e il costante miglioramento dello stato di salute”.

 

Torna su
Salute animale, il Cmvp dà il via libera a un antiparassitario per cani

Il comitato per i medicinali per uso veterinario ha dato l'ok all’immissione in commercio di un farmaco a base di sarolaner, moxidectina e pyrantel. Il farmaco, somministrabile sotto forma di compresse masticabili, è destinato principalmente al trattamento delle infestazioni da pulci e zecche


Il comitato per i medicinali per uso veterinario (Cvmp) ha dato il via libera all’immissione in commercio, nel campo della salute animale, di un antiparassitario per cani a base di sarolaner, moxidectina e pyrantel. Il farmaco, delle compresse masticabili prodotte dalla società belga Zoetis, è destinato al trattamento delle infestazioni da pulci e zecche, ai disturbi gastrointestinali, alle infezioni da anchilostoma, oltre che per la prevenzione della dirofilariosi e dell’angiostrongilosi.

Salute animale, come è composto il farmaco

sarolaner è un acaricida e insetticida. Appartiene alla famiglia delle isossazoline, la moxidectina è un lattone macrociclico di seconda generazione della famiglia delle milbemicine, mentre il pyrantel è un agonista del recettore del canale dell’acetilcolina nicotinico. In questa combinazione fissa, il sarolaner è attivo contro le pulci e le zecche, mentre la moxidectina e il pyrantel forniscono un’efficacia antielmintica complementare attraverso distinti meccanismi d’azione.

Cvmp, Altre approvazioni

Oltre a questa approvazione, il Cmvp, durante l’ultimo meeting che si è svolto dal 16 al 18 luglio, ha adottato parere positivo per le applicazioni di variazione di tipo II per aggiungere nuove indicazioni terapeutiche altri tre farmaci (NexGard, Nexgard Spectra e broadline). In più, il Comitato ha adottato parere positivo per una domanda di variazione di tipo II raggruppata per il vaccino Ms-H riguardante i cambiamenti di qualità del prodotto.

 

Torna su
Rapporto Aifa sui vaccini 2018, 3 reazioni gravi ogni 100 mila dosi

Su un totale di circa 18 milioni di dosi somministrate in Italia nel 2018 per tutte le tipologie di vaccino, sono state effettuate 31 segnalazioni ogni 100 mila dosi. Le reazioni sono tutte note e quindi già riportate nelle informazioni sul prodotto dei vaccini autorizzati in Italia


È stato pubblicato il Rapporto Aifa sui vaccini 2018 che sintetizza le attività di sorveglianza post-marketing sui vaccini condotte in Italia nell’anno 2018.
Rispetto ai rapporti precedenti, nel 2019 è stato possibile utilizzare, per il calcolo dei tassi di segnalazione (rapporto tra il numero di segnalazioni e i dati di esposizione), le dosi effettivamente somministrate a livello nazionale, fornite dal Ministero della Salute e dai Dipartimenti della Prevenzione delle Regioni e delle Provincie Autonome. Ciò ha consentito di calcolare i tassi di segnalazione generale e delle reazioni avverse gravi correlabili per dosi somministrate su scala nazionale.

Dosi somministrate e casi avversi

Su un totale di circa 18 milioni di dosi somministrate in Italia nel 2018 per tutte le tipologie di vaccino, sono state effettuate 31 segnalazioni ogni 100 mila dosi. Grosso modo corrispondono a circa 12 segnalazioni ogni 100 mila abitanti. La frequenza delle segnalazioni relative a reazioni avverse gravi correlabili è di 3 eventi ogni 100 mila dosi. Le reazioni sono tutte note e quindi già riportate nelle informazioni sul prodotto dei vaccini autorizzati in Italia. L’andamento crescente del numero delle sospette reazioni avverse è indicativo di una sempre maggiore attenzione alla vaccinovigilanza da parte sia degli operatori sanitari che dei cittadini.

Fonte: Rapporto Aifa vaccini 2018

Chi segnala e le tipologie di eventi avversi

Oltre la metà delle segnalazioni arriva dai medici, seguiti dagli operatori sanitari. Più basse le percentuali dei farmacisti (23%) e dei cittadini (11%). Gli eventi avversi noti sono soprattutto riferibili a febbre (tremila casi) e reazioni locali (meno di duemila) o cutanee. Meno frequenti situazioni di agitazione e ipersensibilità.

La sicurezza dei vaccini

Il totale delle segnalazioni è stato di di 7.267 (12% delle segnalazioni totali, farmaci e vaccini). Il 76% di queste (5.536) si riferisce a sospetti eventi avversi che si sono verificati nel 2018 (inserite e insorte nel 2018), mentre il 20% circa (1.485) a casi che si sono verificati negli anni precedenti. Il 3,4% (246) delle segnalazioni non riporta la data di insorgenza dell’evento. Circa i 2/3 delle segnalazioni 2018 sono di tipo spontaneo (5.231, 71,9%), mentre circa 1/3 proviene da studi di farmacovigilanza attiva promossi dalle Regioni in collaborazione con Aifa (1783, 24,5%). La provenienza delle restanti segnalazioni non è stata definita dal segnalatore. Indipendentemente dal nesso di causalità, la maggior parte delle sospette reazioni avverse è segnalata come non grave (82.4%, 5988). Il 16.5% (1.202) riferisce eventi definiti “gravi” e nell’1,1% dei casi la gravità non è definita.

 

Torna su
Studi clinici a domicilio per garantire una raccolta dei dati puntuale e tempestiva

Gli studi clinici possono essere eseguiti con maggiore efficienza senza che il paziente si rechi fisicamente all’ospedale. A beneficio della puntuale raccolta dei dati e del tempestivo aggiornamento della documentazione dello studio. *In collaborazione con Domedica

Tutti gli studi clinici prevedono una serie di attività che è fondamentale vengano eseguite con puntualità, perché a volte l’intervallo di tempo previsto tra l’una e l’altra è di ore o minuti. Ad esempio:

  • La somministrazione del farmaco (investigation drug);
  • L’osservazione e raccolta dati post somministrazione;
  • L’assessment e raccolta di dati clinici (es. pressione, temperatura, peso, presenza di effetti collaterali);
  • Prelievi di sangue, urine o campioni biologici (che se richiesti vengono centrifugati a domicilio) da inviare al laboratorio dell’ospedale o a un laboratorio centralizzato;
  • Esami strumentali (es. Ecg, spirometria);
  • Raccolta di questionari sulla qualità di vita o questionari patologia-specifici.

 

Queste attività, poiché prevedono il coinvolgimento diretto del paziente, costringono quest’ultimo a recarsi in ospedale in giorni definiti e a spendere anche intere giornate per adempiere a tutte le attività previste dallo studio (sia cliniche che amministrative).

L’impatto su pazienti (pediatrici e anziani, ma anche giovani e adulti) è facilmente immaginabile: l’impegno di essere coinvolti in uno studio clinico si riflette direttamente sulla qualità di vita del paziente (che si trova a rinunciare a intere giornate di scuola o lavoro) e su quella del caregiver (spesso anche più di uno, come avviene in presenza di pazienti pediatrici o pazienti il cui stato generale è compromesso), costretti ad accompagnare il paziente in ospedale quando richiesto dallo studio (con conseguente perdita di giornate di lavoro). Una situazione ulteriormente gravata dalle spese (carburante, pedaggi, parcheggi, ecc…) che i pazienti e i loro caregiver devono necessariamente sostenere e che per alcune fasce sociali diventa difficile da sostenere. È, inoltre, facilmente intuibile che la solidità di tanti studi clinici sia minata dalle variabili generate dalle difficoltà che i pazienti affrontano per raggiungere l’ospedale.

Gli studi clinici a domicilio e l’approccio di Domedica

Da alcuni anni, diverse CROs (Contract research organizations) e aziende farmaceutiche sponsor che gestiscono studi clinici, nazionali e internazionali, hanno deciso di offrire la possibilità che alcune attività di studio siano effettuate a domicilio del paziente, includendo questa possibilità nel protocollo di studio e lasciando a ogni ospedale e al relativo comitato etico la scelta di attivare questa opzione.

In questo caso i pazienti si recano in ospedale solo per attività che coinvolgono direttamente i medici investigatori (es. per la visita di controllo) e riescono a vivere con maggiore tranquillità il coinvolgimento in uno studio clinico perché la maggior parte delle attività previste avvengono nel comfort della propria abitazione.

Da più di 10 anni, Domedica è partner di diverse CROs e aziende farmaceutiche sponsor e, attraverso i propri infermieri di ricerca (clinical research nurses, certificati GCP), è coinvolta nella realizzazione di diversi studi clinici a domicilio con elevata soddisfazione dei pazienti e degli investigatori.

Gli infermieri di ricerca di Domedica ricevono un training accuratissimo sul protocollo di studio ed eseguono tutte le attività previste nel rispetto dello stesso e con l’utilizzo dei materiali e degli strumenti previsti.

A livello centrale, sia il Clin-Care Centre di Domedica che i Programme manager dedicati, garantiscono il corretto flusso d’informazioni tra pazienti, investigation site, gli infermieri di ricerca e la CRO/Sponsor, la corretta esecuzione di tutti i processi e la piena conformità della documentazione prevista. Queste figure di Domedica hanno anche un’ottima conoscenza della lingua inglese, che è l’unica lingua utilizzata negli studi clinici.

Domedica supporta gli studi clinici anche con infermieri di ricerca o data manager che presso l’investigation site (ospedale) si occupano tempestivamente dell’attività di raccolta dati e data entry.

A cura di Domedica

 

Torna su
La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

Una terapia efficace passa per l’assunzione dei medicinali come prescritto dal medico. La consegna del farmaco a domicilio aiuta i pazienti a seguire il percorso di cura sollevandoli dallo stress degli spostamenti e garantendo la massima qualità dal ritiro alla consegna. *In collaborazione con Domedica


La consegna del farmaco a domicilio, oltre a essere una comodità, è uno dei servizi in grado di aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia. Assumere con costanza i farmaci prescritti dal medico, monitorare le proprie scorte e recarsi in farmacia per rifornirsi di nuove confezioni possono sembrare all’apparenza incombenze non difficili da portare a termine.

I vantaggi della consegna del farmaco a domicilio

Se si considera però che per tantissime malattie croniche la dispensazione dei farmaci è a carico esclusivo delle farmacie ospedaliere, gli spostamenti che i pazienti, o i loro caregiver, devono affrontare per rifornirsi di farmaci diventano ostacoli significativi, che potrebbero indurre i pazienti a interrompere il trattamento in attesa di rifornirsi. Poter ricevere il farmaco a casa, senza affrontare scomodi spostamenti

  • aiuta a garantire la costanza della terapia;
  • migliora la qualità di vita dei pazienti ;
  • genera risparmi per i pazienti e le loro famiglie, quantificabili non solo in costi per gli spostamenti ma anche in giornate di lavoro non più perse per provvedere al solo rifornimento di farmaci.

 I Patient support program e la consegna proattiva

Per migliorare l’aderenza alla terapia del paziente, i Patient support program sono la soluzione più efficace. I Patient support program non solo garantiscono che il paziente sia supportato in ogni fase del percorso di cura, ma garantiscono pure la corretta e ricorrente consegna del farmaco a domicilio rispondendo alle esigenze non solo dei pazienti, ma anche delle farmacie e dei medici. Per effettuare la consegna domiciliare dei farmaci a dispensazione ospedaliera è infatti fondamentale

  • coinvolgere i farmacisti ospedalieri;
  • garantire che il farmaco sia ritirato e viaggi a temperatura controllata e secondo altissimi standard qualitativi;
  • pianificare i ritiri con la farmacia e le consegne con i pazienti;
  • coordinare eventuali ritardi o differimenti nel ritiro o nella consegna.

Logistica efficiente

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program che prevedono la consegna del farmaco a domicilio, si avvale della partnership di fornitori di eccellenza nel campo del trasporto dei farmaci, che operano sia a livello nazionale che internazionale. In qualsiasi momento Domedica è in grado di

  • controllare la posizione del mezzo di trasporto;
  • controllare la temperatura alla quale viaggia il farmaco;
  • ricevere informazioni sull’esito della consegna.

La consegna del farmaco a domicilio è un altro dei servizi con cui Domedica supporta i medici e i pazienti per ottenere il massimo dell’efficienza dalla terapia, evitando interruzioni legate alla difficoltà al rifornimento e aumentando la qualità di vita dei pazienti, che possono dedicare il tempo e le risorse risparmiate ad attività più piacevoli e di valore per se stessi e per le loro famiglie.

A cura di Domedica

 

Torna su
Governo, abolizione superticket e investimenti fra le priorità di Speranza

Governo, abolizione superticket e investimenti fra le priorità di Speranza

Nelle prime dichiarazioni pubbliche, il nuovo ministro della Salute pone l’accento su disuguaglianze e universalismo del Servizio sanitario nazionale, ma anche sulla necessità di incrementare le risorse a disposizione della sanità pubblica


“La nostra azione di governo sarà caratterizzata dalla lotta alle disuguaglianze. E il nostro faro sarà l’universalità del sistema sanitario nazionale. La sanità è uno degli aspetti centrali nella vita delle persone. Occorrono nuovi investimenti per migliorarne l’efficacia”. Lo ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, intervenendo alla trasmissione “Circo Massimo” su Radio Capital. “Non importa quanti soldi hai, da dove vieni, il colore della pelle – ha spiegato Speranza – devi comunque avere il diritto universale ad essere curato. Ed altro punto importante è superare le distanze territoriali, le differenze e consentire l’accesso alla qualità sanitaria in tutte le aree del paese”.

Superticket, fondi e assunzioni

In un colloquio con il quotidiano La Stampa, il nuovo ministro della Salute dice di dover “ancora mettere la testa sulla sanità perché la mia nomina è arrivata inaspettata”, ma ricorda che “la priorità qui come altrove è ridurre le disuguaglianze rafforzando il sistema pubblico” e fa riferimento a una proposta di legge presentata oltre un anno alla Camera con altri esponenti di Liberi e Uguali. Fra i punti principali di quella proposta, l’abolizione del superticket di dieci euro sulle ricette per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale; la rideterminazione del finanziamento del Servizio sanitario nazionale, da portare a 118 miliardi per il 2020, e l’allentamento dei vincoli per l’assunzione del personale sanitario.

Verso la manovra

In tema di finanziamento della sanità pubblica, le intenzioni del nuovo ministro andranno valutate presto nel contesto della prossima legge di Bilancio, la prima del Governo Conte-bis. “Io non dico solo basta ai tagli alla sanità. Io chiedo già dalla prossima manovra finanziaria più risorse per la sanità”, dice Speranza a Radio Capital, inaugurando – di fatto – il dibattito sulla manovra, che sa già di autunno.

 

Torna su
Hpv, italiano il primo test al mondo “fai-da-te” venduto in farmacia

Hpv, italiano il primo test al mondo “fai-da-te” venduto in farmacia

Le donne possono eseguirlo a casa per individuare e tipizzare il papilloma virus umano, agente infettivo potenzialmente responsabile del cancro al collo dell'utero. Lo hanno messo a punto due ex ricercatori della Scuola Normale di Pisa


Scovare il Papilloma virus umano (Hpv) non è mai stato così semplice. Oggi infatti le donne possono eseguire direttamente a casa un test fai-da-te, per individuare e tipizzare l’agente infettivo potenzialmente responsabile del cancro al collo dell’utero. Il test è il primo al mondo per la diagnosi dell’Hpv disponibile in farmacia, ed è stato interamente sviluppato in Italia. A metterlo a punto Bruna Marini e Rudy Ippodrino, che dal 2009 al 2015 hanno frequentato il Corso di perfezionamento in biologia molecolare della Scuola Normale di Pisa, fondando poi nell’Area Science Park di Trieste la startup Ulisse BioMeddi Trieste.

Validato clinicamente

Ladymed, questo il nome del test, è stato sviluppato presso la startup e validato clinicamente da istituti quali il Centro di riferimento oncologico di Aviano, l’azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste e il Policlinico universitario Campus Biomedico di Roma. “Grazie a un prelievo non invasivo, che la donna può effettuare direttamente a casa – spiegano dalla Scuola Normale– è possibile rilevare il virus anche senza ulteriori procedure mediche, con un considerevole abbattimento dei costi e dei tempi della diagnostica”.

Genotipizzare il virus

Il test è sensibile e non invasivo, come confermano i due ex allievi. “È il primo al mondo presente direttamente in farmacia per il rilevamento del papilloma” spiegano. “Rispetto ai test molecolari utilizzati negli screening nazionali è anche in grado di genotipizzare il virus, ovvero fornire indicazioni precise sul ceppo presente nell’infezione. Il nostro test si inserisce nel panorama dei test consumer genetics: sono un esempio i già famosi test basati sull’autoprelievo come 23 and me e My heritage”.

La startup Ulisse BioMed

Ippodrino, laureato all’università di Firenze, e Marini, laureata a Trieste – riporta una nota – hanno seguito il corso alla Normale di Pisa con i professori Arturo Falaschi e Mauro Giacca. Subito dopo hanno creato la startup Ulisse BioMed, grazie alla raccolta di 5 milioni di euro mediata da Copernico sim Spa. La startup ha anche vinto grant nazionali e europei, per un valore complessivo progettuale di circa 1,5 milioni di euro.  Ulisse BioMed, oltre allo staff dirigenziale, conta una decina di ricercatori del settore biomedico e farmacologico, e collabora con numerosi istituti scientifici di eccellenza internazionali. L’attività di ricerca punta adesso ad altri tipi di test non invasivi.

Prossime rivoluzioni

“Abbiamo anche altri progetti di ricerca estremamente innovativi e rivoluzionari” concludono i due startupper. “Ad esempio stiamo realizzando i nanointerruttori, in grado di rilevare istantaneamente la presenza di biomarcatori proteici, con lo scopo di utilizzarli su apparecchi simili ai glucometri usati per la misura della glicemia nei pazienti diabetici, per la diagnostica portabile. I nanointerruttori li abbiamo costruiti, funzionano e ora siamo alle porte della loro validazione clinica”.

 

Torna su
Spesa sanitaria nazionale, nel 2018 è cresciuta di 1,6 miliardi di euro

Spesa sanitaria nazionale, nel 2018 è cresciuta di 1,6 miliardi di euro

È quanto emerge dall’ultimo rapporto della Ragioneria dello Stato secondo cui a influire su questo andamento è la spesa farmaceutica ospedaliera. Cresce anche il disavanzo delle regioni che arriva a 1,2 miliardi


È cresciuta di 1,6 miliardi di euro la spesa sanitaria nazionale nel 2018. In totale, l’Italia per i farmaci lo scorso anno ha speso quasi 116 miliardi (115,9 per la precisione), contro i 114,3 del 2017. È quanto emerge dall’ultimo rapporto della Ragioneria dello Stato che monitora tutte le voci di spesa della sanità nazionale.

Spesa sanitaria, quali voci pesano di più 

Secondo il documento, cresce anche il disavanzo delle regioni che fa segnare un -1,2 miliardi sul 2017, mentre in crescita è la spesa sanitaria privata (+ 1,8 miliardi) che ammonta a 32,2 miliardi. A incidere maggiormente su questi risultati è tuttavia il settore della farmaceutica ospedaliera, oltre agli acquisti di beni e servizi. In calo costante invece la spesa per la farmaceutica convenzionata.

Il commento della Ragioneria

“La presenza di due livelli di governo – si legge nel documento diffuso dalla ragioneria  rende necessaria la definizione di un sistema di regole che ne disciplini i rapporti di collaborazione nel rispetto delle specifiche competenze. Ciò al fine di realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica che sia capace di coniugare le istanze dei cittadini in termini di bisogni sanitari ed il rispetto dei vincoli di bilancio programmati in funzione degli obiettivi comunitari discendenti dal Patto di stabilità e crescita.

Come emerge dagli indicatori elaborati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico  e dall’Organizzazione mondiale della sanità, la performance del nostro Ssn si colloca ai primi posti nel contesto europeo e mondiale, per la qualità delle prestazioni, nonché per l’equità e l’universalità di accesso alle cure.

Il miglioramento del livello generale delle condizioni di salute e la salvaguardia dello stato di benessere psicofisico della popolazione costituiscono un risultato importante sotto il profilo del soddisfacimento dei bisogni sanitari. Inoltre, presenta risvolti positivi anche in termini di contenimento della spesa sociale.

Tuttavia, il mantenimento degli standard qualitativi raggiunti rende indispensabile affrontare il tema della sostenibilità dei costi del sistema sanitario pubblico in presenza di livelli di finanziamento condizionati dai vincoli finanziari necessari per il rispetto degli impegni assunti dall’Italia in sede comunitaria. Ciò richiede che si prosegua nell’azione di consolidamento e di rafforzamento delle attività di monitoraggio dei costi e della qualità delle prestazioni erogate nelle diverse articolazioni territoriali del  Ssn, in coerenza con l’azione svolta negli ultimi anni”.

I numeri del reddito da lavoro dipendente

Una voce di spesa particolarmente rilevante in questo settore, riguarda il reddito da lavoro dipendente. Secondo il rapporto, l’ammontare speso in questo comparto è passato nel periodo 2002-2018 da 27.618 a 34.795 milioni di euro. Tale variazione equivale a un incremento medio annuo dell’1,5%. In realtà questo settore ha visto un grosso contenimento negli ultimi anni a causa del lungo blocco della contrattazione. Tuttavia nell’ultimo  anno la spesa è tornata a crescere segnando un +2,4%.

 

Torna su
Aderenza terapeutica: per i medici di famiglia la parola d’ordine è “semplificare”

Aderenza terapeutica: per i medici di famiglia la parola d’ordine è “semplificare”

Un regime farmacologico più snello, formazione degli operatori ed “educazione” degli assistiti, polipillole e telemedicina sono fra le priorità per migliorare l’adesione alle cure secondo i camici bianchi. I risultati di un’indagine Fimmg-Crea Sanità. Sileri: "Investire sul territorio"


Semplificare è la parola d’ordine per migliorare l’aderenza alle terapie secondo i medici di famiglia. Intesa come semplificazione del regime farmacologico e redazione di una schema per la somministrazione dei medicinali. Ma non è l’unica parola chiave: l’educazione terapeutica degli assistiti, la formazione degli operatori, le cosiddette “polipillole” e gli strumenti della telemedicina sono altre armi a disposizione per migliorare l’adesione alle cure. È quanto emerge da una ricerca presentata oggi a Roma da Fimmg (Federazione italiana dei medici di medicina generale) e Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità dell’Università di Tor Vergata) e realizzata con il contributo non condizionato del Gruppo Servier , che in Italia ha avviato la campagna di sensibilizzazione “#ioAderisco”.

All’origine della scarsa aderenza

L’indagine ha coinvolto 823 medici di medicina generale. Secondo il campione, i primi cinque fattori alla base della scollamento tra terapia prescritta e comportamento del paziente sono questi: presenza di disturbi cognitivi/psichiatrici, complessità della terapia, scarsa consapevolezza della malattia, comorbidità, livello culturale del paziente. Quanto, invece, alle ragioni riferite dai pazienti, le più frequenti sono due: il timore di effetti collaterali o la loro effettiva (o presunta) insorgenza. Per i camici bianchi le patologie su cui impatta maggiormente la mancata aderenza sono quelle croniche respiratorie, come l’asma e la Bpco, seguite dall’ipertensione arteriosa.

Migliorare si può

Fra gli strumenti per migliorare l’aderenza, i medici mettono al primo posto il software gestionale ambulatoriale, considerato il “miglior supporto” da circa il 72% del campione. Segue la figura dell’infermiere di studio, la figura professionale che, oltre al medico, può meglio intervenire – secondo gli intervistati – per migliorare l’aderenza terapeutica. Quasi l’80% dei mmg ritiene comunque che una maggiore informazione/formazione dei diversi operatori possa contribuire a un miglioramento dell’aderenza terapeutica. Il 56,6% considera opportuno il ricorso a tecnologie evolute, anche la telemedicina, per monitorare/migliorare l’aderenza alla terapia.

“Dall’indagine – commenta Paolo Misericordia, responsabile centro studi Fimmg – emerge con evidenza che i medici ritengono fondamentale, ai fini del miglioramento dell’aderenza ai trattamenti, l’organizzazione della propria attività. La presenza di personale di studio e infermieristico, e la disponibilità di algoritmi informatici di supporto, costituiscono gli elementi che maggiormente possono incidere nell’incremento dell’aderenza alle terapie proposte. Per questo stesso obiettivo la survey conferma quanto per i medici sia importante l’intervento sulla semplificazione del regime farmacologico, premessa migliore per rendere efficace le attività di educazione terapeutica del paziente”.

Strategie regionali

Dall’indagine emerge anche una marcata disomogeneità tra Regioni per quanto riguarda le strategie di contrasto alla non aderenza . In particolare, gli obiettivi di aderenza fissati a livello regionale o di Azienda sanitaria locale (Asl) sono fortemente disomogenei. “I risultati della ricerca – sottolinea Barbara Polistena, Direttore generale di Crea Sanità – riflettono una soddisfazione non del tutto completa da parte dei medici per le politiche regionali, neppure per quelle dove l’aderenza ha rappresentato un esplicito obiettivo”. L’utilità di questi obiettivi è percepita come positiva soltanto dal 55,3% dei medici. Percentuale che scende al 36,0% tra i medici che appartengono alle Regioni o Asl dove questi obiettivi sono stati implementati.

Federico Spandonaro, presidente del Comitato scientifico di Crea Sanità, pone l’accento sull’aspetto economico: “Tutti gli studi dimostrano che tra lo strato di popolazione a maggiore e quello a minore aderenza esiste un evidente gradiente positivo di costi. La riduzione dei costi totali nella popolazione a maggiore aderenza è risultata del 46% nei pazienti affetti da diabete, del 25% nei pazienti affetti da ipertensione e del 38% nei p: azienti affetti da ipercolesterolemia, compensando ampiamente – spiega l’economista – l’incremento dei costi degli interventi (ad esempio) farmacologici”.

Sileri: “Investire sul territorio”

A commentare i dati della ricerca Fimmg-Crea c’era il nuovo viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri: “Sicuramente c’è il tema del dialogo con i pazienti. Il tempo a disposizione dei medici si riduce sempre più e negli anni i tagli alla sanità hanno aggravato questa situazione. È fondamentale il ruolo dei medici di famiglia, che sono la nostra risorsa e ci aiutano a tenere sotto controllo spesa farmaceutica. Più aderenza significa anche risparmiare risorse, complicanze, comorbilità e mortalità. Ma bisogna pensare anche agli investimenti. Occorre investire sui medici di famiglia, sulla farmacia dei servizi, su un approccio olistico che integri pazienti, ospedale, territorio e associazioni. Con il ministro Speranza lavoreremo a questi obiettivi e sono sicuro che questa squadra sarà la migliore squadra per il Servizio sanitario nazionale”. A margine dell’evento Fimmg-Crea, il viceministro risponde a una domanda dei giornalisti sulla governance farmaceutica nell’azione del nuovo Governo: “Bisogna valutare tutto ciò che è stato fatto in passato. A volte sono stati fatti errori in buona fede o per mancata programmazione. Una volta preso atto dello stato attuale del sistema, si può intervenire sulle falle e chiuderle. Ma è chiaro che saranno necessari più investimenti”. Al quesito “si lavorerà in continuità con l’operato del ministro uscente Giulia Grillo?”, Sileri risponde senza esitazioni: “È inevitabile che sia così ed è giusto che sia così”.

 

Torna su
Biotech in veterinaria, cresce sempre di più l’interesse delle aziende

Biotech in veterinaria, cresce sempre di più l’interesse delle aziende

Costi più bassi del passato e un tasso di fallimento minore rispetto ai trial umani. Ecco alcune considerazioni su un settore che si sta espandendo sempre di più


Il biotech in veterinaria sta crescendo sempre più grazie a una maggiore attenzione delle aziende del settore. Come suggerisce Reuters, l’arrivo di nuovi farmaci biotecnologici sarebbe una manna per un mercato di circa 44 miliardi di dollari al momento dominato da vaccini, antiparassitari e antiinfettivi.

Abbattuti i costi di produzione

Se un tempo i costi di produzione erano molto alti, negli ultimi anni si è assistito a un drastico calo. Secondo Cheryl London della Cummings school of veterinary medicine alla Tufts university in Massachussetts “non avvengono così tanti fallimenti come nella medicina umana. Molti test hanno successo”. Ciò spiegherebbe, secondo London, l’abbassamento dei costi di ricerca e produzione di un medicinale per i pet. Un esempio da questo punto di vista è dato da Zoetis che da tempo sta puntando proprio su questa tipologia di ricerca e che nel 2016 ha lanciato un vero e proprio blockbuster per il prurito canino. Nel giro di pochi anni è diventato un farmaco vendutissimo: nel 2018 ha generato 129 milioni di dollari di vendite che nella prima metà del 2019 sono schizzate del 65%.

L’occhio delle società

Di società attive in questo campo e che si sono mosse negli ultimi anni ce ne sono un po’. Una è Aratana Therapeutics che nel 2015 ha lanciato un anti linfoma canino pur non avendo avuto un riscontro economico rilevante. Un’altra è la startup Adivo che nel marzo 2018 ha lasciato la biotech Morphosys e adesso sta negoziando con la (ormai ex) unità animale di Bayer. Al centro del tavolo una piattaforma di ricerca per uno specifico anticorpo monoclonale.

Il problema dell’accessibilità

Non parliamo delle migliaia e migliaia di dollari che una cura biotecnologica umana, ma certamente i listini dei medicinali per cani e gatti non sono sempre facili da accettare per i padroni. Non esistendo la rimborsabilità statale, le aziende decidono autonomamente il prezzo della cura. Ciò che influenza le fluttuazioni è semplicemente la concorrenza tra privati. Il farmaco di Zoetis, per esempio, in un ospedale dei Connecticut, sempre stando a quanto dice Reuters, spende fino a 104 dollari per un cane del peso di 18 kg. E anche lì, dipende dalla condizione dell’animale e dalla tipologia di patologia, se cronica o acuta.

 

Torna su
Ranitidina, Aifa blocca l’utilizzo di oltre 500 prodotti

Ranitidina, Aifa blocca l’utilizzo di oltre 500 prodotti

Circa 200 lotti sono stati ritirati in via precauzionale perché contenenti il principio attivo prodotto presso l’officina farmaceutica indiana Saraca Laboratories LTD contaminato da un’impurezza, la Ndma, classificata come probabilmente cancerogena. Per gli altri ora vige il divieto di utilizzo


Proprio come era successo con i farmaci contenenti il principio attivo vansartan nel luglio del 2018, lo scorso 20 settembre l’Aifa ha disposto il ritiro in via precauzionale dalle farmacie e dalla catena distributiva di tutti i lotti di medicinali contenenti ranitidina – un inibitore della secrezione acida dello stomaco– prodotta presso l’officina farmaceutica indiana Saraca Laboratories LTD. Il problema sembrerebbe essere lo stesso riscontrato lo scorso anno con i sartani, ovvero la contaminazione con un’impurezza – la N-nitrosodimetilammina (Ndma) – appartenente alla classe delle nitrosammine.

La lista si allunga

In aggiunta l’Ente, ha anche disposto il divieto di utilizzo di tutti i lotti commercializzati in Italia di medicinali contenenti ranitidina prodotta da altre officine farmaceutiche diverse da Saraca Laboratories LTD, in attesa che vengano analizzati. In questi casi infatti le autorità sanitarie operano secondo il principio di precauzione, che prevede di ridurre al minimo i rischi per il paziente, limitando l’esposizione alla sostanza potenzialmente dannosa. In totale, nella lista “nera”, si trovano oltre 500 prodotti (195 sono quelli ritirati) tra cui Zantac, Ranibloc, Raniben, Ranidil, Ulcex, Buscopn antiacido e diverse marche di generici della ranitidina. Farmaci utilizzati nel trattamento dell’ulcera, del reflusso gastroesofageo, del bruciore di stomaco e di altre condizioni associate a ipersecrezione acida.

La molecola incriminata

La Ndma – come riporta l’Aifa – è classificata come sostanza probabilmente cancerogena per l’uomo dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Oms sulla base di studi condotti su animali. È presente in alcuni alimenti e nelle forniture di acqua, ma non ci si attende che possa causare danni quando ingerita in quantità molto basse.

Valutazione in corso

Provvedimenti analoghi sono stati assunti o sono in corso di adozione negli altri Paesi dell’Unione Europea e in diversi paesi extraeuropei. L’Aifa sta lavorando insieme all’Agenzia Europea per i Medicinali (Ema) e alle altre agenzie europee per valutare il grado di contaminazione nei prodotti coinvolti e adottare misure correttive.

 

Torna su
Gimbe avverte: stop ai chek-up periodici, sono costosi e dannosi

Gimbe avverte: stop ai chek-up periodici, sono costosi e dannosi

Basandosi su una ricerca pubblicata su Bmj, la fondazione di Nino Cartabellotta teme i casi di sovradiagnosi e di conseguenza la rincorsa a test inutili che gravano pesantemente sulle casse del servizio sanitario nazionale


I check-up periodici con comuni test di laboratorio (esami del sangue) e strumentali sono estremamente diffusi in tutti i paesi industrializzati e quasi sempre a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Eppure, secondo la Fondazione Gimbe, le evidenze scientifiche suggeriscono che nella popolazione generale i check-up sono lungi dal migliorarne lo stato di salute. Anzi possono addirittura peggiorarlo in conseguenza di fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento, determinando al tempo stesso uno spreco di risorse sia pubbliche che private.

Il lavoro pubblicato su Bmj

Recentemente i ricercatori del Centre for evidence-based medicine di Oxford hanno pubblicato sulla rivista BMJ Evidence-based Medicine il seguente “verdetto” basato sulle migliori evidenze scientifiche: “Non esistono convincenti evidenze per supportare l’utilizzo dei check-up generici nell’ambito delle cure primarie. Non sembrano efficaci nel modificare esiti di salute rilevanti e non esistono evidenze di elevata qualità a supporto della loro costo-efficacia, in particolare se confrontati con le modalità standard di cure primarie”. In altre parole, secondo Gimbe, il “verdetto” conferma l’inefficacia dei check-up e il conseguente spreco di risorse. Il testo ribadisce inoltre che nelle persone sane l’esecuzione periodica di test di laboratorio e strumentali deve essere sempre personalizzata dal medico di famiglia in relazione ad età, sesso, specifici fattori di rischio di malattia, storia personale e familiare.

I “pacchetti” di esami su internet

“Eppure digitando su Google la parola “check-up” – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – la ricerca restituisce innumerevoli siti web che offrono “pacchetti” di test diagnostici proponendoli come insostituibile strumento di prevenzione e diagnosi precoce”. Un rischio, secondo al fondazione di Cartabellotta, nel trasmettere alla popolazione sana un messaggio al tempo stesso anti-scientifico e consumistico. “Questi “pacchetti” – precisa Cartabellotta – vengono proposti soprattutto da chi in sanità genera profitti. Parliamo di centri medici privati, compagnie assicurative e fondi sanitari, con una terminologia più consona a un catalogo commerciale che alla tutela della salute: per uomo e per donna, base, avanzato, plus. Tuttavia, è inaccettabile che alcune Regioni abbiano deliberato la possibilità per le aziende sanitarie di promuovere check-up a pagamento, che peraltro includono screening oncologici già inclusi nei livelli essenziali di assistenza”.

Rischi benefici dei check-up

Il verdetto dei ricercatori di Oxford si basa sull’ultima revisione sistematica Cochrane che ha valutato benefici e rischi dei check-up definiti come “l’esecuzione di test diagnostici per più di una malattia o fattore di rischio in più di un organo o un apparato”. Cartabellotta puntualizza: “sostanzialmente si tratta di un periodico “tagliando” effettuato con l’inverosimile obiettivo di identificare tutte le malattie in tutte le persone tramite esami strumentali non invasivi (elettrocardiogramma, radiografia del torace, ecografia addominale) e test di laboratorio (emocromo, esame delle urine, glicemia, test di funzionalità renale, epatica, tiroidea, profilo lipidico)”.

La revisione Cochrane

La revisione Cochrane include 17 studi clinici randomizzati di cui 15 riportano dati relativi ad oltre 250 mila partecipanti. I risultati dimostrano che i check-up non riducono la mortalità totale né quella per tumori e non hanno un impatto significativo su mortalità cardiovascolare, ictus e infarto fatale e non fatale. Nonostante alcuni limiti metodologici rilevati dagli autori, questi risultati sono coerenti con quelli di altre revisioni. In particolare relative all’ambito delle cure primarie.

Effetto cascata

“Peraltro la revisione Cochrane – continua Cartabellotta – non valuta l’impatto clinico ed economico della sovra-diagnosi. L’utilizzo inappropriato di test diagnostici sempre più sensibili, infatti, porta ad etichettare come malate persone il cui stadio di malattia è troppo precoce, molto lieve e/o non evolutivo. Ciò genera a cascata ulteriori approfondimenti diagnostici e trattamenti non necessari che configurano il fenomeno del sovra-trattamento”.

La Redazione del nostro Sito consiglia i lettori di chiedere maggiori delucidazioni al medico di fiducia 

 

Torna su
Qual è il valore equo di mercato per il contributo del paziente?

 

 

Se il paziente viene percepito come un consulente esterno è corretto valutarne l'operato anche in termini economici? Molti enti europei stanno lavorando per definirne la fattibilità


Sempre più soggetti in Europa si stanno interrogando sul “valore di mercato” che il contributo del paziente può avere per le sue consulenze in ambito della valutazione della ricerca. Ci stanno lavorando in questo periodo diversi gruppi d’interesse. Tra i più attivi Ppfmd (Patient focused medicines development), Efpia (Federazione europea di industrie e associazioni di area farmaceutica), Wecan (rete di pazienti e advocate europei in ambito oncologico) e lo statunitense Nhc (National health council).

In una recente intervista, Nicholas Brooke, Ceo di Pfmd, ha dichiarato che in questo ambito la domanda è attualmente molto superiore all’offerta e sarà necessario che industria e pazienti lavorino insieme per superare le principali barriere al coinvolgimento sistematico dei pazienti nei processi del farma. Iniziando, appunto, dalla definizione dell’equo valore di mercato per quanto messo a disposizione dai pazienti – in termini di competenze e di tempo- e da un’impostazione dei contratti che regolano queste partnership.

Serve metodo

Secondo Brooke, nella creazione di un metodo condiviso e trasparente per governare il coinvolgimento dei pazienti in questi processi è necessario mappare e analizzare tutti i fattori che incidono sulla effettiva possibilità dei pazienti di svolgere queste attività e che possono essere molto diversi a seconda dei Paesi di provenienza. Per esempio in alcuni Paesi il fatto di ricevere un compenso economico può compromettere il diritto a usufruire di agevolazioni sanitarie o sociali.

Modelli di contratto

Al momento Pfmd e la rete europea di pazienti e advocate oncologici Wecan stanno lavorando insieme alla definizione di modelli di contratto che possano essere utilizzati per impostare la collaborazione tra farma e pazienti. L’obiettivo è predisporre dei template che possano essere adattati alle diverse situazioni, ma a partire da una base di principi e criteri emersi dalla consultazione di tutti gli stakeholder portata avanti nei mesi scorsi dalle due organizzazioni. Nella stessa direzione va l’iniziativa di Efpia che sta elaborando delle linee guida per inquadrare la governance del Patient engagement nel farma.

Pazienti come consulenti esterni

Il National health council sta invece mettendo a punto un vero e proprio “calculator”, cioè uno strumento che le aziende possono utilizzare per definire il compenso per i pazienti che coinvolgono come advisor analogamente a quanto già fanno quando ricorrono al contributo di clinici o ricercatori come advisor o consulenti esterni.

La survey sul patient engagement

Abbiamo preparato una survey il cui obiettivo è stimolare una riflessione e quantificare consapevolezza, aspettative e motivazioni nella relazione tra industria e pazienti. Ogni contributo è prezioso e può aiutarci a disegnare nuovi percorsi e a scrivere un nuovo capitolo sul settore bio-farmaceutico italiano. Il questionario richiede soltanto pochi minuti. I dati saranno raccolti in anonimo e utilizzati in maniera aggregata a fini formativi e/o di ricerca sul tema.

Clicca e partecipa alla survey

 

 

 

Torna su
Caso ranitidina: Ema chiede verifiche su tutti i farmaci in commercio

 

 

L'Agenzia europea dei medicinali chiede verifiche precauzionali su tutti i prodotti per escludere la presenza di nitrosammine, le sostanze "probabilmente cancerogene" collegate al ritiro di alcuni lotti. Scaccabarozzi (Farmindustria): "Bene i controlli, la sicurezza è una priorità"


Tutti i farmaci autorizzati al commercio nell’Unione Europea devono essere testati per l’eventuale presenza di nitrosammine, le sostanze “probabilmente cancerogene” alla base del ritiro da parte dell’Aifa dei lotti di farmaci a base di ranitidina e che nel 2018 hanno determinato il ritiro di molti farmaci antipertensivi contenenti valsartan. Lo chiede l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali. La richiesta, precisa l’Ema in un comunicato stampa, è precauzionale e riguarda tutti i farmaci che contengono principi attivi prodotti da sintesi chimica.

