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Primo Piano


Diventa donatore di sangue

Diventa donatore di sangue
Premessa

Il sangue non si produce in laboratorio ed il fabbisogno annuo in Italia è di 2.400.000 unità di sangue intero e più di 1.077.000 litri di plasma.
L'impossibilità di ottenerlo tramite procedimenti chimici e il suo larghissimo impiego, rendono il sangue un presidio terapeutico prezioso non sempre disponibile.
La maggior parte di noi può donare il sangue e molti, almeno una volta nella vita, potrebbero averne bisogno.

 

Alcuni tipi di donazione:

o Sangue intero
o Plasma (plasmaferesi
o Piastrine (piastrinoaferesi)
o Donazione multipla di emocomponenti

 

Per molti ammalati il sangue e/o suoi componenti è terapia indispensabile per la sopravvivenza, alcuni esempi:

o Globuli rossi, in caso di perdite ematiche ed anemie;
o Piastrine, in caso di malattie emorragiche;
o Plasma, in caso di grosse ustioni, tumori del fegato, carenza dei fattori della coagulazione;
o Plasmaderivati, fattore VIII e IX per emofilia A e B, immunoglobuline e albumina per alcune patologie del fegato e dell'intestino.

La sicurezza delle trasfusioni e il raggiungimento dell'autosufficienza regionale e nazionale di sangue, emocomponenti e farmaci derivati, è l'obiettivo del Servizio Sanitario Nazionale e il maggior impegno delle Associazioni e Federazioni dei donatori.

La donazione da donatori volontari, periodici, responsabili, anonimi, e non retribuiti è la migliore garanzia per la qualità e la sicurezza delle terapie trasfusionali.


Requisiti

Al momento della donazione devono essere nella norma, cioè nei limiti previsti dalla legge:

  • Età compresa tra 18 anni e i 60 anni (per candidarsi a diventare donatori di sangue intero), 65 anni (età massima per proseguire l'attività di donazione per i donatori periodici), con deroghe a giudizio del medico;
  • Peso non inferiore a 50 Kg.;
  • Pulsazioni comprese tra 50-100 battiti/min (anche con frequenza inferiore per chi pratica allenamenti sportivi intensi);
  • Pressione arteriosa sistolica tra 110 e 180 ml di mercurio e diastolica tra 60 e 100 ml di mercurio;
  • Stato di salute Buono;
  • Non può donare chi ha comportamenti a rischio, tipo: assunzione di sostanze stupefacenti, alcolismo, rapporti sessuali ad alto rischio di trasmissione di malattie infettive, o chi è affetto da infezione da virus HIV/AIDS o portatore di epatite B o C, o chi fa uso di steroidi o ormoni anabolizzanti.
    Alcune condizioni patologiche o comportamentali non sono compatibili temporaneamente o definitivamente con la donazione in quanto dannose per il donatore e/o per il ricevente.
    Non esistono categorie di persone escluse dalla donazione, ma nella selezione del donatore sono valutati i comportamenti individuali che possono risultare a rischio.

 

Valutazione per l'idoneità

Si effettua presso un servizio trasfusionale o unità di raccolta e consta di: 

  • Accertamento dell'identità del candidato donatore e compilazione di un questionario;
  • colloquio con il medico e valutazione delle condizioni generali di salute;
    o acquisizione del consenso informato alla donazione;


Come si dona

Il giorno del prelievo è preferibile presentarsi a digiuno o dopo una leggera colazione a base di frutta fresca o spremute, thè o caffè poco zuccherati. Non si possono mangiare cibi solidi né bere latte.
Prima della donazione si svolge un colloquio con personale medico per accertare che il candidato donatore abbia i requisiti per effettuare la donazione e per stabilire il tipo di donazione più indicata: sangue intero o suoi componenti.
Ulteriori indagini sanitarie accerteranno l'effettiva idoneità della persona a diventare donatore di sangue.
Alla prima donazione vengono effettuati i seguenti controlli immuno-ematologici:
o determinazione ABO, test diretto e indiretto;
o determinazione fenotipo Rh completo;
o ricerca degli anticorpi irregolari anti-eritrocitari:

 

Ad ogni donazione il donatore viene sottoposto ai seguenti esami:
o esame emocromocitometrico completo;
o determinazione delle ALT con metodo ottimizzato;
o sierodiagnosi per la Lue;
o HIV Ab 1-2 (per l'AIDS);
o Hbs Ag (per l'epatite B );
o HCV Ab (per l'epatite C);
o HCV NAT.

 

Ogni anno il donatore è sottoposto ai seguenti esami:
o creatininemia;
o glicemia;
o proteinemia ed elettroforesi sieroproteica
o colesterolemia;
o trigliceridemia
o ferritinemia

 

Il prelievo del sangue dura tra i 5 e i 10 minuti ed è del tutto innocuo, in quanto effettuato con materiale sterile e monouso. Per legge, il sangue prelevato oscilla tra i 450 ml. +/- 10%
Ai donatori di sangue e di emocomponenti con rapporto di lavoro dipendente, ovvero interessati dalle tipologie contrattuali di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, hanno diritto ad astenersi dal lavoro per l'intera giornata in cui effettuano la donazione, conservando la normale retribuzione per l'intera giornata lavorativa.
La frequenza massima delle donazioni di sangue intero è di quattro volte l'anno (con intervalli minimi di 90 giorni fra una donazione l'altra), ma per le donne in età fertile la frequenza scende a due.
Per altri tipi di donazione l'intervallo tra una donazione e la successiva è sensibilmente inferiore.