Cosa devono fare le aziende

“Se sono trovate nitrosammine in uno di questi farmaci – spiega Ema – i detentori dell’autorizzazione all’immissione al commercio devono informare le autorità rapidamente per poter prendere i provvedimenti regolatori più appropriati”. Le nitrosammine sono classificate come un “probabile cancerogeno”, vale a dire che l’esposizione sopra i livelli di sicurezza può aumentare il rischio di tumore a lungo termine. “Sono presenti in alcuni cibi e nell’acqua potabile – precisal’Ema – e quando sono stati trovati nei farmaci il rischio di sviluppare un tumore è stato giudicato basso”.

Il comunicato dell’Ema riporta una elenco di passi da seguire per le aziende farmaceutiche:

  • Valutare la possibilità che le nitrosammine siano presenti in ogni medicinale entro 6 mesi:
  • Dare priorità alle valutazioni, a partire dai medicinali che hanno maggiori probabilità di essere a rischio di contenere nitrosammine;
  • Tenere conto dei risultati della revisione dei sartani da parte del Chmp;
  • Informare le autorità dell’esito delle valutazioni del rischio;
  • Testare prodotti a rischio di contenimento di nitrosammine;
  • Segnalare immediatamente il rilevamento di nitrosammine alle autorità;
  • Richiedere le modifiche necessarie alle autorizzazioni all’immissione in commercio per affrontare il rischio di nitrosamina
  • Completa tutti i passaggi entro 3 anni, dando la priorità ai prodotti ad alto rischio.

In realtà una nota era già stata inviata dall’Ema alle aziende il 19 settembre. L’agenzia ha anche messo a disposizione un documento con “domande e risposte” sull’argomento. “I titolari delle autorizzazioni all’immissione in commercio – sottolinea Ema – hanno la responsabilità di garantire che ogni lotto del loro prodotto finito sia di qualità soddisfacente, compresi i principi attivi e gli altri ingredienti utilizzati per produrli. Dovrebbero tenere conto delle linee guida pubblicate insieme alla conoscenza dei processi di fabbricazione dei loro prodotti e di tutte le altre prove scientifiche pertinenti”.

Scaccabarozzi (Farmindustria): “Bene l’Ema, sicurezza al primo posto”

“La cosa più importante, anche più dell’efficacia, è la sicurezza dei nostri prodotti”. Questo il commento rilasciato dal presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, all’Adnkronos Salute. “Sono contento che i controlli abbiano funzionato al meglio”, dice Scaccabarozzi riferendosi ai casi ranitidina e sartani, e “ bene fa l’Agenzia europea dei medicinali (Ema) a intensificarli, affinché ci sia l’assoluta certezza che i farmaci sono sicuri”.

“La produzione di farmaci – spiega Scaccabarozzi – è un processo estremamente controllato, molto più di ogni altro settore manifatturiero. I test avvengono prima, durante e dopo la produzione, grazie anche alla farmacovigilanza. Le agenzie regolatorie di tutto il mondo ispezionano con cura tutti i siti produttivi e le produzioni. Sono fiducioso che ogni controllo finirà in un nulla di fatto, essendo di natura estremamente precauzionale. Ma come aziende recepiremo le indicazioni e ci atterremo a tutte le disposizioni dell’Ema. Lancio però – conclude Scaccabarozzi – un appello a tutti: credo sia importante, soprattutto in questo campo, evitare le fake news e invito chiunque voglia informazioni a consultare solo siti istituzionali”.

L’allerta Aifa sulle fake-news

Sul caso del ritiro di alcuni lotti di farmaci a base di ranitidina,  anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) invita a prestare attenzione  alle fake-news circolate in queste ore sui social network: “Si stanno diffondendo – afferma l’Aifa in un comunicato – liste di farmaci che nulla hanno a che vedere con quelli oggetto dei provvedimenti restrittivi disposti nei giorni scorsi che riguardano esclusivamente farmaci contenenti ranitidina. Aifa raccomanda di consultare esclusivamente le informazioni pubblicate sul portale dell’Agenzia”. Gli elenchi dei lotti dei farmaci contenenti ranitidina interessati dal ritiro e di quelli interessati dal divieto di utilizzo sono disponibili online. “Ogni altro elenco difforme da quelli su indicati non è da considerarsi attendibile”, conclude Aifa.

 

 

 

Torna su
Improbabile ora pensare a una class action europea sul caso ranitidina

L'intervento tempestivo dell'Ema e dell'Aifa ha impedito che il rischio potenziale si trasformasse in rischio reale. Difficile pensare che i pazienti europei si muovano per vie legali senza dati effettivi su danni provocati dai farmaci coinvolti dall'indagine


Difficile pensare alle class action sul caso ranitidina da parte dei pazienti europei. Non ci sono ancora evidenze di rischi effettivi sulla salute dei cittadini dell’Ue, quindi non è detto che portare alla sbarra le aziende sia una strada percorribile. Anzi, a quanto dicono gli addetti ai lavori, la risposta celere di Ema ha scongiurato il verificarsi di eventi avversi pericolosi con il ritiro immediato dei prodotti sospetti. Nessun parallelismo pare con le bagarre giudiziarie sulla crisi degli oppioidi in Usa.

 Il principio di precauzione

Si potrebbe citare il famoso detto “prevenire è meglio che curare”. L’Agenzia europea dei medicinali, attraverso il Comitato dei medicinali a uso umano, ha ragionato così e ancor prima di verificare con mano la pericolosità della nitrosammina, ha preferito bloccare tutto, valutare e poi fare le dovute valutazioni. È valso, in sostanza, il principio di precauzione previsto dall’articolo 191 del Trattato di funzionamento dell’Ue (Tfue). Il suo scopo è garantire un alto livello di protezione dell’ambiente grazie a delle prese di posizione preventive in caso di rischio. Tuttavia, nella pratica, il campo di applicazione del principio è molto più vasto e si estende anche alla politica dei consumatori, alla legislazione europea sugli alimenti, alla salute umana, animale e vegetale.

“È stato applicato in senso molto rigoroso – commenta Vincenzo Salvatore leader del Focus Team Healthcare e Life sciences dello studio legale BonelliErede – per evitare che un rischio potenziale diventi reale. Il risarcimento individuale o collettivo, come nel caso delle class action, si promuove quando il danno c’è. Al momento non è stato rilevato nulla di simile”. Poi conclude “Per fortuna che c’è stata questa azione dell’Ema che è stata tutto fuorché spropositata. È stata corretta, segno che il sistema di farmacovigilanza funziona”.

Sbilanciamento di interessi

Salvatore sottolinea una questione: “Laddove il rischio è potenziale o reale, le istituzioni intervengono per evitare l’esposizione ai soggetti destinatari. Ciò lede un interesse commerciale, tuttavia, a differenza degli Usa, ad esempio, l’Europa anticipa la tutela e sbilancia la propria priorità di intervento a favore dei pazienti”. L’inibizione alla commercializzazione di un prodotto non è arbitraria. Anche un medicinale che, a seguito dei test, dovesse risultare sicuro e impeccabile, dovrebbe comunque vedersi bloccata la vendita. Un colpo non da poco per le aziende che potrebbero subire contrazioni economiche per tutto il tempo necessario alla risoluzione dei controlli. Altrettanto vero è, però, che i farmaci a base ranitidina (per fare un esempio) sono piuttosto datati e che esistono molte altre soluzioni terapeutiche alternative.

 

 

Torna su
Gimbe avverte: stop ai chek-up periodici, sono costosi e dannosi

I check-up periodici con comuni test di laboratorio (esami del sangue) e strumentali sono estremamente diffusi in tutti i paesi industrializzati e quasi sempre a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Eppure, secondo la Fondazione Gimbe, le evidenze scientifiche suggeriscono che nella popolazione generale i check-up sono lungi dal migliorarne lo stato di salute. Anzi possono addirittura peggiorarlo in conseguenza di fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento, determinando al tempo stesso uno spreco di risorse sia pubbliche che private.

Il lavoro pubblicato su Bmj

Recentemente i ricercatori del Centre for evidence-based medicine di Oxford hanno pubblicato sulla rivista BMJ Evidence-based Medicine il seguente “verdetto” basato sulle migliori evidenze scientifiche: “Non esistono convincenti evidenze per supportare l’utilizzo dei check-up generici nell’ambito delle cure primarie. Non sembrano efficaci nel modificare esiti di salute rilevanti e non esistono evidenze di elevata qualità a supporto della loro costo-efficacia, in particolare se confrontati con le modalità standard di cure primarie”. In altre parole, secondo Gimbe, il “verdetto” conferma l’inefficacia dei check-up e il conseguente spreco di risorse. Il testo ribadisce inoltre che nelle persone sane l’esecuzione periodica di test di laboratorio e strumentali deve essere sempre personalizzata dal medico di famiglia in relazione ad età, sesso, specifici fattori di rischio di malattia, storia personale e familiare.

I “pacchetti” di esami su internet

“Eppure digitando su Google la parola “check-up” – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – la ricerca restituisce innumerevoli siti web che offrono “pacchetti” di test diagnostici proponendoli come insostituibile strumento di prevenzione e diagnosi precoce”. Un rischio, secondo al fondazione di Cartabellotta, nel trasmettere alla popolazione sana un messaggio al tempo stesso anti-scientifico e consumistico. “Questi “pacchetti” – precisa Cartabellotta – vengono proposti soprattutto da chi in sanità genera profitti. Parliamo di centri medici privati, compagnie assicurative e fondi sanitari, con una terminologia più consona a un catalogo commerciale che alla tutela della salute: per uomo e per donna, base, avanzato, plus. Tuttavia, è inaccettabile che alcune Regioni abbiano deliberato la possibilità per le aziende sanitarie di promuovere check-up a pagamento, che peraltro includono screening oncologici già inclusi nei livelli essenziali di assistenza”.

Rischi benefici dei check-up

Il verdetto dei ricercatori di Oxford si basa sull’ultima revisione sistematica Cochrane che ha valutato benefici e rischi dei check-up definiti come “l’esecuzione di test diagnostici per più di una malattia o fattore di rischio in più di un organo o un apparato”. Cartabellotta puntualizza: “sostanzialmente si tratta di un periodico “tagliando” effettuato con l’inverosimile obiettivo di identificare tutte le malattie in tutte le persone tramite esami strumentali non invasivi (elettrocardiogramma, radiografia del torace, ecografia addominale) e test di laboratorio (emocromo, esame delle urine, glicemia, test di funzionalità renale, epatica, tiroidea, profilo lipidico)”.

La revisione Cochrane

La revisione Cochrane include 17 studi clinici randomizzati di cui 15 riportano dati relativi ad oltre 250 mila partecipanti. I risultati dimostrano che i check-up non riducono la mortalità totale né quella per tumori e non hanno un impatto significativo su mortalità cardiovascolare, ictus e infarto fatale e non fatale. Nonostante alcuni limiti metodologici rilevati dagli autori, questi risultati sono coerenti con quelli di altre revisioni. In particolare relative all’ambito delle cure primarie.

Effetto cascata

“Peraltro la revisione Cochrane – continua Cartabellotta – non valuta l’impatto clinico ed economico della sovra-diagnosi. L’utilizzo inappropriato di test diagnostici sempre più sensibili, infatti, porta ad etichettare come malate persone il cui stadio di malattia è troppo precoce, molto lieve e/o non evolutivo. Ciò genera a cascata ulteriori approfondimenti diagnostici e trattamenti non necessari che configurano il fenomeno del sovra-trattamento”.

Fonte: 

Torna su
Degenerazione maculare senile, la Fda approva brolucizumab di Novartis

L'ente regolatorio statunitense ha dato il via libera alle iniezioni del farmaco dell'azienda svizzera per il trattamento dell'Amd umida. Questa patologia causa la perdita della vista permanente e irreversibile nei pazienti anziani


La Food and drug administration ha approvato l’utilizzo di iniezioni di brolucizumab per il trattamento della degenerazione maculare senile umida (Amd). Si tratta di una patologia che rappresenta la causa principale di perdita della vista permanente e irreversibile negli anziani. Il farmaco sviluppato da Novartis –  si legge in una nota della società –andrà ad agire su una popolazione di circa 20 milioni di pazienti in tutto il mondo.

La strategia di Novartis

Secondo quanto riporta il sito Reuters.com, il farmaco sarebbe funzionale alle strategie di business europee dell’azienda svizzera, dato che il prodotto di punta venduto fino ad oggi in Europa nel campo della cura degli occhi, Lucentis, si avvicina alla fase di scadenza del brevetto.

“L’approvazione di brolucizumab mantiene l’impegno di Novartis nel reinventare i trattamenti per i pazienti che soffrono di degenerazione maculare senile umida”, ha affermato Marie-France Tschudin, presidente di Novartis Pharmaceuticals. “Le etichette dei prodotti dei trattamenti esistenti non sono efficaci se somministrate ogni 12 settimane. Il nostro farmaco è il primo a offrire un dosaggio meno frequente nel primo anno di terapia, mantenendo la sua efficacia”.

Iniezioni meno frequenti

Peraltro, il vantaggio di brolucizumab sta proprio nel suo utilizzo più raro rispetto ad altri trattamenti simili. Le iniezioni frequenti, infatti, sono tra le principali cause di abbandono della terapia da parte dei pazienti. Tale procedura causa la creazione di vasi sanguigni anomali all’interno dell’occhio che portano a perdita di liquido e al danneggiamento della retina.

Un nuovo modo di trattare la degenerazione maculare senile umida

“Questa approvazione può cambiare il modo in cui affrontiamo il trattamento dell’Amd umida”, ha affermato Pravin U. Dugel, professore del Roski Eye Institute, Keck school of  medicine, dell’Università della Southern California. “Brolucizumab raggiunge i nostri obiettivi nella pratica clinica per il trattamento dell’AMD umida: migliorare la vista e asciugare il fluido retinico. Con questo farmaco, è stata dimostrata una maggiore riduzione dei fluidi attraverso il ridimensionamento dello spessore della retina e una percentuale più elevata di pazienti con retine più asciutte. Insieme alla possibilità di trattare i pazienti con iniezioni trimestrali”.

 

Torna su
Approvazione farmaci veterinari Commissione europea

 

In attesa della conferma della Commissione Ue, il comitato per i farmaci veterinari ha dato il suo parere positivo all'associazione florfenicolo/terbinafina idrocloride/momentasone furoato e l'unguento transdermico mirtazapina


Ci sono due nuovi farmaci veterinari in circolazione. In attesa della conferma della Commissione Ue, il Cvmp (comitato per i farmaci veterinari), ha dato il suo parere positivo all’associazione florfenicolo/terbinafina idrocloride/momentasone furoato e l’unguento transdermico mirtazapina.

Due nuove formulazioni

Il primo farmaco della Bayer animal health è indicato per il trattamento dell’otite esterna canina causata da batteri sensibili al florfenicolo e da funghi sensibili alla terbinafina. Il secondo, prodotto da Aniserve, è una sostanza per il riacquisto del peso nei gatti che presentano inappetenza e perdita di peso a causa di condizioni mediche croniche.

Variazione di indicazione

Il comitato ha disposto anche tre tipologie di variazioni. La prima (tipo II), riguarda fluranaler e il vaccino circovirus suino inattivato e il vaccino mycoplasma hyopneumoniae inattivato. La seconda tipologia, del tipo IB, è per due farmaci a base di meloxicam, dexmedetomidina cloridrato e maropitant.

Antibioticoresistenza

Gli esperti si sono occupati anche di antibioticoresistenza. Infatti il Cvmp ha adottato un reflection paper per promuovere l’autorizzazione a terapie alternative antimicrobiche nell’Ue.

 

Torna su
Manovra, l’addio al superticket da settembre 2020

All’indomani della riunione notturna in cui il Governo ha trovato la quadra sulla prossima legge di Bilancio, il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce i tempi per il superamento del ticket sulle visite specialistiche


Diremo addio al superticket da settembre 2020. All’indomani della riunione notturna in cui il Governo ha trovato la quadra sulla prossima legge di Bilancio, il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce i tempi per il superamento del ticket sulle visite specialistiche: “Sarà definitivamente abolito dal mese di settembre 2020 e avrà un costo di 550 milioni”, ha detto stamani ai microfoni di Circo Massimo su Radio Capital.

L’operazione superticket

L’addio al superticket era già nero su bianco sul comunicato stampa diffuso questa mattina da Palazzo Chigi dopo la riunione del Consiglio dei ministri terminata quasi all’alba: “Si prevede la cancellazione del cosiddetto superticket in sanità, a partire dalla seconda metà del 2020, con un corrispondente incremento delle risorse previste per il sistema sanitario nazionale, destinate comunque ad aumentare nel prossimo triennio”.

L’obiettivo, secondo il ministro di Leu, è ridurre la spesa sanitaria a carico delle famiglie: “Il superticket – ha ricordato Speranza a Circo Masimo – è una tassa di 10 euro che esiste in quasi tutte le regioni e noi ci facciamo carico di abolirla. Un fatto sociale che avrà ripercussioni sulla vita delle persone”. Se il ticket per le visite specialistiche “costa 36 euro, con i 10 euro aggiuntivi si arriva 46, una spesa che diventa una diga all’accesso alle cure per molti e ogni cittadino che non riesce a curarsi per motivi economici è una sconfitta per lo Stato”.

Un’impronta sociale per la manovra

Speranza sottolinea la presenza “di una forte matrice sociale” nella manovra, che dovrebbe “cercare di dare risposta ai ceti sociali che in questi anni hanno pagato di più”. Per quanto riguarda la sanità Speranza rivendica almeno tre scelte “molto significative”: la prima è l’abolizione del superticket; la seconda è che “nel fondo sanitario nazionale ci sono 2 miliardi più, a fronte dei 900 milioni e poco più di un miliardo di aumento degli ultimi due anni: si raddoppiano le risorse rispetto a due anni precedenti. Questo significa fondi da investire in liste d’attesa e personale”. Il terzo punto è che “ci sono poi ulteriori due miliardi in più per l’edilizia sanitaria e innovazioni tecnologiche”. Aspettiamo il testo della manovra per saperne di più e la lunga battaglia degli emendamento. Da segnalare, infine, che nel cosiddetto “Decreto fiscale” che viaggia parallelamente alla manovra, è confermato il rinvio al 31 dicembre 2019 del termine per la sottoscrizione del nuovo Patto per la Salute.

 

Torna su
Infusioni a domicilio o in strutture vicine al domicilio del paziente per garantire l’aderenza terapeutica

Infusioni a domicilio o in strutture vicine al domicilio del paziente per garantire l’aderenza terapeutica

Le infusioni a domicilio o presso gli “Infusion Center” garantiscono la completa aderenza al piano terapeutico prescritto dal medico, evitando disagi e costi per raggiungere il centro clinico. *In collaborazione con Domedica

infusioni a domicilio

La somministrazione di terapia in ospedale è un’attività molto impegnativa sia per chi la effettua (il centro) che per chi la riceve (il paziente). Il centro clinico deve essere attrezzato con strumenti e personale in numero adeguato e possedere spazi necessari dove accogliere i pazienti in attesa e quelli che effettuano le somministrazioni. Dal lato del paziente c’è un impegno di tempo enorme (proprio e di almeno un caregiver) per recarsi in ospedale a ricevere la somministrazione con intervalli anche importanti (giornalieri, settimanali o mensili), a cui si aggiungono i costi per raggiungere la struttura (carburante, pedaggi, parcheggi e spesso giornate di lavoro perse per lui e per il caregiver). Altro aspetto non meno importante è l’esposizione a un ambiente potenzialmente infetto come l’ospedale, dove il paziente incontra un certo numero di persone (altri pazienti) e di operatori sanitari che sono, gioco forza, veicolo d’infezioni. La somministrazione delle infusioni a domicilio e negli Infusion Center riduce questo rischio, permettendo ai pazienti di ricevere la terapia in un ambiente sicuro, confortevole e meno esposto agli agenti infettivi.

Tutti i vantaggi delle infusioni a domicilio

La somministrazione di farmaci infusivi in vena a domicilio è tutt’altro che semplice, perché richiede una importante complessità gestionale. Nel dettaglio, vanno gestiti:

  • I rinnovi dei Piani terapeutici;
  • Le relazioni con le farmacie per il ritiro del farmaco;
  • La catena del freddo (dove richiesto) per la consegna a domicilio del farmaco;
  • La somministrazione (con venipuntura, PICC o CVC);
  • La gestione di eventuali pompe infusionali;
  • Le procedure di emergenza per la gestione di eventuali effetti collaterali;
  • Lo smaltimento del materiale utilizzato per le infusioni;
  • Il reporting al centro clinico.

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program, garantisce il disegno accurato di tutti i processi e le procedure (incluse quelle di emergenza ed eventuali risk management plan), con il coinvolgimento di medici esperti nella gestione della patologia oggetto della terapia e delle aziende che commercializzano il farmaco, un forte coordinamento centrale attraverso il proprio patient care center per l’organizzazione di tutte le attività e la conferma degli appuntamenti ai pazienti, il reporting al centro clinico e la gestione delle eventuali segnalazioni di farmacovigilanza.

I Patient support program di Domedica si completano con la condivisione, concordata con i medici esperti coinvolti nel disegno del programma, di informazioni utili a educare i pazienti all’acquisizione di stili di vita corretti, che favoriscono il miglioramento della salute e della qualità di vita.

Infusion Center: un importante valore aggiunto quando ci sono più pazienti in una stessa località

Gli Infusion Center di Domedica giocano un ruolo importante all’interno dei servizi offerti ai pazienti, tanto quanto le infusioni a domicilio, quando ci sono diversi pazienti che abitano nei dintorni di una stessa località lontana dal centro clinico.

I pazienti di quella determinata zona geografica hanno la possibilità di ricevere la terapia raggiungendo una struttura molto più vicina al loro domicilio rispetto all’ospedale. Gli Infusion Center hanno diversi vantaggi:

  • Riducono i tempi di spostamento dei pazienti perché rispetto agli ospedali sono localizzati molto più vicino ai pazienti;
  • Riducono i tempi di attesa in struttura perché i pazienti sono convocati secondo precisi appuntamenti e permangono in struttura solo il tempo strettamente necessario ad effettuare l’infusione.

Gli Infusion Center e le infusioni a domicilio di Domedica  offrono la possibilità ai medici di poter garantire una corretta terapia anche a quei pazienti che vivono più distanti dai centri clinici o che, a causa della propria patologia o condizione sociale, non sarebbero in grado di recarsi regolarmente in ospedale. La speranza è che in futuro sempre più pazienti possano beneficiare di servizi in grado di migliorare la loro qualità di vita e l’efficacia della terapia prescritte dal medico.

 

A cura di Domedica

 

Torna su
Un nuovo farmaco antinfluenzale potrebbe indurre la resistenza nei virus

Una ricerca condotta dai ricercatori dell'Università del Wisconsin-Madison e pubblicata su Nature microbiology, mostra come l’antivirale baloxavir di Roche, potrebbe indurre l’insorgenza di una mutazione farmacoresistente del virus


L’ antivirale monodoseDopo appena un anno dall’approvazione della Fda del nuovo antivirale baloxavir, Roche deve fare i conti con la possibile insorgenza di una mutazione che induce farmaco resistenza nel virus, che sembra essere indotta dal medicinale stesso. Lo ha riportato un lavoro pubblicato su Nature Microbiology condotto dai ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison, secondo cui i comuni ceppi di influenza potrebbero acquisire rapidamente resistenza al farmaco. Motivo per cui suggeriscono di controllare le persone che lo assumono – e in particolare i bambini – per verificarne l’insorgenza.

Il trattamento anti-influenzale baloxavir, consiste nell’assunzione di una compressa monodose che può eliminare i sintomi dell’influenza in pochi giorni. È indicato dallo scorso anno nelle persone dai dodici anni in poi e lo scorso ottobre ha ricevuto l’approvazione anche per i pazienti ad alto rischio di complicanze influenzali. Roche, come riporta la Reuters, starebbe cercando di posizionare baloxavir (nome commerciale Xofluza) come alternativa più conveniente al suo vecchio Tamiflu. Prodotto quest’ultimo che prende due assunzioni al giorno per cinque giorni e si trova ad affrontare la concorrenza di generici più economici. Il prezzo di listino di baloxavir è al momento 150 dollari.

Il caso dei due fratelli

I ricercatori hanno esaminato i campioni influenzali di un bambino di 11 anni, in Giappone, che lo scorso gennaio aveva ricevuto una diagnosi di influenza ed era stato trattato con baloxavir. Sebbene inizialmente fosse migliorato, la febbre in seguito è tornata. Due giorni dopo è stata diagnosticata l’influenza anche alla sorella di tre anni. Il team del Wisconsin, guidato dall’esperto di influenza Yoshihiro Kawaoka, ha sequenziato il Dna dei campioni influenzali dei due fratelli. Gli scienziati hanno così scoperto che il virus della bambina conteneva una singola mutazione resistente al baloxavir. “Questo di dice che il virus ha acquisito la resistenza in seguito al trattamento e si è trasmesso da un fratello all’altro” ha affermato Kawaoka in una nota.

Studi precedenti

Baloxavir è stato autorizzato per la prima volta in Giappone, dove lo sviluppatore Shionogi & Co mantiene i diritti di marketing e detiene il 40% del mercato antivirale. Kawaoka ha riferito inoltre che anche studi precedenti avevano trovato una resistenza ai farmaci. Risultati che lo hanno indotto a studiare il fenomeno in gruppi più grandi di pazienti esposti ai virus H1N1 o H3N2, due comuni ceppi di virus influenzale.

I virus H1N1 e H3N2

Il team ha testato 74 campioni di pazienti infettati dal virus H1N1 prima del trattamento e 22 campioni di pazienti infettati sia prima che dopo il trattamento. Non è stata rintracciata nessuna mutazione nei campioni prima del trattamento, ma il 23% dei pazienti ha presentato mutazioni farmacoresistenti dopo il trattamento. I test sul virus H3N2 invece, condotti su campioni di 40 adulti e 101 bambini hanno rilevato che due bambini possedevano la mutazione. I ricercatori inoltre hanno esaminato 16 campioni di quattro adulti e 12 bambini, prima e dopo il trattamento. Hanno trovato quattro mutazioni nei campioni dei bambini e nessuna in quelli degli adulti.

Trasmissione facile tra vicini

Il team ha quindi sviluppato i virus mutati in laboratorio e ha scoperto che erano facilmente trasmessi da animali infetti ad animali sani. “Sebbene sia improbabile che baloxavir causi una resistenza diffusa, potrebbe essere un problema quando i pazienti infetti si trovano nelle immediate vicinanze” ha affermato Kawaoka. “I pazienti con H1N1 o H3N2 che sviluppano resistenza al trattamento con baloxavir rispondono però ad altri farmaci antivirali” ha concluso.

 

Torna su
Farmaci veterinari: Ema riunisce gli stakeholder sulla strategia 2025

Il 5 e 6 dicembre l’Agenzia europea dei medicinali organizza un workshop per approfondire i contenuti della bozza della "Regulatory science strategy to 2025” sottoposta a consultazione pubblica. Il documento finale è atteso nella prima parte del 2020


Ascoltare gli stakeholderL’Agenzia europea dei medicinali (Ema) chiama a raccolta veterinari, istituzioni accademiche, associazioni di categoria e autorità regolatorie sulla “Regulatory Science Strategy to 2025”, un piano per innovare la regolamentazione dei farmaci (umani e veterinari) nei prossimi cinque anni. Sulla scia di un’iniziativa simile organizzata per i farmaci a uso umano (18-19 novembre 2019), l’agenzia organizza ad Amsterdam un workshop “multi-stakeholder” con i protagonisti della salute animale: l’appuntamento è il 5 e 6 dicembre. L’adozione della nuova strategia è attesa per la prima parte del 2020.

Una bozza della “Regulatory Science Strategy to 2025” è stata sottoposta dall’Ema a consultazione pubblica tra dicembre 2018 e giugno 2019. Circa 150 persone e organizzazioni hanno inviato i loro commenti sulle priorità future. Lo scopo del workshop di dicembre è discutere l’esito della consultazione, riflettere sulla definizione delle priorità e individuare azioni concrete per attuare gli obiettivi e le raccomandazioni chiave. Il workshop sarà trasmesso in streaming e l’hashtag #RegScience2025 animerà la discussione su Twitter.

Quattro obiettivi

La strategia 2025 di Ema è finalizzata alla promozione di un sistema regolatorio più flessibile che favorisca l’innovazione nello sviluppo di nuovi medicinali. Fra gli obiettivi prioritari, rafforzare l’integrazione tra scienza e tecnologia; indirizzare la produzione di evidenze scientifiche e migliorare la qualità delle valutazioni; promuovere un accesso ai farmaci incentrato sul paziente; affrontare le minacce per la salute emergenti e rafforzare la ricerca e l’innovazione in ambito regolatorio.

 

Torna su
Epatite C, quasi 200 mila pazienti trattati con i farmaci innovativi

L’Aifa aggiorna i dati. Nel frattempo, uno studio dell’Iss segnala 280 mila mancate diagnosi, di cui circa 146 mila fra i tossicodipendenti. Dagli esperti un appello per potenziare lo screening nei Serd


Secondo il “bollettino” dell’Agenzia del farmaco, la maggior parte dei trattamenti (69.857) riguarda pazienti che soddisfano il “criterio 1” (Pazienti con cirrosi in classe di Child A o B e/o con HCC con risposta completa a terapie resettive chirurgiche o loco-regionali non candidabili a trapianto epatico nei quali la malattia epatica sia determinante per la prognosi). A seguire il “criterio 8” con 55.187 pazienti  e il “criterio 4” (36.637).Sono quasi 200 mila (199.443 per l’esattezza) i pazienti trattati in Italia con i farmaci innovativi contro l’epatite C. A dirlo è l’ultimo aggiornamento dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sui trattamenti avviati con nuovi farmaci ad azione antivirale diretta di seconda generazione (DAAs) sottoposti a monitoraggio mediante i Registri. Si tratta delle terapie erogate secondo i 12 criteri definiti da Aifa nell’ambito del Piano di eradicazione delle infezioni da Hcv in Italia. I dati sono aggiornati al 2 dicembre.

Lo studio Iss sulle mancate diagnosi

Se i numeri Aifa fotografano la situazione dei pazienti che hanno accesso alle cure innovativi, un recente studio dell’Istituto superiore di sanità (Iss) affronta il problema delle mancate diagnosi. In Italia ci sarebbero circa 280mila pazienti con virus da epatite C ancora da diagnosticare, di cui circa 146mila avrebbero contratto l’infezione attraverso l’uso, anche pregresso, di sostanze stupefacenti, 80mila con il riutilizzo di aghi da tatuaggi o piercing e 30mila attraverso la trasmissione sessuale. Le stime emergono da un lavoro, aggiornato a novembre 2019, presentato dalla ricercatrice dell’Iss, Loreta Kondili, all’ultimo congresso annuale dell’American Association for the Study of Liver Diseases.

Lo studio Iss è stato illustrato oggi al Senato nel corso del convegno “La gestione dell’Hcv in pazienti consumatori di sostanze”, dove sono stati presentati anche i risultati di un progetto – patrocinato da quattro società scientifiche (Simit, Federserd, Sipad e Sitd) e denominato Hand (Hepatitis in addiction network delivery) – che ha previsto la distribuzione di 2.500 test rapidi per la diagnosi in diversi Serd (Servizi per le dipendenze) di sette città italiane. Un’operazione che ha permesso di incrementare del 20% gli screening fra i tossicodipendenti.

“L’Italia ha un compito estremamente importante che le è stato dettato dall’Organizzazione mondiale della sanità: eliminare l’infezione da Hcv entro il 2030 – ha detto il direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), Massimo Andreoni – Per questo dobbiamo lavorare sulle popolazioni a maggior rischio epatite C, cioè su quei soggetti che fanno uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa”. Per il presidente della Sipad (Società italiana patologie da dipendenza), Claudio Leonardi, “i Serd non curano soltanto la dipendenza, ma indirizzano il paziente ad uno screening completo per quanto riguarda l’epatite C”.

Numeri e risorse

Commentando i dati, il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, auspica chiarezza definitiva sui numeri. “L’associazione dei pazienti indica 130-140mila persone che non sanno di avere l’epatite C. Altri studi ne individuano 300mila. Anzitutto, quindi, bisogna capire il numero reale, perché è differente stanziare risorse per il trattamento di 150mila o 300mila pazienti. La prima cosa da fare è affidare uno studio all’Istituto superiore di sanità, affinché ci dia una stima realistica sulla previsione di spesa a cui andiamo incontro”. Spesa che riguarda le cure, la diagnostica, ma – secondo Sileri – dovrebbe sostenere anche la “formazione dei medici e del personale sanitario”.

 

 

Torna su
Povertà sanitaria, 473 mila persone nel 2019 non hanno potuto acquistare farmaci

I meno abbienti spendono per il dentista solo 2,19 euro al mese contro i 31,16 euro del resto della popolazione, mentre oltre 12 milioni di persone hanno limitato la spesa per visite mediche e accertamenti. I dati del settimo rapporto di Banco Farmaceutico


Le difficoltà e i farmaci necessariNel 2019, 473 mila persone povere non hanno potuto acquistare i farmaci di cui avevano bisogno per ragioni economiche. La richiesta di medicinali da parte degli enti assistenziali è cresciuta. In 7 anni (2013-2019) +28%. Nel 2019, si è raggiunto il picco di richieste, pari a 1.040.607 confezioni di medicinali (+4,8% rispetto al 2018). È quanto è emerso dal 7° Rapporto – Donare per curare: povertà sanitaria e donazione farmaci, promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus e BFResearch e realizzato – con il contributo incondizionato di Ibsa – dall’Osservatorio sulla povertà sanitaria presentato il 4 dicembre presso la sede di Confcommercio Milano.

Servono soprattutto farmaci per il sistema nervoso (18,6%), per il tratto alimentare e metabolico (15,2%), per l’apparato muscolo-scheletrico (14,5%) e per l’apparato respiratorio (10,4%). Servono, inoltre, presidi medici e integratori alimentari. Le difficoltà non riguardano solo le persone indigenti: 12.634.000 persone, almeno una volta nel corso dell’anno, hanno limitato – per ragioni economiche – la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo (dentista, mammografia, pap-test ecc…).

I poveri spendono più soldi in farmaci perché fanno meno prevenzione

Ogni persona spende, in media, 816 euro l’anno per curarsi, mentre i meno abbienti solo 128. Tuttavia le famiglie non povere spendono per i farmaci non coperti dal Servizio sanitario nazionale il 42% del proprio budget sanitario, mentre gli altri il 62,5%. Questo, perché possono investire meno in prevenzione.

Difficoltà in aumento con le famiglie con minori

All’interno di questo quadro problematico, le famiglie povere con figli minorenni sperimentano paradossalmente (poiché sarebbe logico attendersi un supplemento di facilitazioni da parte delle istituzioni finalizzate alla tutela della salute) difficoltà aggiuntive. Nel 40,6% dei casi (vs 37,2% delle famiglie povere senza figli), per ragioni economiche, hanno limitato la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo. Le difficoltà sono superiori anche per le famiglie più benestanti con figli (ha limitato la spesa o rinunciato del tutto il 20,7% di esse) rispetto alle famiglie benestanti senza figli (18,3%). Considerando il totale delle famiglie (povere + non povere) ha limitato la spesa o rinunciato del tutto alle cure il 22,9% di quelle con figli, contro il 19,2% di quelle senza.

Le spese del dentista

Particolarmente significativa è la spesa delle famiglie povere per il dentista e per i servizi odontoiatrici. Solo 2,19 euro al mese, contro 31,16 euro del resto della popolazione. Non è un caso che la cattiva condizione del cavo orale sia diventata un indicatore dello stato di povertà. Le famiglie povere, inoltre, possono spendere solamente 0,79 euro al mese per l’acquisto di articoli sanitari (contro 4,42 euro del resto della popolazione), 1,30 euro per le attrezzature terapeutiche (vs. 12,32), 4,61 euro per i servizi medico ospedalieri (vs. 19,10) e 1,31 euro per i servizi paramedici (vs. 9,35 euro).

Aumenta l’out of pocket

Contenere la spesa sanitaria, per le famiglie indigenti, è necessario anche a fronte del fatto che la quota totalmente a carico dei cittadini è passata, tra il 2016 e il 2018 dal 37,3% al 40,3%. Contestualmente, la quota coperta dal Ssn è passata dal 62,7% al 59,7%.

 

 

Torna su
Cosa possono insegnare i pazienti a medici e personale sanitario

Il dibattito si sposta su cosa il paziente possa fare per i medici e non solo il contrario. Del tema se ne è parlato all'European patient forum di Bruxelles e sono emersi casi studio interessanti in cui le università propongono anche dei corsi specifici sul tema


Il convegno in BelgioSi parla tanto di pazienti esperti che devono formarsi per poter essere maggiormente coinvolti nelle decisioni mediche. Ma poco si sa di come, dall’altra parte, medici e professionisti dell’area sanitaria possano a loro volta essere formati dai pazienti. In altre parole, possono i pazienti aggiungere contenuti e conoscenze nel contesto dell’educazione e della formazione continua di medici e professionisti della salute?

Se n’è parlato durante il congresso dello European patient forum (Epf) tenutosi di recente a Bruxelles, con una sessione dedicata proprio a questo tema. Di certo, mettere i pazienti in prima linea nell’educazione dei futuri medici e nella formazione continua dei clinici presuppone un grosso cambiamento culturale ma si tratta di un altro tassello necessario per la costruzione di una vera partnership di cura tra medico e paziente.

Pazienti-educatori

Sin dagli anni ‘60 si iniziò a parlare di pazienti-educatori, ma il potenziale del paziente nella promozione dell’insegnamento era relegato a ruoli passivi, come il racconto delle storie di malattia o le scene simulate da “pazienti-attori”. Nel modello a scala sviluppato da Sherry R. Arnstein per descrivere la partecipazione dei pazienti, si dovrebbe passare sempre più a un ruolo attivo con pazienti che fanno da co-tutor e diventano partner alla pari degli accademici. Ma dove siamo oggi? E come si può progredire per raggiungere una situazione in cui i medici possano beneficiare dei pazienti durante la loro formazione? Stijntje Dijk, studentessa di medicina dell’Erasmus University di Rotterdam intervenuta al congresso Efp nota che oggi nelle facoltà mediche i pazienti sono visti come semplici soggetti. Ma gli studenti desidererebbero un loro coinvolgimento più serio se è vero che, come affermava il grande patologo Rudolf Virchow, “non puoi diventare un medico senza i pazienti”.

Il punto della situazione

Per fare il punto della situazione, la studentessa olandese ha condotto una revisione sistematica, raccogliendo 49 articoli da cui ha estrapolato una serie di informazioni rilevanti. Innanzitutto si è chiesta quali fossero le motivazioni del coinvolgimento. Da una parte i pazienti sono mossi da un forte senso di responsabilità verso la comunità e dalle possibilità di realizzazione e crescita personale. Dall’altra le università mostrano il desiderio di trasformare radicalmente l’educazione facendola diventare più coinvolgente e completa.

Il paziente come insegnante

Dallo studio sono emersi anche i principali ruoli che i pazienti dovrebbero ricoprire nell’educazione medica. Prima di tutto quello dell’insegnante, con competenze che spaziano dalla condivisione delle storie di malattia e dei contenuti volti a incrementare le capacità cliniche degli studenti, all’educazione inter-professionale. Poi quello del valutatore, in grado di dare un feedback agli studenti sulle loro capacità di colloquio medico ed esame obiettivo. Terzo aspetto, quello di sviluppatore di curriculum, che prende decisioni istituzionali sui piani di studio. Infine quello di membro delle commissioni di selezione, con una prospettiva, ça va sans dire, diversa rispetto a quella dei professori standard.

I ruoli integrati

Per raggiungere una situazione in cui questi ruoli riescano a integrarsi in modo naturale nella struttura delle università, un impegno comune è richiesto a tutti gli attori coinvolti. Per esempio, per poter insegnare, i pazienti dovrebbero essere esposti a una formazione più o meno approfondita che rafforzi la loro fiducia e le loro capacità educative e li prepari a eventuali conflitti, garantendo sempre i risultati prefissati dal programma. Gli accademici dovrebbero occuparsi invece di mettere in campo risorse adeguate per creare piattaforme permanenti piuttosto che incontri sporadici. Dovrebbero anche aumentare il riconoscimento del valore di un’educazione centrata sul paziente all’interno delle università. Un compito arduo ma non impossibile.

Gli esempi virtuosi

Esistono già alcuni esempi virtuosi. All’Università di Montreal, in Canada, ben 200 pazienti insegnano nella facoltà di medicina, mentre a Stanford, in Usa, esiste un corso opzionale chiamato “Walk with me”. Quest’ultimo dà l’opportunità agli studenti di entrare in contatto con i pazienti e le loro famiglie sin dai primi anni di corso. E si è provato che quando lo studente lavora con i pazienti sin da subito, l’idea che il paziente, e non la malattia, sia al centro della sua missione rimarrà ben salda nella sua professione.

La survey sul patient engagement

Sul tema del patient engagement abbiamo preparato una survey il cui obiettivo è stimolare una riflessione e quantificare consapevolezza, aspettative e motivazioni nella relazione tra industria e pazienti. Ogni contributo è prezioso e può aiutarci a disegnare nuovi percorsi e a scrivere un nuovo capitolo sul settore biofarmaceutico italiano. Il questionario richiede soltanto pochi minuti. I dati saranno raccolti in anonimo e utilizzati in maniera aggregata a fini formativi e/o di ricerca sul tema.