Principali criteri di esclusione alla donazione

È necessario tenere presente l'esistenza di alcune  condizioni che possono costituire esclusione, temporanea o permanente, dalla donazione di sangue:
Esclusione Temporanea:
Parto, allergia a farmaci: 1 anno dall'ultimo evento.
Toxoplasmosi, mononucleosi infettiva, M. di Lyme e interruzione di gravidanza: 6 mesi dalla guarigione.
Esami endoscopici, spruzzo delle mucose con sangue o lesioni da ago; trasfusioni di emocomponenti o somministrazione di emoderivati; trapianto di tessuti o cellule di origine umana; tatuaggi o body piercing; agopuntura (se non eseguita da professionisti qualificati con ago "usa e getta"): 4 mesi dall'ultima esposizione al rischio.
Contatti a rischio con persone affette da epatite B; rapporti sessuali occasionali a rischio di trasmissione di malattie infettive; rapporti sessuali con persone infette o a rischio di infezione da HBV, HCV, HIV; intervento chirurgico maggiore: 4 mesi dall'ultima esposizione al rischio.
Malattie infettive, affezioni di tipo influenzale e febbre maggiore di 38°C: due settimane a decorrere dalla data della completa guarigione clinica.
Intervento chirurgico minore: una settimana.
Assunzione di farmaci antinfiammatori: 5 giorni.
Cure odontoiatriche: 1)cure di minore entità da parte di dentista o odontoigienista: esclusione per 48 ore; 2) estrazione, devitalizzazione ed interventi analoghi con prescrizione di terapia antibiotica: esclusione per 1 settimana.
Terapie: rinvio per un periodo variabile di tempo secondo il principio attivo dei medicinali prescritti e comunque considerando la malattia di base.
Malaria - individui che sono vissuti in zona malarica nei primi 5 anni di vita o per 5 anni consecutivi della loro vita: esclusione dalla donazione di sangue intero, emazie e piastrine per i 3 anni successivamente al ritorno dell'ultima visita in zona endemica a condizione che la persona resti asintomatica; è ammessa però la donazione di plasma. Possono essere ammessi alla sola donazione di plasma anche gli individui con pregressa malaria 6 mesi dopo aver lasciato la zona di endemia e visitatori asintomatici di zone endemiche.
Vaccinazioni: 4 settimane per vaccini preparati con virus o batteri vivi attenuati; 48 ore per tutti gli altri tipi di vaccini.
Le donne non possono donare da due giorni prima a cinque giorni dopo la fine del ciclo mestruale
Per le altre condizioni non citate o per qualsiasi altro quesito, l'idoneità alla donazione verrà valutata d'inteso con il Medico responsabile della selezione.
Esclusione Permanente:
Malattie autoimmuni (esclusa malattia celiaca in trattamento dietetico adeguato);
Malattie cardiovascolari (donatori con affezioni cardiovascolari in atto o pregresse ad eccezione di anomalie congenite completamente curate);
Malattie organiche del sistema nervoso centrale (antecedenti di gravi malattie organiche del SNC);
Neoplasie o malattie maligne (eccetto cancro in situ con guarigione completa);
Malattie emorragiche (candidati donatori con antecedenti di coagulopatia congenita o acquisita);
Crisi di svenimenti o convulsioni; Affezioni gastrointestinali, epatiche, urogenitali, ematologiche, immunologiche, renali, metaboliche o respiratorie (candidati donatori con grave affezione attiva, cronica o recidivante);
Epatite B, epatite C, epatite infettiva ad eziologia indeterminata, sieropositività per HIV, sifilide, Babesiosi, Lebbra, Kala Azar (leishmaniosi viscerale),
Tripanosoma Cruzi (malattia di Chagas);
Malattia di Creutzfeldt-Jacob (candidati donatori che hanno soggiornato per più di 6 mesi cumulativi nel Regno Unito, dal 1980 al 1996; candidati che hanno ricevuto trasfusioni nel Regno Unito, dal 1980);
Assunzione di ormoni ipofisari di origine umana (ormone della crescita o gonadotropine);
Trapianto di cornea e/o dura madre; Instabilità mentale; Alcoolismo cronico; Riceventi di Xenotrapianti; Assunzione di sostanze farmacologiche non prescritte (sostanze farmacologiche per via intramuscolare o endovenosa; stupefacenti; steroidi od ormoni a scopo di culturismo); comportamento sessuale (candidati donatori il cui comportamento sessuale lo espone ad elevato rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili con il sangue).

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Ricetta elettronica “nazionale”: cosa cambia nel 2016

Ricetta elettronica “nazionale”: cosa cambia nel 2016

 

Entra in vigore il dpcm del 14 novembre 2015 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 dicembre scorso. Ecco il percorso che renderà utilizzabile in tutta Italia la ricetta dematerializzata e gli ostacoli che devono essere superati

di Redazione Aboutpharma Online 7 gennaio 2016 

 

Anno nuovo, regole nuove per la ricetta elettronica che – grazie al decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 14 novembre 2015 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 dicembre scorso – sarà valida in tutte le farmacie italiane.  Il dpcm – spiega RifDay, il mattinale d’informazione curato dall’Ordine dei farmacisti di Roma – prevede che il prelievo dei medicinali, inclusi nei Livelli essenziali di assistenza, prescritti su ricetta dematerializzata a carico del Ssn, possa essere effettuato in qualsiasi farmacia pubblica e privata convenzionata del territorio italiano.

Le nuove regole entrano in vigore con l’inizio dell’anno, ma restano ancora alcuni ostacoli da superare per una piena applicazione. Secondo stime recenti di Promofarma – braccio operativo di Federfarma sul terreno dei servizi – entro il primo semestre dell’anno la ricetta elettronica, al momento utilizzata in modo ancora disomogeneo nelle varie Regioni, dovrebbe raggiungere il 70-80% circa di utilizzo su base nazionale. Si renderanno però necessari – spiega in una nota riportata da RifDay il direttore generale di Promofarma, Daniele D’Angelo – “tempi tecnici, presumibilmente qualche mese” affinché tutto vada a regime e i cittadini possano utilizzare senza problemi la prescrizione farmaceutica ottenuta dal loro medico in i farmacia del Paese. In particolare, sarà necessaria la definitiva messa a punto in sede tecnica del software per il calcolo dei diversi ticket regionali, per far sì che la compensazione tra la Regione che ha erogato il farmaco e la Regione di residenza dell’assistito avvenga “secondo i criteri e le modalità specificamente previsti da un apposito Accordo interregionale per la compensazione per la compensazione della mobilità sanitaria”.

La farmacia – prosegue RifDay -che eroga i medicinali prescritti su ricetta elettronica a un cittadino residente fuori Regione (riscuotendo il ticket, se dovuto, applicato nella Regione di appartenenza, che potrà conoscere collegandosi al sistema tessera sanitaria) chiede quindi il rimborso alla Asl territorialmente competente. La compensazione tra la Regione che ha erogato il farmaco e la Regione di residenza dell’assistito avviene “secondo i criteri e le modalità specificamente previsti da un apposito Accordo interregionale per la compensazione per la compensazione della mobilità sanitaria”.
Per una fase transitoria, che non potrà andare oltre il 31 dicembre 2017, le modalità previste dal dpcm non si applicano a tutti i farmaci con piano terapeutico Aifa e ai farmaci distribuiti attraverso modalità diverse dal regime convenzionale.

Sempre Promofarma, in una scheda, ha riassunto il percorso della ricetta farmaceutica elettronica nazionale, ricordando in primo luogo gli obiettivi del progetto: realizzazione di misure di appropriatezza delle prescrizioni, attribuzione e verifica del budget di distretto, farmacovigilanza e sorveglianza epidemiologica. Tutte le farmacie e tutti i medici sono già tecnologicamente in grado di trasmettere al ministero, con modalità asincrona, i dati dei circa 600 milioni di ricette erogate ogni anno, ma – spiega la società di Federfarma – ora “il nuovo ambizioso obiettivo della ricetta dematerializzata è quello di rendere sincrone tutte le attività di prescrizione da parte del medico e di  erogazione da parte della farmacia e, progressivamente, di eliminare i supporti cartacei.”

I medici – precisa il mattinale dei farmacisti romani – non riceveranno più blocchi di ricette cartacee, bensì solo una serie di numeri. Sono i numeri delle ricette elettroniche (Nre), prodotti dal sistema centrale gestito da Sogei, che verranno assegnati alle Aziende sanitarie locali. Le Asl li forniranno ai medici sulla base degli attuali parametri e criteri utilizzati per la distribuzione dei ricettari cartacei. Il medico, per prescrivere un farmaco o una visita specialistica, si connetterà tramite il proprio Pc (ma in un futuro presumibilmente molto prossimo potrà essere un tablet o uno smartphone) al sistema di riferimento e, dopo essersi identificato, effettuerà la prescrizione on line utilizzando uno degli Nre a lui assegnati. Al Nre che decide di utilizzare, il medico assocerà il codice fiscale dell’assistito. Il sistema validerà il codice fiscale e tutte le informazioni di esenzione (per reddito e/o per patologia).a questo punto, il medico completerà la ricetta con la prescrizione del farmaco e, con un semplice clic, confermerà la generazione della ricetta elettronica sul server di Sogei. Quindi, il medico stampa e consegna all’assistito un “promemoria” che riporta Nre, codice fiscale, eventuali esenzioni e prescrizione. Il promemoria garantisce all’assistito la possibilità di ottenere il farmaco anche in caso di assenza di linea o in presenza di qualsiasi altro inconveniente legato all’accesso al server.