Clicca e partecipa alla survey

 

Torna su
Se le api muoiono: dimezzata la produzione di miele tra clima anomalo e pesticidi

La Coldiretti a settembre ha avvisato che nel 2019 il calo è stato del 41% a causa delle condizioni di salute sempre più precarie degli sciami. Contestualmente l’Efsa ha richiesto una seconda consultazione agli stakeholder per valutare l’effetto dei diserbanti . Dal numero 3 del magazine Animal Health

se le api muoiono

Se le api scomparissero dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. Se già Albert Einstein aveva avvisato il mondo riguardo l’importanza di questo insetto, allora il problema della sua scomparsa (o drastica riduzione del numero) è un problema antico. Eppure ce ne stiamo accorgendo solo di recente della minaccia che l’inquinamento atmosferico rappresenta per la sua esistenza. L’importanza dell’ape nell’ecosistema naturale e, per quanto riguarda l’uomo, in quello economico è altrettanto noto. L’impollinazione e la produzione di miele sono due delle attività che hanno avvicinato la specie “apis” all’ “homo” in un vincolo di reciproco interesse. Ma come detto la sopravvivenza di intere colonie di api è messa a rischio a causa dei cambiamenti climatici e dell’antropizzazione forzata e incontrollata dell’ambiente. L’utilizzo di diserbanti, ad esempio, è stato messo sotto la lente di ingrandimento degli enti regolatori che in più di un’occasione si sono mossi per regolamentarne i livelli tollerati in agricoltura. In Italia, poi, il tema è particolarmente sentito dato che, secondo la Coldiretti, nel 2019 la produzione di miele si è letteralmente dimezzata rispetto ai dodici mesi precedenti.

L’apicoltura in calo

Coldiretti, a inizio settembre scorso, ha elaborato i dati Istat e ha comunicato che in Italia nel 2019 la raccolta di miele si è dimezzata. Il motivo, secondo l’associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, è dovuto ai cambiamenti climatici (alluvioni, trombe d’aria, temporali improvvisi, ondate di caldo eccessivo). “L’annata 2019 – continua la Coldiretti – sta prospettandosi per l’intera apicoltura nazionale come la più critica e problematica di sempre a causa dell’andamento climatico anomalo”. Il calo della produttività del 41% produrrà, secondo le previsioni, quantità di miele molto al di sotto dei 23 milioni di chili del 2018. L’Ismea, l’istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare, prevede una perdita di oltre 70 milioni di euro solo per i derivati dell’acacia e degli agrumi. Per dare qualche numero sulle dimensioni di questo mercato, esistono più di 50 varietà di miele con un totale di 1,4 milioni di alveari curati da 51.500 apicoltori. Di questi, 33.800 producono per autoconsumo (65%) e il resto per la libera vendita (35%).

L’impatto della riduzione delle api

Secondo i dati citati dall’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale “più del 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle, che garantiscono l’impollinazione, rischia di scomparire. In particolare in Europa il 9,2% delle specie di api europee – si legge sul sito – è attualmente minacciato di estinzione (Unione internazionale per la conservazione della natura, 2015). Senza di esse molte specie di piante si estinguerebbero e gli attuali livelli di produttività potrebbero essere mantenuti solamente ad altissimi costi attraverso l’impollinazione artificiale. Le api domestiche e selvatiche sono responsabili di circa il 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta e garantiscono circa il 35% della produzione globale di cibo”. Il discorso poi verte inevitabilmente sull’impatto che ciò avrebbe sull’uomo. Sempre citando le fonti dell’Istituto “negli ultimi 50 anni la produzione agricola ha avuto un incremento di circa il 30% grazie al contributo diretto degli insetti impollinatori. È stato dimostrato che il 70% delle 115 colture agrarie di rilevanza mondiale beneficiano dell’impollinazione animale (Klein et al., 2007). Inoltre l’incremento del valore monetario annuo mondiale delle produzioni agricole ammonta a circa 260 miliardi di euro (Lautenbach, 2012). In Europa la produzione di circa l’80% delle 264 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori (Efsa, 2009)”.

La produzione di miele in Italia

Secondo gli ultimi dati dell’Anagrafe nazionale zootecnica di giugno 2019, il grosso delle imprese si trovano soprattutto al nord. A trainare è il Veneto con oltre seimila attività (6.757), seguito da Lombardia con 6.588 società e il Piemonte con 6.162. Bene anche la Toscana, l’Emilia Romagna e la provincia autonoma di Bolzano. Per quanto riguarda il numero di apiari (il luogo dove vengono collocate le arnie), in testa c’è il Piemonte (20.781) che stacca di parecchio la seconda in classifica, ossia la Lombardia, ferma a quota 14.889. La situazione rimane sostanzialmente la medesima per il numero di alveari con il primato del Piemonte (209.894).

L’Europa e il resto del mondo

Il Bel Paese è quarto nell’Ue per numero di alveari per la produzione domestica di miele con un totale di 1,5 milioni di arnie. Al primo posto, secondo le cifre fornite dalla Commissione europea lo scorso anno, c’è la Spagna (2,9 milioni), seguita da Romania (1,8 milioni) e dalla Polonia (1,6 milioni). Nel computo totale, l’Ue produce 230 mila tonnellate di miele all’anno con 17,5 milioni alveari a disposizione e 650 mila operatori. Un’autosufficienza del 60% circa. Il restante arriva da realtà extracomunitarie, soprattutto dalla Cina con quasi il 40% del mercato delle esportazioni e dall’Ucraina (20%). Tra l’altro, la tendenza degli ultimi tre anni considerati dall’Eurostat Comext, ha fatto registrare un lieve calo dei prezzi di importazione. Dai 2,52 euro al chilo del 2015 si è arrivati ai 2,17 del 2018 dopo un trend positivo che ha portato dall’1,69 del 2008 ai 2,14 del 2014. Continuità col segno più per il valore medio al chilo per i prodotti esportati. Con lievi oscillazioni, dal 2008 si è passati dai 3,92 euro ai 5,64 del 2018. Nell’ultimo decennio la produzione mondiale è cresciuta di oltre il 20% per un totale degli ultimi anni di 1,86 milioni di tonnellate annue. A guidare il mercato è l’Asia, con la Cina in testa, davanti a Europa e Nord America.

Le due indagini dell’Efsa

Ma non c’è solo la minaccia del clima che cambia. Anche l’utilizzo di prodotti chimici mette alle strette le popolazioni di api. A tal proposito, l’autorità per la sicurezza alimentare dell’Ue a settembre ha aperto una seconda consultazione pubblica (dopo quella di luglio 2019) per commentare il protocollo scientifico che l’ente utilizzerà per raccogliere e valutare i dati sulla mortalità delle api. La necessità di disporre di dati aggiornati sulla mortalità delle api – tenuto conto di una gestione realistica dell’apicoltura e della naturale mortalità di fondo – era stata sottolineata dalla Commissione europea al momento di chiedere all’Efsa di rivedere le linee guida. Il gruppo consultivo di stakeholder che è stato in-dividuato ha già formulato osservazioni sugli orientamenti attuali, pubblicati nel 2013. Anche gli esperti di pesticidi negli Stati membri dell’Ue sono stati consultati sul documento attuale.

L’altra consultazione sui pesticidi

Il tema dei diserbanti è delicato. L’Efsa ha dedicato alla questione una consultazione parallela avviata anch’essa a settembre, seppur, stavolta, sull’impatto sull’uomo. Le parti interessate potevano presentare i commenti fino al 15 novembre su due valutazioni: una esamina gli effetti cronici sul sistema tiroideo e l’altra gli effetti acuti sul sistema nervoso. Attenzione, però. Perché nei documenti ufficiali europei si parla di concentrazioni di sostanze possibilmente tossiche, quindi non si fa riferimento diretto all’uso in quanto tale, quanto all’abuso e ai livelli di sostanze potenzialmente cancerogene che si vanno ad accumulare. Proprio l’accumulo di queste sostanze è alla base delle valutazioni dell’agenzia per valutare quanto questi influiscano sulla mortalità delle api.

Lo studio dell’Izs delle Venezie

La richiesta all’Efsa della Commissione europea di rivedere le proprie linee guida è di marzo 2019. L’anno prima sul Journal of apicultural research è stato pubblicato uno studio a opera dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie che ha rilevato la presenza, in campioni di api morte, di residui di pesticidi e di alcuni virus delle api. Lo studio è stato effettuato su 94 campioni, provenienti dal Nord-est dell’Italia e raccolti durante la primavera 2014, prendendo in considerazione 150 principi attivi e 3 virus delle api. I ricercatori hanno riscontrato la presenza di almeno un principio attivo nel 72,2% dei campioni (api morte). Gli insetticidi sono i più abbondanti (59,4%), principalmente quelli appartenenti alla classe dei neonicotinoidi (41,8%), seguiti da fungicidi (40,6%) e acaricidi (24,1).

Gli insetticidi più frequentemente rilevati sono rappresentati da imidacloprid, chlorpyrifos, tau-fluvalinate e cyprodinil. Ci sono poi le infezioni virali. La prevalenza spetta al virus della paralisi cronica (Cbpv) e al virus delle ali deformi (Dwv). Il 71% e il 37% dei campioni sono risultati positivi rispettivamente a Cbpv e Dwv. “La presenza di una possibile relazione tra la mortalità primaverile delle api e l’impiego di trattamenti antiparassitari in agricoltura potrebbe contribuire a comprendere meglio fenomeni complessi come la moria delle api e lo spopolamento degli alveari, che negli ultimi dieci anni hanno colpito questo settore”, scrivono sul sito dell’Izs delle Venezie.

Clicca qui per richiedere la rivista

 

Torna su
Tumore al seno: via libera Ue ad atezolizumab in associazione alla chemio

Approvata la combinazione dell’anticorpo monoclonale di Roche con nab-paclitaxel come trattamento di prima linea per pazienti con carcinoma mammario metastatico triplo-negativo, una delle forme più aggressive


Contro il tumore al senoLa combinazione dell’anticorpo monoclonale atezolizumab con il chemioterapico nab-paclitaxel incassa l’approvazione della Commissione europea come trattamento di prima linea contro il tumore al seno triplo negativo positivo al biomarcatore PD-L1, una delle forme più aggressive. Lo annuncia oggi una nota dell’azienda Roche, dopo che nei mesi scorsi era arrivato il parere positivo da parte del Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp) dell’Agenzie europea del farmaco (Ema). Per questo tumore è la prima immunoterapia indicata in prima linea.

L’approvazione europea si basa sui risultati dello studio di fase III IMpassion130. “I risultati per la prima volta hanno dimostrato – spiega Michelino De Laurentiis, direttore del Dipartimento di Oncologia mammaria e toracica dell’Istituto nazionale dei tumori “Pascale” di Napoli – che l’utilizzo di una immunoterapia come atezolizumab, in associazione alla chemioterapia, possa generare un vantaggio terapeutico in termini di controllo della malattia e di sopravvivenza. Questa approvazione è passo in più verso la disponibilità del trattamento anche in Italia. La speranza è che l’ulteriore iter burocratico per rendere disponibile il farmaco in tutti gli ospedali italiani si concluda nel giro di pochi mesi, visto l’elevato numero di pazienti che soffrono di questa forma avanzata e aggressiva di malattia”. I dati relativi alla sopravvivenza libera da progressione (PFS) hanno dimostrato – spiega la nota di Roche –  un beneficio statisticamente significativo per atezolizumab in associazione alla chemioterapia nab-paclitaxel, e sottolineano come tale combinazione abbia ridotto significativamente il rischio di peggioramento della malattia o di morte (PFS) del 38% rispetto al solo nab-paclitaxel.  Fondamentale per individuare i pazienti eleggibili al trattamento il test Ventana PD-L1 (SP142), che ha ottenuto il marchio CE ed è ora disponibile nel Vecchio Continente.

Atezolizumab è approvato negli Stati Uniti e nell’Ue, da solo o in associazione a terapie e/o chemioterapie mirate, in varie forme di carcinoma polmonare non a piccole cellule e a piccole cellule, alcuni tipi di carcinoma uroteliale metastatico e nel carcinoma mammario metastatico PD-L1 positivo triplo-negativo. “Negli ultimi 30 anni ci siamo impegnati per trasformare la vita delle persone con cancro al seno e siamo ora lieti di poter consolidare la nostra esperienza annunciando la disponibilità in Europa del primo trattamento immunoterapico per le pazienti affette da carcinoma mammario PD-L1-positivo, metastatico e triplo-negativo. L’approvazione europea del trattamento con atezolizumab, associato a chemioterapia, rappresenta un significativo passo avanti nel trattamento di questa forma aggressiva di cancro al seno, dove il bisogno medico insoddisfatto è ancora molto importante”, commenta Sandra Horning, Chief medical officer di Roche e Head of global product development.

 

Torna su
Antibiotici, stretta sull’uso di fluorochinoloni e chinoloni

Dopo che l’Ema ha riesaminato il rischio di reazioni avverse, una nota dell’Aifa segnala ai medici restrizioni e casi da valutare con prudenza.  Farmaci a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico saranno ritirati dal commercio

antibiotici

Arrivano restrizioni all’uso di antibiotici chinolonici e fluorochinolonici. Le annuncia una nota informativa dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), a seguito di una revisione dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema) su potenziali reazioni avverse legate all’uso di questi farmaci. La nota, condivisa con le aziende titolari dell’Aic, riporta una serie di comunicazioni importanti relativi alla sicurezza di farmaci contenenti fluorochinoloni (ciprofloxacina – levofloxacina – moxifloxacina – pefloxacina – prulifloxacina – rufloxacina – norfloxacina – lomefloxacina)  e chinoloni. Per i prodotti a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico è previsto il ritiro dal mercato.

Indicazioni per i medici

“Sono state segnalate – spiega Aifa – con gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici reazioni avverse  invalidanti, di lunga durata e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso.Di conseguenza, sono stati rivalutati i benefici ed i rischi di tutti gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici e le loro indicazioni nei paesi dell’Ue”. Da qui la raccomandazione ai medici affinché non prescrivano questi medicinali:

  • per il trattamento di infezioni non gravi o autolimitanti (quali faringite, tonsillite e bronchite acuta);
  • per la prevenzione della diarrea del viaggiatore o delle infezioni ricorrenti delle vie urinarie inferiori;
  • per infezioni non batteriche, per esempio la prostatite non batterica (cronica);
  • per le infezioni da lievi a moderate (incluse la cistite non complicata, l’esacerbazione acuta della bronchite cronica e della broncopneumopatia cronica ostruttiva – BPCO, la rinosinusite batterica acuta e l’otite media acuta), a meno che altri antibiotici comunemente raccomandati per queste infezioni siano ritenuti inappropriati;
  • ai pazienti che in passato abbiano manifestato reazioni avverse gravi ad un antibiotico chinolonico o fluorochinolonico.

Se la prescrizione non rientra in questi casi, l’Aifa raccomanda comunque particolare prudenza verso anziani, pazienti con compromissione renale, pazienti sottoposti a trapianto d’organo solido ed a quelli trattati contemporaneamente con corticosteroidi. Da evitare l’uso concomitante di corticosteroidi con fluorochinoloni.

Le reazioni avverse

L’Ema ha riesaminato gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici per uso sistemico ed inalatorio per valutare il rischio di reazioni avverse gravi e persistenti invalidanti e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso. Le reazioni avverse gravi a carico del sistema muscoloscheletrico includono tendinite, rottura del tendine, mialgia, debolezza muscolare, artralgia, gonfiore articolare e disturbi della deambulazione.

Gli effetti gravi a carico del sistema nervoso periferico e centrale includono neuropatia periferica, insonnia, depressione, affaticamento e disturbi della memoria, oltre che compromissione della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. Tuttavia, ricorda Aifa, sono stati segnalati soltanto pochi casi di queste reazioni avverse invalidanti e potenzialmente permanenti, ma è verosimile una sotto-segnalazione. Di conseguenza, la decisione di prescrivere chinoloni e fluorochinoloni dev’essere presa dopo un’attenta valutazione dei benefici e dei rischi in ogni singolo caso.

 

 

Torna su
Nutrizione, arriva il manifesto europeo per la formazione dei medici

Nutrizione, arriva il manifesto europeo per la formazione dei medici

nutrizione

La nutrizione è una “grande assente” nei percorsi formativi dei medici europei. A segnalarlo è l’European society for clinical nutrion and metabolism (Espen), che oggi a Nizza ha lanciato il suo “Manifesto per l’implementazione dell’educazione nutrizionale”. Il documento è frutto del lavoro degli esperti del Nutrition education in medical schools (Nems) project, nato in seno alla società scientifica nel 2017.

I tre ambiti della nutrizione

“Durante la formazione medica presso l’Università – recita il manifesto – gli studenti dovrebbero ricevere informazioni obbligatorie sulla nutrizione umana nei suoi tre diversi settori, tra cui nutrizione di base, nutrizione applicata o di sanità pubblica e nutrizione clinica. “Il modo di organizzare questi temi nel curriculum, compresi anche nuovi strumenti di insegnamento, risorse di Internet e e-learning, dipenderà da ciascun centro universitario, prendendo in considerazione i diversi possibili modelli di insegnamento (parallelo, integrato o basato sulla risoluzione di casi) , la disponibilità di insegnanti e la distribuzione di tempo e crediti con il resto delle materie di insegnamento”.

Uno degli obiettivi è promuovere più omogeneità dei percorsi di formazione a livello europeo. Sebbene l’insegnamento della nutrizione sia un elemento essenziale della formazione medica, una ricerca di Espen (2017) ha segnalato che esiste un’estrema variabilità negli standard educativi di questa materia nelle scuole mediche di tutto il mondo. Di conseguenza, ci sono differenze nell’accesso e nella qualità dei trattamenti ricevuti dai pazienti.

Malnutrizione in ospedale

Sovrappeso, obesità e malnutrizione sono sotto la lente degli esperti. In particolare, la malnutrizione nei pazienti ospedalizzati è considerata “malattia nella malattia”.

“La perdita di peso nei pazienti cronici, oncologici, anziani e fragili – spiega Rocco Barazzoni, presidente di Espen – è un problema sottovalutato e sotto diagnosticato. La perdita di peso e massa muscolare porta a un più alto tasso di complicanze, peggiore risposta alle terapie, maggiore mortalità e aumento delle spese sanitarie. Ciò si verifica nonostante l’impatto ben documentato positivo ed economico della terapia nutrizionale sugli effetti collaterali del trattamento e sugli esiti della malattia”.

L’educazione

“L’implementazione della formazione è urgente”, sottolinea Maurizio Muscaritoli, coordinatore dell’iniziativa Nems insieme alla docente spagnola Cristina Cuerda. “L’apprendimento della nutrizione è obbligatorio per i futuri medici. La ricerca di sostegno politico, la creazione di commissioni ad hoc per lo sviluppo di curricula e le modalità di insegnamento – Muscaritoli sono tra i fattori chiave per consentire l’attuazione della formazione nutrizionale nelle università”. Il manifesto è stato sottoscritto da 51 esperti, inclusi i delegati di 13 scuole mediche europee, in rappresentanza di 34 Paesi.

 

Torna su
Emofilia A, ok di Aifa alla rimborsabilità di un nuovo fattore VIII a emivita prolungata

Il medicinale di Bayer, damoctocog alfa pegol,  ha ottenuto il via libera dall’Agenzia italiana del farmaco. È indicato per il trattamento dei pazienti con questa malattia a partire dai 12 anni

Emofilia A, l’ok di Aifa al farmaco di Bayer

Lo studio

I risultati ottenuti

Un trattamento per migliorare la vita dei pazienti

 

Torna su
Cure domiciliari, un processo ancora frammentato e complesso (con ricadute sul paziente)

 

 

Gli impegni siglati nel nuovo "Patto per la salute" hanno riacceso i riflettori sul tema dell'assistenza territoriale. Tuttavia si è trascurato il discorso sulle cure a domicilio con conseguenze su pazienti e caregiver, che si trovano a doversi relazionare con più enti e più operatori. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL

Cure domiciliari

Il 2020 si preannuncia come un anno di grandi cambiamenti per la sanità italiana, cambiamenti che sembrano riguardare in gran parte una maggior valorizzazione del ruolo dell’assistenza territoriale. Le premesse sono incoraggianti, come testimoniano gli impegni siglati nel nuovo “Patto per la salute” o nell’ultima Legge di Bilancio, tra cui l’erogazione di prestazioni diagnostiche di primo livello negli studi di medicina generale, l’implementazione della “farmacia dei servizi”, il ruolo dell’infermiere di famiglia.

L’idea di riavvicinare servizi primari ai cittadini è ottima, non solo per migliorare il servizio offerto ma anche per tentare di ridurre gli accessi non necessari in pronto soccorso e di conseguenza i costi che ricadono sul Servizio sanitario nazionale. Tuttavia, in questi primi impegni è stato tralasciato proprio un aspetto fondamentale dell’assistenza territoriale e che ha un grande peso negli equilibri del Servizio sanitario italiano: quello delle cure domiciliari, la cui erogazione ancora oggi è particolarmente frammentata e complessa.

Cure domiciliari, di cosa parliamo

Quando si parla di cure domiciliari si deve far riferimento all’insieme dei servizi sanitari e socio-sanitari erogati a domicilio: dalle terapie salvavita (ossigenoterapia, ventilazione meccanica, nutrizione artificiale su tutte) fino all’assistenza infermieristica e riabilitativa (l’Adi) e le cure palliative. Un insieme di servizi ad alto valore aggiunto e spesso molto complessi, che nella grande maggioranza dei casi si erogano per uno stesso paziente da diversi operatori, ciascuno responsabile di una parte del piano assistenziale, sulla base dell’aggiudicazione di gare pubbliche o di assegnazioni.

Le conseguenze di questa frammentazione ricadono sul paziente e sui caregiver, che si trovano a doversi interfacciare con più enti e più operatori dentro una logica di singole forniture anziché sul Pai (Piano assistenziale individualizzato) di ogni paziente, che garantirebbe una sensibile riduzione delle riospedalizzazioni o delle riacutizzazioni grazie alla presa in carico del paziente domiciliare da parte di un homecare provider in grado assistere e monitorare in maniera integrata ciascun paziente.

Come ricomporre la frammentazione

La situazione attuale potrebbe essere ricomposta con un percorso di accreditamento degli homecare provider (sul modello Adi di Lombardia e Lazio) affinché le prestazioni sanitarie e sociosanitarie domiciliari non siano più gestite da meri processi amministrativi di acquisti centralizzati spesso finalizzati al risparmio fine a se stesso, ma siano basate sull’effettiva qualità, delle prestazioni e sulla loro appropriatezza.

Ad oggi, per la sanità italiana, l’accreditamento istituzionale è un processo riconosciuto e sicuro, necessario a garantire non solo che gli operatori abbiano tutti i requisiti per poter svolgere le attività richieste dalle normative nazionali e regionali, ma a favorire anche elevati standard di qualità, allineati con la programmazione regionale in materia sanitaria. Tuttavia, se l’accreditamento istituzionale è una procedura ormai standard per le strutture sanitarie, non è ancora implementato per tutto l’ambito delle cure domiciliari.

I vantaggi dell’accreditamento degli homecare provider

Un accreditamento a livello istituzionale degli homecare provider, che già oggi gestiscono in Italia oltre 400 mila pazienti per conto del Ssn e che hanno sviluppato un solido know how (a livello sanitario, tecnologico e logistico) porterebbe a evidenti vantaggi innanzitutto per pazienti e caregiver, che potrebbero scegliere un unico erogatore per tutte le terapie in atto (pensiamo ad esempio ai pazienti particolarmente complessi) semplificando di molto il proprio percorso di cura.

Ma i vantaggi sarebbero notevoli anche per il Ssn, laddove con provider specializzati e accreditati per la gestione dei pazienti domiciliari si assicurerebbe una vera continuità ospedale territorio a supporto del clinico specialista che potrebbe monitorare più efficacemente il paziente fuori dal reparto, oltre che attribuire una maggior responsabilizzazione del proprio percorso di cura al paziente garantendo una maggior aderenza al piano terapeutico.

 

Homepage rubrica “Homecare service provider: la presa in carico del paziente a domicilio”

  A cura di Vivisol

 

 

 

Torna su
Infarto cardiaco, un maxi-finanziamento per identificarlo in anticipo e senza sintomi

Medicina scienza e ricerca

Infarto cardiaco, un maxi-finanziamento per identificarlo in anticipo e senza sintomi
 
 
 
Con 4,7 milioni di euro dalla Fondazione regionale per la ricerca biomedica (Frrb), il progetto “Intestrat-cad” avrà l’obiettivo di trovare marcatori molecolari e/o radiologici per prevedere se una persona svilupperà un infarto o un’altra cardiopatia coronarica nel corso della sua vita
di Redazione Aboutpharma Online6 Febbraio 2020
infarto del miocardio
Partirà con un maxi-finanziamento di 4,7 milioni di euro dalla Fondazione regionale per la ricerca biomedica (Frrb), il progetto di ricerca sul rischio di infarto cardiaco “Intestrat-cad”. Con l’obiettivo di trovare marcatori molecolari e/o radiologici che possano prevedere in anticipo, in assenza di sintomi, se una persona svilupperà un infarto coronarico o un’altra cardiopatia  nel corso della sua vita. Per farlo i ricercatori si avvarranno di un approccio combinato tra dati di imaging cardiovascolare (Tac coronarica) e una serie di parametri che provengono dalle scienze cosiddette “omiche” (genomica, epigenomica, trascrittomica). Lo studio coinvolgerà cinque centri, dal Centro Cardiologico Monzino, come coordinatore, all’Istituto Clinico Humanitas, l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), l’Università di Pavia e il Policlinico San Matteo di Pavia.
 
I pazienti a rischio
Lo studio, in particolare, punta a ricercare nel sangue di persone senza precedente infarto coronarico o rivascolarizzazioni coronariche – ma nelle quali la Tac abbia evidenziato una malattia aterosclerotica coronarica iniziale – uno o più biomarcatori da associare al quadro evidenziato dalla Tac. Grazie ai marcatori individuati, sarà possibile identificare questi pazienti “a rischio” con un semplice esame del sangue, e proporre loro programmi di prevenzione mirati. Il progetto si è classificato per primo nel quadro del bando biennale per le scienze omiche applicate a malattie complesse.
 
“Epifania”
“Il finanziamento della Frrb ci permette di potenziare lo studio già avviato al Monzino due anni fa, con il nome Epifania” spiega Elena Tremoli, Direttore Scientifico del Centro Cardiologico Monzino. “L’idea originale della ricerca parte dalla considerazione che non tutte le placche coronariche sono uguali e soprattutto non tutte conducono a un evento cardiovascolare. Dunque ci siamo posti l’obiettivo di classificare il diverso rischio di eventi coronarici dei pazienti con placche iniziali, in base a indicatori prognostici molecolari personalizzati. Conoscendo il rischio effettivo individuale, potremo così decidere chi deve sottoporsi a un programma di prevenzione mirato, e chi no”.
 
C’è placca e placca
I dati preliminari di Epifania hanno dato conferma ai ricercatori che si possono classificare diversi tipi di placca. Le forme di aterosclerosi possono dunque essere diverse dal punto di vista molecolare, e quindi potrebbero esistere parametri specifici per diversi sottotipi di malattia coronarica. “Ora possiamo allargare i nostri orizzonti e le nostre ambizioni e trovare un maggior numero di questi parametri, per definire la predisposizione a infarto coronarico a livello di singolo soggetto” aggiunge Gualtiero Colombo, Responsabile dell’Unità di Genomica Funzionale e Immunologia del Monzino.
 
La Tac coronarica
Con un test non invasivo come la Tac coronarica oggi i ricercatori sono in grado non soltanto di evidenziare e quantificare una stenosi coronarica, ma anche di studiarla in modo più approfondito. Ma non solo, come ricorda Daniele Andreini, responsabile U.O. Radiologia e TAC Cardiovascolare del Monzino, le caratterizzazioni non invasive con la Tac che oggi riescono a fare, sono molto accurate rispetto ai metodi invasivi più avanzati. Permettono di ottenere indicazioni sulla possibile composizione della placca e di valutarne sia la volumetria, sia determinate caratteristiche più raffinate, dalle quali è possibile ricavare una prospettiva del rischio a lungo termine di sviluppare un evento coronarico acuto.
 
Nuovi strumenti
“Molti studi dimostrano che statisticamente un paziente su cinque in cui la Tac evidenzia la presenza di placche aterosclerotiche a uno stadio precoce di sviluppo, nel medio periodo va incontro a un evento cardiologico grave” sottolinea Andreini. “Ma oggi non abbiamo gli strumenti per sapere chi sarà quell’uno che si ammalerà. Il nuovo studio Intestrat-cad ci fornirà questi strumenti, e dunque la concreta possibilità di evitare trattamenti non necessari, concentrandoci su soggetti a rischio certo di malattia”.
 
I vantaggi della partnership
La partnership tra alcune delle migliori eccellenze regionali, inoltre, permetterà ai ricercatori di porsi nuove domande di ricerca e trovare nuove risposte. “Per esempio generare modelli di predizione del rischio grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale di cui sono esperti i colleghi dell’Università di Pavia” conclude Colombo. “O ancora studiare altri aspetti molecolari della malattia, come l’assetto della risposta infiammatoria/immunitaria a livello cellulare – continua – grazie alla collaborazione con Ifom e Humanitas. Infine possiamo anche disporre di casistiche di validazione e confronto, grazie all’apporto dei colleghi del Policlinico San Matteo”.
 
Torna su
Il traffico illegale di cuccioli si combatte anche sul web

 

 

Il traffico illegale di cuccioli si combatte anche sul web

Un business da 300 milioni di euro all’anno immette in Italia esemplari in condizioni sanitarie critiche a un prezzo inferiore anche di venti volte rispetto a quello di esemplari allevati regolarmente nel nostro Paese. Le norme ci sono, ma non bastano. Il Parlamento Ue lavora a una risoluzione. Dal numero 4 di AboutPharma Animal Health

scommettere sulla pet economy

È una guerra che richiederà ancora molto tempo per essere vinta. La lotta contro il traffico illegale di animali da compagnia si conduce da tempo con leggi, provvedimenti e sequestri. Ma quello che deve cambiare è la mentalità di chi acquista cuccioli di provenienza sconosciuta. Il traffico in questi ultimi anni continua in maniera sempre più organizzata. Come mai questo fenomeno? Molti non sono disposti a pagare le cifre richieste dal mercato regolare per un cucciolo di razza, e cercano un animale per altre vie. Trasportati con passaporti falsi, stipati in scatole e borsoni nei bagagliai di auto, furgoni o in treno, i cuccioli commerciati illegalmente affrontano viaggi lunghi in condizioni insostenibili. Provengono spesso da allevamenti irregolari che non rispettano le norme di prevenzione e profilassi veterinaria. Sono soprattutto cani, ma è in crescita anche il commercio di gatti, sempre di razza.

Aumento del traffico

Conferma Stefano Corbetta, medico veterinario, consigliere dell’Ordine dei medici veterinari della provincia di Milano: “Nel corso dell’ultimo decennio il traffico illegale di cuccioli introdotti in Italia è aumentato, purtroppo, in modo esponenziale. Cuccioli mal svezzati e mal socializzati, non vaccinati, stipati in camion o macchina, accompagnati da documentazione falsa e trasportati per lunghi tragitti entrano così nel nostro Paese”. Secondo i dati del ministero della Salute, questo commercio illegale muove un giro di denaro stimato in 300 milioni di euro l’anno e immette sul mercato animali in condizioni sanitarie critiche a un prezzo inferiore anche di 20 volte rispetto a quello di esemplari allevati regolarmente in Italia nel rispetto delle norme sanitarie e di benessere animale. Questa pratica rappresenta anche un grave danno economico per gli allevatori che operano secondo le regole.

L’offerta su internet

Internet favorisce e aumenta a dismisura questo tipo di offerta. Prosegue Corbetta: “Tra le principali porte d’ingresso, vi è sicuramente il commercio illegale sulle piattaforme online. In un mondo ormai dove Internet è ovunque e in ogni cosa (il cosiddetto Internet of Things), qualsiasi persona può comprare qualunque cosa tramite un semplice click di mouse. Compresi gli animali. Cuccioli di cani o gatti arrivati nel nostro Paese tramite un traffico illegale o addirittura specie a rischio estinzione il cui commercio è vietato dalla Cites, ovvero la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione”.

Un bollino di garanzia

Per contrastare il fenomeno non mancano iniziative specifiche anche in Italia. ItPaag è la declinazione italiana di Paag (Pet advertising advisory group), la campagna europea voluta da Eu Dog & Cat Alliance. ItPaag promuove gli atteggiamenti virtuosi delle piattaforme e i siti web che vendono animali da compagnia, oltre a sostenere le adozioni di animali in canili e gattili. L’iniziativa è promossa – tra gli altri – da Fnovi (Federazione nazionale ordini veterinari italiani) e patrocinata dal Ministero della Giustizia. Chi si impegna ad acquistare o vendere animali da compagnia a norma di legge seguendo le linee guida ItPaag riceve il marchio PetAgree, una sorta di bollino di garanzia che garantisce la trasparenza della compravendita.

Cautele e rischi

Secondo le autorità del settore la gran parte dei cuccioli importati illegalmente arriva dai Paesi dell’Est Europa: Ungheria, Slovacchia, Polonia, Romania e Repubblica Ceca. L’esportazione fuorilegge arriva in Francia Spagna Belgio e Italia. Le nostre Regioni di confine, come il Friuli Venezia Giulia sono snodi importanti di questo commercio, anche verso gli altri Stati. Vengono messi in commercio cuccioli che hanno meno di 3 mesi e mezzo, l’età minima richiesta dalle leggi ribadisce Raimondo Colangeli, vicepresidente Anmvi (Associazione nazionale medici veterinari italiani): “Il cucciolo deve avere il microchip di identificazione, e prima dei 3 mesi non può staccarsi dalla mamma. Deve essere in regola con le vaccinazioni. Ma nel mercato illegale ai cuccioli vengono messi anche microchip falsi. Spesso i piccoli sviluppano problemi di comportamento. Se non fanno vaccinazioni contraggono diverse malattie e talvolta non sopravvivono”. Come si riconosce un cucciolo di origine “dubbia”? Risponde il dottor Corbetta: “Non sempre gli acquirenti sono consapevoli dell’acquisto irregolare. È il medico veterinario la figura indicata a controllare l’età dell’animale e la veridicità della documentazione allegata accorgendosi di eventuali discrepanze tra i documenti e lo stesso animale”. Cosa si può fare allora? Prosegue Corbetta: “Per combattere e contrastare il commercio illegale o fraudolento va potenziata l’attività di comunicazione ed educazione. Il possesso di un animale da compagnia deve essere consapevole, e non può certo iniziare con un acquisto che non garantisca le condizioni a tutela del benessere psicofisico del cucciolo. È sempre bene chiedere indicazioni a un medico veterinario prima dell’acquisto dell’animale, evitando la scelta d’impulso, spesso su base emotiva”. Un suggerimento è anche guardare vicino a casa propria: ci sono tanti cuccioli ospitati nei rifugi che aspettano soltanto di trovare una famiglia.

Le norme

Normative ci sono, ma difficile applicarle sempre. Una delle ultime azioni è l’adozione, da parte della Commissione Envi (che all’Europarlamento si occupa di ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentale) della proposta di risoluzione per il Parlamento Ue sulla protezione del mercato interno e dei diritti dei consumatori contro i danni che derivano da questi traffici. In Italia per contrastare il fenomeno dieci anni fa è stata ratificata la Convenzione sulla protezione di cani e gatti del Consiglio d’Europa di Strasburgo. Con la legge 201/2010 è stato introdotto il reato di traffico illecito di animali da compagnia. Nel 2011 usciva un pratico vademecum per orientarsi nella complessità delle norme nazionali e comunitarie che regolano gli scambi commerciali di cani e gatti nell’Unione Europea. Riedito con aggiornamenti nel 2017, questo Manuale “Procedure per l’esecuzione dei controlli nella movimentazione comunitaria di cani e gatti”, è frutto della collaborazione tra la Direzione generale della sanità animale del ministero della Salute, la Fnovi e la Lega antivivisezione (Lav). La pubblicazione è rivolta alle autorità competenti, ai veterinari, agli organi di polizia e a tutti coloro che sono coinvolti in questo mondo. Il traffico illegale, secondo una recente analisi di Coldiretti, alimenta un giro d’affari intorno ai 300 milioni di euro l’anno. Sempre secondo Coldiretti, sono oltre 400mila i cani e i gatti rivenduti dai trafficanti a prezzi che vanno dai 60 fino ai 1.200 euro a esemplare. Gli animali che arrivano con la tratta clandestina sono cuccioli di poche settimane, quasi sempre non svezzati e ovviamente senza il microchip di identificazione. I cuccioli, quasi sempre imbottiti di farmaci per farli apparire in buona salute, vengono introdotti sul territorio nazionale accompagnati da una documentazione contraffatta che ne attesta la falsa origine italiana e i vaccini in realtà mai eseguiti. Coldiretti cita un Rapporto Agromafie dove si rivela che talvolta il commercio illegale si realizza anche con la complicità di alcuni allevatori e negozianti italiani che “riciclano” nel mercato legale animali di provenienza illecita. A essere vittime di questi traffici, ricorda Coldiretti, sono gli allevatori onesti. Inoltre i cuccioli acquistati illegalmente e privi di vaccinazioni spesso hanno bisogno di cure mediche e talvolta non riescono a sopravvivere.

Domanda e offerta

Secondo stime recenti nell’Unione europea vivono circa 60,9 milioni di cani e 66,5 milioni di gatti. Ed è in costante crescita l’importanza economica del settore degli animali da compagnia. Allevamento, custodia e commercio di cani e gatti in Europa sono diventate importanti attività. Si calcola che solo nella vendita siano impiegate circa 300mila persone. I dati dello studio “Benessere di cani e gatti coinvolti in attività commerciali” della Commissione Europea, condotto pochi anni fa in dodici Paesi Ue (Italia compresa), stimava che ogni mese circa 46.000 cani siano movimentati tra gli Stati membri per scopi commerciali. Le nazioni verso cui sono maggiormente diretti i cani sono: Germania (57%), Regno Unito (9%), Belgio (5%), Italia (5%), Francia (5%). I gatti sono maggiormente diretti in Germania (55%), Regno Unito (9%), Spagna (7%), Italia (6%) e Belgio (5%). I Paesi da cui principalmente provengono i cani sono: Spagna (36%), Ungheria (22%), Slovacchia (10%), Romania (10%) e Italia (4%). Per quanto riguarda i gatti è ancora in testa la Spagna con il (48%), seguita dall’Ungheria (14%), Slovacchia (9%) e Romania (6%).

Non solo cani e gatti

Con Internet oggi è più semplice soddisfare le richieste più stravaganti, anche l’acquisto di specie in via di estinzione e rare. Lo ha denunciato l’International fund for animal welfare (Ifaw), in seguito a un’indagine condotta dall’organizzazione sulle inserzioni pubblicitarie di numerosi negozi online in Francia, Germania, Regno Unito e Russia. Tutte le specie il cui commercio è vietato e che, denuncia l’Ifaw, alimentano un giro d’affari calcolato in oltre 3,9 milioni di dollari. Al primo posto in queste vendite online ci sono i serpenti (37% degli annunci), ma sono molti ricercati anche uccelli come i pappagalli e anche i rapaci. Mentre il 20% delle inserzioni riguarda l’avorio. Come anticipato, fauna e flora minacciate di estinzione sono protette dal Cites, una Convenzione internazionale tra Stati che regola e monitora il loro commercio. Ogni Stato designa una o più autorità di gestione di permessi e certificati Cites. In Italia il compito spetta principalmente al ministero dell’Ambiente.

 

 

 

Torna su
Degenerazione maculare senile essudativa, ok dell'Ue a brolucizumab

L'approvazione si basa su due studi clinici testa-a-testa, HAWK e HARRIER, nei quali il farmaco di Novartis ha ottenuto importanti guadagni visivi ad un anno


di Redazione Aboutpharma Online18 Febbraio 2020


Degenerazione maculare


La Commissione europea ha approvato brolucizumab, di Novartis, in soluzione iniettabile per  il trattamento della degenerazione maculare senile essudativa (wAMD). Si tratta, come riporta una nota diffusa dal gruppo, del primo farmaco anti-VEGF approvato dalla Ue per dimostrare una superiorità rispetto ad aflibercept nella risoluzione dei fluidi retinici (Irf/Srf), un indicatore chiave dell'attività di malattia (endpoint secondari).
Degenerazione maculare senile essudativa, una malattia degenerativa

La wAMD è una malattia degenerativa cronica della vista, causata dal VEGF, una proteina il cui eccesso favorisce la crescita di vasi sanguigni anomali sotto la macula (l'area della retina responsabile di una nitida visione centrale). Il fluido che fuoriesce da questi neovasi altera la normale struttura retinica compromettendo la visione. Inibendo il VEGF, brolucizumab è concepito per sopprimere la crescita di vasi sanguigni anormali e la potenziale fuoriuscita di liquido nella retina.
Il valore terapeutico del brolucizumab

“Attualmente i pazienti con Amd essudativa, che sono per buona parte anziani, incontrano spesso notevoli difficoltà nella gestione della malattia. Riteniamo che brolucizumab – con la sua capacità di risoluzione dei fluidi retinici – apporti un grande valore terapeutico, che aiuterà i medici a ottimizzare i trattamenti in base all'attività di malattia”, ha dichiarato Marie-France Tschudin, presidente di Novartis Pharmaceuticals. “Grazie all'approvazione di questa innovativa terapia biologica, Novartis continua a reimmaginare la medicina per le persone che soffrono di wAMD”.

Brolucizumab, nei pazienti con wAMD idonei, offre la possibilità di iniziare la terapia con un intervallo di dosaggio di tre mesi subito dopo la fase di carico. La decisione di Ema è applicabile a tutti i 28 stati membri dell'Unione europea, oltre a Regno Unito, Islanda, Norvegia e Liechtenstein.
Le cause della malattia

La degenerazione maculare senile essudativa è una delle principali cause di grave perdita della vista e di cecità nelle persone di età superiore ai 65 anni: colpisce infatti oltre 20 milioni di persone in tutto il mondo3,4,8, delle quali circa 1,7 milioni risiedono in Europa. I primi sintomi di wAMD includono una visione sfocata o ondulata7, con la progressione della malattia i pazienti perdono la visione centrale e non riescono quindi a vedere bene gli oggetti situati direttamente davanti a loro7.
Gli studi

L'approvazione europea si basa sui risultati degli studi clinici di fase III HAWK e HARRIER, nel corso dei quali brolucizumab ha soddisfatto il suo endpoint primario, dimostrando guadagni visivi (BCVA, best-corrected visual acuity) non inferiori ad aflibercept a un anno (settimana 48) e mantenendo il risultato anche a due anni.

Brolucizumab ha inoltre ottenuto risultati migliori di aflibercept negli endpoint secondari correlati al fluido: un numero significativamente inferiore di pazienti presentava fluido intra-retinico (IRF, intra-retinal fluid) e/o fluido sotto-retinico (SRF, sub-retinal fluid), rispettivamente 31% per brolucizumab 6 mg vs 45% per aflibercept in HAWK; 26% vs 44% in HARRIER a un anno.

Inoltre, brolucizumab ha dimostrato superiore capacità di ridurre lo spessore retinico (CST, central subfield thickness) – un altro indicatore di malattia. Le differenze osservate alla settimana 16 e ad un anno sono state mantenute a due anni. In entrambi gli studi, con brolucizumab, il 30% in meno dei pazienti (rispetto a aflibercept) presentava segni di attività di malattia già dalla settimana 16.
Le evidenze

In HAWK e HARRIER, oltre la metà dei pazienti affetti da degenerazione maculare senile essudativa (rispettivamente 56% e 51%), ha mantenuto una frequenza di iniezioni di tre mesi per un anno. I pazienti rimanenti sono stati trattati con una frequenza di due mesi.

"L'approvazione odierna rappresenta un passo avanti per i pazienti in Europa che sono alla ricerca di una nuova opzione terapeutica che li aiuti a conservare la vista – e quindi l'autonomia – più a lungo”, ha dichiarato Christina Fasser, Presidente di Retina International. “Questo potrebbe davvero aiutare a semplificare la vita non solo dei pazienti, ma anche di coloro che se ne prendono cura".

Nell'ottobre 2019 Novartis ha ricevuto l'approvazione dalla US Food and Drug Administration per brolucizumab nel trattamento della wAMD. Nel gennaio 2020 brolucizumab ha ricevuto anche l'approvazione della Swissmedic elvetica e della TGA australiana per il trattamento della wAMD. Novartis è impegnata a rendere disponibile brolucizumab ai pazienti in tutto il mondo; attualmente, ulteriori procedure normative di registrazione sono infatti in corso in Canada, Giappone e Brasile.
Brolucizumab

Brolucizumab (noto anche come RTH258) è il più avanzato frammento anticorpale umanizzato a singola catena (scFv1,7, single-chain antibody fragment). I frammenti anticorpali a singola catena sono molto studiati nello sviluppo dei farmaci per le loro piccole dimensioni, l'ottima penetrazione tissutale, la rapida eliminazione dalla circolazione sistemica e le loro caratteristiche posologiche.

L'innovativa struttura produce una piccola molecola (26 kDa) dotata di una potente inibizione ed elevata affinità a tutte le isoforme VEGF-A. La molecola brolucizumab è stata ingegnerizzata per ottenere la più alta concentrazione di farmaco, fornendo un maggior numero di siti di legame attivi rispetto ad altri anti-VEGF.

Negli studi preclinici, brolucizumab ha dimostrato efficacia nell'inibire l'attivazione dei recettori VEGF attraverso la prevenzione dell'interazione ligando-recettore. L'aumento del pathway VEGF è associato ad angiogenesi oculare patologica e a edema retinico. L'inibizione del pathway VEGF ha dimostrato di inibire la crescita delle lesioni neovascolari e di sopprimere la proliferazione delle cellule endoteliali e la permeabilità vascolare.

Torna su
Nasce l'Ospedale di Comunità, per chi ha bisogno di un ricovero breve

Regioni

Nasce l'Ospedale di Comunità, per chi ha bisogno di un ricovero breve


L’iniziativa è frutto di un’intesa in Conferenza Stato-Regioni. Si rivolge a pazienti che necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica. "Una conquista sociale", l'ha definita il presidente della Conferenza delle regioni Stefano Bonaccini


di Redazione Aboutpharma Online20 Febbraio 2020


A metà strada tra la cura domiciliare e il ricovero ospedaliero: nasce l’ospedale di comunità. L’iniziativa è frutto di un’intesa in Conferenza Stato-Regioni. “Una conquista sociale”, l’ha definita il presidente della Conferenza delle regioni Stefano Bonaccini, “in grado di caratterizzare in meglio il nostro servizio sanitario”.

Più in dettaglio, l’ospedale di comunità “sarà una struttura di ricovero breve – continua Bonaccini – per quei pazienti che, a seguito di un episodio di acuzie minori o per la riacutizzazione di patologie croniche, necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica. Con questa intesa abbiamo definito i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per l’autorizzazione all’esercizio degli Ospedali di comunità pubblici o privati. Era un traguardo già fissato nel Patto per la salute 2014-2016 che ora – conclude – viene raggiunto grazie all’intenso lavoro congiunto delle Regioni e del Governo”.


Ospedale di comunità, come è organizzato


L’Ospedale di Comunità, si legge in un comunicato diffuso dalla Conferenze delle regioni, può avere una sede propria, essere collocato in strutture sanitarie polifunzionali, presso presidi ospedalieri riconvertiti, presso strutture residenziali oppure essere situato in una struttura ospedaliera, ma è sempre riconducibile all’ assistenza territoriale. Si tratta di una struttura con un numero limitato di posti letto, di norma tra 15 e 20. È possibile prevedere l’estensione fino a due moduli e non oltre.


Chi vi può accedere


Vi possono accedere pazienti con patologia acuta minore che non necessitano di ricovero in ospedale o con patologie croniche riacutizzate che devono completare il processo di stabilizzazione clinica, con una valutazione prognostica di risoluzione a breve termine ( 15-20 giorni), provenienti dal domicilio o da altre strutture residenziali, dal Pronto soccorso o dimessi da presidi ospedalieri per acuti.

I pazienti ospitati necessitano di assistenza infermieristica continuativa e assistenza medica programmata o su specifica necessità. Tra gli obiettivi primari del ricovero deve essere posto anche l’aumento di consapevolezza dei pazienti e del familiare/caregiver, attraverso l’addestramento alla migliore gestione possibile delle nuove condizioni cliniche e terapeutiche e al riconoscimento precoce di eventuali sintomi di instabilità.


I criteri per l’accesso


Per l’accesso è necessario che siano soddisfatti i seguenti criteri: diagnosi già definita; prognosi già definita; valutazione del carico assistenziale e della stabilità clinica eventualmente attraverso scale standardizzate; programma di trattamento già stilato e condiviso con il paziente e/o con la famiglia (ad eccezione del Pronto Soccorso).
Organizzazione e responsabilità

La gestione delle attività dell’OdC è riconducibile all’organizzazione distrettuale o territoriale delle aziende sanitarie. Dal punto di vista gestionale-organizzativo, la responsabilità complessiva della struttura è in capo a una figura individuata anche tra le professioni sanitarie dalla articolazione territoriale aziendale di riferimento e svolge anche una funzione di collegamento con i responsabili sanitari, clinici e assistenziali, e la direzione aziendale.

La responsabilità clinica dei pazienti è attribuita aUn medico di medicina generale (pediatra di libera scelta se O.d.C. pediatrico) oppure ad un medico operante nella struttura scelto tra i medici dipendenti o convenzionati con il SSN o appositamente incaricato dalla direzione della struttura (Per le strutture private, un medico incaricato dalla struttura). La responsabilità assistenziale è in capo all’infermiere secondo le proprie competenze. L’assistenza sanitaria infermieristica è garantita nelle 24 ore.

Torna su
Mascherine e disinfettanti online, interviene l’Antitrust

Mascherine e disinfettanti online, interviene l’Antitrust

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) invia una richiesta di informazioni alle principali piattaforme di e-commerce e altri siti di vendita in rete. Focus sul rialzo dei prezzi e slogan sull’efficacia anti-coronavirus

mascherine e disinfettanti online

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) interviene sulla vicende delle mascherine e dei gel disinfettanti venduti in rete a prezzi esorbitanti. Una richiesta di informazioni è stata inviata ieri, spiega una nota dell’Antitrust, alle principali piattaforme di e-commerce e ad altri siti di vendita online. Sotto accusa le modalità di commercializzazione di prodotti igienizzanti per le mani e di mascherine monouso di protezione delle vie respiratorie.

Le segnalazioni su mascherine e gel disinfettanti

“L’intervento – spiega l’Agcm –  è scaturito da numerose segnalazioni da parte di consumatori e associazioni i quali lamentavano, da un lato, la presenza di claim relativi all’asserita efficacia dei suddetti prodotti in termini di protezione e/o di contrasto nei confronti del Coronavirus e, dall’altro, l’ingiustificato e consistente aumento dei prezzi dei medesimi prodotti registrato negli ultimi giorni”.

Le misure

Le imprese dovranno comunicare entro tre giorni quali misure hanno attivato per eliminare slogan pubblicitari che possano ingannare i consumatori sull’efficacia dei prodotti per evitare/curare le patologie da Covid 19 e le iniziative adottate al fine di evitare ingiustificati e sproporzionati aumenti di prezzo.

Siamo assolutamente d'accordo con questa iniziativa

 

Torna su
35 vaccini candidati contro la Covid-19

35 vaccini candidati contro la Covid-19

Qualche settimana fa erano una decina in meno. Il costo medio di un vaccino è di circa 900 milioni secondo Vaccines Europe, ma un nuovo antivirale potrebbe arrivare a costare in termini di sperimentazione anche due miliardi di euro


Il costo di un vaccinoCi sarebbero 35 i vaccini candidati contro la Covid-19 in tutto il mondo. Qualche settimana fa erano dieci in meno. Tuttavia molti studi sono ancora in fase preclinica e i dettagli sono ancora poco chiari. La corsa all’oro del 2020, comunque, è contrassegnata anche a colpi mediatici piuttosto rilevanti dato che sempre più aziende annunciano lavori sul vaccino contro il nuovo coronavirus o, come nel caso dell’azienda americana Moderna (una delle prima ad essersi messa al lavoro) di essere vicino alla soluzione.

Ci sono 14 società attive nella sperimentazione dei vaccini senza contare i prodotti che sono già esistenti che vengono testati contro il nuovo coronavirus. I costi sono elevati. Sono 900 i milioni che servono di media per lo sviluppo di un vaccino (almeno stando ai dati di Vaccines Europe). Se poi si parla di un antivirale ex novo si potrebbe arrivare a due miliardi di euro.

Le aziende

A lavorare alacremente a una soluzione contro il virus che sta contagiando mezzo mondo ci sono, tra le tante, Moderna, Inovio, Gsk, Gilead, J&J, Regeneron, Sanofi, Takeda e Vir. La maggior parte di queste sono ancora in fase preclinica. Gilead sta puntando tutto su remdesivir pensato per l’ebola, mentre Gsk sta lavorando su un adiuvante. Intanto dalla Cina arriva la notizia che è stato approvato tocilizumab di Roche come arma aggiuntiva contro i contagi da nuovo coronavirus. Buone notizie pare, arrivano anche dall’Istituto Migal di Tel Aviv in Israele. I ricercatori hanno riferito che ci sono sensazioni positive riguardo lo studio sul vaccino contro l’Ibv (virus della bronchite infettiva), una malattia che colpisce il pollame, la cui efficacia è stata dimostrata in recenti studi preclinici.

 

Torna su
Emicrania, numeri ed esperienze per una corretta presa in carico

Emicrania, numeri ed esperienze per una corretta presa in carico

AboutPharma and Medical devices pubblica uno speciale tutto dedicato ad una patologia che colpisce dal 12 al 14% delle popolazione italiana e dall’1 al 3% nella forme più gravi (emicrania cronica) intervistando i diversi portatori di interesse secondo la propria prospettiva: specialisti, economisti, amministratori pubblici e pazienti *IN COLLABORAZIONE CON ALLERGAN


Lo stato dell’arteL’emicrania colpisce dal 12 al 14% della popolazione italiana con una spiccata “preferenza” per il genere femminile (rapporto 3 a 1 rispetto agli uomini) e circa 1-3% della popolazione con le forme più gravi a forte impatto sociale (emicrania cronica) e si attesta al terzo posto fra le patologie più frequenti del genere umano secondo l’Oms. L’emicrania cronica è una patologia estremamente disabilitante, con grandi e frequenti crisi che tendono a cronicizzare nell’arco della vita. Può correlare con malattie importanti, anche di tipo psicopatologico, come ansia e depressione ed ha un grande impatto sul sistema sanitario: la forma cronica infatti arriva a richiedere una spesa di circa 3000 euro al mese, superiore di circa 3-4 volte ai costi diretti legati alla forma episodica. In Italia, si parla di circa 1.5 milioni di pazienti con la forma cronica rispetto 8-9 milioni di pazienti alle prese con varie forme di emicrania. I dati a livello internazionale stimano un peso economico annuo complessivo per paziente equivalente a circa 11.300 euro.

A questi temi è dedicata una pubblicazione speciale di AboutPharma and Medical Devices – realizzata con il contributo non condizionato di Allergan – dal titolo “Pianeta emicrania: numeri, esperienze e opportunità per una corretta presa in carico”. Il testo raccoglie i pareri e le indicazioni di specialisti, pazienti, economisti sanitari e amministratori pubblici, riassumendo lo stato dell’arte riguardo a epidemiologia, diagnosi, terapia e presa in carico dei pazienti con un riferimento alle esperienze condotte in alcune regioni (Campania e Toscana). Le voci sono quelle di Paolo Martelletti (Università La Sapienza di Roma e Presidente della Fondazione Italiana per lo Studio delle Cefalee), Rosanna Tarricone (Università Bocconi di Milano), Americo Cicchetti (Università Cattolica del Sacro Cuore), Lara Merighi (Associazione Cefalalgici), Giuditta Pini (deputato Pd, membro della XII Commissione Affari Sociali), Licia Grazzi (Istituto neurologico C. Besta di Milano), Cristina Tassorelli (Irccs C. Mondino di Pavia), Simona Sacco (Università de L’Aquila), Gioacchino Tedeschi (Università della Campania “L. Vanvitelli” e presidente della Società Italiana di Neurologia), Pierangelo Geppetti (Università degli studi di Firenze e presidente della Società italiana per lo Studio delle Cefalee), Ugo Trama (Responsabile Servizio Politica del Farmaco e Dispositivi Regione Campania).

Emicrania malattia sociale

Chi soffre di emicrania deve fare i conti anche con la svalutazione di ampi strati della società, laddove è di recente approvazione alla Camera e in attesa di approvazione al Senato una proposta di legge per il riconoscimento dell’emicrania cronica come malattia sociale a firma di Giuditta Pini e Arianna Lazzarini.

L’importanza della diagnosi precoce

Prima si riconoscono i segni clinici, prima s’inizia il trattamento per evitare la cronicizzazione. Fondamentale che il medico identifichi il paziente “semplice” con un impatto lieve dell’emicrania, rispetto al paziente emicranico “complesso” che ha un impatto moderato-severo o francamente severo, come i pazienti che hanno molte crisi mensili e tra cui rientrano anche i pazienti emicranici cronici. Molto importante il ruolo svolto dai centri per la cefalea in Italia: sono 72 quelli afferenti all’Associazione Nazionale Ricerca Cefalee e circa 90 censiti dalla Società Italiana per lo Studio delle Cefalee.

La gestione terapeutica

Anche gli algoritmi possono aiutare la prescrizione. Gli esperti hanno il compito di identificare i trattamenti più idonei, scegliendo tra farmaci di uso consolidato e nuove opportunità, magari in associazione tra loro. Da qualche tempo sono allo studio algoritmi prescrittivi che si propongono di costruire iter decisionali nell’impiego dei farmaci, al fine non solo di identificare il miglior approccio farmacologico ma anche di mettere “in atto un percorso di cure molto più complesso” in cui il paziente viene “gestito in maniera olistica”. Ad oggi il trattamento dell’emicrania cronica vede in campo la tossina botulinica e il topiramato. La tossina è autorizzata in Italia per il trattamento dell’emicrania cronica dal 2013 con una notevole esperienza clinica che ne hanno portato a riconoscerne l’efficacia e la sicurezza in diversi studi di real life.

Il ruolo dei centri cefalea

I centri cefalea svolgono un ruolo cruciale soprattutto alla luce dell’arrivo di nuovi farmaci che richiederanno una revisione del percorso diagnostico terapeutico del paziente nell’ottica dell’appropriatezza e della sostenibilità. In quest’ottica la formazione di una rete consentirà di porre criteri di priorità per arrivare al farmaco più corretto rispetto alle alternative in essere e future che garantiranno equità di accesso alla salute per tutti e un controllo dell’impatto sul bugdet a livello nazionale e regionale. La prevenzione, però, come sostengono molti clinici, “resterà l’arma fondamentale per trattare l’emicrania cronica: educare i pazienti, educare i medici e promuovere il corretto utilizzo delle risorse.”

 

 In collaborazione con Allergan

 

Torna su
Covid-19, dall’Italia parte la proposta europea per un vaccino

Covid-19, dall’Italia parte la proposta europea per un vaccino

A lanciarla sono Alisei, Farmindustria e Assolombarda in una lettera inviata al Governo italiano. La proposta prevede la creazione di una nuova Missione Europea, per la ricerca di un rimedio contro il nuovo coronavirus


“In un momento difficile come quello attuale, solo l’unione dei saperi e delle energie nazionali e internazionali può portare a un risultato concreto”, sostengono Diana Bracco, Massimo Scaccabarozzi e Sergio Dompé nella loro lettera al Premier Giuseppe Conte.Parte dall’Italia la proposta europea per un vaccino. Parola d’ordine: unire le forze della ricerca e dell’innovazione continentale per combattere il nuovo coronavirus. A lanciarla sono Alisei (cluster tecnologico nazionale life science), Farmindustria e Assolombarda in una lettera inviata al Governo italiano. La proposta prevede la creazione di una nuova Missione Europea, per la ricerca del vaccino contro il Covid-19 con un budget consistente per un periodo di 12 mesi.

La lettera

La situazione generale a livello italiano e in molti Stati membri dell’Unione Europea in relazione alla diffusione del Covid-19 è molto preoccupante e sta generando forti tensioni sull’operatività dei sistemi sanitari nazionali. È urgente unire le forze tra tutti gli attori dell’ecosistema life science per impegnarsi in una missione straordinaria, quella di trovare un vaccino contro il nuovo coronavirus, nel più breve tempo possibile.

Questo obiettivo può essere raggiunto creando un grande consorzio europeo composto dalle migliori università e centri di ricerca insieme alle grandi imprese del settore pharma -biotech e scienziati che a vario titolo operano nel settore strategico delle scienze della vita.

Missioni europee

L’Unione Europea ha creato le Missioni Europee, uno straordinario strumento per il prossimo periodo di programmazione finanziaria 2021-2027, “In parte ispirate ad Apollo 11 che mandò il primo uomo sulla luna, le missioni europee di ricerca e innovazione mirano a fornire soluzioni ad alcune delle maggiori sfide che il nostro mondo deve affrontare. Sono parte integrante del programma quadro Orizzonte Europa a partire dal 2021. Ogni missione è un mandato per risolvere una sfida urgente nella società entro un certo lasso di tempo e budget”.

Ispirandosi a questo modello innovativo di cooperazione, il mondo scientifico e imprenditoriale del settore life science italiano propongono la creazione di una nuova Missione Europea per la ricerca del vaccino contro il Covid-19 con un budget consistente per un periodo di 12 mesi.

Una proposta concreta per costruire una risposta solida e urgente alla sfida che la pandemia di Covid-19 sta ponendo all’Unione Europea al suo sistema economico e sociale.

 

Torna su
Covid-19, Fondazione Lilly dona insulina gratis per gli ospedali italiani

Covid-19, Fondazione Lilly dona insulina gratis per gli ospedali italiani

La Fondazione annuncia la donazione dell’insulina prodotta nel sito farmaceutico Lilly a Sesto Fiorentino per un valore di un milione di euro. Il farmaco, salvavita per le persone con diabete, sarà reso disponibile gratuitamente agli ospedali italiani

covid-19 ospedali italiani

Continua la generosità delle aziende farmaceutiche verso gli ospedali italiani. In questo momento di difficoltà, infatti, dovuta alla pandemia da Covid-19, la Fondazione Lilly annuncia la donazione dell’insulina prodotta nel sito farmaceutico Lilly a Sesto Fiorentino per un valore di un milione di euro.  Il farmaco, salvavita per le persone con diabete, sarà reso disponibile gratuitamente agli ospedali italiani secondo le modalità di distribuzione indicate dalle Istituzioni.

Tutelare le persone

“Siamo chiamati in un momento di grande emergenza – spiega Huzur Devletsah, presidente della Fondazione Lilly – a mettere tutto il nostro impegno per tutelare la salute delle persone. Con questa donazione intendiamo contribuire con prodotti salvavita alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale italiano, un esempio di qualità per tutto il mondo. Siamo anche orgogliosi che la Eli Lilly&Company stia mettendo in campo le proprie competenze nella ricerca e nello sviluppo per creare un trattamento che possa aiutare i pazienti. In collaborazione con AbCellera ha infatti iniziato da alcuni giorni uno studio su oltre 500 anticorpi unici isolati in uno dei primi pazienti a essere guarito”.

 

Torna su
COVID 19 - A PROPOSITO DI DIFESE PROTETTIVE

Mancano le protezioni: medici di famiglia e cittadini lanciano una raccolta fondi
 
a cura della Redazione Aboutpharma Online
 
L’iniziativa di Fimmg e Cittadinanzattiva. I camici bianchi denunciano: “Abbandonati da chi avrebbe dovuto proteggere noi e i nostri pazienti”. L’obiettivo è raggiungere la quantità minima di dispositivi per poter effettuare un ordine
 
I medici di famiglia chiedono aiuto ai cittadini. Sul territorio mancano i dispositivi di protezione individuale, come le mascherine. Così la Fimmg (Federazione medici di medicina generale) e Cittadinanzattiva lanciano una raccolta fondi online. “Con pochi euro da parte di ciascuno sarà possibile riuscire a raggiungere la quota minima per far partire un ordine di acquisto visto che – spiegano le due organizzazioni in una nota – ormai tali prodotti possono essere acquistati solo in grandi ordinativi. Si può donare tramite PayPal sia con bonifico bancario all’Iban IT25S0200805085000102100585 – intestato a Fimmg – con la causale Emergenza Covid-19 Acquisto Dpi”. Fimmg ha già stanziato 50 mila euro per il fondo che sarà controllato insieme a Cittadinanzattiva.
 
La denuncia dei medici di famiglia
Dal sindacato dei medici di famiglia una dura denuncia: “Ci chiamano eroi, ma ci voltano le spalle. Intanto molti di noi si ammalano e, purtroppo, muoiono come i medici di famiglia Roberto Stella e Giuseppe Borghi. Ci aiuteremo da soli, ma abbiamo bisogno anche dei cittadini”, dice il segretario generale Fimmg, Silvestro Scotti, denunciando il silenzio di istituzioni aziendali, regionali e governative sulla richiesta dei medici di medicina generale di essere dotati di dispositivi di protezione individuale. Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, aggiunge: “Lo stato di salute dei medici deve essere una priorità, così come quella degli altri operatori in prima linea. E, come sappiamo, in questo momento, la prevenzione è l’unica arma a nostra disposizione. I dispositivi sono un bene essenziale per garantire sicurezza a chi si sta spendendo per aiutare i cittadini in questa grande emergenza”.
 
“Dispositivi di protezione collettiva”
“Non possiamo più accettare – continua Scotti – di combattere questa guerra senza protezioni. Non lo possiamo accettare perché per i medici di famiglia i dispositivi di protezione individuale sono in realtà dispositivi di protezione collettiva. I medici di famiglia entrano in contatto prevalentemente con i cittadini a maggior rischio, con pazienti cronici che non possono superare le complicanze del virus”. Per la Fimmg c’è un segno di ulteriore disinteresse da parte del Governo:  nel provvedimento economico al varo in queste ore manca qualunque riferimento al territorio.
 
“Il ministro Speranza che ci è stato sempre vicino – ricorda il segretario generale Fimmg – ci ha sempre ripetuto il valore e il significato dell’Articolo 32 della Costituzione ‘La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’. Oggi i medici di medicina generale si sentono soli e si chiedono chi sia la Repubblica e chi la rappresenti per noi, oggi pensiamo che la Repubblica siano solo i cittadini nessun altro. Ed è al popolo che ora chiediamo aiuto – conclude Scotti – aspettando che qualcun’altro batta un colpo”.
 
Torna su
I top manager del mondo già temevano la crisi economica ma non preparavano la reazione

I top manager del mondo già temevano la crisi economica ma non preparavano la reazione

La pandemia da coronavirus non era certamente prevedibile ma stupisce il fatto che anche i grandi gruppi abbiano minimizzato l’importanza di un piano per reagire alle avversità del mercato. Lo rivela la 23esima Annual Global Ceo Survey elaborate da PwC


Queste sono alcune delle evidenze contenute nella 23esima Annual global Ceo survey elaborata da PwC, che fotografa il livello di fiducia nello sviluppo globale e del proprio business di circa 1.600 Ceo in 83 Paesi – tra cui circa 100 italiani e oltre 130 del settore Pharma & Life Sciences.Non solo pandemia. Ancora prima del coronavirus i top manager di tutto mondo erano piuttosto pessimisti circa la crescita economica globale e delle proprie aziende. Tuttavia non avevano ben valutato l’importanza del saper reagire rapidamente a eventuali crisi, al netto del fatto che quella che sta investendo società ed economie del mondo non era oggettivamente immaginabile.

Va detto che in questo contesto, i CEO del settore Pharma & Life Sciences erano moderatamente in controtendenza, mostrando maggiore ottimismo sia verso la crescita economica globale, sia verso la crescita delle proprie imprese a 12 mesi (41% “molto fiducioso” rispetto al 27% del campione complessivo) e a 3 anni (43% contro il 34% totale).

Il dato più rilevante è quello della sfiducia: il 53% dei Ceo aveva previsto una riduzione del tasso di crescita economica globale nel 2020, in netto peggioramento rispetto al 29% del 2019 e al 5% del 2018. I motivi? L’eccessiva regolamentazione e le incertezze collegate alle tensioni commerciali e al contesto geopolitico le cause principali emerse a livello mondiale.

Sottovalutata l‘importanza della capacità di reazione

Come accennato, però, l’elemento che sorprende particolarmente in tale analisi, alla luce della diffusione del Covid-19, è il fatto che la “prontezza nel rispondere ad eventuali crisi” non compaia tra le prime 15 grandi minacce avvertite nel 2020 sia dai Ceo globali che da quelli di settore.

È noto infatti che la chiave del successo per affrontare una crisi sta proprio nella preparazione. Ogni azienda dovrebbe infatti contare su un piano di crisi o di continuità, ma nulla mette alla prova la teoria come la realtà, soprattutto in situazioni come quelle attuali dalle proporzioni e impatti dirompenti.

Una strategia possibile

Il Global Crisis Center di PwC, che sta monitorando l’effetto Covid-19 sull’economia internazionale, indica le azioni che imprenditori e manager devono mettere in campo per rendere le imprese in grado di resistere, proteggere i lavoratori e affrontare le incognite della crisi globale:

  1. mettere al centro la protezione dei lavoratori, in primis per la loro salute poi per mantenere le attività operative ed essere pronti per un’efficace ripresa: vanno ad esempio riviste le policy per trasferte e spostamenti e i piani di viaggio, ridefinite le procedure di smart working, di utilizzo delle dotazioni tecnologiche e di segnalazione della malattia o i protocolli di accesso e utilizzo dei siti aziendali e degli uffici;
  2. rivedere i piani di crisi e continuità ed essere pronti ad aggiornarli continuamente: i piani generici devono essere adattati per far fronte alle specifiche sfide della pandemia;
  3. analizzare la catena di approvvigionamento per evitare potenziali vulnerabilità, a partire dai prodotti più strategici, guardando oltre i fornitori di primo e secondo livello;
  4. identificare potenziali punti critici rispetto alle competenze: ci sono lavoratori con le giuste competenze che potrebbero entrare in ruoli critici se necessario? call center e centri servizi condivisi sono potenzialmente vulnerabili: è possibile adottare misure per ridurre il livello di interazione umana, con turni sfalsati o lavoro a distanza?;
  5. adottare una comunicazione coerente ed accurata: disinformazione e confusione si sono diffuse insieme al virus, mentre dipendenti e stakeholder devono invece contare su una chiara ed efficace comunicazione interna e corporate per essere rassicurati sul fatto che sono protetti e che il business è preparato ad affrontare i diversi scenari della crisi;
  6. fare analisi di scenario, perché in un clima di diffusa incertezza la pianificazione degli scenari è uno strumento fondamentale: quali sono gli scenari migliori e peggiori a cui l’azienda è in grado di far fronte? Quale potrebbe essere l’impatto a lungo termine, ad esempio, sul capitale circolante? L’azienda è preparata ad un potenziale aumento della domanda di prodotti e servizi on line, dal momento che si trascorre più tempo a casa? Il tutto senza perdere di vista gli altri rischi, perché le organizzazioni sono più vulnerabili quando affrontano una crisi che domina la loro attenzione.

Di fronte a una crisi che ci auguriamo sia la più breve possibile e a una ripresa che potrebbe essere molto lunga, le aziende ben preparate riusciranno comunque a recuperare più rapidamente.

 

Torna su
Gestire la cronicità, "Novartis lancia la "linea Embrace"

Per rispondere al bisogno crescente dei pazienti e restituire centralità ai medici di medicina generale, al via un progetto che mira a dimezzare i tempi di accesso al percorso di diagnosi. Dal numero 168 del magazine. *IN COLLABORAZIONE CON NOVARTIS


È la gestione del paziente cronico la prossima grande sfida del Servizio sanitario nazionale. A dirlo sono i numeri: secondo l’Osservatorio nazionale sulla salute, 24 milioni di cittadini presentano una patologia cronica. Di questi 12,5 milioni sono colpiti da multi-cronicità, con una spesa sanitaria che tocca quota 67 miliardi di euro. In uno scenario di questo tipo oltre il 70% delle risorse sanitarie sono destinate alla gestione di malattie croniche, mentre il 55% dei contatti con i medici di medicina generale sono generati proprio da pazienti con patologie croniche.

La soluzione di Novartis

Per rispondere al bisogno crescente dei pazienti e restituire centralità al ruolo dei medici di medicina generale nel percorso di cura, Novartis ha dato vita alla “Linea Embrace”. Si tratta di un progetto franchise del gruppo svizzero, che ha messo in moto una squadra di professionisti per “abbracciare” la rete di player coinvolti.

Il progetto mira a dimezzare i tempi di accesso al percorso di diagnosi e trattamento più appropriato per il paziente, favorire la collaborazione e l’integrazione tra ospedale e territorio, assicurando la continuità assistenziale, e migliorare la capacità di gestione della malattia. La squadra di Novartis sul territorio sarà composta da 80 giovani di età compresa tra i 24 e i 29 anni, definiti advisor di patologia, che in un anno incontreranno circa 15 mila medici di medicina generale sul territorio italiano.

L’obiettivo dell’iniziativa linea Embrace

“Con il lancio di Linea Embrace – spiega Francesco Barbieri, Head of Embrace franchise di Novartis Italia – vogliamo garantire ai pazienti il trattamento corretto il più velocemente possibile. Per poterlo fare dobbiamo mettere a disposizione del medico di famiglia tutte le informazioni relative alle diverse patologie da trattare, nonché aiutarlo a individuare la sintomatologia che caratterizza questi pazienti. Partendo da queste basi poi il medico sarà in grado di indirizzare i pazienti nei centri più vicini dove vengono effettuati i trattamenti necessari”. Grazie a “Linea Embrace” si offrono maggiori opportunità a quel 55% di pazienti cronici che viene gestito principalmente dal medico di famiglia.

In altre parole si sviluppa un processo di cura che coinvolge sempre di più il territorio (e i tutti i suoi attori: medici di famiglia e farmacisti) alleggerendo così l’operatività degli ospedali. “Veniamo da una cultura ospedale-centrica – continua Barbieri – in cui non ci sono tanti collegamenti tra il medico di famiglia e i centri specializzati. La nostra ambizione è diventare i facilitatori dell’accesso alle cure, creando networking e realizzando un punto di contatto tra medici, specialisti, farmacie e centri ospedalieri”.

Cosa faranno gli 80 giovani coinvolti

Agli ottanta advisor di patologia il compito di rendere operativo il progetto “Linea Embrace”. I giovani partecipanti sono stati selezionati tra le oltre 5 mila candidature arrivate da tutta Italia. “La partecipazione è stata straordinaria – sottolinea Barbieri – abbiamo selezionato i profili guardando non solo alle competenze tecniche, ma anche a quelle soft skill, capacità relazionale in primis – che sono fondamentali per svolgere questo lavoro.

Gli advisor – continua – verranno distribuiti in funzione dei centri specializzati e dei medici di famiglia. In questo modo i pazienti, una volta diagnosticati, potranno essere indirizzati verso il centro specializzato più vicino. Con “Linea Embrace” ci aspettiamo di dare il via a un vero e proprio movimento in questa direzione, in grado di garantire un risultato concreto in termini di calo dei ricoveri ospedalieti”.

Il ruolo dei farmacisti

Oltre ai medici di medicina generale, un ruolo importante nella riuscita di “Linea Embrace” lo svolgeranno anche i farmacisti. Grazie alle proprie competenze, i farmacisti si configurano come professionisti in grado di fare uno screening iniziale del paziente, per poi indirizzarlo verso il medico di famiglia. “Si tratta di un elemento fondamentale del processo – conclude Barbieri – perché abbina la relazione personale con il paziente alle competenze scientifiche”.

In collaborazione con Novartis

 

Torna su
Assistenza domiciliare, con il progetto Beside nuove soluzioni a supporto del paziente

 

 

Il programma, co-finanziato dalla Regione Puglia, intende supportare la diagnosi, la terapia medica e riabilitativa e l’inclusione sociale attraverso tecniche biometriche non invasive. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL


L’assistenza domiciliare per i pazienti cronici sarà sempre più importante in futuro. Perché  nei prossimi anni il Servizio sanitario nazionale dovrà far fronte a una nuova “ondata” di cronicità. Sarà frutto di una serie di fattori, tra cui, principalmente, l’allungamento della vita e l’invecchiamento progressivo della popolazione. Per quanto osservato sino ad oggi, infatti, l’aumento esponenziale dei cittadini anziani porta con sé anche la crescita di condizioni di fragilità, patologie croniche e progressiva non autosufficienza nella vita quotidiana. che comportano di fatto un profondo cambiamento dei bisogni assistenziali.

Tra le varie sfide che attendono il nostro Ssn, una è sicuramente la presa in carico di pazienti affetti da patologie di tipo neuro-degenerativo, destinati ad avere sempre più rilevanza.  Nel futuro prossimo, un fattore cruciale sarà, quindi, la capacità di ottimizzare le risorse, programmando e progettando soluzioni e risposte nuove a bisogni complessi.

Assistenza domiciliare, quando serve a migliorare l’autonomia del paziente

 La compromissione delle funzioni cognitive, le prime a essere coinvolte in patologie tipiche dell’età avanzata quali la malattia di Alzheimer o la forma denominata Late (Limbic-predominant age-related Tdp-43 Encephalopathy), riduce progressivamente i livelli di autonomia. È accompagnata spesso da disturbi comportamentali come il vagabondaggio, deliri e rischi elevati di fuga dal proprio domicilio, anche nelle ore notturne.

Un altro grande problema è il rischio caduta. Un problema prioritario per i sistemi sanitari e sociali moderni, poiché rappresenta sia una causa diretta dell’aumento delle ospedalizzazioni, della disabilità e dell’incremento della spesa sanitaria, sia un frequente fattore indiretto di decesso.

Mantenere l’autonomia anche entro il proprio ambiente domestico, rallentare il decorso della malattia, ridurre il rischio di eventi avversi e garantire il più alto livello di benessere e qualità di vita possibili, sono gli obiettivi che gli Homecare service provider si pongono come prioritari. Lo fanno attraverso la ricerca e lo sviluppo di tecnologie innovative che vanno nella direzione di una forte integrazione dei servizi sanitari con quelli sociali.

Assistenza domiciliare, il ruolo degli Homecare service provider nella ricerca e sviluppo

Lo sviluppo di tecnologie per teleassistenza e robotica porta verso una nuova era dell’assistenza domiciliare, con ambienti assistiti e tecnologie a sostegno della qualità di vita che hanno anche lo scopo di ritardare il più possibile l’istituzionalizzazione dell’anziano.

In generale, le tecnologie di assistenza domiciliare sono sempre più “user friendly”. La telemedicina, i servizi di assistenza in remoto, stanno registrando enormi sviluppi con il merito di focalizzare l’attenzione sulla definizione di buone pratiche che favoriscano l’abbattimento dei costi, la personalizzazione delle soluzioni e una loro integrazione nel sistema attuale.

L’assistenza domiciliare diverrà una risorsa fondamentale nella ricerca di soluzioni utili per i pazienti e i caregiver, poiché la presa in carico precoce è tra i primi elementi che consentono di rallentare il decorso delle malattie neuro-degenerative, limitando nel contempo il rischio di isolamento sociale a cui è esposto il malato. Sulla facilità d’uso, l’integrabilità e la sostenibilità si fonda la partecipazione di Vivisol al progetto Beside, una ricerca industriale e di sviluppo sperimentale per un Sistema Ict multi-sensoriale che monitori in modo non invasivo pazienti affetti da malattie neuro-degenerative. 

Il progetto Beside

Il progetto Beside è co-finanziato dalla Regione Puglia e sviluppato grazie a una collaborazione tra Vivisol, altre realtà imprenditoriali e istituti di ricerca quali il dipartimento di informatica dell’università di Bari e il Cnr-Issia.

Il sistema Beside intende supportare la diagnosi, la terapia medica e riabilitativa e l’inclusione sociale attraverso tecniche biometriche non invasive (gait and behavior analysis) con l’utilizzo di telecamere e sensori per:

  • Monitorare ed analizzare in modo semi/automatico aspetti comportamentali del paziente.
  • Osservare le variazioni motorie legate al passo, ai cambiamenti nell’alzata dal letto e dalla poltrona e le variazioni degli indici cognitivi;
  • Monitorare e prevenire il fenomeno del wandering;
  • Favorire il contatto con parenti e famigliari.

Il progetto utilizza l’intelligenza artificiale per l’analisi digitale dell’andatura dei soggetti anziani, dei pattern motori e comportamentali, individuando i sensori più idonei a sviluppare un sistema di sorveglianza in grado di fornire evidenze inerenti il decadimento fisico e cognitivo del paziente e, attraverso la gestione di “Alert”, avvertire precocemente operatori e caregiver.

Una visione per il futuro

L’adozione della soluzione innovativa proposta in Beside permetterà nel lungo termine diversi vantaggi quali l’incremento del periodo di indipendenza dei pazienti con Mild cognitive impairment (decadimento cognitivo lieve) e un maggiore coinvolgimento sociale per le persone con demenza (improvement of quality of life). A ciò si aggiunga il vantaggio della riduzione della spesa sanitaria derivante dalla riduzione del rischio caduta e quindi dal minor numero di accessi ai pronto soccorso e ai ricoveri ospedalieri, oltre ad una maggiore permanenza del paziente presso il proprio domicilio e il conseguente ritardato ricorso a strutture assistenziali.

*(Por Fesr—Fse 2014–2020. Fondo europeo sviluppo regionale. azione 1.6 – Avviso pubblico “InnoNetwork”)

A cura di Vivisol

 

 

 

Torna su
Arrivano le prime raccomandazioni sulle vaccinazioni per le persone con emofilia

Oltre 80 specialisti hanno contribuito alla prima consensus mai stilata sul tema. Presidente Aice: “Finalmente colmata una grande lacuna nella gestione dei nostri pazienti: le raccomandazioni forniscono chiare indicazioni non solo sulla tempistica, ma anche sull’esecuzione nel modo più corretto per evitare emorragie ai pazienti emofilici”


Sono nate le prime Raccomandazioni sul tema emofilia e vaccinazioni, definite da oltre 80 specialisti italiani. In particolare il progetto ha coinvolto un board di 11 ematologi e immunologi, e, seguendo la metodologia Delphi, ha raccolto i consensi di 72 specialisti esperti di emofilia. Il lavoro finale “Consensus statements on vaccination in patients with haemophilia – Results from the Italian HaEmophilia and VAccinations (HEVA) project”, realizzato con il supporto incondizionato di Sobi, è stato pubblicato su Haemophilia.