Con il promemoria – conclude RifDay – l’assistito si reca in farmacia. La farmacia si collega al sistema mediante le chiavi di accesso rappresentate dal Nre e dal codice fiscale, accede alla ricetta elettronica ed eroga il farmaco. La farmacia completa l’operazione inviando al server di Sogei i dati relativi all’erogazione (prezzo del farmaco, ticket, sconti in favore del SSN, etc.) e i codici che individuano la singola confezione: codice Aic e codice “targatura”, cioè il codice seriale identificativo della singola scatola

 

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Da ulcera a colesterolo,1 scatola e mezza a testa al mese

Da ulcera a colesterolo,1 scatola e mezza a testa al mese

Italiani 'indisciplinati' rispetto alle prescrizioni del medico

28 gennaio, 09:22

 

 (di Livia Parisi) 

Dai farmaci contro il mal di stomaco a quelli contro l'asma o il colesterolo, nei primi nove mesi del 2015 ogni italiano ne ha assunti oltre una dose al giorno, consumandone in media 14 confezioni a testa, ovvero una e mezzo al mese, in lieve crescita rispetto allo stesso periodo del 2014. E' quanto mostrano i dati sui farmaci acquistati in farmacia e rimborsati dal Servizio sanitario Nazionale, riportati dal Rapporto OsMed relativo al periodo gennaio-settembre 2015. 

Secondo il rapporto 'L'uso dei farmaci in Italia', pubblicato dall'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), aumenta la spesa farmaceutica pubblica trainata dai farmaci innovativi, ma cresce del 2,3% anche quella privata, pagata dai cittadini di tasca propria. Gli italiani si confermano però 'indisciplinati' rispetto alle prescrizioni del medico: 6 su 10 (58,9%) tra coloro che assumono farmaci contro la pressione alta saltano dosi, sbagliano orario o interrompono il ciclo. Mentre meno della metà dei pazienti con colesterolo alto (47,4%) assume regolarmente la terapia prescritta. Complessivamente, tra spesa pubblica e privata, nei primi tre trimestri dell'anno passato sono stati spesi 21,3 miliardi di euro in farmaci, ovvero circa 350 euro per ogni italiano. 

A crescere è soprattutto la farmaceutica territoriale, che si attesta a 9.727 milioni, +9,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, trainata dal boom del 37,4% della spesa per i medicinali di classe A, cioè quelli erogati in distribuzione diretta e per conto. I farmaci oncologici e immunomodulatori restano la voce maggiore di spesa pubblica, mentre quelli per il cuore vengono superati dalla categoria degli antimicrobici, ovvero antivirali, antibiotici, vaccini. Dati, commenta il direttore generale Aifa, Luca Pani, che "riflettono chiaramente l'impatto che i medicinali innovativi ad alto costo immessi sul mercato lo scorso anno, tra tutti gli antivirali e gli antitumorali, sta avendo sulla spesa farmaceutica, in particolare ospedaliera".

Per quanto riguarda la farmaceutica convenzionata, in media ogni giorno sono state consumate 1.041 dosi ogni mille abitanti, cioè una al dì per ciascun italiano, +0,5% rispetto ai primi nove mesi del 2014, e sono state dispensate 851 milioni di confezioni, circa 14 per abitante nei 9 mesi, ovvero una e mezzo al mese. La spesa è maggiore nelle regioni del Sud Italia, in particolare Lazio, Calabria e Puglia e i farmaci più utilizzati si concentrano su un numero limitato di principi attivi. A guidare la 'classifica' il pantoprazolo, protettore gastrico, quindi la rosuvastatina, statina utilizzata per il trattamento della ipercolesterolemia, e il salmeterolo, un antiasmatico.

L'aumento della spesa privata del 2,3% segnalata dal Rapporto comprende tutte le voci di spesa sostenute dal cittadino, ma a pesare è soprattutto quella per i farmaci da banco(+4,2%), cioè non soggetti a prescrizione, seguita dell'acquisto privato dei farmaci di classe A (+3,3%). Segna anche un aumento dell'1,4% la spesa per compartecipazioni a carico del cittadino nell'acquisto di medicinali di fascia A e un incremento dello 0,8% la spesa dei farmaci di classe C con ricetta.

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Zika, possibile trasmissione per via sessuale durante la fase sintomatica

Medicina scienza e ricerca

Zika, possibile trasmissione per via sessuale durante la fase sintomatica

Il virus può trovarsi anche nello sperma, per cui la trasmissione sessuale è rara ma non impossibile. La trasmissione dell’infezione avviene solo durante il periodo di viremia, quando la persona è sintomatica, per cui basta usare adeguate precauzioni nei giorni seguenti all’esposizione

di Redazione Aboutpharma Online 3 febbraio 2016 

 

È raro ma non impossibile. È di oggi la notizia che il virus Zika possa essere trasmesso non solo tramite la puntura di una zanzara ma anche sessualmente. A Dallas infatti il Centro per il controllo delle malattie (Cdc) alla Bbc, ha riferito del un contagio di una persona che non aveva effettuato viaggi nelle aree contagiate dal virus, ma il cui partner era appena ritornato dal Venezuela.

“Il virus Zika nella sua fase acuta è presente nel sangue e quindi è possibile che sia anche nello sperma” spiega all’Adnkronos Salute Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive parassitarie e immunomediate dell’Istituto superiore di sanità (Iss). “È raro ma potrebbero esserci altri casi come quello segnalato a Dallas dai Cdc americani, su cui però dovrebbero essere fatti approfondimenti. È possibile quindi che una persona che ha viaggiato nei Paesi colpiti da Zika possa al ritorno trasmettere, durante un rapporto sessuale, il virus al partner. La raccomandazione è di astenersi per alcuni giorni dall’attività sessuale”, dal momento che la viremia dura poco”.

“Per quanto riguarda lo sviluppo del vaccino invece – continua Rezza – non si produce in un giorno, ci sono ricercatori che ci stanno lavorando e qualcosa inizia a muoversi”.

“Il contagio del virus per via sessuale deve essere ulteriormente approfondito per comprendere le condizioni, quante volte o con che probabilità si possa verificare una trasmissione simile” spiega all’AdnKronos Salute da Ginevra il portavoce dell’Organizzazione mondiale della sanità, Gregory Hartl. “Siamo consapevoli che la notizia di un caso di trasmissione per via sessuale del virus desti preoccupazione”.