Una necessità per le persone con emofilia

“Il progetto colma una necessità importante nella gestione dei pazienti con emofilia: bambini, adolescenti e adulti” ha dichiarato Elena Santagostino, presidente Aice (associazione italiana centri emofilia) e responsabile dell’Unità emofilia Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. “Le raccomandazioni ci forniscono chiare indicazioni non solo sulla tempistica, ma anche sull’esecuzione nel modo più corretto per evitare emorragie ai pazienti emofilici”. Oggi vi è una certa cautela nel vaccinare i pazienti emofilici, per il timore di indurre lo sviluppo di inibitori in particolare nella popolazione pediatrica. Con un conseguente ritardo nell’applicazione del calendario vaccinale o addirittura la mancata immunizzazione di questi pazienti.

Un punto di riferimento

Dal calendario vaccinale nei pazienti con emofilia, all’indagine sui protocolli applicati e sulle vie di somministrazione ottimali dei vaccini; dalle vaccinazioni nei pazienti emofilici con inibitori, al rischio di sviluppo di inibitori durante le vaccinazioni. Gli esperti hanno valutato tutte le tematiche correlate attraverso il questionario Delphi. Hanno così raccolte le evidenze scientifiche, a oggi pubblicate, e stilato le raccomandazioni. “La cui pubblicazione – spiega Simone Cesaro, direttore dell’Unità operativa di ematologia e oncologia pediatrica – è una buona notizia ed è frutto di un grande impegno e sforzo collegiale. Saranno un punto di riferimento sul tema vaccinazioni ed emofilia per tanti colleghi, pazienti e genitori”.

 Ampliare il raggio di azione

“Questo progetto scientifico-educazionale ha permesso a noi esperti di emofilia di ampliare il nostro raggio di azione” ha aggiunto Annarita Tagliaferri, responsabile della Struttura semplice dipartimentale Centro hub emofilia e malattie emorragiche congenite Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. “Ma anche di confrontarci per la prima volta con medici esperti di vaccinazioni e immunologi. La partecipazione alla Delphi di oltre 70 medici esperti di emofilia, dimostra la necessità di avere a disposizione un documento come questo”.

L’auspicio di Renata Mazzucchelli, medical advisor di Sobi Italia, è che ora il progetto, possa essere di esempio anche in altri ambiti clinici.

 

Torna su
Elenco malattie Oms, entra anche la dipendenza da videogame

L'ingresso nel registro di questa nuova patologia sarà effettivo nel 2022 aggiornando International statistical classification of diseases and related health problems. Si parlerà quindi di "gaming disorder" che a inizio 2018 era stato già riconosciuto come disturbo mentale


Era già nell’aria, ma ora è ufficiale e la dipendenza da videogame entra nella lista delle nuove patologie dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’annuncio è arrivato durante l’Assemblea generale in corso a Ginevra.

New entry

L’ingresso nel registro di questa nuova patologia sarà effettivo nel 2022 aggiornando International statistical classification of diseases and related health problems. Si parlerà quindi di “gaming disorder” che a inizio 2018 era stato già riconosciuto come disturbo mentale. Il ‘gaming disorder’ è definito come una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline che presentano un mancato controllo sul gioco e una sempre maggiore priorità data al gioco (a discapito della vita quotidiana). Il comportamento deve essere reiterato per più di 12 mesi prima di far partire una diagnosi di questo tipo.

Le malattie rare

L’elenco non si ferma solo al gaming disorder. Sono state inserite anche i codici di oltre 55 mila malattie e condizioni patologiche in modo tale da uniformare le diagnosi e le relative terapie in tutto il mondo.

La reazione delle società di gaming

Già dal 2018 le aziende attive nel settore aveva fortemente criticato la decisione dell’Oms. Gli incontri tra le parti non sono mancate, soprattutto tra l’Entertainment software association (Esa), l’associazione delle imprese videoludiche e i rappresentanti dell’Oms. Preoccupano, dal punto di vista degli imprenditori, le possibili ripercussioni su un mercato da oltre 90 miliardi di dollari.

 

Torna su
Dispositivi medici impiantabili: due nuove gare Consip

La centrale acquisti della Pubblica amministrazione avvia le procedure per aggiudicare accordi quadro per la fornitura di pacemaker, defibrillatori, loop recorder e stent coronarici. Con il supporto delle società scientifiche di riferimento


Due nuove gare centralizzate per la fornitura di dispositivi medici impiantabili, con il supporto scientifico dei clinici. Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, ha annunciato oggi l’avvio di due procedure per l’aggiudicazione di Accordi quadro destinati alle strutture sanitarie pubbliche. La prima procedura riguarda 52.300 dispositivi impiantabili attivi per funzionalità cardiaca, suddivisi in 11 lotti che comprendono pacemaker, defibrillatori impiantabili e (per la prima volta in una gara Consip) anche i loop recorder, dispositivi sottocutanei utilizzati nella diagnosi dei disturbi del ritmo cardiaco. La seconda gara prevede invece l’acquisto di 105.000  stent coronarici, suddivisi in 4 lotti (che comprendono diverse tipologie di BVS e DES).

Il supporto scientifico

Alla predisposizione di entrambe le gare hanno contributo l’Associazione italiana di aritmologia e cardiostimolazione (Aica), per i dispositivi impiantabili attivi, e la Società italiana di cardiologia interventistica (Gise) per gli stent. L’obiettivo del coinvolgimento dei medici, ricorda Consip in una nota, “è  garantire appropriatezza clinica e tecnologica dei prodotti, nel rispetto delle esigenze del paziente”.

Gli accordi quadro

Gli Accordi quadro durano 24 mesi e prevedono diversi aggiudicatari, con la possibilità per le strutture sanitarie di selezionare il fornitore in base al criterio della “scelta clinica”. Un’impostazione, precisa Consip, “accolta favorevolmente, oltre che dalle amministrazioni, dalle società scientifiche e dal mercato della fornitura”. Come per le altre gare del settore sanitario, le Commissioni giudicatrici saranno composte da medici esperti del settore.

 

Torna su
Malattie rare: alla Camera una proposta di legge sulle immunodeficienze primitive

Un’iniziativa parlamentare prova a tracciare un percorso completo dallo screening neonatale alla riabilitazione, fino al supporto psicologico. Prevista anche una speciale “Tessera del paziente” per accedere ai servizi


Un percorso di cura chiaro ed efficiente per migliorare l’assistenza dei malati rari affetti da immunodeficienze primitive, un gruppo di oltre 250 patologie congenite che compromettendo il sistema immunitario favoriscono infezioni frequenti gravi. È l’obiettivo di una proposta di legge presentata oggi alla Camera dai Paolo Siani, Ubaldo Pagano e Vito de Filippo, membri Pd in Commissione Affari Sociali.

Un percorso completo

Il percorso immaginato dalla proposta è “completo”, nel senso che include screening neonatale, riabilitazione, supporto psicologico, reti, formazione degli operatori. Molta attenzione è dedicata alla diagnosi precoce. La diagnosi, quando arriva, è spesso tardiva: passano in media 5,5 anni dai primi sintomi per gli adulti e 2,5 anni per i bambini.

“Il senso di questa proposta di legge sta anzitutto nel bisogno di individuare queste malattie quando il bambino non ha ancora contratto infezioni, evitando così sofferenza, complicanze e in alcuni casi anche la morte – spiega Paolo Siani, primo firmatario – La nostra idea è stata quella di proporre una legge che permetta di individuarle alla nascita attraverso lo screening e questa proposta di legge mira a dare lo strumento a tutte le Regioni per poter introdurre questa misura. Un’altra ragione che sta dietro questa proposta – ha concluso Siani – è la volontà di mettere in rete tutti i servizi che servono per le immunodeficienze e di includere nel percorso la fase di transizione dall’età pediatrica a quella adulta facendo in modo che, attraverso la rete che proponiamo, non si interrompa l’assistenza. Inoltre vanno inseriti nella rete non solo i presidi ospedalieri, ma anche i servizi di sostegno psicologico ai pazienti e alle famiglie. In particolare, ai fratelli dei bambini affetti da immunodeficienza.”

I pazienti

La proposta di legge piace all’Associazione immunodeficienze primitive (Aip): “La proposta, a cui Aip ha collaborato, è sicuramente una buona notizia per i pazienti”, commenta il presidente Alessandro Segato. “Confidiamo – continua – che i contenuti della legge possano permettere diagnosi tempestive e facilitare e rendere omogenei i percorsi terapeutici sul territorio nazionale anche grazie al coinvolgimento delle associazioni di pazienti, come previsto dall’art. 8. Auspichiamo e sollecitiamo che si abbia la possibilità di calendarizzare nei lavori parlamentari la proposta al più presto affinché possa vedere la luce quanto prima”.

Screening e terapie

Concorda sull’importanza di una diagnosi precoce Alessandro Aiuti, vice-direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia genica (Sr-Tiget) di Milano, che ha contribuito alla messa a punto della terapia genica per alcune forme di immunodeficienze di origine genetica, come il deficit di adenosina deaminasi (ADA SCID) e la sindrome di Wiskott-Aldrich. La diagnosi precoce grazie allo screening neonatale è fondamentale per offrire nel più breve tempo possibile le terapie disponibili: ecco perché questa legge è importante, per i pazienti di oggi e di domani”, commenta Aiuti.

Fra le misure incluse nella proposta, anche quella di una “Tessera del paziente”, che dovrebbe riportare diagnosi e le complicanze della malattia e grazie alla quale il paziente potrà accedere a tutti i servizi dedicati sia in regime ospedaliero di ricovero, sia ambulatoriale, di day hospital e cure a domicilio.

 

Torna su
Raccolta sangue, l’Oms assegna all’Italia la giornata mondiale 2020

Il nostro Paese ospiterà l’anno prossimo il World Blood Donor Day dell’Organizzazione mondiale della sanità. Grillo: “Riconoscimento alla qualità del sistema”


L’Italia ospiterà nel 2020 il World Blood Donor Day, l’evento globale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dedicato alla donazione del sangue e celebrato il 14 giugno. Lo annuncia una nota del ministero della Salute, spiegando che l’Oms ha premiato la candidatura italiana presentata a dicembre scorso dallo stesso dicastero in collaborazione con il Centro nazionale sangue (Cns) e le associazioni di donatori. Per quest’anno, invece, la giornata sarà ospitata dal Ruanda.

Trasfusioni e farmaci plasmaderivati

“L’Oms – commenta il ministro della Salute, Giulia Grillo – ha apprezzato l’autorevolezza e l’efficacia della proposta italiana . L’assegnazione dell’evento globale è un riconoscimento alla qualità del nostro sistema sangue e alla generosità dei nostri donatori, che insieme riescono a garantire l’autosufficienza all’Italia sia per gli interventi urgenti che per migliaia di pazienti che dipendono quotidianamente dalle trasfusioni e dai medicinali plasmaderivati”. Secondo il ministro, sarà anche l’occasione per “promuovere in tutto il mondo il modello del sistema sangue italiano che grazie alla donazione volontaria, anonima, non remunerata, responsabile e periodica garantisce terapie salvavita a tutti i pazienti che ne hanno necessità”. Grillo è soddisfatta: “Il successo – sottolinea – arriva a pochi giorni dall’approvazione da parte dell’Oms della risoluzione italiana sui farmaci, ed è un segno ulteriore della considerazione di cui gode il nostro Paese per le politiche della salute”.

La campagna

In quanto Paese ospitante l’Italia realizzerà la campagna di comunicazione ufficiale dell’Oms e organizzerà eventi scientifici, celebrativi e di promozione della donazione con la partecipazione di una delegazione dei dirigenti dell’organizzazione. Il sistema sangue italiano, che a differenza di altri paesi si basa totalmente sulla donazione volontaria e non remunerata, conta al momento oltre 1,7 milioni di donatori, di cui 1,3 periodici e oltre 300mila alla prima donazione. In media si effettua in Italia una donazione di sangue ogni dieci secondi. Una generosità che consente di trasfondere circa di 1.745 pazienti al giorno e di trattare con medicinali plasmaderivati migliaia di persone al giorno.

 

Torna su
Morbillo, i dati europei: 4,5 milioni di bambini non vaccinati

Secondo un report del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) nel 2017 solo quattro Paesi hanno raggiunto la copertura vaccinale del 95% contro i 14 che ci erano riusciti nel 2007


In Europa oltre 4,5 milioni di bambini non sono stati vaccinati contro il morbillo dal 1999 ad oggi. A dirlo è un report del  Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), che fotografa l’avanzata del morbillo negli ultimi anni e la tendenza a vaccinare sempre meno nel Vecchio Continente. Secondo l’Ecdc, nel 2017 solo quattro Paesi hanno raggiunto la soglia del 95% di copertura vaccinale per le due dosi contro 14 Paesi nel 2007.  Dal 1 gennaio 2016 al 31 marzo 2019 negli Stati membri si sono registrati 44.074 casi, con una media annuale nell’ultimo anno di un milione di persone colpite.

Le fasce d’età

I ritardi nelle coperture vaccinali mettono a rischio di contagio i neonati troppo “vecchi” per essere coperti dagli anticorpi materni ma troppo piccoli per essere vaccinati e gli adulti. La fascia d’età colpita dal morbillo nel 2018-2019 è stata tra i 3 e i 31 anni mentre nel 2009 era tra i 2-18. Nel triennio 2016-2019 il 35% dei contagiati sono stati i giovani di 20 anni mentre tra i neonati la media annuale dei tassi di notifica è stata 44 volte più elevata rispetto alle altre fasce di età. Inoltre i contagi si diffondono da un Paese all’altro della Ue, tanto che, sempre nel triennio 2016-2019, quasi la metà dei casi (43%) è stata “importata” da uno Stato membro con una copertura vaccinale bassa e in cui era in atto una epidemia di morbillo. Secondo l’Ecdc, finché la copertura vaccinale rimarrà sotto i minimi ottimali le lacune immunitarie resteranno una minaccia per la salute a livello trasnfrontaliero in tutta la Ue.

In Italia

In Italia – spiega l’Istituto superiore di sanità (Iss) sul portale Epicentro – dal 1 gennaio al 30 aprile 2019 sono stati segnalati 864 casi di morbillo (incidenza 42,9 casi per milione di abitanti), di cui 176 a gennaio, 168 a febbraio, 221 a marzo e 299 ad aprile. Le segnalazioni provengono da 19 Regioni, ma oltre due terzi dei casi si sono verificati in Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. L’età mediana dei casi è 30 anni. Sono stati segnalati 86 casi in bambini sotto i 5 anni di età, di cui 31 avevano meno di 1 anno. L’87% dei casi non era vaccinato al momento del contagio. Un terzo circa dei casi ha sviluppato almeno una complicanza. Tra le complicanze, sono stati segnalati anche due casi di encefalite. Nello stesso periodo sono stati registrati 7 casi di rosolia con un’età mediana di 29 anni. Per quanto riguarda le coperture, secondo i numeri per la prima dose (24 + 6 mesi di età) aggiornati a dicembre 2018, il dato nazionale si attesta al 94,15%, sfiorando la soglia del 95% suggerita dall’Organizzazione mondiale della sanità.

 

Torna su
Disturbi del sonno, quando curarli a domicilio conviene (anche al Ssn)

In ambito respiratorio, l'esecuzione e la domiciliazione degli esami legati a questa patologia, gestite in collaborazione con i centri specializzati, garantisce un servizio più tempestivo per i pazienti. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL


La sindrome delle apnee ostruttive del sonno, abitualmente conosciuta con l’acronimo inglese Osas (Obstructive sleep apnea syndrome) rappresenta il più comune tra i disturbi del sonno in ambito respiratorio. È un quadro morboso dovuto a ricorrenti episodi di ‘collasso’ delle vie aeree superiori che determinano complete o parziali interruzioni della respirazione rispettivamente apnee od ipopnee.

Tali eventi causano de-saturazioni ossiemoglobiniche, frammentazione del sonno e alterazioni dell’emodinamica cardiovascolare cui solitamente fanno seguito eccessiva sonnolenza diurna, complicanze cardiache e cerebrovascolari, insufficienza respiratoria notturna e diurna. I principali fattori di rischio dell’Osas sono alterazioni anatomo-funzionali delle vie aeree superiori, l’obesità, il tabagismo e l’eccessivo consumo serale di alcol.

Disturbi del sonno, prevalenza e impatti socio-economici

Nell’ambito delle patologie croniche, l’Osas presenta una prevalenza elevata soprattutto nella popolazione adulta (30-60 anni). I dati variano da paese a paese, ma si può affermare che tale patologia coinvolga almeno il 2% della popolazione femminile e il 4% di quella maschile. Tuttavia, a seconda della severità e considerati alcuni sintomi come il russamento, nelle sue varie forme, la patologia può arrivare a interessare il 24% degli uomini e il 9% delle donne. In Italia si stima che ne siano affette tra le 800 mila e il milione di persone, di cui solo il 20% ha ricevuto una diagnosi.

La mancata osservanza di un appropriato percorso diagnostico-terapeutico si può ripercuotere sullo stato di salute della persona e ha risvolti socio-economici diretti e indiretti non trascurabili: ad esempio il lavoratore affetto da Osas è esposto a un rischio di infortunio sul lavoro doppio rispetto al collega sano. Inoltre, recenti dati evidenziano come ogni anno in Italia più di 12 mila incidenti stradali siano causati da disturbi del sonno.

Disturbi del sonno, l’importanza di una corretta diagnosi

Il trattamento tempestivo della patologia riduce lo sviluppo delle Osas e i relativi costi per il Servizio sanitario. Già oggi è possibile disporre di soluzioni diagnostiche diverse per grado di complessità, tempi di esecuzione e costi: lo standard diagnostico è la polisonnografia notturna eseguita presso i laboratori di medicina del sonno, durante la quale vengono monitorati numerosi parametri del paziente, come la frequenza cardiaca e il flusso respiratorio.

Recenti pubblicazioni hanno dimostrato che anche gli esami eseguiti a domicilio dei pazienti sono affidabili come quelli eseguiti nei centri specializzati (ospedalieri e non), a patto che si rispettino criteri e protocolli per l’esecuzione e la relativa refertazione stabiliti dalle varie società scientifiche specialistiche coinvolte nella diagnosi e terapia.

Per gli interventi legati ai disturbi del sonno, gli Homecare provider possono offrire un servizio completo grazie a tecnici qualificati, disponibilità di dispositivi diagnostici portatili (tipo holter) e un’organizzazione capillare in grado di poter accedere al domicilio del paziente, sollevando così quest’ultimo dalla necessità di onerosi spostamenti presso le strutture e garantendo il confort del proprio domicilio.

L’esecuzione e la domiciliazione degli esami, gestita in collaborazione con i centri specializzati, permette altresì l’allargamento della base dei possibili destinatari di questo importante monitoraggio, senza incidere sugli inevitabili tempi di attesa legati al ricovero ospedaliero, garantendo così un servizio più tempestivo ed efficace per i pazienti.

Le soluzioni terapeutiche

Al percorso diagnostico segue, naturalmente, la scelta della migliore opzione terapeutica, effettuata dallo specialista secondo standard terapeutici internazionali principalmente basati sulle caratteristiche individuali e l’assenza di controindicazioni specifiche. Tra le terapie disponibili la più efficace nella maggior parte dei pazienti è quella ventilatoria, possibile mediante l’uso notturno della Cpap (Continuous positive airway pressure). La sua efficacia è stata dimostrata su diverse categorie di pazienti, con diverse metodiche e utilizzando differenti parametri: migliora la qualità della vita, la sonnolenza diurna, le alterazioni cognitive, riduce il rischio di mortalità e di insorgenza di patologie cardiovascolari e normalizza l’ossigenazione notturna e l’andamento del sonno.

Negli ultimi tempi si assiste a una crescente diffusione o sperimentazione di altre terapie, anche in combinazione – sia quindi in termini di instead of che add on- tra le quali le più rilevanti sono la terapia posizionale e quella ortodontica. La prima è possibile grazie a dispositivi in grado di modificare la posizione durante il sonno, mentre la seconda si esegue a seguito di un’attenta valutazione preventiva e congiunta tra lo specialista del sonno e l’odontoiatra esperto, che valutano l’adozione di specifiche protesi endo-orali di avanzamento mandibolare.  In caso di comorbidità importanti (assai frequenti) deve essere consigliato un approccio polispecialistico diagnostico-terapeutico. Ad esempio: cardiologico,otorino,neurologico,dietologico e riabilitativo.

In conclusione

La sindrome delle apnee ostruttive del sonno rappresenta oggi un grave e crescente problema sanitario, sociale ed economico in quanto soprattutto in Italia risulta fortemente sottodiagnosticata e potenzialmente fatale se non curata. Questa malattia cronica necessita di un approccio multidisciplinare con azioni diagnostiche e terapeutiche coordinate tra diversi specialisti allo scopo di garantire un intervento ottimale e completo per tutte le età.

Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni, è ancora troppo ampia la distanza tra i bisogni di assistenza sanitaria della popolazione e l’offerta diagnostica e terapeutica necessaria per soddisfarli completamente: una diagnosi precoce e adeguate terapie infatti consentirebbero di limitare i costi in capo al Ssn anche grazie a strategie di prevenzione e di sensibilizzazione della popolazione generale al fine di identificare e trattare i soggetti affetti.

A cura di Vivisol

 

Torna su
β-Talassemia Trasfusione-Dipendente, approvata in Ue la prima terapia genica

La terapia sviluppata da bluebird bio è indicata per pazienti di età pari o superiore a 12 anni con β-talassemia Tdt con genotipo non β0/β0, per i quali il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è appropriato, ma non è disponibile un donatore familiare con antigene leucocitario compatibile


La Commissione Europea ha concesso l’autorizzazione condizionale all’immissione in commercio per la terapia genica per la β-talassemia trasfusione-dipendente (Tdt). Si tratta di una terapia a base di cellule autologhe CD34+ che codificano il gene della βA-T87Q globina. La terapia genica, sviluppata da bluebird bio è indicata per pazienti di età pari o superiore a 12 anni con β-talassemia Tdt con genotipo non β0/β0, per i quali il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è appropriato ma non è disponibile un donatore familiare con antigene leucocitario compatibile. La biotech statunitense inizierà ora il processo di negoziazione con Aifa per favorire l’accesso alla terapia per i pazienti appropriati. L’autorizzazione condizionale all’immissione in commercio è valida in tutti i 28 Stati membri dell’UE, nonché in Islanda, Liechtenstein e Norvegia.

La β-talassemia trasfusione-dipendente

La Tdt è una malattia genetica grave causata da mutazioni del gene della beta-globina che induce la riduzione o assenza di una componente dell’emoglobina. Per sopravvivere, le persone affette da Tdt mantengono adeguati livelli di emoglobina mediante trasfusioni croniche di sangue per tutta la vita. Tali trasfusioni comportano il rischio di progressivi danni multiorgano per l’inevitabile sovraccarico di ferro. La terapia genica sviluppata da bluebird bio, somministrata come trattamento una-tantum e mirata per la causa genetica all’origine della Tdt, offre ai pazienti indicati la possibilità di diventare indipendenti dalle trasfusioni. Condizione che ci si aspetta sia mantenuta per tutta la vita.

La prima terapia genica per la β-talassemia

“L’approvazione europea della prima terapia genica per la β-talassemia trasfusione-dipendente rappresenta una pietra miliare nel trattamento di questa patologia” commenta Alberto Avaltroni, General Manager di bluebird bio Italia. “È  frutto di un lavoro di ricerca che stiamo portando avanti da quasi 20 anni grazie al contributo fondamentale di sperimentatori clinici, operatori sanitari, pazienti e loro familiari. Un traguardo straordinario che per noi rappresenta in realtà un punto di partenza che ci spinge a continuare a lavorare, con crescente motivazione, al fianco dei pazienti, della comunità scientifica e dei sistemi sanitari per rendere il trattamento disponibile al più presto per tutte le persone che ne potranno beneficiare”.

Percorsi accelerati

Oltre alla designazione di Priority medicines (Prime), la terapia ha ottenuto dalla Commissione europea la designazione di farmaco orfano per il trattamento della β-talassemia intermedia e major, che rientrano nella Tdt. La valutazione ha avuto luogo nell’ambito dei programmi Priority medicines (Prime) e Adaptive pathways dell’Ema che favoriscono lo sviluppo di farmaci in grado di offrire un importante vantaggio terapeutico rispetto ai trattamenti esistenti o di rispondere a bisogni terapeutici insoddisfatti. I programmi PRIME e Adaptive Pathways hanno consentito un riscontro immediato e favorito una valutazione accelerata, che è stata portata a termine dall’Ema con la tempistica a oggi più rapida possibile per un prodotto medicinale di terapia avanzata.

Un futuro libero dalle trasfusioni

“L’approvazione da parte della Commissione europea significa che ora possiamo contare per un gruppo di pazienti affetti da Tdt su una terapia genica che ha il potenziale per trasformare le loro vite, offrendo loro la possibilità di un futuro libero dalle trasfusioni” ha commentato Franco Locatelli, primario di Onco-ematologia Pediatrica e Terapia Cellulare e Genica presso l’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma che ha partecipato come sperimentatore degli studi clinici.

“Nonostante la gestione della malattia sia migliorata sensibilmente in queste ultime tre decadi grazie all’impegno dei clinici, della comunità scientifica, dei donatori che ci permettono di ricevere le trasfusioni e degli stessi pazienti, il deterioramento fisico e psichico dei malati non ha purtroppo conosciuto un vero arresto” ha aggiunto Tony Saccà, Presidente di United Onlus, Federazione Nazionale delle Associazioni Talassemia, Drepanocitosi e Anemie Rare.

Collaborare con i centri selezionati

“In considerazione della natura estremamente tecnica e specialistica della somministrazione della terapia genica nelle malattie rare, bluebird bio è pronta a collaborare con centri di trattamento qualificati” spiega l’azienda in una nota. “Centri selezionati che abbiano esperienza nel trapianto di cellule staminali e nel trattamento di pazienti con Tdt per eventualmente somministrare la terapia genica a base di cellule autologhe CD34+ che codificano il gene della βA-T87Q-globina”.

 

Torna su
Screening in farmacia: con il “DiaDay” scoperti 5mila casi di diabete in due settimane

Federfarma presenta il bilancio dell’iniziativa a cui hanno aderito oltre cinquemila farmacie in tutta Italia: 130 mila test effettuati, lo scorso autunno, in 13 giorni


Non sapevano di avere il diabete e l’hanno saputo grazie a una campagna di prevenzione in farmacia. In totale sono circa cinquemila i casi di diabete scoperti in soli 13 giorni grazie al DiaDay 2018, la campagna di screening promossa nelle farmacie italiane lo scorso novembre. Il bilancio dell’iniziativa è stato presentato oggi a Roma nella sede di Federfarma.

I numeri

Al DiaDay 2018 hanno aderito oltre cinquemila farmacie, di cui 2.699 al Nord, 883 al Centro e 1.610 al Sud. Allo screening hanno partecipato quasi 130mila persone, di cui un 45% con almeno 65 anni di età. In totale sono stati diagnosticati 4.893 casi di diabete. “Queste persone – commenta Marco Cossolo, presidente di Federfarma – possono ora curarsi adeguatamente e molto probabilmente eviteranno le complicanze e il progredire della malattia. Un vantaggio per i malati ma anche per le casse del servizio sanitario nazionale perché la malattia costa esponenzialmente di più man mano che progredisce” .

Il tema dell’aderenza

Su 130 mila soggetti monitorati, circa il 9% ha dichiarato al farmacisti di essere diabetico. A questa percentuale del campione è stato quindi sottoposto un questionario per valutare l’aderenza alla terapia. “L’aderenza alla terapia – commenta Silvia Pagliacci, presidente del Sunifar (farmacie rurali) e coordinatrice del progetto DiaDay – è un problema gravissimo e non solo per il diabete. Uno studio recente su 5 patologie croniche molto diffuse (diabete, osteoporosi, fibrillazione atriale, dislipidemie e ipertensione) ha calcolato che se i malati seguissero scrupolosamente le terapie prescritte loro dal medico, il Ssn potrebbe risparmiare fino a 3,7 miliardi di euro (pari al 22,6% della spesa farmaceutica territoriale, che è di 16,5 miliardi di euro). La presa in carico del paziente cronico da parte della farmacia la riduzione delle ricadute e delle recidive e una riduzione degli accessi ai Pronto soccorso e dei ricoveri ospedalieri. In sintesi, più salute e meno spesa”.

Al 70% dei diabetici “noti” sono stati prescritti restrizioni dietetiche e farmaci orali. Al 13,28% è stata prescritta solo la dieta alimentare; all’11,02% sono stati prescritti dieta, farmaci orali e insulina. Al 5,67% dieta e insulina. lI 62% dei diabetici noti dichiara di fare l’automisurazione della glicemia, il 49% si sottopone al dosaggio dell’emoglobina glicata. Di questi, il 46% ogni sei mesi; il 5% lascia passare più di un anno tra una misurazione e l’altra, 22% la fa ogni tre mesi; il 25% ogni anno.

La farmacia dei servizi

“Spesso  – commenta Luigi D’Ambrosio Lettieri, vicepresidente della Federazione degli ordini dei farmacisti – si pensa alla farmacia come luogo di mera isperazione del farmaco. Ma con lo sviluppo del concetto di  “pharmceutical care”, che ispira la farmacia in tutta Europa, il ruolo della farmaci oggi si estende in modo sempre più importante sul versante dell’erogazione di servizi, servizi ad alto livello di professionalità e possibilmente di infungibilità”. Su questo fronte, proseguono i lavori del Tavolo sulla farmacia dei servizi istituito dal ministero della Salute.

Il DiaDay 2018 ha avuto il patrocinio di Fofi, Fnomceo, Amd, Sid, Aild, Utifar, Fenagifar e cittadinanzattiva. La raccolta dei dati e le elaborazioni statistiche sono state realizzata da Profarma, società di servizi di Federfarma.

 

Torna su
Lea: ora anche i cittadini potranno suggerire (online) gli aggiornamenti

 

Attivato sul sito del ministro il servizio per richiedere l’inclusione o l’esclusione di prestazioni a carico del Ssn. La procedura aperta anche ad Asl e ospedali, professionisti, aziende produttrici e Regioni


“Da oggi anche i cittadini e le associazioni dei pazienti potranno richiedere al ministero della Salute l’inclusione nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) di nuove prestazioni o servizi”. Così il ministro della Salute, Giulia Grillo, ha annunciato oggi su Facebook l’attivazione del servizio online, sul portale del dicastero, per suggerire l’aggiornamento delle prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn). “La Commissione nazionale per l’aggiornamento dei Lea, presieduta dal ministero – spiega Grillo – fornirà una risposta, positiva o negativa. Una novità significativa che rende sempre più reale il dialogo con i cittadini e le associazioni”.

Cosa segnalare

La Commissione esaminerà non solo le richieste di inclusione nei Lea di nuove prestazioni o servizi, ma anche quelle di modifica o di esclusione di prestazioni o servizi già inclusi, come anche le richieste di nuove esenzioni per patologia o di modifica di quelle esistenti.

Chi può farlo

La procedura online non è rivolta solo a cittadini e associazioni di pazienti. Potranno avanzare le richieste anche, ad esempio, le aziende sanitarie, i professionisti del Ssn, gli Irccs e i Policlinici universitari, le società scientifiche, le aziende produttrici e loro associazioni, le Regioni e le Province autonome.

Le priorità

La Commissione considererà prioritarie le richieste che “potrebbero avere un impatto elevato sulla salute della popolazione e/o sono destinate a soddisfare un bisogno sanitario non soddisfatto, abbiano rilevanza rispetto alle priorità sanitarie definite a livello nazionale e/o regionale e siano supportate da robuste prove di efficacia”.

 

Torna su
Apnee notturne, in aumento la correlazione con gli incidenti stradali (e curarle costa sempre di più)

Il disordine respiratorio durante il sonno aumenta da due a otto volte la probabilità di incidenti in auto. Ecco perché servono strutture specializzate alla diagnosi e alla cura della patologia. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL


La sindrome delle apnee notturne è un disordine respiratorio che avviene durante il sonno (ne abbiamo parlato in questo articolo). È caratterizzato da ricorrenti episodi di ‘collasso’ delle vie aeree superiori che determinano complete o parziali interruzioni della respirazione rispettivamente apnee o ipopnee. La patologia ha una prevalenza in alcune fasce d’età superiore al 20% sia per il sesso maschile che per quello femminile.

Apnee notturne, la correlazione con gli incidenti stradali

A oggi si stima che la sindrome delle apnee notturne aumenti da due fino a otto volte la probabilità di incidenti stradali, esponendo soprattutto quelle categorie di lavoratori impegnati per lungo tempo nella guida di qualsiasi mezzo di trasporto. L’eccessiva sonnolenza diurna è riconosciuta come una delle principali cause di un elevato numero di incidenti stradali, pertanto risulta essere una tematica di particolare interesse sia per il cittadino, interessato alla prevenzione della propria salute, sia per lo Stato tramite la promozione di programmi rivolti alla diagnosi e dunque al trattamento di soggetti con queste problematiche al fine di prevenire tutta una serie di conseguenze sotto diversi punti di vista sia sanitari che sociali ed economici.

Nel 2015 è stato pubblicato uno studio intitolato “La sonnolenza diurna al volante in Europa: un’indagine in 19 paesi” volto a indagare il problema relativo alla sonnolenza diurna e alla correlazione con gli incidenti stradali. Lo studio ha ottenuto 12.434 risposte ed è emerso come la sonnolenza al volante causi tra il 10 e il 30% degli incidenti stradali.

Lo studio ha voluto mettere in evidenza quanto manchino dei dati statistici ufficiali in merito a questa tematica. Inoltre, da alcune ricerche emerge che fino all’8% della popolazione generale è affetta da sonnolenza diurna, mentre si stima che la probabilità di addormentarsi mentre si guida vada dal 6 fino al 35%.

Il sesso maschile, un elevato numero di ore passate a guidare e un indice di massa corporeo (Bmi) superiore a 30, sono sintomi che indicano maggiore probabilità di addormentarsi mentre si guida.

Apnee notturne, l’intervento dell’Unione europea

L’Unione europea ha iniziato a prendere provvedimenti in merito a questa patologia e ha ritenuto opportuno intervenire portando all’attenzione degli Stati la necessità di sviluppare dei percorsi che facilitino la diagnostica e il trattamento, introducendo la direttiva 2014/85/Eu che vuole delineare un percorso diagnostico/terapeutico per coloro che richiedono o rinnovano la patente.

In Italia la direttiva è stata recepita nel dicembre 2015, sancita dalla Conferenza stato regioni del 12 maggio 2016 e dispone che per il rilascio o il rinnovo della patente di guida, qualora il medico monocratico in sede di visita per l’idoneità, verificasse la presenza di sintomatologia Osas (Sindrome delle apnee ostruttive nel sonno), il cittadino deve essere sottoposto a ulteriori approfondimenti per verificare la presenza e la gravità della patologia.

Nel momento in cui il medico dovesse riscontrare alcuni sintomi, come prima cosa dovrà somministrare al paziente un questionario di autovalutazione della sonnolenza diurna e in base al risultato verrà stabilito il profilo di rischio. A fronte di un basso profilo di rischio, il medico procederà al rilascio/rinnovo della patente. Invece, qualora il rischio fosse medio o elevato, il medico rimanderà il paziente alla commissione medica locale (Cml) che valuterà il caso effettuando altri test.

La commissione con questi test, accerterà ulteriormente il profilo di rischio del paziente concedendo il rilascio o il rinnovo, a condizione che dimostrino un controllo dei sintomi e un miglioramento della sonnolenza diurna mediante l’uso di Cpap o di terapie alternative (orale o posizionale). In caso contrario la patente non potrà essere rilasciata né rinnovata. Per tutti coloro che soffrono di Osas, la validità della patente si riduce a tre anni per le patenti A e B e di un anno per le patenti professionali C, D e K.

La gestione della patologia

Nell’ottica di una corretta gestione della patologia occorrerebbe predisporre di maggiori strutture specializzate alla diagnosi e alla cura dell’Osas e promuovere campagne informative dirette agli Mmg. I soli dati economici attestano infatti l’esistenza di ampi margini per la realizzazione di nuove strutture e l’introduzione dei processi di trattamento a una più numerosa fascia di pazienti che oggi soffrono di Osas.

Se l’Italia potesse prendersi cura di almeno tre quarti della popolazione affetta da Osas (contro le attuali stime di un misero 2,5 %) si otterrebbe un risparmio totale pari a 2,8 miliardi di euro, generato da minori costi sanitari, minori costi per mancata produzione, minori costi per incidenti stradali, minori costi per incidenti sul luogo di lavoro, minori costi per incidenti domestici e durante il tempo libero. Risulta quindi indispensabile che le istituzioni sanitarie sostengano l’adozione di corrette pratiche diagnostiche e di trattamento condivise da tutti gli specialisti che operano a livello ospedaliero e territoriale.

A cura di Vivisol

Homepage rubrica “Homecare service provider: la presa in carico del paziente a domicilio”

 

Torna su
Invecchiamento e cronicità in aumento, serve un nuovo concetto di salute

È quanto emerso dal convegno "Healthytude, un nuovo concetto di salute", organizzato da EY e Campus Fandango Club, che si è svolto a Milano venerdì 21 giugno all’interno della prima settimana milanese dedicata alla salute e al benessere


La domanda di salute in Italia è destinata a crescere. Perché, secondo le stime, nel 2040 il 33% degli italiani avrà più di 65 anni, con conseguente aumento delle malattie croniche. Al tempo stesso, i limiti di budget imposti alla sanità pubblica continueranno a indebolire i l’offerta di servizi sanitari, ampliando le diseguaglianze nella popolazione. Per tutti questi motivi serve ripensare il concetto di salute. È questo in sintesi il concetto alla base del convegno “Healthytude. Un nuovo concetto di salute”, che si è svolto a Milano venerdì 21 giugno all’interno nell’ambito di Healthytude, prima settimana milanese dedicata alla salute e al benessere, ideata da Campus Fandango Club ed EY.

Salute, un sistema in evoluzione

Dal convegno è emerso quanto il sistema della salute nel nostro Paese si stia trasformando. A dirlo sono soprattutto i numeri: quelli dei limiti alla spesa sanitaria pubblica innanzitutto. Che si prevede scenderà fino al 6,4% del Pil nel 2021 (era il 6,8% nel 2016). A tutto ciò si aggiunge l’aumento dei tempi di attesa per prestazioni nelle strutture sanitarie pubbliche, arrivati nel 2017 a 80 giorni (+13% rispetto al 2014), il doppio rispetto alle strutture accreditate private (42 giorni) e 10 volte superiori al settore privato puro. Inoltre, e qui il dato più preoccupante, si stima che oggi 12 milioni di italiani rinuncino alle cure, il doppio rispetto a 10 anni fa.

Oggi la sanità pubblica è pressata tra la necessità di contenere la spesa e quella di far fronte a una domanda di salute crescente”, ha affermato Donato Iacovone, amministratore delegato di Ey in Italia e managing partner dell’area mediterranea. “Abbiamo stimato che nei prossimi anni la spesa sanitaria complessiva crescerà a un tasso annuo del 2,2%. In particolare, nel 2024, la spesa pubblica raggiungerà i 124 miliardi di euro, con un incremento annuo dell’1,3%, mentre la spesa privata aumenterà del 4,4% arrivando a toccare i 56 miliardi, di cui 50 solventi, 4 di assicurazioni private e 2 di fondi sanitari integrativi.

“Il settore della salute e del benessere”, continua Iacovone, “si trova ad affrontare nuove importanti sfide. Occorre quindi un nuovo modello di salute che faciliti la collaborazione tra tutti gli attori dell’ecosistema e migliori la qualità della salute in modo sostenibile e accessibile, facendo leva sul potenziale dei dati e delle nuove tecnologie, con la persona e il suo benessere al centro”.

 Il ruolo delle persone nella gestione della salute

Oggi le persone hanno un ruolo sempre più attivo nel gestire la propria salute e prevenire le patologie, adottando comportamenti sani in tema di nutrizione ed esercizio fisco e monitorando il proprio stato, supportati dagli strumenti tecnologici. L’uso delle tecnologie consente, inoltre, la raccolta di dati che possono essere analizzati per migliorare le modalità di prevenzione, diagnosi e cura. Oggi un italiano su due monitora i propri progressi sportivi con tecnologie wearable e applicazioni smartphone. Nel 2017 l’investimento italiano in sanità digitale è stato pari a 1,3 miliardi di euro.

L’incidenza dell’invecchiamento

L’invecchiamento della popolazione incide, oltre che sul sistema sanitario e previdenziale, anche sul modello di organizzazione del lavoro. Si stima che in Italia l’età media della popolazione abbia raggiunto i 44,9 anni nel 2017 e che possa salire fino a 50,2 anni nel 2061. In alcuni settori, come la Pubblica Amministrazione e le grandi aziende, l’età media dei lavoratori è già ben al di sopra dei 50 anni. Allo stesso tempo diminuisce la popolazione in età da lavoro: si prevede che in Italia nel 2040, le persone in età lavorativa saranno 31,5 milioni, in calo di 5 milioni rispetto ad oggi.

Questa situazione ha un impatto sulla produttività. In Italia, il cosiddetto dividendo demografico, cioè il contributo alla crescita economica fornito dall’aumento della popolazione attiva, è già divenuto negativo a partire dagli anni ’90 e, a condizioni invariate, non tornerà positivo prima del decennio 2051- 2060.

Perché serve lavorare (e studiare) di più e tutti

Per rendere più sostenibili le conseguenze di una popolazione più anziana, sono possibili alcune risposte. In primo luogo, lavorare più a lungo e meglio. Si tratta, in realtà, di un processo già in atto: dagli anni ‘2000, per effetto della modifica delle regole sull’età pensionabile, l’occupazione nella fasce di età 45-54 anni e 55-64 anni ha cominciato a crescere in modo esponenziale. Queste categorie di lavoratori necessitano di un aggiornamento delle competenze, che richiede investimenti strutturati.

In secondo luogo, lavorare di più tutti. Oggi, in Italia, il tasso di occupazione femminile è inferiore del 14,3% rispetto alla media Ue, mentre il tasso di occupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è più basso del 17,9%.

Infine, occorre studiare di più: i tassi di attività e occupazione sono strutturalmente più elevati tra i gruppi con più elevato livello d’istruzione. È stato stimato che, se il nostro paese entro il 2040 raggiungesse la composizione per grado di istruzione della popolazione in età da lavoro della Germania, nel lungo periodo potrebbe conseguire un aumento del 3,1 % del Pil pro capite rispetto ai livelli attuali.

 

Torna su
Vaccino antinfluenzale quadrivalente, ora disponibile anche per donne in gravidanza

Sanofi Pasteur, la divisione vaccini di Sanofi, comunica di aver ottenuto l'autorizzazione all’estensione delle indicazioni di utilizzo. È già indicato per gli adulti, gli anziani e i bambini a partire dai sei mesi di età


Sanofi Pasteur, la divisione vaccini di Sanofi, comunica di aver ottenuto l’autorizzazione all’estensione delle indicazioni di utilizzo per il suo vaccino antinfluenzale quadrivalente nelle donne in gravidanza. Garantita, dicono dall’azienda anche la protezione passiva del neonato.

La precedente indicazione

Il vaccino antinfluenzale quadrivalente di Sanofi Pasteur è già indicato per gli adulti, gli anziani e i bambini a partire dai sei mesi di età. Questa nuova indicazione permette ora la vaccinazione antinfluenzale anche delle donne in gravidanza con la conseguente protezione dai rischi della malattia influenzale sia della mamma che del neonato. A seguito della vaccinazione della donna, infatti, i suoi anticorpi passano al feto, permettendo una protezione passiva del futuro neonato sin dai suoi primi giorni di vita. La nuova indicazione – già approvata a livello europeo – è stata ratificata in Italia da Aifa con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale n.143 del 20 giugno scorso. “Durante la gravidanza, le donne rischiano cinque volte di più un ricovero per influenza. Durante l’ultima stagione ben otto donne in gravidanza sono state ricoverate in terapia intensiva per via dell’influenza. Per questo la stessa Oms le annovera tra le popolazioni più fragili e a rischio”, ha commentato Pier Luigi Lopalco, dell’Università di Pisa.

 

Torna su
Medicinali indisponibili: dai farmacisti ospedalieri una piattaforma per monitorare il fenomeno

Con il progetto “Drughost” saranno raccolte online le segnalazioni dei professionisti. I dati, incrociati con quelli di Aifa, aiuteranno a tenere sotto controllo le criticità


Una piattaforma online per monitorare i medicinali indisponibili. Si chiama “Drughost” ed è un’iniziativa della Società italiana di farmacia ospedaliera (Sifo), realizzata – spiega una nota dei farmacisti ospedalieri in stretto rapporto con le segreterie regionali e con il supporto dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). È la prima attività in questo ambito a livello nazionale ed europeo”, spiega la Sifo.

Come funziona

“Si tratta di una piattaforma web based – chiarisce Marcello Pani, membro del direttivo Sifo e coordinatore del progetto – alimentata dai farmacisti ospedalieri e territoriali per raccogliere tutte le segnalazioni di farmaci indisponibili. L’intento a cui vogliamo dare così concretezza è quello di mappare e quantificare costantemente il fenomeno che rende irreperibili farmaci salvavita e che molto spesso impedisce l’accesso alle cure farmacologiche da parte di pazienti affetti da patologie gravissime. L’alimentazione del DataBase della piattaforma avverrà a cura dei singoli professionisti e – dopo validazione da parte della segreteria regionale – l’analisi congiunta e incrociata dei dati provenienti dalla piattaforma Drughost e delle segnalazioni inviate ad Aifa da parte delle aziende titolari di Aic forniranno una stima puntuale e rappresentativa di questa importante criticità che colpisce il Ssn”.

Medicinali indisponibili o carenti

Sifo chiarisce la differenza tra medicinali indisponibili e carenti. “Le carenze – si legge nella nota – sono generalmente legate a problemi produttivi, irreperibilità del principio attivo, provvedimenti di carattere regolatorio, imprevisto incremento dei consumi del medicinale, emergenze nei paesi di produzione o possono essere anche correlate alla non-redditività di farmaci ‘datati’ o di basso costo. Le indisponibilità di un farmaco, invece, sono spesso generate da distorsioni del mercato riconducibili al fenomeno del ‘parallel trade’ che sfrutta le differenze di prezzo dei farmaci sui mercati di differenti Paesi. Le segnalazioni di indisponibilità arrivano dagli operatori sanitari (farmacisti, medici, infermieri), ma spesso anche dalle associazioni dei pazienti, che sono i soggetti coinvolti in prima persona negli effetti pericolosi di questa indisponibilità”.

Il ruolo dei farmacisti

“I farmacisti del Ssn – commenta Simona Serao Creazzola, presidente della Sifo – sono costantemente impegnati a gestire ed attenuare gli effetti di queste carenze, mettendo in atto varie strategie attraverso la gestione delle scorte, l’individuazione di terapie e forniture alternative, e, ove previsto, la gestione delle procedure per l’importazione del farmaco analogo dall’estero. La necessità di intervenire in modo sistematico e incisivo sulle numerose segnalazioni riguardanti l’indisponibilità di medicinali nel nostro Paese ha portato, nel 2015, all’istituzione di un tavolo di lavoro cui prendono parte, con il supporto del Comando Carabinieri NAS, altri enti/associazioni pubblici e privati, e all’avvio di un progetto pilota che consentisse di individuare modalità condivise per l’intensificazione delle attività di vigilanza sulla concreta applicazione delle norme vigenti, attraverso una serie di controlli sul territorio”.

Nuovi dati

Il portale è uno dei frutti delle sinergie attivate con il tavolo tecnico. “Il sistema di segnalazione delle mancate forniture agli ospedali – continua la presidente Sifo – servirà a rendere trasparenti disfunzioni e carenze oggi non visibili, e a permettere alle Regioni di ‘qualificare’ i fornitori, accedendo ai dati che verranno resi disponibili dal territorio. Un esercizio quindi importante per capire se esistano problemi sommersi, o incidenti ricorrenti che sia necessario riportare alle amministrazioni centrali, che potranno intervenire avendo a disposizione dati oggettivi e trasversali”.

La collaborazione tra diversi attori è il punto di forza: “Il flusso di dati che verrà generato – aggiunge Marcello Pani – sarà coordinato con quello proveniente dalle farmacie, relativo ai farmaci mancanti, oggetto di un altro progetto parallelo di segnalazione avviato con Federfarma e le Regioni nell’ambito del Tavolo Tecnico Indisponibilità: il complesso dei dati dovrebbe permettere di ottenere un’immagine affidabile della situazione, e di supportare interventi mirati”.

Si parte dalla Puglia

Il portale Drughost è raggiungibile dal sito www.sifoweb.it e viene reso disponibile gradualmente su tutto il territorio nazionale attraverso una serie di fasi di implementazione regionale. Si parte dalla Puglia, dove ieri la novità è stata presenta nel corso di un workshop a Bari.

 

Torna su
Assistenza domiciliare, l’impatto delle cure sulla sostenibilità del Ssn

Stiamo assistendo a un cambiamento significativo dei modelli di assistenza, con un’evoluzione verso un modello trasversale e integrato tra diversi soggetti (ospedale-territorio-domicilio). Se ne parlerà durante l'evento "Long-term care four" il 3-4 luglio a Roma. *IN COLLABORAZIONE CON VIVISOL


Gli italiani vivono più a lungo, ma non vivono meglio. Se è vero che negli ultimi quarant’anni la popolazione ha guadagnato circa 10 anni di vita grazie all’impegno nella prevenzione, all’avanzamento della tecnologia e al progresso della ricerca clinica, non si è visto però un contemporaneo aumento degli anni passati in salute, mentre con l’aumento dell’età cresce esponenzialmente il fenomeno delle comorbilità che coinvolge fino al 65% degli ultraottantenni. In un contesto di questo tipo, la vera sfida per il Servizio sanitario nazionale consiste principalmente nel riuscire a far fronte a una crescente domanda di assistenza sanitaria a lungo termine.

All’interno dell’universo sanitario stiamo assistendo a un cambiamento significativo dei modelli di assistenza, con un’evoluzione da un sistema verticale ospedale-centrico verso un modello trasversale e integrato tra diversi soggetti (ospedale-territorio-domicilio) che sia in grado di garantire la presa in carico del paziente cronico dalla prevenzione alla cura, fino alla riabilitazione e all’assistenza. Di questi temi si parlerà anche durante l’evento “Long-term care four“,  il 3-4 luglio a Roma, organizzato da Italia Longeva. Vivisol sarà presente con un proprio intervento.

Assistenza domiciliare, il sistema delle cure tra benefici e criticità del sistema

Gli Homecare provider, grazie a competenze sanitarie e tecniche sviluppate in oltre trent’anni di servizi domiciliari, forniscono oggi tutte le terapie (assistenza sanitaria, ossigenoterapia, ventilazione artificiale, nutrizione enterale e parenterale, cura delle patologie del sonno, ausili e comunicatori) che permettono al paziente con cronicità stabilizzata di essere curato a domicilio, garantendogli un’assistenza continua e un monitoraggio h 24.

Troppo spesso il sistema dell’assistenza domiciliare risulta insufficiente a soddisfare un bisogno crescente e appare frammentato rispetto a una reale presa in carico del paziente cronico. Per fare un esempio, oggi a un paziente affetto da una patologia neurodegenerativa potrebbero essere erogate terapie domiciliari da diversi provider in base alle aggiudicazioni delle gare d’appalto per ogni singolo servizio. Tale disintegrazione aggrava il già pesante ruolo del caregiver sul quale ricade l’onere di coordinare tutti gli operatori che ruotano intorno al proprio famigliare.

Il contributo degli Homecare Provider in ottica di efficienza e adeguatezza

Gli Homecare Provider hanno oggi tutte le potenzialità per garantire l’intero percorso assistenziale a 360°, dalle prestazioni sanitarie alla gestione della tecnologia life support, superando così quella frammentazione del sistema che penalizza il paziente. Per garantire efficienza e capillarità servono competenze tecnologiche e logistiche che solo gli Homecare provider sono in grado di assicurare quando si tratta di erogare un servizio a bordo letto del paziente, fuori da un contesto protetto come quello dell’ospedale. Per questo dovrebbero essere considerati come “braccio operativo” del Ssn anche grazie a un percorso di accreditamento in forza del quale, con precisi requisiti qualitativi, poter erogare prestazioni per conto del Ssn stesso.

L’impatto delle cure domiciliari sulla sostenibilità del Servizio sanitario

In un contesto di generale contrazione di risorse che investe l’ambito sanitario, una gestione più virtuosa del paziente cronico, basata sul modello ospedale-territorio-domicilio, sarebbe una boccata d’ossigeno per la tenuta del nostro sistema. Il costo giornaliero di una degenza media di un posto letto in ospedale si attesta, infatti, intorno a 830 euro, mentre un paziente assistito a domicilio dopo la stabilizzazione clinica assorbe complessivamente circa un quarto delle risorse.

A questo va aggiunto che la mancanza di un modello omogeneo di assistenza domiciliare a carattere nazionale contribuisce ad aumentare i costi sanitari e sociali generati dalla mobilità interregionale. Vale la pena di precisare che l’impatto delle cure domiciliari non è soltanto di tipo economico, ma ha fondamentali ricadute anche a livello sociale, legate al benessere del paziente e della sua famiglia. Le analisi di sostenibilità economica dovrebbero quindi contemplare anche questi benefici per programmare adeguati investimenti in un ambito così complesso come l’assistenza territoriale in cui si intrecciano aspetti clinici e risvolti sociali.

A cura di Vivisol

Homepage rubrica “Homecare service provider: la presa in carico del paziente a domicilio”

  In collaborazione con Vivisol

 

Torna su
Carenza farmaci, al via il primo tavolo di lavoro al ministero della Salute

All'incontro erano presenti, oltre ai rappresentanti del ministero e dell’Agenzia italiana del farmaco, le federazioni e le associazioni rappresentative della filiera farmaceutica


Si è riunito il 2 luglio 2019 il tavolo carenza farmaci indetto dal ministero per approfondire la problematica della periodica irreperibilità di alcuni medicinali presso le farmacie. All’incontro erano presenti, oltre ai rappresentanti del ministero e dell’Agenzia italiana del farmaco, le federazioni e le associazioni rappresentative della filiera farmaceutica, tutti impegnati nel comune intento di debellare le cause che ciclicamente concretizzano casi di assenza di alcuni farmaci di particolare importanza terapeutica per i cittadini.

Gli argomenti di discussione

In seno al tavolo sono state esaminate le principali ragioni che provocano questo fenomeno: le carenze di tipo produttivo e le indisponibilità dovute a distorsioni della catena distributiva dei medicinali. Particolare attenzione è stata incentrata sul recente aggiornamento della disciplina della gestione delle carenze e dell’indisponibilità. Nello specifico si è parlato del cosiddetto “Dl Calabria” che ha introdotto la facoltà per l’Aifa di emanare provvedimenti di blocco temporaneo delle esportazioni di farmaci in caso di necessità. Il tavolo ha, inoltre, affrontato le ipotesi di indisponibilità derivanti da condotte illecite da parte di alcuni soggetti della filiera farmaceutica o estranei alla stessa, come furti e riciclaggio dei farmaci e “rastrellamento” finalizzato all’esportazione.

Piena disponibilità e cooperazione

Nel corso della discussione sono state ripercorse le azioni intraprese per contrastare questo fenomeno. Dalla modifica della norma intervenuta nel 2014, che ha disciplinato il sistema per le comunicazioni delle indisponibilità, al documento condiviso e sottoscritto nel 2016, che ha confermato le regole fondamentali della distribuzione dei medicinali. Proprio a seguito di quest’ultima normativa le amministrazioni e le associazioni di settore sono state coinvolte nella risoluzione del problema dell’indisponibilità dei medicinali.

A conclusione dell’incontro tutti i partecipanti hanno offerto ampia disponibilità a collaborare con le strategie che si riterrà opportuno adottare. Tutti hanno condiviso l’esigenza di un approccio integrato e consapevole per la risoluzione del problema. Sono state ipotizzate anche eventuali modifiche normative, non solo in ambito sanzionatorio.

 

Torna su
Se la veterinaria pubblica rischia l'estinzione

 

Mai come ora la professione ha goduto di tanta importanza a livello mondiale. Tuttavia entro il 2025 il 40% dei dirigenti veterinari nelle Asl andrà in pensione con i conseguenti dubbi sul turn-over. Un'anteprima dei contenuti nell'editoriale del secondo numero del trimestrale dedicato alla salute animale


Servono veterinari pubblici, anzi no. A leggere dalla prima all’ultima delle righe di questo giornale, l’importanza e la crucialità della categoria professionale si affermano in modo inconfutabile ma, forse, allo stesso tempo misconosciuto per la gran parte della società italiana. La sintesi migliore del problema l’ha formulata Aldo Grasselli, presidente della Federazione veterinari medici e dirigenti sanitari (Fvm): “La veterinaria pubblica non ha mai goduto di tanta importanza a livello mondiale come in questi anni di globalizzazione dei commerci e degli scambi di merci e di conseguenza dei rischi per la salute animale e umana”.

Deadline: 2025

Eppure – come spiega ancora Grasselli – entro il 2025 andrà in pensione circa il 40% degli attuali veterinari dirigenti, i quali non saranno sostituiti. La conclusione è che se le Regioni non correranno ai ripari, proprio l’Italia – ponte sul Mediterraneo e patria del food di qualità – potrebbe diventare luogo di diffusione di gravi patologie animali che impatterebbero pesantemente sulla nostra economia, con il rischio di non poter esportare per anni. Il quadro disegnato dall’esperto corrobora quanto rappresentato nell’intervista rilasciata da Romano Marabelli, presidente onorario e consigliere dell’Oie (l’Oms della sanità animale).

La veterinaria nello scacchiere globale

Marabelli enfatizza e documenta la fondamentale rilevanza dei controlli pubblici e dell’azione dei governi mondiali – in un’ottica “One Health” – in un’epoca e in uno scacchiere globale che finalmente attribuisce grande valore a vigilanza, presidio delle filiere alimentari e certificazioni, per arrivare alla qualità ambita dai consumatori e premiata dai mercati. Il professore, che ha pure ricoperto la carica di segretario generale del ministero della Salute italiano, rivendica proprio all’Italia il primato di una veterinaria inserita nel sistema pubblico, potendo così garantire la tutela e l’interesse dei cittadini attraverso l’efficacia dei controlli, al netto delle immancabili crisi che negli anni si sono succedute.

Eppure le prospettive del settore sono rosee

Considerata la domanda crescente di proteine animali a livello mondiale e il ruolo che l’Italia s’è ritagliata nel tempo, le prospettive della veterinaria pubblica sarebbero addirittura rosee. In proposito non passa inosservata la notizia rimbalzata nelle scorse settimane, secondo cui la sede di Palermo dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia diventerà il Centro di coordinamento scientifico e tecnico del Remesa, la rete dei Paesi mediterranei impegnati nella prevenzione delle malattie animali. Lo scorso 26 giugno è stata approvata una risoluzione ad hoc dai responsabili dei servizi veterinari dei Paesi dell’area del Mediterraneo. Il coordinamento siciliano avrà il compito di sviluppare le attività individuate dai singoli Paesi e dal Segretariato Fao/Oie del Remesa stesso.

La programmazione

A fronte di tutto ciò è lecito attendersi uno sforzo programmatorio maggiore da parte delle istituzioni nazionali, centrato proprio sulla risorsa umana, la sua formazione e impiego in tutti i gangli dell’organizzazione sanitaria e della produzione alimentare. Un’occasione è imminente: la consultazione pubblica indetta dal ministero per preparare il prossimo Patto per la Salute. I veterinari potranno e dovranno farsi sentire. Noi di AboutPharma Animal Health daremo spazio alla loro voce.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Le farmacie italiane sotto la lente di Cittadinanzattiva e Federfarma

Cittadinanzattiva e Fedefarma tornano a “interrogare” le farmacie italiane (e ora anche i cittadini) sui servizi e le iniziative attivate per migliorare prevenzione, gestione delle cronicità e aderenza terapeutica. È partita – spiega una comunicato – una nuova indagine che porterà alla realizzazione del secondo “Rapporto annuale sulla farmacia, presidio del Servizio sanitario nazionale”.

Gli indicatori

Il progetto, che ha avuto il supporto non condizionato di Teva, prende in esame una cinquantina di indicatori. Fra questi, adesione delle farmacie a campagne di promozione di stili di vita salutari, promozione di specifiche iniziative volte alla individuazione dei soggetti a rischio e alla diagnosi precoce, partecipazione alle campagne di screening, coinvolgimento nell’attuazione del Fascicolo sanitario elettronico, modalità di promemoria, tutoraggio e supporto ai pazienti per una più efficace aderenza alle terapie nelle patologie croniche (Diabete, Bpco, malattie cardiovascolari, etc.), quali sono i principali servizi fruiti dai cittadini e come vengono da essi percepiti in termini di miglioramento nella compliance alle terapie.  Dopo il primo anno dedicato ai servizi nelle aree interne del Paese, nel 2019 è stato individuato come tema portante il ruolo delle darmacie nella implementazione del Piano nazionale cronicità, soprattutto per quanto riguarda prevenzione e aderenza alle cure.

I farmacisti

“La fotografia scattata con il primo Rapporto Federfarma-Cittadinanzattiva – commenta Marco Cossolo, presidente Federfarma – mostra i progressi della Farmacia dei servizi, più lenti di quel che vorremmo, e molte potenzialità della farmacia ancora inespresse. Quest’anno acquisiremo informazioni e valutazioni dei cittadini per conoscere meglio le loro esigenze. E’ paradossale il fatto che, malgrado i riconoscimenti attribuiti dalle istituzioni, la farmacia tuttora non venga sufficientemente coinvolta nella medicina territoriale”.

I cittadini

“Con il rapporto annuale sulla farmacia ci prefiggiamo l’obiettivo di fornire una panoramica condivisa della situazione delle farmacie italiane e dei servizi offerti ai cittadini. Con particolare riferimento ai bisogni dei malati cronici, al fine di meglio qualificare il rapporto tra farmacista e cittadino in un’ottica di reciproca fiducia, scambio e collaborazione”, commenta Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva.
Il punto di vista dei farmacisti sarà integrato da quello civico, rappresentato dalle associazioni di persone affette da patologie croniche o rare. E in più, rispetto alla prima edizione, nel 2019 una survey on line aperta ai cittadini permetterà di rilevarei bisogni di salute, le aspettative, il grado di conoscenza e l’esperienza diretta dei fruitori dei nuovi servizi attivati in farmacia.

Torna su
Mascherine chirurgiche, l'Iss: Prove di efficacia e sicurezza per dare il via libera

 

 

 

Mascherine chirurgiche, l’Iss: “Prove di efficacia e sicurezza per dare il via libera”

L’Istituto superiore di sanità: “Già 40 aziende autorizzate a produrre. Non appena invieranno l’esito dei test potranno commercializzare il prodotto”


Mascherine chirurgiche: la procedura straordinariaGià 40 aziende sono state autorizzate a produrre mascherine chirurgiche, ma per l’avvio della commercializzazione servono prove di efficacia e sicurezza. Mancano dunque gli esiti dei test, ma si sta cercando di “velocizzarne il più possibile l’autorizzazione”. Così l’Istituto superiore di sanità (Iss) replica con una nota alle polemiche di queste ore sui ritardi. “È inammissibile che in una situazione di urgenza come questa ci si faccia ancora ingolfare dalla burocrazia”, aveva detto ieri ai microfoni di Sky Tg24 il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. L’Iss assicura di essere “in continuo contatto” con le aziende per accelerare i tempi.

“Il decreto legge 18 – ricorda una nota dell’Istituto – stabilisce che l’Iss è coinvolto nella procedura di valutazione in deroga alle norme vigenti per la produzione dei dispositivi medici note come “mascherine chirurgiche. L’articolo 15 di tale decreto stabilisce che, poiché non possono essere immesse sul mercato mascherine chirurgiche non marcate CE per uso medico, esse devono essere validate dall’Iss in termini di efficacia filtrante e sicurezza. L’articolo 16 – prosegue l’Iss – decreto invece autorizza l’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga senza validazione ma queste ultime non sono considerate né dispositivi medici né dispositivi di protezione individuale ma sono destinate in generale alla collettività e non richiedono tale autorizzazione”.

Oltre 800 richieste

Ad oggi l’Iss ha ricevuto oltre 800 domande di autorizzazione da parte e più di 3.200 richieste di informazioni. “E’ stato raddoppiato il personale che lavora presso il gruppo di lavoro costituito ad hoc. Continueremo a lavorare con il massimo dell’impegno per garantire una risposta tempestiva e allo stesso tempo sicurezza ed efficacia dei prodotti autorizzati in deroga sul mercato”, conclude l’Iss.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Covid-19, i farmaci in sperimentazione di cui non si parla: quali i più promettenti?

AboutPharma pubblica in esclusiva un contributo della Società italiana di farmacologia (Sif) sui medicinali che potrebbero aiutare la comunità scientifica a trovare nuove risposte contro la pandemia


Attualmente, nel mondo, oltre a farmaci ad attività antivirale (ritonavir/lopinavir e remdesevir) ne abbiamo alcuni in grado di interferire con l’eccessiva risposta del nostro sistema immunitario contro l’infezione spesso causa dei decessi: immaginate un fuoco amico che per rispondere alla malattia che ci attacca finisce per nuocere ai nostri stessi tessuti. In questo caso si è già diffusamente parlato di farmaci immunomodulanti come l’idrossiclorochina e il tocilizumab. Per nulla invece sono state riportate nuove sperimentazioni, per altrettanti farmaci, che potrebbero essere efficaci, con meccanismo d’azione molto simile a tocilizumab, come sarilumab (anti Interleuchina 6), eculizumabemapalumab, un anticorpo monoclonale diretto contro l’interferone-γ (IFN-γ) ed anakinra, un antagonista del recettore per la interleuchina-1 (IL-1).Come si cura la malattia da COVID-19 (COronaVIrus Disease-19)? Ad oggi, nessun farmaco in commercio è indicato né per il trattamento dei sintomi da infezione dal virus SARS-COV-2 né per evitare che lo stesso possa infettare l’uomo. Eppure, la comunità scientifica sta lavorando cercando di sperimentare farmaci: nella maggior parte dei casi si tratta di molecole già in commercio e utilizzate da tempo per il trattamento di altre malattie ma che “ricollocate” contro il COVID-19 potrebbero agire contenendo quanto più possibile il processo infiammatorio prodotto dall’infezione, oppure rendere più complicato l’ingresso del virus nell’organismo o, ancora, impedire la replicazione dello stesso.

Quali altre molecole invece, con meccanismi d’azione differenti, si stanno valutando?

La colchicina è tra queste molecole, in grado di interferire con la risposta immunitaria infiammatoria che si osserva in soggetti con infezione da SARS-COV-2. La colchicina è un farmaco utilizzato oramai da tanto tempo ed è efficace per il trattamento dell’attacco acuto di artrite gottosa. Nello specifico, riesce a ridurre il rilascio di citochine, molecole che come l’interleuchina 6 sono responsabili del processo infiammatorio.

Baricitinib è invece attualmente approvato, in monoterapia o in terapia di associazione, per il trattamento dell’artrite reumatoide. Si tratta di un inibitore di alcuni enzimi coinvolti nell’infiammazione e nella risposta immunitaria. Oltre alla sua attività antiinfiammatoria, baricitinib ha anche dimostrato attività antivirale e pertanto, potrebbe rappresentare un ulteriore alternativa terapeutica per il trattamento di COVID-19.

La disfunzione immunitaria (il fuoco amico di cui sopra) può aumentare il rischio di infezione secondaria e persino influenzare il tasso di mortalità. Camrelizumab è un anticorpo monoclonale anti PD1 (altro elemento che come le interleuchine regola l’intensità della risposta immunitaria) che ha recentemente ricevuto l’approvazione condizionata in Cina per il trattamento del linfoma di Hodgkin ed è attualmente studiato per il trattamento di altre neoplasie. Nel febbraio 2020 è stato avviato uno studio clinico, per verificare l’efficacia di camrelizumab in pazienti con polmonite grave associata a linfocitopenia da COVID-19.

Aviptadil è un analogo del polipeptide intestinale vasoattivo (Vasoactive intestinal peptide, VIP) utilizzato per il trattamento della disfunzione erettile. In uno studio sperimentale in pazienti con sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), nota complicanza dell’infezione da SARS-CoV-2, sette individui su otto in ventilazione meccanica trattati con dosi ascendenti di VIP sono stati estubati con successo.

Meplazumab è un anticorpo monoclonale IgG2 umanizzato che lega con elevata specificità CD147 proteina di membrana legata ai processi infiammatori, è in corso di valutazione nell’ambito di uno studio clinico avviato in Cina, e condotto in pazienti affetti da COVID-19. I risultati preliminari sono stati molto promettenti. Infatti, il trattamento con meplazumab ha mostrato un miglioramento della polmonite in tempi inferiori rispetto al gruppo di controllo (coloro che, pur presentando gli stessi sintomi, non avevano ricevuto il farmaco).

Un ulteriore anticorpo monoclonale in sperimentazione per il trattamento di COVID-19, è il bevacizumab, anti-VEGF (fattore di crescita delle cellule endoteliali vascolari) approvato per il trattamento di alcuni tumori. Numerosi studi hanno confermato il ruolo chiave del VEGF nella lesione polmonare acuta (ALI) e nella sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), complicanze presenti anche nei pazienti con infezione da SARS-COV-2.

Poi ci sono le immunoglobuline policlonali endovena sviluppate per il trattamento di diverse malattie, incluse le infezioni. Nelle ultime settimane è stato ipotizzato un loro utilizzo anche per il trattamento di COVID-19. Tra le strategie proposte vi è l’utilizzo di immunoglobuline purificate, o di plasma di pazienti convalescenti. Quest’ultima strategia ha già dimostrato dati preliminari di efficacia per il trattamento della SARS (severe acute respiratory syndrome) e della MERS (Middle East respiratory syndrome).

Nuove speranze contro il coronavirus vengono anche da altre due molecole come il camostat mesilato e nafamostat mesilato, entrambi approvati in Giappone per il trattamento della remissione dei sintomi acuti della pancreatite cronica. Ma come funzionano esattamente questi farmaci? Per spiegarlo gli scienziati hanno prima identificato il modo in cui il coronavirus penetra nelle cellule umane. SARS-CoV-2 è avvolto dalle cosiddette “spike” o spicole, proteine che servono al virus per afferrare e agganciarsi a un particolare recettore delle cellule umane (ACE2) invaderle e, conseguentemente replicarsi all’interno delle vie aeree portando alla malattia COVID-19. È in corso uno studio clinico, randomizzato e controllato con placebo (CamoCO-19) che valuterà l’efficacia e la sicurezza di camostat in 180 pazienti affetti da COVID-19.

Infine, buone speranze arrivano anche dall’Australia: l’antiparassitario ivermectin potrebbe essere l’arma vincente che sconfiggerà il nuovo coronavirus in 48 ore? Dalle notizie che abbiamo in effetti il farmaco potrebbe riuscire a ridurre gli effetti di SARSCov2 già nelle prime 24 ore. Era stato utilizzato in precedenza in altre epidemie e malattie come Zika e Dengue e la Febbre emorragica che colpisce soprattutto in Sudamerica.  Per ora cautela: aspettiamo i risultati degli studi sperimentali che si stanno conducendo al Biomedicine Discovery Institute della Monash University di Melbourne in collaborazione con il Doherty Institute.

*Presidente Società Italiana di Farmacologia – Università di Milano

**Società Italiana di Farmacologia – Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

 

Torna su
Plasmaderivati contro Covid-19, si espande l’alleanza di aziende per trovare una cura

Plasmaderivati contro Covid-19, si espande l’alleanza di aziende per trovare una cura

Biotest, BPL, LFB, Octapharma, Csl Behring e Takeda Pharmaceuticals si uniscono per sperimentare prodotti a base di plasma contro l'infezione da nuovo coronavirus


Invitare a unirsi al gruppoCsl Behring e Takeda Pharmaceuticals avevano pensato di unire le forze per trovare una potenziale terapia di derivazione plasmatica per trattare Covid-19 e adesso l’intesa si allarga con Biotest, BPL, LFB e Octapharma. Questa alleanza partirà immediatamente con lo sviluppo sperimentale di una immunoglobulina iperimmune policlonale anti-Sars-CoV-2, senza denominazione commerciale, con la potenzialità di trattare individui con complicanze gravi da Covid-19.

“Situazioni mai viste prima richiedono mosse audaci” dice Julie Kim, Presidente della Business Unit Plasma-Derived Therapies di Takeda, “Noi tutti concordiamo che collaborando e mettendo insieme le risorse del settore possiamo accelerare l’immissione sul mercato di una potenziale terapia così come incrementarne la potenziale disponibilità. Invitiamo le aziende e le istituzioni che si occupano di plasma a supportare o a unirsi alla nostra alleanza”. Bill Mezzanotte, Executive vice president e responsabile della R&D di Csl Behring ravvisa che “questo sforzo ha l’obiettivo di accelerare lo sviluppo di un’opzione terapeutica affidabile, percorribile e sostenibile che permetta ai sanitari di trattare i pazienti affetti dall’impatto di Covid-19. Oltre a mettere in comune le risorse delle aziende del settore, uniremo, ogni volta che potremo, i nostri sforzi a quelli governativi e accademici come un’unica alleanza, incluse attività importanti come gli studi clinici. Ciò renderà tutto più efficiente in questi tempi frenetici anche per queste parti interessate”.

I passi da compiere

Gli esperti dell’alleanza inizieranno a collaborare su aspetti chiave quali raccolte di plasma, sviluppo di studi clinici e produzione. Anche altre aziende e istituzioni potranno aderire all’alleanza. Lo sviluppo di un’immunoglobulina iperimmune richiederà la donazione di plasma da parte di molte persone che sono completamente guarite da Covid-19 e il cui sangue contiene anticorpi in grado di combattere il nuovo coronavirus. Una volta raccolto, il plasma “convalescente” verrebbe, quindi, trasportato negli impianti di produzione per essere sottoposto a trattamento certificato, inclusi efficaci processi di inattivazione e rimozione virale, e per venire purificato come prodotto finale. Le persone interessate a donare plasma possono visitare questo link per trovare il centro di raccolta plasma autorizzato più vicino alla loro abitazione.

 

Torna su
Covid-19, inizierà a maggio il trial clinico del vaccino sviluppato da Novavax

Covid-19, inizierà a maggio il trial clinico del vaccino sviluppato da Novavax

I primi risultati sono attesi già a luglio, con settimane di anticipo rispetto ai programmi iniziali, grazie al lavoro con Emergent BioSolutions e il finanziamento preliminare di 4 milioni di dollari Cepi. Per ora il potenziale vaccino ha dato buoni risultati nei test preclinici


Il vaccino anti Covid-19 di NovavaxNovavax ha annunciato di aver identificato un candidato al vaccino contro la Covid-19. Si tratta di NVX-CoV2373 una proteina di prefusione stabile prodotta utilizzando la tecnologia delle nanoparticelle della biotech, specializzata nello sviluppo di vaccini di nuova generazione per gravi malattie infettive. L’adiuvante Matrix-M, proprietario di Novavax sarà incorporato con NVX-CoV2373 al fine di migliorare le risposte immunitarie e stimolare alti livelli di anticorpi neutralizzanti. La startup statunitense ha anche annunciato che il primo trial clinico inizierà a metà maggio –molto in anticipo rispetto alle previsioni – in modo da avere i primi risultati già a luglio.

NVX-CoV2373 nei modelli animali ha mostrato un’alta immunogenicità, nei confronti degli anticorpi specifici per la proteina spike. Questa, com’è ormai noto, è la responsabile della penetrazione del nuovo coronavirus nelle cellule umane in seguito all’interazione con il recettore umano Ace-2. Dopo una singola immunizzazione sono stati osservati alti livelli di anticorpi specifici per la proteina spike in grado di bloccare il dominio di legame con il recettore umano Ace-2, e anticorpi di neutralizzazione del virus di tipo selvaggio SARS-CoV-2. Inoltre, i titoli già elevati di microneutralizzazione osservati dopo una dose sono aumentati di otto volte con una seconda dose, come riporta la biotech. Gli anticorpi microneutralizzanti ad alto titolo generalmente sono accettati come evidenza che il vaccino è probabile protettivo per gli esseri umani.

“Abbiamo dimostrato che NVX-CoV2373 genera anticorpi neutralizzanti ad alto titolo contro il virus Sars-CoV-2 vivo”, ha affermato Matthew Frieman, professore associato presso la School of Medicine dell’Università del Maryland. “Questa è una prova evidente che il vaccino creato da Novavax ha il potenziale per essere altamente immunogenico nell’uomo. Il che potrebbe portare alla protezione da Covid-19 e contribuire a controllare la diffusione di questa malattia”.

Il piano di sviluppo clinico di Novavax

Il piano di sviluppo clinico di NVX-CoV2373 combina un approccio di Fase 1/2 per consentire un rapido avanzamento dei dati, durante la pandemia di Covid-19. Lo studio clinico di Fase 1 è uno studio osservazionale in cieco, controllato con placebo, che sarà condotto su circa 130 adulti sani. La sperimentazione servirà anche per valutare il dosaggio necessario e il numero di vaccinazioni. La sperimentazione dovrebbe iniziare a metà maggio con risultati preliminari di immunogenicità e sicurezza a luglio.

“Sforzi eroici” congiunti

L’anticipazione del trial clinico di fase I è stato possibile sia grazie all’accordo siglato a marzo con Emergent BioSolutions, che ha fornito a Novavax il vaccino Gmp da utilizzare nelle sue sperimentazioni cliniche. Sia grazie alla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), che sempre nello stesso mese ha assegnato a Novavax un finanziamento iniziale di 4 milioni di dollari, con ulteriori finanziamento che saranno discussi in corso d’opera.

“Sforzi eroici” come li ha definiti Gregory Glenn, presidente della Ricerca e Sviluppo di Novavax“, che ha anche aggiunto come il lavoro a stretto contatto con Emergent BioSolutions e il finanziamento preliminare di Cepi, combinati con gli eccellenti risultati iniziali del candidato, hanno messo la startup in condizione di avere dati preliminari sugli esseri umani già a luglio.

Giocare d’anticipo

“A causa degli instancabili sforzi e impegno del team Novavax e dei nostri collaboratori, ci stiamo preparando ad avviare il trial di Fase 1 a metà maggio, settimane in anticipo sul programma”, ha affermato Stanley C. Erck, Presidente e Amministratore delegato di Novavax. “Questo progresso dimostra la capacità della nostra tecnologia di nanoparticelle ricombinanti di creare rapidamente candidati vaccinali per virus emergenti come Sars-CoV-2. Inoltre, le prestazioni di NVX-CoV2373 in numerosi studi e test preclinici ci danno maggiore fiducia nel suo potenziale di protezione contro la malattia Covid-19 “.

Intanto in borsa….

Novavax, inoltre, pur non avendo ancora lanciato farmaci sul mercato (non ricavando, pertanto, al momento ricavi né profitti) da quando ha annunciato di aver avviato uno studio su un vaccino contro il Sars-cov-2, ha più che triplicato la propria capitalizzazione di borsa.

 

Torna su
Medicinali e dispositivi carenti: ecco cosa manca nelle farmacie ospedaliere

Medicinali e dispositivi carenti: ecco cosa manca nelle farmacie ospedaliere


Farmaci e dispositivi carentiDagli antivirali agli antibiotici, dai guanti ai tamponi. È lunga lista di medicinali e dispositivi carenti durante l’emergenza Covid-19 secondo un monitoraggio della Società italiana di farmacia ospedaliera (Sifo). L’analisi si affida alle segnalazioni pervenute da farmacisti ospedalieri e servizi farmaceutici territoriali tramite la “Rete nazionale-Emergenza Covid-19”: una canale online attivato dalla Sifo.

La carenze segnalate dai farmacisti ospedalieri riguardano:

  • Antivirali: Ritonavir/Lopinavir, Darunavir/Cobicistat, Remdesivir
  • Curari-Miorilassanti muscolari: Cisatracurio, Rocuronio, Atracurio
  • Anestetici: Propofol, Remifentanil
  • Antibiotici: Piperacillina/Tazobactam; Azitromicina
  • Antibatterici: Claritromicina
  • Antitrombotici: Eparina Sodica
  • Antimalarici: Idrossiclorochina
  • Antiemorragici: Acido Tranexamico
  • Immunosoppressore: Tocilizumab

Per quanto riguarda i dispositivi, le segnalazioni si concentrano su:

  • Dispositivi di Protezione Individuale (DPI): guanti, mascherine, FFP2, FFP3, camici sterili
  • Caschi per la ventilazione non invasiva (NIV)
  • Tamponi naso – faringei
  • Dispositivi dedicati ad apparecchiature per alti flussi
  • Materiali per ventilazione meccanica a pressione positiva continua (CPAP): tubi, maschera, fasce elastiche.

La lente d’ingrandimento Sifo

“I primi dati che desideriamo condividere con istituzioni e agenzie centrali – commenta la presidente Sifo, Simona Serao Creazzola – esprimono carenze che permettono di intuire la difficoltà con cui oggi ci troviamo a gestire sia i pazienti Covid-19 che anche i pazienti con altre patologie che in questo momento subiscono, loro malgrado, una contrazione di disponibilità di farmaci”.

Differenze territoriali

La situazione carenze riflette anche le differenze geografiche: “Questo quadro – sottolinea la presidente Sifo – tiene conto del fatto che i farmaci sono gli stessi su tutto il territorio nazionale, ma le realtà epidemiologiche così come quelle organizzativo-logistiche dell’assistenza sanitaria sono diverse. Le regioni maggiormente coinvolte e colpite dall’epidemia presentano un alto consumo di farmaci che sottraggono le disponibilità alle regioni attualmente meno colpite”.

Uno scenario variabile

Il quadro delle indisponibilità e delle carenze varia continuamente nel tempo, spiega la Sifo: sia perché varia la situazione pandemica nelle varie regioni sia perché l’Aifa ha autorizzato le aziende produttrici all’importazione dall’estero della quasi totalità dei farmaci carenti.

Criticità organizzative e globali

Completano l’analisi una serie di criticità di carattere globale, organizzativo e logistico:

  • Difficoltà periodica nel reperimento di disinfettanti: a questo le farmacie ospedaliere stanno ormai provvedendo in proprio con la produzione continua di disinfettanti in loco, ma si registrano difficoltà nel reperimento dell’alcool.
  • Difficoltà organizzativa e di procurement in quanto l’applicazione rigida del Codice degli appalti, nonostante l’emergenza, ì genera  rallentamenti nelle procedure di acquisizione;
  • Gli attuali blocchi delle frontiere e delle importazioni portano a ritardi nella consegna di farmaci importati dall’estero (ad esempio il già citato Cisatracurio, uno dei più diffusi miorilassanti muscolari, proveniente dall’India) con pesanti ricadute sui pazienti critici.