“Abbiamo anche bisogno di sapere se altre vie di trasmissione del virus sono possibili” prosegue Hartl. “Per il momento la zanzara è ancora il mezzo di trasmissione preponderante, ed è qui che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Le autorità sanitarie devono agire per eliminare le zanzare e i siti di riproduzione, mentre i singoli individui possono adottare interventi per proteggere se stessi, come repellenti, insetticidi, abiti lunghi e coprenti e cortine per i letti”.

La trasmissione del virus  Zika per via sessuale non è comunque una novità. “È  già stata dimostrata in almeno un caso prima del recente report nordamericano. Tanto che già le autorità sanitarie consigliano l’uso del profilattico al ritorno dai Paesi endemici per Zika, per almeno un mese”. Come spiega all’AdnKronos Salute Emanuele Nicastri, l’infettivologo dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. “Il virus è stato infatti nel sangue, nelle urine e anche nello sperma dei pazienti affetti da questa infezione. Per cui vi era già un sospetto, nel primo caso poi dimostrato, di trasmissione sessuale, proprio per l’evidenza del virus nel liquido spermatico”.

La  trasmissione dell’infezione comunque avviene solo durante il periodo di viremia, quando la persona è sintomatica. Zika infatti non dovrebbe essere come l’Hiv che rimane infettivo.

 

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Virus Zika, l’appello Onu ai paesi colpiti: cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione

Sanità e Politica

Virus Zika, l’appello Onu ai paesi colpiti: cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione

Secondo l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra'ad Al Hussein, le norme restrittive andrebbero modificate con urgenza

di Redazione Aboutpharma Online 5 febbraio 2016

 

Rimuovere le restrizioni che limitano l’aborto e la contraccezione nei paesi colpiti dal virus Zika. È l’appello dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein, che sta rimbalzando sui media internazionali.

“Le leggi e le politiche che limitano l’accesso a questi servizi dovrebbero essere urgentemente riesaminate in conformità con i diritti umani, al fine di garantire, in pratica, il diritto alla salute per tutti”, ha dichiarato il commissario. Il virus Zika, infatti, è sospettato di provocare microcefalia nei feti delle donne contagiante nel corso della gravidanza.

La richiesta ai Governi è di cambiare le leggi che limitano aborto e contraccezione, in considerazione dei rischi legati all’emergenza. “Come possono chiedere a queste donne di non rimanere incinte e non offrire anche la possibilità, se lo desiderano, di interrompere una gravidanza?”, ha detto il portavoce del Commissario delle nazioni Unite, Cecile Pouilly, riferendosi a Paesi come El Salvador che considerano reato l’aborto.

L’interruzione di gravidanza è consentita solo in casi limitati (rischio di morte per la madre e stupro) in Brasile, dove i casi di bambini nati con microcefalia sono aumentati in maniera esponenziale dopo l’epidemia di Zika, con 4 mila bambini nati con la grave malformazione negli ultimi 4 mesi.

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Un test per rilevare le ferite infette in tempo reale

Medicina scienza e ricerca

Un test per rilevare le ferite infette in tempo reale

Ricercatori della George Washington University scoprono un metodo a basso costo per rintracciare la presenza di alcuni batteri senza attendere l'esito della coltura. L'esame potrà permettere anche un uso più appropriato degli antibiotici, limitando la comparsa di resistenze

di Redazione Aboutpharma Online 8 febbraio 2016 

 

Nuovo test fai-da-te per scoprire in meno di un minuto se una ferita è infetta o meno. L’ha messo a punto un team di ricercatori della George Washington University che ha inventato il metodo per identificare le molecole prodotte da batteri (es. Pseudomonas) che solitamente infettano le ferite croniche. Gli esperti, coordinati da Victoria Shanmugam, hanno testato un sensore elettrochimico, economico e monouso, che rivela immediatamente la presenza dei batteri localizzando la piocianina (un pigmento antiobitico prodotto dal batterio e che rende blu le ferite infettate). Tale test ha permesso di identificare correttamente la presenza del microrganismo nel 71% dei casi e la sua assenza il 57% delle volte. La scoperta, nella sua semplicità, spalanca le porte a notevoli vantaggi terapeutici. “Poter rilevare lo Pseudomonas e altri organismi infettivi al momento della visita clinica – dice Victoria Shanmugam – migliorerà di molto la nostra capacità di prenderci cura dei pazienti. Non dovremo aspettare i risultati della coltura (almeno 24 ore) prima di decidere se e quale antibiotico usare”. Il metodo potrebbe offrire un nuovo strumento ai medici per rilevare infezioni alle ferite già al letto del paziente scegliendo, invece di antibiotici a largo spettro, dei farmaci più specifici e in tempi più rapidi, con costi minori e riducendo la possibile resistenza agli antibiotici.

 

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Negli Usa il vaccino anti-Hpv ha ridotto di due terzi la presenza del virus

Medicina scienza e ricerca

 

Negli Usa il vaccino anti-Hpv ha ridotto di due terzi la presenza del virus

Il bilancio di dieci anni di immunizzazione in uno studio del Centers for disease control and prevention (Cdc) degli Stati Uniti e pubblicato sulla rivista Pediatrics

di Redazione Aboutpharma Online 22 febbraio 2016

 

Raccomandare il vaccino contro il papillomavirus umano (Hpv), tra i principali responsabili dei tumori della cervice uterina, ha fatto crollare la presenza del virus nella popolazione americana di due terzi in dieci anni. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Pediatrics e realizzato dal Centers for disease control and prevention (Cdc) degli Stati Uniti.

L’analisi ha esaminato i dati sulla prevalenza del virus nelle ragazze e nelle giovani donne tra il 2003 e il 2006, anno di introduzione della raccomandazione, e tra il 2009 e il 2012. Nella fascia tra 14 e 19 anni la presenza del virus è diminuita del 64%, mentre in quella sopra i 20, in cui il tasso di vaccinazione è molto più basso, c’è stata comunque una riduzione del 34%. I numeri, affermano gli autori, sono addirittura migliori di quelli attesi. “Il fatto che vediamo una diminuzione maggiore di quella che aspettavamo coi tassi di vaccinazione che avevamo – scrivono – suggerisce che ci potrebbe essere qualche effetto di ‘immunità di gregge’, e che il vaccino inizia ad essere efficace anche prima di terminare la serie di iniezioni”. Il vaccino per l’Hpv è uno dei più controversi negli Usa, perchè i medici sono riluttanti a consigliarlo per non dover affrontare il tema spinoso della sessualità delle adolescenti,dato che il virus si trasmette per via sessuale.

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L’ormone del parto, ossitocina, come nuovo analgesico contro il dolore

Medicina scienza e ricerca

 

L’ormone del parto, ossitocina, come nuovo analgesico contro il dolore

 

Uno studio ha identificato i 30 neuroni responsabili del rilascio dell'ormone che sarebbero coinvolti nella percezione del dolore, aprendo quindi le porte all’utilizzo dell’ormone come analgesico

di Redazione Aboutpharma Online 4 marzo 2016

 

L’ossitocina, o ormone del parto, potrebbe essere utilizzato in futuro come analgesico. A dimostralo è uno studio appena pubblicato su Neuron che ha portato all’identificazione dei 30 neuroni responsabili del rilascio dell’ormone – noto già per il ruolo che svolge durante il parto,  favorendo le contrazione dell’utero – e coinvolti nella percezione del dolore. I risultati insomma dimostrano che l’ossitocina è coinvolta anche nella percezione del dolore infiammatorio. La ricerca, frutto di un gruppo di lavoro internazionale al quale ha partecipato anche l’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano, apre quindi la strada all’utilizzo di tale ormone come analgesico.