Un faro sul territorio

“Dobbiamo ricordare – dice infine la presidente Sifo – che esiste un problema ospedaliero delle carenze, ma c’è una criticità territoriale altrettanto rilevante che, di conseguenza, si ripercuote sulla cura delle patologie croniche ed anche sulla presa in carico territoriale del Covid-19”.

 

 

Torna su
Covid-19, Sanofi donerà 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi

Covid-19, Sanofi donerà 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi

L’azienda ha duplicato la produzione e si avvia a quadruplicarla, con priorità per la continuità di cura dei pazienti che già assumevano il farmaco per indicazioni approvate e per fornirla ai governi che la richiedono, nella speranza che possa essere un trattamento efficace contro il Sars-cov-2


Quadruplicare la produzione di idrossiclorochinaTra chi come Donald Trump e Jair Bolsonaro la considera la cura miracolosa contro la Covid-19, e chi come Anthony Fauci, a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense e altri scienziati frenano l’entusiasmo per mancanze di prove, c’è di mezzo Sanofi, che nel frattempo ha dichiarato di voler donare 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi. La priorità, come ha specificato la società francese in una nota, è garantire la continuità di cura per i pazienti che già assumevano il farmaco (noto con il nome commerciale Plaquenil) in base alle indicazioni approvate, in particolare lupus e artrite reumatoide. Lavorando, allo stesso tempo, per fornire l’idrossiclorochina ai governi che desiderano aumentarne le scorte, nella speranza che possa essere un trattamento efficace contro la Covid-19.

La società francese ha iniziato a consegnare progressivamente il farmaco alle autorità che lo hanno richiesto. Si è detta inoltre pronta ad aiutare il maggior numero possibile di paesi. A partire da quelli in cui il suo medicinale è registrato per le indicazioni attualmente approvate, fino ai paesi in cui non vi sono fornitori di idrossiclorochina o paesi con popolazioni scarsamente servite.

Intanto Sanofi ha aumentato la sua capacità produttiva del 50% (in aggiunta alla normale produzione per le indicazioni attuali) nei suoi otto siti produttivi di idrossiclorochina in tutto il mondo. Aggiungendo anche di essere sulla buona strada per aumentare ulteriormente la produzione nei prossimi mesi, quadruplicandola entro l’estate.

Gli studi clinici sull’idrossiclorochina per Covid-19

Al momento diversi studi clinici a livello globale stanno valutando l’efficacia e la sicurezza del farmaco nel trattamento di Covid-19. Il farmaco rientra anche nel megatrial Solidarity organizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per cercare una soluzione terapeutica per Covid-19. Se i dati ne dimostrassero sicurezza ed efficacia, l’azienda ha già riferito di impegnarsi per donarlo ai governi di tutto il mondo. Intanto Sanofi sta supportando gli studi in corso fornendo il l’idrossiclorochina ad alcuni siti di ricercatori partecipanti ai trial e altri centri di ricerca indipendenti.

Sicurezza prima di tutto

Al momento però le interpretazioni dei dati preliminari disponibili differiscono ampiamente e non ci sono prove cliniche sufficienti per trarre conclusioni sulla sicurezza e l’efficacia dell’idrossiclorochina nella gestione dei pazienti con Covid-19. La sicurezza del paziente deve essere sempre il principio guida e considerando che il farmaco ha diversi effetti collaterali noti, gravi, deve essere usato con cautela.

Abolire i confini

“Sanofi chiede un coordinamento tra l’intera catena dell’idrossiclorochina in tutto il mondo per garantire la continua fornitura del medicinale, se si dimostrasse un trattamento ben tollerato ed efficace nei pazienti con Covid-19″, ha affermato Paul Hudson, Amministratore delegato di Sanofi. “A questo virus non interessa il concetto di confine, quindi non dovremmo neanche noi. È fondamentale che le autorità internazionali, i governi locali, i produttori e tutti gli altri attori coinvolti nella catena dell’idrossiclorochina lavorino insieme in modo coordinato. Per garantire a tutti i pazienti che possono beneficiare di questo potenziale trattamento di accedervi”.

 

Torna su
La misura della febbre che ha cambiato la scienza

 

 

 

 

La misura della febbre che ha cambiato la scienza

Storia del termometro, probabilmente il più usato dei dispositivi medici. Tra il '600 e l'800 contribuì a rendere la medicina una disciplina scientifica più oggettiva. Ecco come si è evoluto: dal primo prototipo di Galileo agli ormai famosi termoscanner disseminati in aeroporti e supermercati. *Dal numero 177 del magazine

Termometro

Ci sono cose che diamo per scontate ma che alle spalle hanno lunghe storie. Come i termoscanner, che oggi, ai tempi della Covid-19, dopo pochi secondi rilevano la temperatura corporea e forniscono il lasciapassare persino per fare la spesa.

Sono serviti secoli per mettere a punto lo strumento anche banale che tutti abbiamo a casa, per capire quale scala usare e per mettere in relazione una variazione della temperatura con uno stato patologico del corpo. Soprattutto, come racconta Vittorio A. Sironi, storico della medicina e direttore del Centro studi sulla Storia del pensiero biomedico dell’Università degli studi di Milano Bicocca, il termometro è stato uno di quegli strumenti che ha permesso di oggettivare la medicina e renderla se non una scienza (“perché l’equivoco che la medicina sia una scienza c’è ancora oggi”, puntualizza) per lo meno una pratica che utilizza saperi scientifici – dalla fisica, alla chimica e biologia e così via.

“Il termometro è uno strumento importante – aggiunge Sironi – perché come altri, più o meno nello stesso periodo, entra nella mentalità sviluppatasi tra la fine del Seicento e inizio Ottocento, quando nasce la cosiddetta ‘clinica’.È in questo periodo che si cerca di far diventare la medicina sempre più oggettiva, andando oltre la soggettività del medico che analizza il paziente. Non basta più dire che c’è un rialzo della temperatura, ma è importante anche misurarlo”.

Ancora, nel 2002 sulla rivista Association of physicians, John Pearce, neurologo emerito di Anlaby nel Regno Unito, scrisse che dei tanti strumenti considerati essenziali per l’esame clinico nessuno ha avuto l’ampia applicazione e diffusione del termometro.

“Ai tempi di Ippocrate per misurare la temperatura del corpo si usavano solo le mani, sebbene febbre e brividi fossero conosciuti come segni di una malattia” racconta Pearce. “Nella medicina Alessandrina, il battito cardiaco era osservato e considerato come un indice di malattia che superava la valutazione grezza della temperatura.

Mentre nel Medioevo i quattro umori erano assegnati a quattro qualità: caldo, freddo, secco e umido, il che, di nuovo, fece acquistare alla febbre importanza”. Ma prima di arrivare al piccolo termometro clinico usato per misurare la febbre, o all’ormai famoso termoscanner, tornato in auge ovunque, dagli aeroporti ai supermercati, da quando il Sars-Cov-2 ha fatto le sue prime apparizioni agli inizi del 2020, la strada è stata molto lunga, costellata da alcuni precursori piuttosto ingombranti, che hanno sfruttato materiali via via più funzionali e scale più comode.

Clicca sull’immagine per ingrandire

Il termoscopio di Galileo

Il primo prototipo lo inventò Galileo Galilei, che nel 1592 mise a punto un termoscopio, uno strumento ad aria, che era in grado di rilevare le temperature ambientali ma senza una scala di riferimento. L’idea di Galileo si basava in realtà sugli studi compiuti nel I secolo d.C. dal matematico e ingegnere greco Erone di Alessandria, il quale intuì che l’aria si dilatava con il calore del sole e ne descrisse il principio nella sua opera Pneumatica.

Il concetto fu ripreso da Galileo che si fece costruire da Giovanni Francesco Sagredo un termoscopio ad aria, composto da un lungo tubo di vetro, verticale, riempito parzialmente di acqua, con un bulbo d’aria nell’estremità superiore, e la parte inferiore immersa in un recipiente d’acqua. In questo modo dimostrò che il calore e il freddo agivano sull’espansione e la contrazione dell’aria nel bulbo, influenzando il livello dell’acqua. Lo strumento però rifletteva solo i cambiamenti di calore, inoltre risentiva della pressione atmosferica. Il moderno concetto di temperatura doveva ancora sorgere.

La scientifizzazione della medicina

Il primo termometro clinico (a bocca), fu inventato da Santorio Santorio un medico e docente a Padova che riprese il lavoro di Galileo ma per primo nel 1612 introdusse una scala nel dispositivo, motivo per cui finalmente si poteva parlare di termometro.

Santorio mise a punto diversi strumenti, tutti molto ingombranti e che impiegavano molto tempo per misurare la temperatura corporea. Fu uno dei primi, però, ad applicare le proprietà fisiche per definire il funzionamento e il malfunzionamento dell’organismo umano, nell’ambito della scientifizzazione della medicina, come ricorda Sironi. “È uno dei rappresentanti della iatrofisica, cioè una medicina che usa il sapere scientifico della fisica, un sapere esatto, per oggettivare le variazioni di un comportamento del corpo umano, che è considerato come una macchina” sottolinea.

“Tra il ‘500 e il ‘600 scienziati e medici del tempo fanno ricorso sempre più a fisica, matematica e chimica e per spiegare il funzionamento del corpo umano si rifanno a modelli idraulici, termici e meccanici. Proprio su questa spinta, grazie alla iatromeccanica, William Harvey scoprirà la circolazione del sangue, usando un modello idraulico per spiegare il funzionamento del cuore che agisce come una pompa e del sangue che circola nelle arterie intese come strutture cave”. In questo contesto Sartorio è il primo che si rende conto che il termometro può essere un sistema scientifico preciso per misurare la temperatura corporea, le sue variazioni e la febbre, che insorge durante un processo patologico. Sironi ricorda ancora che già con la rivoluzione anatomica di Andrea Vesalio a metà 500, la medicina aspira a diventare una scienza.

È in questo periodo che s’inizia a capire che non è possibile conoscere i meccanismi del corpo umano e le alterazioni patologiche studiando solo i testi antichi, ma che occorre, soprattutto per il medico, conoscere de visu con osservazione diretta com’è fatto e come funziona il corpo umano.

Il percorso ha inizio proprio con Vesalio che con la dissezione anatomica indaga la forma del corpo e dei suoi organi interni e solo in seguito si andrà oltre alla forma, cercando di capire anche la funzione degli organi.

“Harvey è l’emblema di questo modo di procedere” puntualizza Sironi. “Da una parte la trasformazione dell’alchimia in chimica e dall’altro le conoscenze fisiche che sempre più emergono in questi secoli fanno sì che questi saperi scientifici siano usati come criteri interpretativi della realtà, compresa quella relativa al funzionamento del corpo umano”.

La scala di Fahrenheit

La parola “termometro” (che ha ori-gine dal termine greco therme ossia “calore” e metron “misura” e indica quindi quello strumento che serve a misurare la temperatura basandosi sul principio della dilatazione dei corpi per effetto del calore), apparve invece per la prima volta nella sua forma francese, nel 1624, in “La Récréation Mathématique” del gesuita francese Jean Leurechon, che ne descrisse uno con una scala di otto gradi.

Un altro passaggio fondamentale si ebbe nel 1654 con il termometro fiorentino non più ad aria ma ad alcol e quindi indipendente dalla pressione dell’aria. “Si trattava di una sorta di grossa spirale suddivisa in una cinquantina di gradi (ancora visibile a Firenze al museo delle Scienze) – racconta Sironi – che venne costruita da un artigiano per il gran Duca di Toscana Ferdinando II de’ Medici”.

Tuttavia, benché gli strumenti iniziassero a diventare più sofisticati, non vi era ancora una scala di misura. “Sarà solo successivamente che nascerà, nel 1714, il termometro a mercurio in vetro, a opera dello scienziato olandese, Gabriel Daniel Fahrenheit – continua Sironi – il quale scoprì che questo metallo si espandeva e contraeva più rapidamente”. Fahrenheit inoltre, nel 1724, introdusse anche una nuova scala di misurazioni (tutt’oggi usata, leggermente aggiustata e costruita sul lavoro dell’astronomo danese Ole Rømer): determinò il punto zero ponendo il termometro in una miscela di ghiaccio e di cloruro di ammonio o di sale marino.

Combinazione che forma un sistema eutettico che stabilizza automaticamente la sua temperatura. Il secondo punto, 96 gradi, era approssimativamente la temperatura del corpo umano. Fahrenheit aggiustò la scala in modo che il punto di fusione del ghiaccio fosse 32 gradi e la tempera- tura corporea 96 gradi, per facilitare l’utilizzo del termometro, perché i numeri chiave dei due punti fissi erano divisibili per quattro.

Verso il termometro moderno

Il termometro però non entrò nella pratica clinica di routine finché – come scrive ancora Pearce – Hermann Boerhaave e il suo studente Gerard Van Swieten, fondatori della Scuola viennese di medicina e Anton de Haen e George Martine iniziarono a usarlo al capezzale dei malati agli inizi del ‘700.

De Haen in particolare studiò i cambiamenti diurni di temperatura nelle persone sane, osservò le variazioni con i brividi di febbre e annotò l’accelerazione del battito cardiaco all’aumentare della temperatura. In questo modo capì che la temperatura era un prezioso indicatore del progresso della malattia.

Nonostante tutto, le sue scoperte non impressionarono particolarmente i suoi contemporanei che continuarono a non usare il termometro. Qualche decennio dopo Fahrenheit, nel 1742 l’astronomo svedese Anders Celsius definì una nuova scala di temperatura che andava dal punto di congelamento dell’acqua – indicato come 100 – a quello di ebollizione – indicato con zero. Due anni dopo Carl Linnaeus suggerì di invertirla in modo che andasse da zero a cento.

“Tempo dopo Carl Wunderlich realizzò un termometro a mercurio più corto, lungo circa 30 cm, che richiedeva una quantità di tempo abbastanza importante per rilevare la temperatura corporea” riferisce Sironi. Nonostante questo, il medico tedesco lo utilizzò, per pubblicare nel 1868, la registrazione di più di un milione di letture di temperature, rilevate dalla misurazione ascellare di oltre 25 mila pazienti. Stabilì anche che il range di temperatura corporea considerato nella norma, andava da 36,3 °C a 37,5 °C, mentre oltre era indicativo di uno stato patologico.

La nuova medicina clinica

Proprio nella seconda metà del XVII secolo, iniziano a vacillare i fondamenti della patologia umoraista ippocratico-galenica, processo aiutato dalle scoperte ottenute con il microscopio e la iatromeccanica e maturano le premesse per una nuova patologia fondata sulla comprensione dei fenomeni su base fisiologica. Nasce l’esigenza di identificare meglio le varie malattie e si capisce per esempio che la febbre non è una patologia a sé stante, come si credeva no a quel momento, ma un sintomo. Per lunghissimo tempo il sintomo, soprattutto quello dominante del quadro morboso, aveva coinciso con la malattia stessa, secondo anche l’insegnamento di Galeno.

A metà del Seicento, però, grazie all’empirismo sistematico del medico inglese Thomas Sydenham sono poste le basi per lo sviluppo della moderna medicina clinica. Sydenham infatti introdusse il concetto ontologico della malattia e propose di stabilire la storia naturale di tutte le patologie. Per poterlo fare però, era necessario distinguerle e conoscerle singolarmente, raccogliendo il maggior numero possibile di sintomi e osservandone il decorso clinico.

Nella sua opera Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem, Sydenham afferma anche un’interpretazione della malattia come fenomeno reattivo, contrapposta alla concezione galenica di affezione passiva: “Per quanto dannosa possa essere per il corpo, la malattia non è altro che uno sforzo vigoroso della Natura per liberarsi dalla materia morbifica”.

Un meccanismo di difesa

Concetto che, per esempio, viene confermato dal ruolo della febbre, un meccanismo che l’evoluzione non ha abolito, come precisa Sironi, proprio perché è intrinseco della difesa dell’organismo.

“La variazione della temperatura corporea è un sintomo più spiccato nelle malattie infettive, soprattutto in presenza di virus patogeni, perché quando l’organismo supera di una discreta quantità la temperatura corporea media, inibisce la replicazione virale. È una strategia utilizzata anche contro i batteri, anche se in misura minore”.

L’evoluzione insomma non avrebbe eliminato questo comportamento dell’organismo umano perché utile per la guarigione. “Nell’ambito di una visione evoluzionistica della medicina – continua Sironi – questo elemento ci deve fare riflttere sul perché in condizioni di infezioni banali (non di certo in presenza di un’infezione come quella attuale da Covid-19) l’abolizione immediata della temperatura non è di aiuto.

La febbre, paradossalmente, è qualcosa che favorisce la risoluzione più rapida del processo infettivo virale e l’organismo la usa in senso positivo per guarire. Ovviamente se resta in condizioni tali da non disturbare il paziente più di tanto e per pochi giorni. È importante che l’impostazione medico-terapeutica tenga presente questo elemento e quindi, senza esagerare né da un lato né dall’altro, consenta a questo meccanismo naturale di svolgere la sua funzione”.

Verso il futuro

Per arrivare al termometro che tutti conosciamo, si dovrà aspettare Thomas Clifford Allbutt, che nel 1866 inventò un termometro portatile e più comodo, lungo circa 15 cm e in grado di leggere la temperatura corporea in cinque minuti anziché venti. Utilizzato praticamente per oltre un secolo. Da quel momento in poi la misura della temperatura sarebbe diventata una routine imprescindibile.

Dal 2009 il mercurio usato fino a quel momento nel termometro classico, perché tossico, fu sostituito con un’altra lega di metalli. Inoltre negli anni, sono arrivati termometri digitali, elettronici, a infrarossi frontali e auricolari. “Nessuno dei quali privo di problemi” come riferisce ancora Pearce.

Nel 1964 il medico tedesco Theodor Benzinger inventò il termometro auricolare. A quel tempo, stava cercando un modo per ottenere una lettura più prossima possibile alla temperatura del cervello, poiché l’ipotalamo regola la temperatura corporea. Lo fece usando i vasi sanguigni del timpano, che sono condivisi con l’ipotalamo.

Il termometro timpanico è composto da una sporgenza (protetta da una guaina igienica monouso) che contiene la sonda a infrarossi. Questa viene posizionata delicatamente nel condotto uditivo e viene rilevata la temperatura, letta e visualizzata entro circa un secondo. Esistono però alcuni fattori che possono interferire nella lettura, come il posizionamento errato nel condotto uditivo esterno da parte dell’operatore e il blocco della cera sul canale.

Nel 1998 Francesco Pompei, fondatore della Exergen Corporation, depositò il brevetto per il primo termometro dell’arteria temporale, nato, come dirà lo stesso Pompei: “dall’esigenza dei pediatri di trovare un’alternativa alla termometria dell’orecchio, inesatta, e a quella rettale, per la scomodità del metodo”.

L’arteria temporale inoltre, fu scelta per la vicinanza con il cuore, per il flusso sanguigno elevato e relativamente costante, e per la sua accessibilità. “Cuore, polmoni e cervello sono organi vitali per la nostra stessa esistenza, quindi il loro apporto di sangue è alto e continua a esserlo anche in presenza di gravi malattie, a differenza di altre aree del corpo” scriveva Pompei nella presentazione del termometro.

Nel 2004 inoltre pubblicò un articolo (Non-invasive temporal artery thermometry: Physics, physiology, and clinical accuracy) su Proceedings of Spie ( e International Society for Optical Engineering) in cui ne evidenziava l’utilità proprio per lo screening di massa nell’ottica di contenimento della Sars (Severe acute respiratory syndrome, sindrome provocata dal coronavirus Sars- Cov).

Proprio a causa dell’epidemia di Sars del 2003, la Defense Science and Technology Agency (Dsta) di Singapore e la Singapore Technologies Electronics, nello stesso anno misero a punto l’Infrared fever screening system (Ifss), il primo sistema a infrarossi utilizzato per lo screening della febbre di grandi gruppi di persone.

“Statistica, fisica e fisiologia umana sono stati gli input chiave nella progettazione dell’Ifss” come scrivevano gli autori di un lavoro pubblicato sempre su Proceedings of Spie nel 2004 (Development and deployment of infrared fever screening systems).

“Oggi gli strumenti sono ancora più sofisticati” conclude Sironi. “I termoscanner per esempio utilizzano il principio dell’infrarosso per misurare la temperatura delle arterie temporali. Sono strumenti meno invasivi e più pratici”. Se non ce n’è uno che possa essere considerato migliore di un altro, senza dubbio la scelta di quale strumento usare deve ricadere sulla situazione.

Le misurazioni eseguite con i termometri delle arterie temporali, per esempio, possono presentare problemi di precisione e, in misura minore, accuratezza, a causa della variabilità della tecnica e delle considerazioni ambientali.

È stato riscontrato infatti che i termometri temporali hanno una bassa sensibilità, di circa il 60-70%, ma un’altissima specificità del 97-100% per il rilevamento di febbre e ipotermia. Il che significa che non dovrebbero essere utilizzati in contesti di cura acuta, come la terapia intensiva o in pazienti con un forte sospetto di squilibrio di temperatura. Mentre per la praticità e velocità di uso, sono più utili in situazioni in cui si vuole evitare il contatto e rilevare la temperatura in fretta. Come, purtroppo, la recente attualità insegna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
Science si interroga sulle cause di mortalità da Covid-19

 

 

 

 

Science si interroga sulle cause di mortalità da Covid-19

Riporta la rivista: “Medici e patologi stanno cercando di capire il danno provocato da Sars-Cov2, perché sebbene i polmoni siano il punto di partenza, la sua portata può estendersi a molti altri organi, tra cui cuore e vasi sanguigni, reni, intestino e cervello”


Ma non solo, Sars-Cov2 sembra possa attaccare quasi tutto il corpo con conseguenze devastanti, come hanno scritto in un articolo pubblicato su Science e supportato dal Pulitzer Center, quattro giornaliste che hanno provato a fare il punto della situazione.  “I medici e i patologi stanno cercando di capire il danno provocato dal nuovo coronavirus” scrivono. “Stanno realizzando che sebbene i polmoni siano il punto di partenza, la sua portata può estendersi a molti organi, tra cui cuore e vasi sanguigni, reni, intestino e cervello”.Quali sono le causa di mortalità da Covid-19? È una domanda a cui i clinici stanno provando a dare una risposta, perché se è vero che la maggior parte delle persone che contraggono il virus muoiono per polmoniti, è anche vero che i polmoni non sono l’unico organo ad essere compromesso. Il decesso da Covid-19, per esempio, in alcuni casi sembra essere legato a complicanze cardiovascolari, come aveva raccontato ad Aboutpharma Venerino Poletti, direttore Pneumologia dell’Ospedale GB Morgagni di Forlì e past president dell’Associazione italiana pneumologi ospedalieri (Aipo), citando i primi dati sulle biopsie polmonari che stanno eseguendo: “Dati preliminari, ma che evidenziano il verificarsi di trombosi nei capillari polmonari”.

Polmoni

Com’è ormai noto, il Sars-Cov-2 entra nell’organismo da naso e gola e penetra nelle cellule tramite interazione con il recettore Ace2 (angiotensin-converting enzyme 2). Se il sistema immunitario non lo respinge durante questa fase iniziale, può arrivare fino alla trachea e infine ai polmoni, dove può essere fatale. A questo livello infatti, si sviluppa la polmonite, che in alcuni casi si risolve, mentre in altri no. Le condizioni peggiorano, per via dei livelli di ossigeno nel sangue sempre più bassi, richiedendo l’ausilio del ventilatore polmonare. Come riporta Science, nelle radiografie e nelle scansioni tomografiche computerizzate, i polmoni di questi pazienti sono pieni di opacità bianche al posto dell’aria. Le autopsie mostrano che gli alveoli si sono riempiti di liquido, globuli bianchi, muco e detriti di cellule polmonari distrutte.

L’infiammazione

Secondo alcuni clinici, ciò che fa precipitare la situazione è una reazione eccessiva del sistema immunitario noto come “tempesta di citochine”, per cui le cellule immunitarie iniziano ad attaccare i tessuti sani. Possono derivarne fuoriuscite dai vasi sanguigni, calo della pressione sanguigna, formazione di coaguli e insufficienza d’organo.  Alcuni studi hanno mostrato livelli elevati di citochine, che inducono infiammazione, nel sangue dei pazienti ospedalizzati con Covid-19. Tanto che secondo alcuni esperti la vera morbilità e mortalità della malattia è probabilmente guidata da questa risposta infiammatoria sproporzionata al virus.

Ma secondo altri non è così. Anzi, come riporta ancora Science, Joseph Levitt, pneumologo in terapia intensiva presso la Stanford University School of Medicine, afferma che non ci sono dati sufficienti a dimostrarlo. I farmaci antiinfiammatori usati per bloccare la tempesta di citochine, inoltre, potrebbero essere controproducenti perché possono sopprimere la risposta immunitaria di cui il corpo ha bisogno per combattere il virus.

Cuore

Che il Sars-Cov2 colpisca anche il cuore con gli stessi sintomi di un attacco cardiaco è ormai noto. A non essere ancora chiaro invece è il modo in cui il virus attacca il cuore e i vasi sanguigni. Gli scienziati ora stanno cercando di capire esattamente cosa causa il danno cardiovascolare. Un documento pubblicato su Jama Cardiology lo scorso 25 marzo ha documentato danni cardiaci in quasi il 20% dei pazienti su 416 ricoverati in ospedale per Covid-19 a Wuhan, in Cina. In un altro studio condotto sempre a Wuhan, il 44% di 138 pazienti ospedalizzati presentava aritmie.

Altri dati riportati da Science, ripresi da un un articolo pubblicato su Thrombosis Research il 10 aprile, mostrano che tra 184 pazienti Covid-19 in una terapia intensiva olandese, il 38% aveva sangue coagulato in modo anomalo e quasi un terzo presentava già coaguli.  I coaguli di sangue possono rompersi e arrivare ai polmoni, bloccando le arterie vitali. Una condizione nota come embolia polmonare, che come riferito dagli autori avrebbe portato a decesso i pazienti Covid-19. I coaguli di arterie possono anche depositarsi nel cervello, causando ictus.

L’infezione può anche portare alla costrizione dei vasi sanguigni. Il che a livello polmonare potrebbe spiegare i casi di alcuni pazienti con polmoniti da Covid-19, che nonostante i livelli estremamente bassi di ossigeno nel sangue non avevano dispnea. “È possibile che in alcune fasi della malattia, il virus alteri il delicato equilibrio degli ormoni che regolano la pressione sanguigna, portando a restrizione dei i vasi sanguigni polmonari” spiegano le giornaliste su Science. “Quindi l’assorbimento di ossigeno è impedito dai vasi sanguigni ristretti, piuttosto che dagli alveoli ostruiti”. Il che giustificherebbe il fatto che nelle terapie intensive non ci siano molti pazienti asmatici o con altre malattie respiratorie, mentre i fattori di rischio principali sembrano essere vascolari: diabete, obesità, età, ipertensione.

Reni

Un altro organo che sembra essere colpito da Sars-Cov2 sono i reni. Alcuni pazienti Covid-19, infatti mostrano insufficienze renale e necessitano di macchine per dialisi. Secondo un preprint, il 27% di 85 pazienti ricoverati a Wuhan aveva insufficienza renale. Un altro lavoro ha riportato che il 59% di quasi 200 pazienti Covid-19 ricoverati in un ospedale e vicino a Wuhan avevano proteine ​​e sangue nelle urine, suggerendo un danno renale. Lo stesso lavoro cinese ha mostrato che i pazienti con danno renale acuto, avevano una probabilità di morire cinque volte più alta rispetto ai pazienti con Covid-19 ma senza danno renale.

Le microfotografie elettroniche di reni, di autopsie riportate in uno studio, hanno identificato particelle virali, suggerendo un attacco diretto del virus. Forse perché anche i reni sono abbondantemente dotati di recettori Ace2. Ma la lesione renale potrebbe anche essere un danno collaterale. I ventilatori infatti, aumentano il rischio di danno renale, così come i farmaci antivirali tra cui remdesivir. Le tempeste di citochine inoltre possono anche ridurre drasticamente il flusso sanguigno al rene, causando danni spesso fatali. E malattie preesistenti come il diabete possono aumentare il rischio di danno renale.

Cervello

Altrettanto noti sono i sintomi del sistema nervoso centrale nei pazienti con Covid-19. Mal di testa e perdita di olfatto e gusto sono fra i più noti. Ma Science riporta anche di pazienti con encefalite da infiammazione cerebrale, con convulsioni e con una “tempesta simpatica”, una risposta immunitaria equivalente a una tempesta di citochine nel cervello. La neurologa Jennifer Frontera del Langone Medical Center della New York University, così come altri esperti, si sono chiesti se in alcuni casi l’infezione deprima il riflesso del tronco encefalico che rileva la carenza di ossigeno. Questa potrebbe essere un’altra spiegazione del perché i pazienti a volte non abbiano fame di ossigeno, nonostante livelli di ossigeno nel sangue pericolosamente bassi.

I recettori Ace2 sono presenti anche nella corteccia neurale e nel tronco encefalico, come ha affermato Robert Stevens, un medico di terapia intensiva presso la Johns Hopkins Medicine. Ma non è noto in quali circostanze il virus penetri nel cervello e interagisca con questi recettori. I danni cerebrali però, potrebbero essere attribuiti anche ad altri fattori, come la tempesta di citochine e l’esagerata tendenza del sangue a coagulare che potrebbe innescare l’ictus. Per ora, su questo fronte, i ricercatori stanno cercando di raccogliere dati per identificare la prevalenza delle complicanze neurologiche nei pazienti ospedalizzati e documentarne l’esito.

Intestino

Infine numerose evidenze suggeriscono che il nuovo coronavirus, possa infettare il rivestimento del tratto digestivo inferiore, dove i recettori Ace2 sono abbondanti. Report recenti suggeriscono che fino alla metà dei pazienti, con una media di circa il 20% negli studi scientifici, manifesta diarrea, come ha spiegato a Science Brennan Spiegel del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles. La presenza di virus nel tratto gastrointestinale aumenta la possibilità che possa essere trasmessa attraverso le feci. Ma non è ancora chiaro se le feci contengano virus vivi e infettivi, o solo Rna e proteine. Il rischio derivante dalla trasmissione fecale però, al momento, sembra essere basso.

 

 

 

 

 

Torna su
Farmaci a domicilio durante l'emergenza: Janssen attiva un servizio in Lombardia

 

Farmaci a domicilio durante l'emergenza: Janssen attiva un servizio in Lombardia

Con "Janssen a casa tua", l'azienda del gruppo J&J raggiunge gratuitamente tremila pazienti. L'iniziativa riguarda oncologia, ematologia, Hiv e ipertensione polmonare arteriosa  
di Redazione Aboutpharma Online30 Aprile 2020
 
Farmaci a domicilio durante l'emergenzaFarmaci a domicilio durante l'emergenza: Janssen attiva un servizio per raggiungere tremila pazienti in Lombardia.  Si chiama "Janssen a casa tua" e – d'intesa con la Regione – prevede la consegna gratuita di farmaci a somministrazione orale in ambito oncologia, ematologia, Hiv e ipertensione polmonare arteriosa.
 
Il progetto punta a ridurre gli accessi in ospedale per il ritiro dei medicinali e a garantire la sicurezza e la continuità terapeutico-assistenziale dei pazienti che soffrono di gravi patologie, nel rispetto della loro privacy.
 
"Grazie all'impegno e al lavoro di squadra, in soli dieci giorni abbiamo firmato il contratto con Regione Lombardia", afferma Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia. "Non ci fermeremo, né ci siamo mai fermati. Siamo pronti – aggiunge – a supportare i nostri pazienti e la nostra comunità soprattutto in questo momento storico così complesso e siamo fiduciosi del fatto che questa iniziativa possa aiutare concretamente le persone che ogni giorno affrontano la malattia".
 
Fondamentale il dialogo con le istituzioni. "Questo servizio di consegna dei farmaci a domicilio attivato da Janssen – sottolinea l'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera – evidenzia una sensibilità particolare rivolta ai cittadini, soprattutto alle categorie più fragili, e permette loro di evitare spostamenti e affrontare situazioni di rischio potenziale".
 

La fase 2

 
L'iniziativa di Janssen parte dalla Lombardia ma punta ad estendersi a tutte le Regioni che vorranno aderire, con l'obiettivo di raggiungere oltre 18mila pazienti in Italia. Il servizio verrà gestito da Phse srl, azienda specializzata nel trasporto di prodotti biofarmaceutici a temperatura controllata nel settore ospedaliero.
 

Il plauso di Cittadinanzativa

Arriva anche il plauso di Cittadinanzattiva: "Siamo molto soddisfatti di iniziative come queste, che vengono incontro alle necessità di cura delle persone, con particolare attenzione alle fragilità. Auspichiamo anche che iniziative di questo genere ispirino un nuovo modello di Ssn più vicino alle esigenze reali dei cittadini, e che quindi diventino iniziative a carattere permanente, anche al di fuori della emergenza attuale", affera Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva.
Torna su
L'emergenza sanitaria rilancia l'allarme sui farmaci contraffatti

La Redazione del Sito di EMA-ROMA

 

 

 

 

 

 

Uno studio Ocse-Euipo, realizzato prima di Covid-19, fotografa gli scambi commerciali illeciti a livello globale, che sempre più spesso si affidano a piccole spedizioni postali. Con la pandemia si moltiplicano gli allarmi. Dal numero 178 del magazine

Salute

Ricordate quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato ufficialmente la pandemia da Covid-19? Era metà marzo di quest’anno e nella stessa settimana l’Interpol (con l’operazione Pangea XIII) arrestava in tutto il mondo 120 persone, accusate di trafficare illegalmente farmaci e altri prodotti sanitari per un valore di 14 milioni di dollari. È solo la punta di un iceberg di grandi dimensioni, sintomo di un fenomeno non certo inedito: la contraffazione dei medicinali è sull’agenda delle autorità da molto tempo, ma adesso torna alla ribalta “grazie” a Covid-19. Le istituzioni sanitarie e non, in Italia e nel mondo, hanno lanciato in queste settimane diversi allarmi: dall’Oms all’Organizzazione mondiale delle dogane, dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) al “nostro” Istituto superiore di sanità (Iss). Fra le voci autorevoli, si sono levate anche quelle dell’Ocse, l’Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo economico, e dell’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo), che di recente hanno pubblicato una relazione congiunta sul traffico illegale di farmaci contraffatti a livello globale.

Il monito

“La vendita di prodotti farmaceutici contraffatti è un crimine spregevole e la scoperta di false forniture mediche legate a Covid-19, proprio mentre il mondo si unisce per combattere questa pandemia, rende questa sfida globale ancora più acuta e urgente”, avverte Angel Gurrìa, segretario generale dell’Ocse. “Speriamo – aggiunge – che le prove che abbiamo raccolto sul valore, la portata e le tendenze di questo commercio illecito possano aiutare a trovare soluzioni rapide per combattere questo flagello”. La relazione congiunta Ocse-Euipo, pubblicata nelle scorse settimane, in realtà è stata chiusa prima dell’emergenza. Ma le due organizzazioni rilanciano il loro lavoro di analisi con una nota di aggiornamento che riguarda la pandemia. “I recenti sequestri – scrivono Ocse ed Euipo – sottolineano la necessità di affrontare un crescente commercio internazionale di prodotti farmaceutici contraffatti che costa miliardi di euro all’anno e mette a rischio la vita”.

Il report Ocse-Euipo

Secondo il report Ocse-Euipo il mercato mondiale dei farmaci contraffatti vale almeno 4,4 miliardi di dollari. Il dato si riferisce al 2016, ma è sottostimato (e non di poco): tiene conto infatti degli scambi internazionali illeciti, ma non dei medicinali contraffatti prodotti e consumati entro in confini nazionali né di tutti i prodotti rubati, transitati e poi ricollocati in altri Paesi.

La relazione si basa sui numeri dei sequestri doganali, altri dati derivanti da azioni di contrasto e interviste a esperti. Obiettivo: quantificare il valore e le conseguenze del commercio di medicinali illegali. Secondo l’analisi sui sequestri doganali nel periodo 2014-2016, gli antibiotici, i farmaci definiti “lifestyle” (che hanno lo scopo di migliorare la qualità della vita, il più famoso è il Viagra) e gli antidolorifici contraffatti sono quelli intercettati più frequentemente. Ma nella rete dei controlli finiscono anche anestetici locali, farmaci antitumorali, antidiabetici, antimalarici terapie per il trattamento dell’Hiv e di malattie cardiache.

Sei conseguenze

Lo studio riassume le sei conseguenze più gravi del mercato mondiale di farmaci contraffatti:

  1. I danni alla salute delle persone. Un esempio: dalle stime emerge che ogni anno tra i 72mila e i 169mila bambini possono morire di polmonite dopo aver assunto farmaci contraffatti. Un altro esempio: i farmaci antimalarici falsi potrebbero causare altri 116mila decessi (fonte Oms);
  2. Le mancate vendite e i danni alla reputazione dei legittimi produttori. Le ditte registrate negli Stati Uniti sono le più colpite dal commercio di prodotti contraffatti: quasi il 38% di tutti i medicinali contraffatti sequestrati viola i diritti di proprietà intellettuale delle imprese Usa. Tuttavia, anche altri paesi Ocse sono gravemente colpiti (in particolare Svizzera, Germania e Francia);
  3. I costi e le perdite di gettito per governi ed economie. Secondo una stima, il costo a carico dei governi dell’Ue per il mancato gettito derivante dai medicinali contraffatti si aggira intorno a 1,7 miliardi di euro;
  4. Costi per la cura dei pazienti che hanno subito conseguenze negative per la salute in seguito al consumo di farmaci contraffatti;
  5. L’inquinamento ambientale originato da pratiche errate messe in atto da attività criminali non regolamentate che ricorrono a sostanze chimiche potenzialmente tossiche;
  6. I costi sociali che si traducono in un aumento della criminalità organizzata e delle perdite di posti di lavoro, stimati a oltre 80mila nel settore farmaceutico dell’Ue e in altri settori che vendono prodotti e servizi a quest’ultimo.

Pacchi e buste

Il commercio di prodotti contraffatti è agevolato, secondo il report, dall’aumento delle piccole spedizioni tramite colli postali, lettere o pacchi, che sono più difficili da individuare per le autorità doganali. Nel periodo 2014-2016, il 96% di tutti i sequestri doganali di prodotti farmaceutici contraffatti ha riguardato spedizioni postali o per corriere. “Il loro arrivo nell’Unione europea, spesso attraverso piccoli pacchi e vendite su Internet, rappresenta una sfida per le autorità di contrasto. Per affrontare questo problema è necessario che l’attuale coordinamento a livello nazionale e dell’Ue sia ulteriormente rafforzato e sostenuto da azioni globali”, commenta Christian Archambeau, direttore esecutivo dell’Euipo.

Falsificare con destrezza

“Per riuscire a commercializzare con successo merce contraffatta – spiega la relazione di Ocse ed Euipo – i contraffattori devono infiltrarsi nelle catene di approvvigionamento, per la maggior parte strettamente monitorate da produttori e autorità di regolamentazione”. Attenzione quindi alle infiltrazioni criminali nella rete di distribuzione, che spesso si realizzano con l’aiuto di raffinate tecniche di falsificazione: “L’abilità dei contraffattori di imballare i prodotti in modo che rispecchino quelli autentici è fondamentale per la loro riuscita, così come la capacità di far assomigliare i prodotti agli originali. L’uso di zone di libero scambio ha agevolato il commercio di prodotti farmaceutici contraffatti, fungendo queste da sede in cui imballare e riconfezionare i prodotti in modo tale da dissimularne efficacemente la vera origine”. Problemi, questi, ancora più gravi nei Paesi in via di sviluppo, dove – ricorda la relazione – “la distribuzione informale è più diffusa e meno sicura”.

Geografia dei traffici

Cina, Hong Kong, Singapore e India sono le principali economie di provenienza dei medicinali contraffatti. Se Cina e India sono i primi produttori di medicinali falsificati, gli Emirati Arabi Uniti, Singapore e Hong Kong fungono da principali economie di transito. Fra gli altri nodi rilevanti per il transito di prodotti falsi, lo studio segnala Yemen e Iran. Da queste località i prodotti in questione possono essere spediti ovunque nel mondo, ma i destinatari principali sono tre continenti: l’Africa, l’Europa e gli Stati Uniti.

Covid-19: Ema e Fda in allerta

Torniamo ora all’attualità. In piena pandemia, l’Agenzia europea dei medicinali (Ema) ha invitato con una nota alla massima cautela: “Non acquistare da siti web non autorizzati e da altri fornitori che mirano a sfruttare paure e preoccupazioni durante la pandemia in corso”. Il monito dell’agenzia riguarda soprattutto quei venditori che potrebbero speculare su presunte proprietà curative o preventive di determinati prodotti. “È probabile che tali prodotti siano medicinali falsificati”, dice l’Ema, e in ogni caso “attualmente non esistono trattamenti autorizzati per Covid-19”.