“La ricerca ha permesso per la prima volta di identificare i neuroni responsabili del rilascio dell’ossitocina da cui dipende la regolazione della percezione del dolore a livello del midollo spinale” piega Bice Chini dell’In-Cnr e dell’Irccs Istituto clinico Humanitas. “In modelli sperimentali, si è visto che si tratta di circa 30 neuroni, situati in una regione del cervello, l’ipotalamo, dal quale inviano i loro prolungamenti fino alle sezioni più lontane del midollo spinale. Ed è qui che rilasciano questo ormone, che agisce regolando gli input dolorifici provenienti dalle aree periferiche del corpo”.

I neuroni ipotalamici identificati nello studio provocano il rilascio dell’ormone anche nel sangue, attraverso un circuito collaterale, e lo stesso studio ha evidenziato che anche a questo livello l’ossitocina contrasta il dolore.

Le tecniche usate per evidenziare l’effetto anti-dolorifico dell’ossitocina sono innovative e hanno previsto anche l’utilizzo di metodiche di optogenetica: “Mediante l’inserimento di sottilissime fibre ottiche è stato infatti possibile stimolare esclusivamente i 30 neuroni identificati e studiare così gli effetti analgesici legati al loro rilascio di ossitocina” continua Chini. “Va però precisato che l’azione rilevata non è ad ampio spettro: riguarda solo alcuni tipi di dolore, in particolare quello infiammatorio. È proprio nelle malattie infiammatorie, dunque, che si potrà utilizzare l’ossitocina come analgesico”.

 

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Vaccini 'salvavita' per anziani, evitano malattie croniche

Vaccini 'salvavita' per anziani, evitano malattie croniche

Ma ancora questo strumento non adeguatamente sfruttato in Europa

19 febbraio, 12:24
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ROMA - I vaccini sono 'salvavita' per gli anziani, eppure ancora troppe malattie prevenibili con le vaccinazioni affliggono gli over-65 europei, con complicanze spesso gravi. Basti pensare che, nonostante sia del 75% l'obiettivo ufficiale raccomandato da OMS e Consiglio dell'Unione Europea relativamente al vaccino antinfluenzale, solo 2 nazioni (Paesi Bassi e Regno Unito) sono riusciti a raggiungerlo.

E' quanto emerso nel corso del primo Congresso biennale dell'Associazione mondiale per le malattie infettive e disordini immunologici WAidid (World Association for Infectious Diseases and Immunological Disorders) che si chiude domani a Milano.

Nel corso del meeting sono state presentate due ricerche redatte da un gruppo di esperti europei e di Sanofi Pasteur MSD che hanno evidenziato come le malattie prevenibili con i vaccini pesino sulla salute degli anziani europei, soprattutto a causa del calo delle vaccinazioni.

Diversi vaccini sono raccomandati in tutta Europa per gli anziani, perlopiù nella popolazione dai 65 anni in su, per proteggerli contro malattie come influenza, pneumococco, pertosse, Herpes Zoster, noto anche come Fuoco di Sant'Antonio, tenuto conto della loro maggiore vulnerabilità legata al naturale indebolimento del sistema immunitario dovuto all'età (la cosiddetta "immunosenescenza"). "Negli anziani, alcune malattie infettive come l'influenza, le malattie da pneumococco o l'Herpes Zoster possono avere un esito peggiore rispetto alla popolazione più giovane, esito che conduce in alcuni casi a una cascata di eventi e a un declino dello stato funzionale", ha dichiarato Gaetan Gavazzi del Policlinico Universitario di Grenoble. "L'insorgenza di queste malattie negli anziani può segnare l'inizio di perdita di autonomia, ha aggiunto. Tutto questo potrebbe essere evitato grazie alle vaccinazioni".

"A fronte di malattie prevenibili con i vaccini ormai ben controllate nella popolazione pediatrica, un numero molto maggiore di casi di malattie analogamente prevenibili si verificano negli anziani", ha osservato la Prof.ssa Susanna Esposito, Presidente di WAidid. "E 'importante capire che i vaccini non sono solo per i bambini e che la vaccinazione dovrebbe essere considerata una componente chiave di prevenzione di routine per preservare la salute dei nostri anziani", ha concluso. 

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Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Arriva la mini-laparoscopia, i buchini diventano 'punti'

Per tumori rene interventi conservativi senza tagli nè cicatrici

11 marzo, 16:39
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I buchini della laparoscopia si riducono della metà e diventano 'punti' di 3 millimetri di diametro, almeno negli interventi di urologia eseguiti dai chirurghi con maggiore esperienza, con una tecnica che sarà al centro di numerose presentazioni al 31/o Congresso Europeo di Urologia, in programma a Monaco di Baviera da domani a martedì 15.

In Italia, a Peschiera del Garda (Verona) è stata appena operata con questa 'mini laparoscopia' Elena, una ragazza di 22 anni, di Catania, affetta da una fibrosi che bloccava l'uretere e le impediva di urinare. La sua vita sembrava segnata: per urinare avrebbe dovuto utilizzare a vita un tubo che le era stato inserito nell'addome. L'alternativa? Ricorrere a un' operazione che le avrebbe lasciato una cicatrice di oltre 20 centimetri. L'equipe di Gaetano Grosso, alla Clinica Pederzoli di Peschiera del Garda, attraverso alcuni micro buchini di 3 millimetri di diametro, in 2 ore e mezzo le ha ricostruito internamente l'uretere utilizzando 10 centimetri dell'appendice.

Dopo 7 giorni di degenza e 2 di convalescenza Elena sta bene.

"E' un approccio che dà importanti i vantaggi - spiega Grosso - e garantisce al paziente degenza e convalescenza ancora più brevi, minor trauma e dolore, infezioni e complicazioni sempre più rare. Molto importante, poi, l'aspetto estetico: l'assenza di una cicatrice di grandi dimensioni lasciata da un intervento di chirurgia tradizionale rappresenta un altro vantaggio".

Con la 'mini-laparoscopia' nel Centro di Peschiera è stato operato con successo anche un ragazzo di 17 anni affetto da sindrome dello schiaccianoci, malformazione che porta alla compressione della vena renale con sanguinamenti e dolori.

"Ma la mini laparoscopia - aggiunge l'urologo di Peschiera - viene utilizzata anche per il tumore del rene, organo che oggi viene conservato, e non asportato, nel 70% dei casi". In particolare, il tumore del rene è in forte aumento: i nuovi casi ogni anno in Italia sono circa 15.000, una cifra più che raddoppiata in 10 anni. 

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100 sprechi nella sanità, macchinari inutilizzati e reparti chiusi

100 sprechi nella sanità, macchinari inutilizzati e reparti chiusi

Cittadinanzattiva, la ricetta della Spending Review va cambiata

17 marzo, 10:55

 

Ben otto ecografi acquistati per un ospedale in cui i medici in grado di utilizzarli sono solo tre. Ambulanze dotate di innovativi dispositivi di telemedicina ma mal funzionanti. Reparti nuovi e mai aperti o sottoutilizzati per mancanza di personale. Dalla Sicilia alla Campania, ma senza escludere anche regioni del nord come il Piemonte, sono oltre 100 i casi eclatanti di sprechi in sanità rilevati dal Rapporto "I due volti della sanità. Tra sprechi e buone pratiche, la road map per la sostenibilità vista dai cittadini", presentato oggi da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato.

Il Rapporto prende in esame 104 situazioni di spreco individuate da cittadini e operatori sanitari che a giugno 2015 risultavano irrisolte. Le cause sono dovute nel 46% dei casi al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali e strutture, per il 37% a inefficiente erogazione di servizi e prestazioni, per il 17% a cattiva gestione delle risorse umane. 

La conseguenza è che ad esser violati, secondo i cittadini, sono il diritto al rispetto degli standard di qualità(14,7%), il diritto al rispetto del tempo(14%) e alla sicurezza delle cure(11,6%). "I tagli al Servizio Sanitario Nazionale cumulati tra il 2011 e il 2015 secondo la Corte dei conti - ha commentato Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato - sono stati di 54 miliardi, praticamente mezzo fondo sanitario. Nessuno però ha spiegato se e quanti sono stati gli effettivi risparmi prodotti e come sarebbero stati reinvestiti. Se questi sono i risultati, la ricetta della Spending Review non funziona". La Raod map di Cittadinanazattiva parte "dall'aggredire in modo selettivo gli sprechi" e "rilanciare una vera programmazione sanitaria".

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Arriva in ospedale il disinfettante al grafene

Medicina scienza e ricerca

 

Arriva in ospedale il disinfettante al grafene

 

L'ossido di grafene è efficace nell’annientare batteri e funghi killer ospedalieri come lo Staphylococcus aureus e la Candida albicans. La sua efficacia anti-batterica, inoltre, potrebbe essere usata anche per rivestire gli strumenti medici e chirurgici

di Redazione Aboutpharma Online 29 marzo 2016

 

Il grafene, nanomateriale costituito di carbonio dai mille utilizzi, ora potrebbe essere utilizzato anche come disinfettate in ospedale. I ricercatori della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica di Roma, in collaborazione con l’Istituto sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), hanno infatti scoperto che l’ossido di grafene è efficace nell’annientare batteri e funghi killer ospedalieri come lo Staphylococcus aureus e la Candida albicans. La sua efficacia anti-batterica, inoltre, potrebbe essere usata anche per rivestire gli strumenti medici e chirurgici.

Il disinfettante in una formulazione gel o liquida, è stato esaminato su tre batteri: Staphylococcus aureus e Enterococcus faecalis, causa di infezioni opportunistiche e nosocomiali, e E.coli, che può provocare anche gravi intossicazioni alimentari. I ricercatori hanno dimostrato che l’ossido di grafene, in fogli di circa 200 nanometri, in soluzione acquosa è in grado di eliminare circa il 90% di S. aureus e E. faecalis, e circa il 50% di E. coli in meno di due ore. Lo studio evidenzia inoltre che l’ossido di grafene è efficace contro i batteri anche a concentrazioni bassissime (inferiori a 10 µg/ml – microgrammi per millilitro).

“La dimostrazione è avvenuta per ora in laboratorio in esperimenti in provetta, ma si sta valutando la possibilità di eseguire sperimentazioni in ambito clinico” ha spiegato Massimiliano Papi, professore dell’Istituto sistemi complessi del Cnr. “Il grafene ha un meccanismo d’azione triplice: può tagliare come una lama le pareti dei batteri, uccidendoli; può intrappolare i batteri come un lenzuolo isolandoli dal mondo esterno e quindi in un certo senso soffocandoli; può alterarne il metabolismo impedendo che si moltiplichino. È proprio questa triplice azione che lo rende superiore agli altri agenti antibatterici oggi in uso, contro cui i microbi killer possono facilmente instaurare resistenze”.

Il team ha anche scoperto che l’ossido di grafene è efficace contro il fungo Candida albicans che causa infezioni pericolose in ospedale, con un’efficacia simile a quella trovata per E. coli.

“Si tratta di uno studio fortemente interdisciplinare, dove le competenze di base sulla fisica dei sistemi complessi sono indispensabili per un’applicazione concreta, molto prossima all’utilizzo pratico” ha osservato Claudio Conti, direttore Isc-Cnr.

Il grafene poi ha anche il vantaggio di essere una molecola rispettosa dell’ambiente e ha costi contenuti” conclude Papi. “Inoltre potrebbe essere usato per rivestire strumenti medici e chirurgici, contribuendo a ridurre le infezioni, soprattutto dopo un intervento, oltre a ridurre l’uso di antibiotici e la resistenza”.

 

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Allergie incubo per 30% italiani, sport 'antidoto' a sintomi

Allergie incubo per 30% italiani, sport 'antidoto' a sintomi

3 Aprile l'Allergy Day,medici e serie A in campo contro disturbo

01 aprile, 13:54

 

Le allergie rappresentano un 'incubo' per tre italiani su dieci, ma pochi si curano correttamente e sanno che un'attività fisica regolare e moderata, sotto il controllo dello specialista, può ridurre quasi completamente i sintomi allergici e migliorare la qualità della vita. Per accendere i riflettori sul problema, domenica 3 aprile si celebra la quinta edizione della Giornata Nazionale dedicata alla informazione e sensibilizzazione sulle malattie allergiche, L'Allergy Day 2016, promossa dalla Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) insieme alla Lega Calcio Serie A.

Specialisti e serie A scenderanno dunque in campo contro le allergie. Grande palcoscenico sarà ancora una volta il campionato di calcio di Serie A: in occasione della 12° giornata di ritorno di campionato che si giocherà da sabato 2 aprile a lunedì 4, in tutti gli stadi d'Italia prima del fischio d'inizio della partite sarà esposto uno striscione con lo slogan 'In campo per vincere l'allergia', mentre sui maxischermi sarà proiettato un video. Inoltre il messaggio verrà ripreso anche su cappellini che gli allenatori utilizzeranno.

''Questa giornata e' un'occasione importante per sottolineare che nello sport come nella vita si può essere campioni pur se soggetti allergici e che non occorre aver paura perché con le allergie si può convivere e avere una vita del tutto normale. Bisogna però essere ben informati e ben curati", commenta Giorgio Walter Canonica, presidente SIAAIC. Ogni anno cresce però il numero di pazienti allergici che in Europa sono 70 milioni, mentre nel nostro Paese un italiano su tre è affetto da patologie allergiche. Tra le malattie più diffuse, asma e rinite di cui soffrono 3 e 12 milioni di italiani provocate da pollini, acari o peli di animali. Altre patologie sono gli eczemi e orticaria che interessano circa l'1% della popolazione. Le allergie alimentari sono più comuni in età pediatrica e interessano oltre mezzo milione di under 18. Allergie meno note sono quelle a farmaci, prevalenti in età adulta, e le allergie al veleno di api e vespe. Si stima inoltre che circa il 30% degli atleti soffra di allergie: queste, conclude Gianenrico Senna, vicepresidente SIAAIC, ''non devono essere tuttavia considerate un ostacolo, come testimoniato da molti atleti asmatici vincitori di medaglie olimpiche".