La stessa relazione Ocse-Euipo aveva sottolineato i rischi: “Per tutti i Paesi le problematiche sono aumentate con lo sviluppo di farmacie online non autorizzate, che spesso distribuiscono prodotti contraffatti a basso costo. I consumatori si sono mostrati propensi ad accettare i rischi che comporta l’acquisto di prodotti online, talvolta noncuranti delle conseguenze derivanti dall’acquisto e dall’uso di prodotti che possono non essere formulati correttamente”.

La statunitense Food and drug administration (Fda) ha pubblicato una lettera di avvertimento sul rischio di vendita fraudolenta di prodotti reclamizzati per prevenire, curare, mitigare i sintomi o diagnosticare la Covid-19. Per proteggere i consumatori, l’Fda sta monitorando se vi siano aziende che commercializzano prodotti con etichettature fraudolente che riportano false indicazioni sulla prevenzione e il trattamento dell’infezione Covid-19.

La direttiva Ue

In Europa il contrasto al traffico illegale di farmaci è affidato alla direttiva 2011/62/UE, che ha modificato direttiva 2001/83/CE, introducendo una serie di misure di prevenzione e contrasto al fenomeno dei farmaci falsificati e – ricorda l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) contiene la prima definizione ufficiale di “medicinale falsificato”, cioè un medicinale che comporta una falsa “rappresentazione” rispetto a: Identità: l’imballaggio, l’etichettatura, la denominazione, la composizione – in relazione a uno qualsiasi dei componenti, compresi gli eccipienti e il relativo dosaggio; Origine: il fabbricante, il paese di fabbricazione, il Paese di origine, il titolare Aic; Tracciabilità: la sua storia, i registri e i documenti relativi ai canali di distribuzione utilizzati.

Il fenomeno della falsificazione coinvolge tutti i farmaci: di marca e generici e anche salvavita. Un medicinale falsificato può contenere le stesse sostanze di quello originale, sostanze e/o dosaggi diversi, può non contenere alcun principio attivo o addirittura può essere composto da ingredienti contaminati e pericolosi. Le diverse tipologie hanno tutte un comune denominatore nella scarsa qualità e sicurezza in quanto la produzione e la distribuzione non avvengono in conformità agli standard di qualità previsti dalle norme di buona fabbricazione (Gmp) e dalle norme di buona distribuzione (Gdp).

Analisi sui siti web

Il web è dunque osservato speciale. In Italia la vendita di farmaci online è consentita per quelli senza obbligo di prescrizione (Sop) e da banco (Otc) ed è affidata a farmacie e parafarmacie, autorizzate dal ministero della Salute e contraddistinte da un “logo” comune a tutti i Paesi Ue (eccetto che per i colori della bandiera nazionale). La farmacia deve avere una sede fisica e cliccando sul logo si deve aprire la pagina del ministero della Salute che riporta i dati della farmacia autorizzata.

Il 16 aprile scorso l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato un rapporto sui “rischi di acquisto online di farmaci per la prevenzione e terapia dell’infezione da Covid-19”. L’analisi, realizzata dal gruppo di lavoro Iss-Farmaci, segnala “un attivo mercato illegale del farmaco che sta sfruttando l’emergenza sanitaria per lucrare sulla salute e sulla paura della popolazione”.

Oggi il rischio concreto, secondo gli esperti, è che “un paziente con sintomi simil-influenzali anche lievi, spinto dalla paura e dalle informazioni ingannevoli che vengono diffuse sulla rete, possa acquistare antivirali da farmacie online illegali e possa, quindi, assumere inconsapevolmente un farmaco falso”. E quello per la salute non è l’unico rischio: “Oltre al rischio di assumere farmaci falsi o farmaci non autorizzati, che quasi certamente non hanno istruzioni di dosaggio in italiano, gli acquirenti corrono anche un rischio economico. Le carte di credito utilizzate per comprare farmaci da farmacie online non autorizzate – ricorda l’Iss – vengono spesso clonate e utilizzate per altri acquisti”.

Dagli antivirali agli omeopatici

L’Iss è andato a caccia di attività fraudolente in rete. “Lo studio è stato effettuato su un numero limitato di siti e non è esaustivo di tutta l’offerta di farmaci per la Covid-19 venduti online”, avvertono i ricercatori. Ma le prime evidenze emerse meritano una citazione. Alcuni dei farmaci presi in considerazione sono quelli ammessi recentemente alla sperimentazione per il trattamento di Covid-19, che possono essere assunti solo dietro prescrizione medica e, nella maggior parte dei casi, solo a livello ospedaliero.

Si è parlato molto nelle scorse settimane di Arbidol, nome commerciale di un farmaco a base di umifenovir approvato in Russia ma non in Europa e Usa. “Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus – ricorda l’Iss – si è diffusa in rete l’informazione che tale farmaco potesse essere efficace per il trattamento dell’infezione, ma in realtà a oggi non ne è stata dimostrata l’efficacia”. L’Iss ha trovato in rete numerosi siti che propongono la vendita di Arbidol. Tra i primi 30 risultati che si ottengono digitando “acquista online Arbidol/umifenovir” (in italiano o in inglese) sono state trovate dieci farmacie extra-europee che vendono il farmaco senza richiedere la ricetta medica. In compresse o capsule, da pochi spiccioli fino a 40 euro, presentate come efficaci per contrastare influenza, Sars e Covid-19.

Più di 20 siti rintracciati dall’Iss vendono l’associazione lopinavir/ritonavir (nome commerciale Kaletra), autorizzato in Europa per il trattamento dell’infezione da Hiv e prescrivibile in Italia solo come farmaco ospedaliero esclusivamente dagli infettivologi, con ricetta non ripetibile limitativa. “Dei siti esaminati – spiega l’Iss – più del 60% proponeva l’acquisto del farmaco Kaletra o di un suo generico senza ricetta medica. Alcuni richiedevano la ricetta medica dando però la possibilità di ottenerla online sullo stesso sito di vendita o tramite un link ad altro sito, dietro pagamento di un’ulteriore cifra, oppure semplicemente mettendo in contatto l’acquirente con un sedicente medico”. Su alcuni siti gli annunci di vendita sono accompagnata da loghi di istituzioni o riviste scientifiche utilizzati per persuadere l’acquirente.

Online si trova illegalmente anche la clorochina, antimalarico ora usato in via sperimentale per Covid-19. E su alcuni siti anche l’idrossiclorochina, l’oseltamivir, il ribavirin e l’indometacin. Per quanto riguarda, invece, altri farmaci diventati “famosi” durante la pandemia (remdesivir, favipiravir, camostat, tocilizumab, oseltamivir), la ricerca Iss ha individuato alcuni siti che propongono la vendita di alcuni di questi medicinali, ma in nessun caso era riportata esplicitamente l’indicazione per Covid-19.

Il monitoraggio ha rintracciato anche alcuni siti che reclamizzano vari rimedi per la prevenzione e cura dell’infezione Covid-19. In particolare, vengono proposti rimedi omeopatici (Arsenicum album 30 CH, Thuja 30, Gelsemium, Bryonia Alba 6 CH e 30 CH, etc.), rimedi ayurvedici e oli essenziali per aromaterapia. Accompagnati da slogan che minimizzano l’emergenza in atto: “Il coronavirus non è più pericoloso degli usuali virus influenzali”.

La repressione

Anche ’ultima operazione dell’Interpol conferma la rilevanza del canale web. Con Pangea XIII, che ha rintracciato 4,4 milioni di prodotti illegali, sono stati sequestrati oltre 2.500 siti internet. Alcuni di questi vendevano antivirali in funzione anti-coronavirus, ma anche test diagnostici, mascherine e gel disinfettanti per le mani. Con la pandemia, dispositivi di protezione e prodotti igienizzati sono diventati protagonisti dei traffici illeciti. Nel nostro Paese si sono moltiplicate in queste settimane le operazione dei Carabinieri dei Nas, con centinaia di miglia di prodotti sequestrati in tutta Italia. “Una particolare attenzione – spiegano i Nas – è stata dedicata ai controlli sulla regolarità delle attività distributive di dispositivi medici e di destinazione d’uso sanitario. Le verifiche hanno interessato anche i flussi commerciali di importazione, al fine di intercettare articoli e presidi medici introdotti irregolarmente sul territorio nazionale e privi delle caratteristiche di sicurezza, anche approfittando della elevata richiesta di mercato”. L’emergenza non è ancora finita e lo Stato non potrà abbassare la guardia.

L’impatto sulle aziende produttrici

La relazione “Trade in counterfeit pharmaceutical products”, pubblicata a fine marzo da Ocse (Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo economico) ed Euipo (Ufficio Ue per la proprietà intellettuale), dedica un capitolo all’impatto della contraffazione di farmaci sulle aziende che legalmente li producono. “L’impatto delle contraffazioni sui produttori legittimi – spiegano Euipo e Ocse – è multiplo, comprese le vendite mancate, i costi di protezione dei marchi, la perdita di reputazione, i costi potenziali per gestire lo smaltimento dei prodotti contraffatti, i costi per le controversie con i contraffattori e, eventualmente, con le persone che sono state inconsapevolmente vittime delle contraffazioni”.

Il fenomeno trova attenzione anche nei report aziendali. Un colosso mondiale come Pfizer, ad esempio, cita la contraffazione nella sua relazione finanziaria annuale 2019, dove un paragrafo è dedicato a informazioni generali sul fenomeno e agli sforzi fatti per affrontarlo. Fra questi, “collaborare con Fda e altre autorità o alleanze internazionali; valutare tecnologie per cercare di rendere più difficile per i contraffattori la copia dei prodotti e più facile per i pazienti e gli operatori sanitari distinguere i medicinali autentici da quelli contraffatti; collaborare con grossisti, farmacie, uffici doganali e forze dell’ordine per aumentare la copertura delle ispezioni, monitorare i canali di distribuzione e migliorare la sorveglianza di distributori e riconfezionatori e utilizzare l’analisi dei dati e gli strumenti di valutazione del rischio per indirizzare meglio i fattori che danno origine al problema della contraffazione innanzitutto”.

Un paragrafo simile si trova nelle relazioni annuali 2009 (generale e finanziaria) di Novartis e descrive i pericoli che la pratica potrebbe avere sui pazienti e la reputazione dell’azienda. Rileva, inoltre, che l’industria continua a essere sfidata dalla vulnerabilità dei canali di distribuzione alla contraffazione illegale e la presenza di prodotti contraffatti in un numero crescente di mercati e su internet.

Nella sua relazione annuale più recente (2019), il Gruppo Roche ha incluso una sezione una sezione sulla contraffazione: “L’azienda – si legge nel report – utilizza le sue capacità analitiche interne per esaminare campioni di contraffazione. Oltre a identificare la composizione delle contraffazioni, le analisi comprendono anche l’inchiostro su imballaggi e volantini, blister e carta. Le contraffazioni provenienti da diverse parti del mondo vengono esaminate per determinare se provengono dalla stessa fonte. Nel 2018, la società ha valutato 377 casi sospetti di contraffazione, di cui 142 confermati”.

Merck & Co. (relazione annuale 2019) ricorda di aver istituito già da alcuni anni “una rete di coordinamento interna sulla contraffazione che copre tutte le funzioni e le attività”. Inoltre, vengono descritte le misure di sicurezza utilizzate per proteggere i prodotti dalla contraffazione, così come le soluzioni innovative per scongiurare i pericoli legati al crimine informatico e allo spionaggio. Nel complesso, la minaccia derivante dal crimine in generale è “considerata possibile ed è classificata come un rischio medio”.

Le stime più recenti (Euipo 2019) sull’impatto della contraffazione sull’industria farmaceutica europea parlano chiaro: vendite mancate per 9,6 miliardi di euro nel periodo 2012-2016, cioè il 3,9% delle vendite totali. Ma non è l’unico dato allarmante. L’integrazione delle tecnologie anti-contraffazione nei prodotti e nel packaging aumenta i costi per le aziende. La Commissione Ue, ad esempio, ha stimato in 50-320 milioni di euro all’anno i costi per l’introduzione di un identificatore univoco per produttori e importatori. La stima dei costi per l’intero settore (compresi produttori, grossisti, vendita al dettaglio e sistemi di deposito) è compresa tra 200 e 800 milioni di euro. E vanno considerati anche gli investimenti realizzati da Big Pharma per i dipartimenti di sicurezza interni alle aziende, che lavorano in stretto rapporto con l’autorità di regolamentazione. Senza dimenticare i danni per il brand e la reputazione.

Infine, i farmaci contraffatti sono nemici dell’innovazione. “L’innovazione – sottolineano Euipo e Ocse – è la chiave del successo delle aziende farmaceutiche e del miglioramento dei risultati sanitari. La R&S è fondamentale per l’innovazione ed è incentivata in larga misura dalla protezione dei diritti di proprietà intellettuale, senza i quali gli innovatori avrebbero difficoltà a trarre profitto dagli ingenti investimenti necessari per sviluppare nuovi prodotti. La violazione della proprietà intellettuale attraverso la contraffazione mina l’innovazione riducendo gli incentivi a investire e innovare e privando le aziende farmaceutiche di ricavi che potrebbero essere investiti in ricerca”. Un danno per le imprese, ma anche per pazienti e sistemi sanitari.

 

 

 

 

 

 

 

Torna su
La Commissione europea ha approvato il primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato

La Commissione europea ha approvato il primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato

Il nuovo vaccino è concepito per proteggere gli adulti di età pari o superiore a 65 anni contro quattro ceppi di influenza stagionali: due ceppi A e due ceppi B, rispetto a due ceppi A e un singolo ceppo B contenuti nel vaccino attuale


 A chi è indirizzato il vaccinoLa Commissione europea ha approvato l’utilizzo in tutta Europa del primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato. Questo nuovo vaccino si basa sulla consolidata tecnologia, già utilizzata in un vaccino antinfluenzale trivalente adiuvato (aTIV), disponibile in diversi Paesi europei. Nelle persone di età superiore ai 65 anni, aTIV ha dimostrato una maggiore efficacia rispetto ai vaccini antinfluenzali trivalenti standard non adiuvati.

Il nuovo vaccino quadrivalente è specificamente concepito per proteggere gli adulti di età pari o superiore a 65 anni contro quattro ceppi di influenza stagionale. Si tratta di due ceppi A e due ceppi B, rispetto a due ceppi A e un singolo ceppo B contenuti nel vaccino attuale. Il nuovo vaccino quadrivalente adiuvato (aQIV) sarà prodotto da Seqirus, uno dei maggiori produttori europei di vaccini antinfluenzali e leader mondiale nella prevenzione dell’influenza.

Gli studi

Da oltre vent’anni in Italia il vaccino trivalente adiuvato viene utilizzato per la protezione della popolazione anziana, specialmente se a rischio. Nel Regno Unito, inoltre, il vaccino trivalente adiuvato è quello primariamente raccomandato nella fascia di età superiore ai 65 anni. Nella stagione influenzale 2018/2019, il Servizio sanitario inglese (Public health england) ha effettuato uno studio che ha dimostrato come l’efficacia sul campo del vaccino trivalente adiuvato nel prevenire l’influenza confermata in laboratorio sia stata del 62% (3,4%, 85,0%). È ben noto che nelle precedenti stagioni, quando veniva somministrato solo il vaccino non adiuvato a tutti i gruppi di età, l’efficacia negli anziani era molto più bassa rispetto a quella della popolazione adulta.

I vantaggi dell’aggiunta di un nuovo ceppo

L’aggiunta di un ulteriore ceppo B al nuovo vaccino può fornire una copertura aggiuntiva, in particolare nelle stagioni influenzali in cui i ceppi B sono più dominanti, come quella del 2017/18. In quella stagione, quasi la metà di tutti i decessi per influenza nelle unità di terapia intensiva che riportavano i propri dati all’European centre for disease prevention and control era imputabile a virus del ceppo B.

Con l’età, le persone anziane sperimentano un declino naturale del proprio sistema immunitario, e questo le rende più vulnerabili a contrarre l’influenza in forma grave. L’invecchiamento inoltre può anche ridurre la risposta immunitaria dell’organismo alla vaccinazione antinfluenzale. L’adiuvante presente in aQIV è concepito per potenziare la risposta immunitaria negli anziani e per contribuire a compensare gli effetti negativi dovuti all’età.

Maggiore protezione per i soggetti più vulnerabili

“È importante poter disporre di vaccini adeguati all’età, per aiutare le persone anziane a proteggersi dall’influenza, in particolar modo in questo periodo”, ha affermato Raja Rajaram, head of medical affairs di Seqirus in Europa. “Sappiamo che le persone vaccinate hanno meno probabilità di contrarre l’influenza: questo contribuisce ad operare una diagnosi differenziale e potenzialmente ad alleviare la pressione sui sistemi sanitari, già oberati a causa della pandemia da Covid-19. Come azienda, ci siamo concentrati sullo sviluppo di vaccini che offrano una migliore protezione ai soggetti particolarmente vulnerabili all’influenza. Siamo lieti di poter rendere disponibile anche in Europa questo vaccino, che fornisce agli operatori sanitari uno strumento aggiuntivo per essere in prima linea nella prevenzione dell’influenza”.

 

Torna su
Spiegata la dipendenza dei tumori dal glucosio

Spiegata la dipendenza dei tumori dal glucosio

Un team di ricercatori dell’Ifom ha individuato un meccanismo molecolare che modula la dipendenza delle cellule tumorali dal glucosio. Il lavoro apre la strada all’individuazione di approcci metabolici specifici in abbinamento alle terapie convenzionali per aumentarne l’efficacia

tumori glucosio

Decrittare l’origine della dipendenza dei tumori dal glucosio, per individuare specifici biomarcatori. È quello a cui sta lavorando il gruppo di Marco Foiani, Direttore del programma “Integrità del Genoma” dell’Ifom e professore dell’Università degli Studi di Milano, che di recente ha pubblicato un lavoro su Nature Communications sul tema. Lo studio rivela un meccanismo molecolare capace di modulare la dipendenza delle cellule tumorali dal glucosio, identificando anche un rapporto di causa ed effetto tra l’integrità del Dna e il metabolismo del glucosio.

Punti da chiarire

Che le cellule tumorali consumino grandi quantità di glucosio per crescere ed espandersi, è noto da tempo. Tanto che esistono addirittura indagini strumentali, come la PET, che sfruttano l’eccessivo assorbimento di glucosio da parte dei tumori per individuare le eventuali metastasi nei pazienti oncologici, tramite l’impiego di glucosio radioattivo quale biomarcatore. Quello che ancora non era noto è il meccanismo alla base di questo fenomeno. “Non tutti i tumori sono ugualmente dipendenti dal glucosio e fino a oggi non era ancora chiaro da quale fattore dipendesse questa variabilità” precisa Foiani.

Sinergia tra chemioterapia e interventi metabolici

“La dipendenza della cellula tumorale dal glucosio è una conseguenza delle alterazioni del Dna dovute al tumore” continua Foiani. “Gli sbilanciamenti metabolici delle cellule tumorali stesse inducono infatti, una maggior richiesta di energia rispetto quelle sane”. Proprio perché le cellule tumorali sono glucosio-dipendenti e instabili geneticamente, è possibile che la chemioterapia, che danneggia il Dna del tumore, possa risultare più efficiente se abbinata a un intervento metabolico sul glucosio in grado di ridurre la capacità del tumore di procacciarsi zucchero.

Il lavoro dei ricercatori dell’Ifom

Il gruppo guidato da Foiani ha studiato il problema da una prospettiva ribaltata, partendo non dal metabolismo cellulare, ma dalle strutture preposte all’integrità del genoma. “Abbiamo inizialmente osservato in cellule caratterizzate da una ridotta capacità di risposta ai danni del Dna come queste diventino estremamente dipendenti dall’apporto di glucosio” spiega Christopher Bruhn, autore dello studio insieme a Foiani. “Questo indizio trovava corrispondenza nella correlazione in molti tumori fra una risposta insufficiente ai danni del Dna e un consumo di grandi quantità di zucchero. Ci siamo allora chiesti se potesse sussistere una connessione tra queste due caratteristiche del cancro”.

Il ruolo degli stoni nel rapporto tumori-glucosio

Combinando screening genetici con analisi metabolomica, fosfo-proteomica e analisi dell’espressione genica, gli scienziati di Ifom hanno osservato come la risposta ai danni del Dna regoli la produzione degli istoni. Proteine cruciali per “imballare” il Dna all’interno del nucleo, con un impatto significativo sul metabolismo cellulare. “Le cellule caratterizzate da una scarsa risposta al danno del Dna – continua Bruhn – producono istoni in eccesso. Gli istoni si accumulano e interferiscono con il metabolismo cellulare, che in queste condizioni consuma alti livelli di glucosio. La conseguenza nella cellula, già geneticamente instabile, è che paradossalmente sembra affamata anche se è alimentata con glucosio”.

Dopo aver identificato gli istoni come mediatori molecolari della dipendenza da glucosio i ricercatori hanno ripetuto queste misurazioni del metabolita “correggendo” gli squilibri con manipolazioni genetiche. “Siamo rimasti colpiti da come questa piccola correzione abbia sorprendentemente ripristinato i normali livelli di metaboliti e la crescita in condizioni di limitazione del glucosio” aggiunge Bruhn.

I “sensori metabolici”

“L’interdipendenza tra epigenetica e metabolismo è cruciale – evidenzia Foiani – e gli istoni sono i principali mediatori di queste interazioni, perché influenzano sia l’espressione dei geni sia alcuni flussi metabolici. I risultati emersi ora dal laboratorio dimostrano come sia la risposta al danno al Dna a operare modificazioni agli istoni, facendone degli straordinari ‘sensori metabolici’ con un impatto diretto sui fabbisogni nutrizionali della cellula tumorale”.

Approccio oncologici combinati

La scoperta apre la strada ad approcci terapeutici combinati che affianchino alle terapie oncologiche convenzionali approcci farmacologici e regimi dietetici mirati a biomarcatori metabolici specifici. Proprio in questa direzione, grazie alla collaborazione con l’Istituto Nazionale dei Tumori, i risultati dello studio potranno contribuire alla messa a punto di sperimentazioni cliniche mirate che combinino approcci terapeutici sperimentali, di tipo nutrizionale o farmacologico con i tradizionali farmaci chemioterapici.

 

Torna su
La telemedicina come strumento per migliorare il controllo dei pazienti a domicilio

La telemedicina come strumento per migliorare il controllo dei pazienti a domicilio

La Telemedicina garantisce un ecosistema composto da professionisti sanitari e tecnologie che sono in grado di migliorare enormemente l’efficienza delle prestazioni erogate, anche grazie alla partnership pubblico-privato. *IN COLLABORAZIONE CON DOMEDICA

la telemedicina

La pandemia da Covid, tra le diverse difficoltà che ha generato, ha aumentato la distanza dei pazienti dagli ospedali a causa delle difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere che sono state contingentate per la riduzione del rischio di contagio. Visite, somministrazione di farmaci, esami diagnostici sono stati rimandati creando le difficoltà che tutti, in maniera diretta o indiretta, abbiamo sperimentato. In questo scenario, permettere agli ospedali di continuare a seguire i loro pazienti a domicilio e ai pazienti di continuare a usufruire della continuità delle cure è quanto mai necessario. La Telemedicina garantisce un ecosistema composto da professionisti sanitari e tecnologie che sono in grado di migliorare enormemente l’efficienza delle prestazioni erogate anche grazie alla partnership pubblico privato che è fondamentale per la sostenibilità del sistema sanitario.

In cosa consiste un Programma di telemedicina?

I programmi di Telemedicina presuppongono la condivisione di un Protocollo di monitoraggio che è costruito sulle necessità di monitoraggio dei pazienti affetti da una certa condizione: va da sé che un protocollo per la gestione di una cardiopatia è diverso da quello per una patologia reumatica.

È invece imprescindibile il coinvolgimento di operatori sanitari e pazienti da una parte e della tecnologia dall’altra che permette la raccolta di parametri e dati che sono fondamentali per gestire il piano di cura dei pazienti.

Gli operatori sanitari coinvolti sono sostanzialmente appartenenti a tre entità:

  • Il Centro erogatore che è l’ospedale con i suoi operatori sanitari che erogano l’assistenza;
  • Il Centro servizi che effettua il monitoraggio remoto continuo dei pazienti a domicilio;
  • L’assistenza domiciliare che raccoglie e condivide i dati e le informazioni di rilievo raccolte durante le visite domiciliari.

Hanno diversi ruoli:

  • Il Centro erogatore mantiene la governance clinica e provvede a effettuare tele-visite o tele-consulti e interviene sui pazienti a fronte delle informazioni e dei dati che sono raccolti nel monitoraggio;
  • Il Centro servizi che effettua il monitoraggio remoto continuo dei pazienti a domicilio erogando anch’esso tele-visite di monitoraggio orientate alla verifica dello stato del paziente, all’educazione sanitaria e al supporto emotivo;
  • L’assistenza domiciliare che raccoglie e condivide le informazioni dei pazienti raccolte durante le visite domiciliari.

La tecnologia è invece costituita da due interfacce:

  • La piattaforma tecnologica strutturata per rispondere alle esigenze del Protocollo di Monitoraggio è il collettore di tutti i dati raccolti nel monitoraggio e permettere la corretta gestione delle attività definite dal protocollo (incluse le video-visite/consulti;
  • I device (possono essere di diversi tipi in base alle necessità di raccolta dati) che sono utilizzati in autonomia dai pazienti o dagli operatori sanitari che effettuano le visite domiciliari e che sono connessi alla piattaforma tecnologica che ne permette l’immediata condivisione con gli enti coinvolti nel monitoraggio. I dati che possono essere raccolti sono diversi e non solo relativi ai parametri clinici raccolti dai device (sfigmomanometro, Ecg, bilancia, spirometro, etc..) ma anche a questionari che possono essere somministrati ai pazienti a completamento della raccolta dati.

 I servizi di Domedica

Domedica, leader nel settore dei Psp, ha una vasta esperienza come Centro servizi e fornitore della piattaforma Tech n’Care che permette di erogare i Programmi di telemedicina. I feedback raccolti da medici e pazienti coinvolti nei programmi sono estremamente positivi e diversi studi pubblicati validano l’efficacia di questo approccio.

A cura di DomedicaV

Torna su
Mantovani: “Allenare l’immunità innata con i vaccini”

Mantovani: “Allenare l’immunità innata con i vaccini”

Vaccinarsi contro un agente infettivo specifico per essere più reattivi anche contro altri virus e batteri. È il concetto di “protezione agnostica” e di innalzamento della soglia dell’immunità innata, che potrebbe rivelarsi utile anche contro Covid-19. Sul New England Journal of Medicine l’articolo di Alberto Mantovani

immunità innata

Il sistema immunitario può essere “allenato”, anche per combattere Covid-19. In particolare, a essere usata anche contro il fin troppo noto Sars-Cov2 è l’immunità innata, la prima linea di difesa che l’organismo utilizza contro i patogeni. Questa risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus e si accompagna all’immunità adattiva, la nostra linea di difesa più specifica, che può essere stimolata e dunque potenziata con i vaccini. L’idea dunque – stando ai dati più recenti – è che anche il sistema immunitario innato possa essere allenato.

Come funziona l’immunità innata

Lo conferma Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, che descrive il fenomeno insieme al collega Mihai Netea (Olanda) sul New England Journal of Medicine. Nell’articolo Trained Innate Immunity, Epigenetics and Covid-19 scrive infatti: “Vaccinarsi può aumentare il tono di base dell’immunità innata, come in un allenamento, e innescare la resistenza antimicrobica definita ‘agnostica’”.

“Tale addestramento è direttamente collegato alla resistenza alle malattie infettive – continua – come probabilmente accade anche per Covid-19. In questo processo giocano un ruolo chiave le cellule mieloidi, in particolare i macrofagi, attori centrali dell’immunità innata che, con la loro diversità e plasticità, contribuiscono all’attivazione, all’orientamento e alla regolazione delle risposte immunitarie adattive”.

Come “allenare” il sistema immunitario innato

Per allenare il sistema immunitario al momento esistono due strade: sottoporsi alle vaccinazioni raccomandate, compresa quella antinfluenzale stagionale, e condurre uno stile di vita sano. Principio quest’ultimo, sintetizzato nella formula 0-5-30: ogni giorno zero sigarette, 5 porzioni di frutta e verdura fresche, 30 minuti di esercizio fisico moderato. L’obesità disorienta il sistema immunitario ed è un fattore di rischio, anche per Covid-19.

Il vaccino contro la tubercolosi

Allena l’immunità innata, ad esempio, anche il vaccino contro il morbillo, che protegge non solo contro il virus specifico, ma anche più in generale contro le infezioni respiratorie. “Questo meccanismo di allenamento potrebbe contribuire a spiegare il fatto che i bambini siano meno colpiti da Covid-19 – prosegue Mantovani – dal momento che la maggior parte di loro è sottoposta a diverse vaccinazioni nei primi anni di vita. Sperimentazioni in corso utilizzano, ad esempio, il vaccino contro BCG (Tubercolosi) per alzare la soglia di allenamento del sistema immunitario”.

Gli studi già partiti

Se n’era parlato infatti, già lo scorso marzo, quando in Olanda, Germania e Australia erano partite sperimentazioni cliniche su operatori sanitari e anziani per capire se veramente il vaccino contro la tubercolosi potessi “attivare” il sistema immunitario contro Sars-Cov2, come si ipotizza. L’ipotesi è che questo vaccino (come potenzialmente altri) forniscano una sorta di “immunoprevenzione aspecifica” nei confronti dell’infezione da nuovo coronavirus. E che quindi le vaccinazione siano in grado di stimolare il sistema immunitario a una maggior risposta anche nei confronti di un patogeno diverso, come appunto il Sars-Cov2.

Più studi per avere la conferma

“Evidenze epidemiologiche, come quelle descritte in un lavoro uscito in parallelo su Proceedings National Academy of Science Usa, suggeriscono che questo vaccino possa aumentare la resistenza a Covid, ma ciò andrà provato in studi prospettici controllati. È ancora dubbio che il vaccino antinfluenzale sia associato a un effetto analogo, ma ciò non toglie che sia fortemente indicato. Certamente innalzare il livello delle nostre difese di prima linea costituisce una strada promettente da esplorare e approfondire”.

 

Torna su
Intesa Stato-Regioni, le farmacie distribuiranno una piccola parte di vaccino anti-influenzale

Intesa Stato-Regioni, le farmacie distribuiranno una piccola parte di vaccino anti-influenzale

Ad annunciarlo è il presidente della conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini. "Le Regioni stanno provvedendo a un’acquisizione più ampia di vaccini. Per questo occorre ora un intervento redistributivo per renderne disponibile una percentuale minima, l’1,5%, nelle farmacie". La reazione di Federfarma, Fofi e Assofarm: "Non bastano"

vaccini

Una quota di vaccino anti-influenzale verrà distribuito dalle farmacie. È questo il risultato dell’intesa trovata lunedì 14 settembre, tra Stato e Regioni, in merito alla prossima campagna vaccinale. Ad annunciarlo è Stefano Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni. “Abbiamo sancito, in Conferenza Stato-Regioni, l’intesa per distribuire una quota di vaccini anti-influenzali, disponibile per ogni singola Regione, attraverso il sistema territoriale delle farmacie”. Anche il ministero della Salute, qualche giorno fa, aveva auspicato una soluzione di questo tipo.

Due fattori

“Guardando oggi alla campagna vaccinale per prevenire l’influenza occorre considerare due ordini di fattori”, ha spiegato Bonaccini. “Il primo è che la vaccinazione anti-influenzale sebbene non abbia un’efficacia al 100% può contribuire a ridurre il carico di malattie nella popolazione e ciò è ancora più importante se consideriamo il caso in cui l’influenza e Covid-19 siano simultaneamente presenti in una comunità. Contenere i numeri di casi di influenza facilita poi la diagnosi differenziale ed evita il sovraccarico del sistema sanitario. Il secondo è che ogni anno 800 mila cittadini che non rientrano fra le categorie per le quali la vaccinazione è raccomandata, si rivolgono comunque al farmacista per acquistare il vaccino a proprio spese”.

Si acquistano sempre più vaccini

“Poiché la raccomandazione per il vaccino anti-influenzale quest’anno è estesa a categorie d’età non incluse in precedenza, le Regioni hanno provveduto e stanno provvedendo ad un’acquisizione più ampia di vaccini. Per questo occorre ora un intervento redistributivo delle Regioni per renderne disponibile una percentuale minima, l’1,5% (eventualmente incrementabile dalle singole Regioni) nelle farmacie”.

Gli anziani i più attenzionati

“L’unica condizione che abbiamo posto e su cui abbiamo avuto assicurazioni dal Governo – ha concluso Bonaccini – è che sia assicurato comunque il quantitativo necessario per gli anziani (ultra sessantacinquenni e per quest’anno anche a partire dai 60 anni), per le persone appartenenti a categorie a rischio, alle donne in gravidanza, agli addetti ai servizi essenziali e, quest’anno, anche ai bambini fra i 6 mesi e i 6 anni”.

La reazione dei farmacisti

Per i farmacisti, l’auspicata risposta delle Regioni è insufficiente. “La decisione di destinare alla distribuzione in farmacia solo l’1,5% dei vaccini antinfluenzali acquisiti dalle Regioni non garantisce una risposta adeguata ai bisogni della popolazione attiva: appare del tutto insufficiente rendere disponibili solo 250.000 dosi a fronte di un fabbisogno stimato tra 1,2 e 1,5 milioni di dosi”, scrivono in una nota congiuta Fofi, Federfarma e Assofarm.

Le tre organizzazioni citano il documento del ministero della Salute approvato dalla Conferenza delle Regioni: “è da tener conto, anche, che l’indisponibilità di vaccini in vendita nelle farmacie per le persone che desiderano evitare la malattia influenzale e che non appartengono a categorie a rischio, potrebbe indurre allarme sociale e vanificare gli sforzi di sensibilizzare la popolazione sull’importanza della vaccinazione quale strumento efficace di prevenzione, lanciando un messaggio contradditorio”. A fronte di questa affermazione, Fofi, Federfarma e Assofarm si dicono stupite per la decisione dei Governatori di  di destinare alle farmacie una quota minima pari solo all’1,5% delle dosi totali, ben lontana da quella auspicata nello stesso documento.

“Ci aspettiamo quindi che, in occasione del prossimo incontro presso il ministero della salute, previsto per il 16 settembre, si trovino fin da subito soluzioni per permettere di rimodulare questa quota minima e di avvicinarsi al fabbisogno reale dei cittadini non inclusi nelle fasce a rischio, che anche il ministero della Salute, nello stesso documento, afferma aggirarsi tra il 3 e il 10% delle dosi acquisite dalle Regioni”, sottolinea la nota congiunta.

 

Torna su
Malattie autoimmuni, scoperti nuovi bersagli per curarle

 

Malattie autoimmuni, scoperti nuovi bersagli per curarle

 

La ricerca pubblicata su Nature Genetics è stata condotta da un team all’Università di Sassari e il Cnr-Irgb, su circa 4.000 individui in Ogliastra (area della Sardegna nota per l’elevata presenza di centenari e per la conservazione del Dna) e apre la strada a nuove possibilità terapeutiche
 
malattie autoimmuni

Hanno identificato nuovi bersagli terapeutici per le malattie autoimmuni, con un’indagine condotta in Ogliastra (area della Sardegna nota per l’elevata presenza di centenari e per la conservazione del Dna) su circa 4mila persone. Lo ha fatto il team di ricercatori guidato da Francesco Cucca, professore di genetica umana all’Università di Sassari e ricercatore principale dello studio ProgeNIA/SardiNIA dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb).

Nello studio pubblicato su Nature Genetics il gruppo ha scoperto 120 nuove associazioni tra varianti genetiche e livelli di almeno uno dei 700 parametri immunologici esaminati. Cinque volte le conoscenze esistenti a oggi sulla regolazione dei livelli delle cellule del sistema immune. Risultati che aprono a nuove opportunità terapeutiche per le malattie autoimmuni.

Indizi preziosi

“Circa la metà di queste associazioni si sovrappone perfettamente ad associazioni con varianti genetiche in grado di modificare il rischio di almeno una malattia autoimmune” spiega Cucca. “Come sclerosi multipla, lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, colite ulcerosa, diabete di tipo 1 e malattia di Kawasaki. Quando la stessa variante genetica influenza sia livelli ematici di un tipo di cellule immunitarie che il rischio di una malattia autoimmune è probabile che il prodotto proteico di quel gene agisca nel processo alla base di quella malattia attraverso quel tipo di cellule”.

“I risultati ottenuti da questo studio forniscono quindi indizi preziosissimi sulle proteine e i meccanismi effettivamente implicati nello sviluppo delle malattie autoimmuni – continua – e indicano nuovi ed importanti bersagli terapeutici per il loro trattamento: le specifiche proteine suscettibili di essere modulate terapeuticamente”.

La potenza dell’analisi genetica

L’analisi genetica è uno strumento sempre più potente per identificare le variazioni della sequenza del Dna in grado di influenzare caratteristiche misurabili del nostro corpo, come i livelli delle cellule e delle molecole solubili nel sangue. Attraverso analisi statistico-genetiche appropriate è inoltre possibile capire quali di esse siano coinvolte nell’insorgenza di malattie umane, contribuendo a formulare corrette ipotesi terapeutiche per il loro trattamento.

Lo studio ProgeNIA

Lo studio rappresenta l’evoluzione applicativa di numerose scoperte fatte con lo studio ProgeNIA e già pubblicate in oltre 150 articoli scientifici. “Questi studi avevano identificato le prime associazioni geniche mai riportate con i livelli ematici di cellule immunitarie, citochine e marcatori infiammatori – conclude Cucca – con i livelli dei diversi tipi di emoglobina, acido urico, lipidi e di variabili antropometriche come l’altezza, e valutato l’impatto di questi parametri sul rischio e decorso clinico di malattie come la sclerosi multipla, il diabete, la talassemia, la gotta, e le malattie cardiache e renali”.

La ricerca è stato finanziato da agenzie pubbliche come il Programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea, e l’Istituto nazionale per l’invecchiamento (NIA) dell’Istituto nazionale di sanità (NIH) del governo USA, e dalla Fondazione italiana per la sclerosi multipla (Fism).

 

 

 

 

 

Torna su
Produzione e ricerca e sviluppo del vaccino anti-Covid, le recenti mosse di alcune multinazionali

Produzione e ricerca e sviluppo del vaccino anti-Covid, le recenti mosse di alcune multinazionali

Eli Lilly ha stretto un accordo con Amgen, Biontech (che sta lavorando in sinergia con Pfizer) ha acquistato un impianto di produzione da Novartis, le autorità regolatorie hanno dato riscontro favorevole alla fase clinica 2/3 di Celltrion in Sud Corea e la Sinovac cinese ha dato il via alla sperimentazione del suo prodotto sui giovani

oncologia

In materia di produzione e ricerca e sviluppo del vaccino anti-Covid ci sono delle novità importanti. Negli ultimi due giorni in Cina, Corea del sud, Stati Uniti e Germania, ci sono stati accordi per rilevare impianti industriali, pareri positivi per le sperimentazioni di fase 3 e partnership per nuovi clinical trial. Eli Lilly, per esempio ha stretto un accordo con Amgen, Biontech (che sta lavorando in sinergia con Pfizer) ha acquistato un impianto di produzione da Novartis, le autorità regolatorie hanno dato riscontro favorevole alla fase clinica 2/3 di Celltrion in Sud Corea e la Sinovac cinese ha dato il via alla sperimentazione del suo prodotto sui giovani.

L’accordo Lilly/Amgen

Eli Lilly ha siglato un accordo con Amgen per trovare supporto nella sperimentazione del suo trattamento anticorpale contro l’infezione da Sars-Cov2. Attraverso questa operazione, le due compagnie saranno in grado di incrementare la produzione dell’anticorpo subito dopo l’approvazione da parte degli enti regolatori. La stessa Lilly ha reso noti alcuni dati positivi sulla riduzione dei tempi di ospedalizzazione e questo ha dato nuovo impulso alle attività della società che potrebbe anche fare richiesta alla Fda (ma non solo) per un’approvazione per uso emergenziale.

L’acquisto di Biontech

Chi invece si sta occupando a tempo pieno del vaccino è l’accoppiata Biontech/Pfizer con la società tedesca che ha concluso un accordo con Novartis per l’acquisizione di un impianto produttivo a Marburg, in Germania. Il valore della transazione non è stato reso noto. L’obiettivo è quello di aumentare considerevolmente (centinaia di milioni di dosi in più a detta del Cfo Sierk Poetting) la capacità produttiva dello stabilimento che sarà riconvertito per essere pienamente funzionante nella prima metà del 2021 e produrre, stando ai piani di Biontech, almeno 750 milioni di dosi all’anno.

La sperimentazione cinese

Non c’è solo Cansino in Cina, ma anche Sinovac sta accelerando i tempi per il suo vaccino sperimentale. La compagnia asiatica sta pensando di attivare un nuovo programma di somministrazione a bambini e adolescenti entro fine settembre (forse il 28). I 552 partecipanti della provincia dell’Hubei, sono in salute e hanno un’età compresa tra i tre e i 17 anni. Sempre all’interno del programma della società, il vaccino è stato somministrato anche al 90% dei dipendenti e delle rispettive famiglie.

Celltrion ha l’ok della Corea

Sempre rimanendo in Asia, la compagnia coreana Celltrion ha ricevuto parere positivo dalle autorità regolatorie locali per la sperimentazione di fase 2/3 del suo anticorpo. Ora la società vorrebbe richiedere l’autorizzazione alla registrazione per l’uso emergenziale. Al testo hanno partecipato 1020 persone.

 

Torna su