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Diabetologi: “Bene mozione bipartisan Senato su diabete a scuola”

Sanità e Politica

 

Diabetologi: “Bene mozione bipartisan Senato su diabete a scuola”

 

Presidente Amd: “Il segnale ricevuto dal mondo politico ci fa ben sperare. Auspichiamo che le Istituzioni proseguano su questa strada"

di Redazione Aboutpharma Online 7 aprile 2016

 

L’Associazione medici diabetologi (Amd) accoglie con favore la mozione bipartisan firmata da 81 senatori, che impegna il Governo a valutare, promuovere e sostenere ogni iniziativa utile a un’appropriata gestione del diabete a scuola, a partire dall’assunzione dell’atto definitivo delle linee guida in materia. Il segnale positivo arriva proprio in occasione della Giornata mondiale della salute, dedicata quest’anno al diabete.

“In questa Giornata aver richiamato l’attenzione su una categoria di pazienti particolarmente fragili, come i bambini in età scolare, ci sembra un’azione di grande importanza – dichiara Nicoletta Musacchio, presidente Amd – In particolare, lavorare sulla formazione del personale scolastico affinché sia preparato ad accogliere e supportare il bambino diabetico è cruciale per due ragioni: innanzitutto questo consentirà al piccolo paziente di vivere più serenamente la propria quotidianità, senza risentire dello stigma sociale che, purtroppo, si accompagna spesso alla malattia sin dalla più tenera età. In più, un bambino che oggi non vive il diabete come un trauma, domani sarà un adulto in grado di autogestire al meglio la propria patologia. Per raggiungere risultati concreti, ad ogni modo, sarà imprescindibile coinvolgere attivamente bambini, famiglie e personale scolastico in appositi percorsi di formazione e approfondimento sul diabete e sulla sua gestione. A questo scopo, le Associazioni di pazienti diabetici avranno l’opportunità di giocare un ruolo insostituibile”.

L’ultima edizione del Diabetes Atlas, redatto dall’International Diabetes Federation (Idf), stima che in Italia 3,51 milioni di persone, pari al 7,85% della popolazione adulta, convivono con il diabete; i costi per il trattamento della patologia hanno raggiunto lo scorso anno i 9,11 miliardi di euro, ossia l’8% dell’intero budget sanitario nazionale. Anche a livello internazionale la patologia ha assunto ormai i contorni di una vera e propria emergenza sanitaria, con 60 milioni di malati in Europa e 350 milioni in tutto il mondo. Da qui la decisione dell’Oms di dedicare proprio al diabete l’edizione di quest’anno della Giornata mondiale della Salute.

“Il segnale ricevuto dal mondo politico ci fa ben sperare – conclude Musacchio – Auspichiamo che le Istituzioni proseguano su questa strada. L’obiettivo fondamentale è fornire a tutti i cittadini un’informazione più approfondita sul diabete, sulla sua gestione, sul suo trattamento e soprattutto sulle concrete possibilità di prevenirlo efficacemente”.

 

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Il 7 aprile si celebra la Giornata mondiale della salute. L’Oms dichiara “guerra” al diabete

Il 7 aprile si celebra la Giornata mondiale della salute. L’Oms dichiara “guerra” al diabete

Entro il 2030 sarà la settima principale causa di morte a livello globale. Serve uno sforzo in più su prevenzione, diagnosi precoce e gestione della patologia


Il diabete è un’epidemia globale, colpisce circa 350 milioni di persone nel mondo e saranno il doppio nei prossimi 20 anni. Occorre, allora, aumentare la prevenzione, rafforzare le cure e migliorare la sorveglianza. Muovendo da queste premesse l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha deciso di dedicare al diabete la Giornata mondiale del salute 2016 indetta per il 7 aprile, giorno in cui si celebra il “compleanno” dell’organizzazione.

A riassumere il senso della giornata è una nota pubblicata sul sito del ministero della Salute. “L’epidemia di diabete – scrive il ministero – è in rapida crescita in molti Paesi, soprattutto in quelli a basso e medio reddito: entro il 2030 il diabete sarà la settima principale causa di morte a livello globale. Una gran parte dei casi di diabete sono prevenibili: semplici interventi sugli stili di vita (dieta e attività fisica) hanno dimostrato di essere efficaci nel prevenire il diabete di tipo 2 o ritardarne l’insorgenza. Il diabete può essere controllato e gestito per prevenirne le complicanze: diagnosi precoce, educazione all’auto-gestione e trattamento a costi sostenibili sono componenti essenziali della strategia di risposta. Gli sforzi per prevenire e curare il diabete saranno importanti per raggiungere l’obiettivo del Sustainable Development Goal 3: Ensure healthy lives and promote well-being for all at all ages (ridurre la mortalità prematura da malattie croniche non trasmissibili di un terzo entro il 2030), per il quale molti settori della società, compresi i governi, i datori di lavoro, gli educatori, i produttori, la società civile, il settore privato, i media e gli individui stessi, dovranno impegnarsi”.

Tre sono gli obiettivi principali da perseguire secondo l’Oms: accrescere la consapevolezza della diffusione del diabete, del suo peso e delle sue conseguenze in particolare nei Paesi a basso e medio reddito; avviare una serie di azioni specifiche, efficaci e sostenibili per contrastare il diabete, in particolare per la prevenzione, la diagnosi precoce e la cura della patologia; lanciare il primo Global report sul diabete che descriverà il peso e le conseguenze della malattia e raccomanderà ai sistemi sanitari di migliorarne la sorveglianza, promuoverne la prevenzione e rafforzarne la gestione.

 

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Noduli alla tiroide: che cosa sono e come vanno affrontati

Dal "Corriere della Sera"

 

Noduli alla tiroide: che cosa sono
e come vanno affrontati

Il riscontro di un nodulo alla tiroide è molto frequente (30-40% della popolazione), soprattutto nel sesso femminile e con l’avanzare dell’età. La maggior parte di queste formazioni è benigna e in genere non determina alterazioni funzionali della tiroide.

di Antonella Sparvoli

  

Ormoni che regolano il metabolismo

La tiroide è una ghiandola endocrina posta nel collo che produce ormoni (triiodotironina e tiroxina), i quali entrano nel circolo sanguigno e sono coinvolti nella regolazione del metabolismo. I noduli che si possono formare nella tiroide sono nel 95% dei casi benigni e possono avere diverse cause:
1) il nodulo si forma a causa della crescita esuberante di una porzione della tiroide;
2) si può percepire come nodulo un’area di infiammazione locale;
3) il nodulo può essere di natura cistica, dovuto alla raccolta di un materiale fluido (colloide), prodotto normalmente dalla tiroide.

 

Se il nodulo è maligno

Nel 5% dei casi i noduli tiroidei sonocarcinomi di natura maligna. Nella maggior parte dei casi (circa 80%) si tratta di tumori papillari che hanno aggressività moderata e sono curabili in modo efficace. Esistono poi i carcinomi follicolare, midollare e, più di rado, anaplastico.

 

I segni a cui prestare attenzione

Se il nodulo è di grosse dimensioni si può notare una massa palpabile a livello della tiroide. Nella maggior parte dei casi però i noduli tiroidei non danno sintomi, ma in alcune circostanze possono dare disturbi conseguenti a fenomeni compressivi locali come sensazione di nodo in gola o leggero soffocamento, difficoltà di deglutizione, voce rauca.

 

Eccessiva secrezione ormonale

Nei rari casi di noduli iperfunzionanti si possono avere sintomi indicativi di un’eccessiva secrezione ormonale: tachicardia, nervosismo, dimagrimento. In queste circostanze l’esecuzione di una scintigrafia tiroidea permette di individuare l’area della tiroide eccessivamente attiva.

 

 

 

Come viene fatta la diagnosi

Il primo passo è la palpazione del nodulo (qualora sia di dimensioni tali da essere percepibile) che può fornire informazioni utili sulla sua natura. Isegni di benignità sono: consistenza morbida, contorno ben delineato, movimento con gli atti della deglutizione, assenza di linfonodi del collo ingrossati. I segni di malignitàsono: consistenza dura, accrescimento rapido e progressivo, fissità sui piani del collo, presenza di uno o più linfonodi ingrossati nel collo.
Il passo successivo è l’esecuzione di un’ecografia del collo. I noduli cistici a contenuto liquido sono quasi sempre benigni, così come i noduli che hanno le stesse caratteristiche del tessuto tiroideo. Segni ecografici di possibile malignità sono il riscontro di microcalcificazioni e la crescita irregolare, con bordi del nodulo frastagliati.
In presenza di noduli di dimensioni superiori a 1 centimetro e di dubbia natura si ricorre all’agoaspirato: si prelevano alcune cellule della tiroide con un ago sottile e si osservano al microscopio.

 

Quali sono le possibili cure

La terapia dei noduli tiroidei dipende dalla loro natura.
In caso di formazioni benigne è sufficiente un monitoraggio periodico (circa una volta l’anno) con l’ecografia. Se sussistono dubbi si preferisce ripetere periodicamente l’agoaspirato.
Se il nodulo benigno tende ad accrescersi e causa disturbi locali per le sue dimensioni si valuta l’opportunità di un trattamento chirurgico o con tecniche mininvasive (laser o radiofrequenza) che non comportano cicatrici cutanee.
Le cisti benigne, se sintomatiche, vanno svuotate con l’agoaspirato. In caso di recidiva si può effettuare una sclerosi percutanea, iniettando al loro interno alcol assoluto, inducendo così una marcata riduzione del loro volume senza ricorrere alla chirurgia.
I noduli maligni vanno asportati chirurgicamente. Nel caso di noduli sotto 1-2 cm, ben all’interno della tiroide, e senza interessamento dei linfonodi regionali, si può rimuovere anche solo la metà della tiroide che li contiene (emitiroidectomia).
Se il nodulo ha superato la capsula che delimita la tiroide e sono interessati anche i linfonodi del collo, si asporta tutta la tiroide (tiroidectomia) e i linfonodi interessati e poi, per eliminare eventuali residui di tessuto tiroideo, si ricorre a un trattamento con iodio radioattivo (terapia radiometabolica). Dopo l’intervento, il paziente viene sottoposto a terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina.
La chemioterapia e la radioterapia non sono indicate se non in rari casi di tumori altamente aggressivi o in presenza di metastasi a distanza.

 

 

 

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Tbc, un passo avanti verso un nuovo vaccino

Medicina scienza e ricerca

 

Tbc, un passo avanti verso un nuovo vaccino

 

Un team della Oxford University ha scoperto dei biomarker che potrebbero fornire indizi preziosi per valutare l'efficacia di eventuali nuovi prodotti.  Oggi l'unico vaccino disponibile funziona bene per prevenire la malattia nei bambini, ma è molto variabile nella protezione contro la malattia polmonare

di Redazione Aboutpharma Online 12 aprile 2016 http://www.aboutpharma.com/wp-content/themes/aboutpharma/img/print.png

 

Un vaccino ancora più efficace contro la tubercolosi. Potrebbe essere realtà grazie alla scoperta di un team della Oxford University che ha identificato nuovi biomarcatori per la Tbc, che hanno mostrato per la prima volta il motivo per cui l’immunità ottenuta dal vaccino con il Bacillo di Calmette-Guerin (BCG) è così variabile. Biomarcatori che da una parte potrebbero favorire lo sviluppo di un nuovo e più efficace vaccino e dall’altra fornire indizi preziosi per valutare l’efficacia di eventuali nuovi prodotti.

La ricerca –nata in collaborazione con i colleghi dell’università di Città del Capo, la London School of Hygiene and Tropical Medicine e la South African Tuberculosis Vaccine Initiative – è stata finanziata dal Wellcome Trust and Aeras e guidato da Helen McShane ed Helen Fletcher, e ha studiato la risposta immunitaria nei bambini in Sud Africa che stavano prendendo parte ad una sperimentazione sul vaccino contro la tubercolosi.

I ricercatori hanno effettuato i test per ventidue possibili fattori. Scoprendo, fra l’altro, che livelli più elevati di anticorpi Ag85A sono stati associati con un rischio più basso tubercolosi.

“La tubercolosi è ancora un pericoloso killer internazionale, e i tassi di malattia in Sud Africa sono fra i più alti del modo” ha commentato Tom Scriba della South African Tuberculosis Vaccine Initiative. “Queste scoperte forniscono dati importanti sul tipo di immunità che i vaccini anti-tubercolosi dovrebbero evocare, e ci portano un passo più vicini alla nostra visione: un mondo senza Tbc”.

La tubercolosi infatti rimane una delle principali malattie mortali del mondo, con 9,6 milioni di persone contagiate e 1,5 milioni di morti solo nel 2014. L’unico vaccino disponibile funziona bene (efficacia di circa il 50%) per prevenire la malattia nei bambini, ma è molto variabile (da 0% a 80%) nella protezione contro la malattia polmonare, in particolare nei Paesi in cui la tubercolosi è più diffusa.

 

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AL GEMELLI DI ROMA PRIMO CINEMA IN UN OSPEDALE ITALIANO

AL GEMELLI DI ROMA PRIMO CINEMA IN UN OSPEDALE ITALIANO

 

Roma - E' stata inaugurata oggi al Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma la prima sala cinematografica ricavata all'interno di un ospedale italiano. La sala, realizzata tra l'ottavo e il nono piano del complesso ospedaliero, puo' ospitare fino a 130 persone tra pazienti, familiari, amici, volontari e personale di assistenza. E' stata costruita in modo da poter accogliere anche pazienti non autosufficienti, a letto o in sedia a rotelle. Il progetto e' stato possibile attraverso una raccolta fondi solidale promossa da MediCinema Italia Onlus: la somma ricavata e' stata sufficiente per finanziare il costo totale dell'operazione, pari a circa 500 mila euro. C'e' anche stato un sostegno di diversi partner, primo fra tutti la Walt Disney Company Italia, alla quale si e' aggiunta la Rai. "In due anni abbiamo realizzato qualcosa che in Italia non era mai esistito e che poteva sembrare un progetto impossibile", ha detto la presidente di MediCinema Italia Onlus, Fulvia Salvi, sottolineando che "e' la prima sala cinematografica integrata in una struttura ospedaliera italiana ed e' la prima di queste dimensioni realizzata in Europa". "Il nostro obiettivo - ha spiegato Celestino Pio Lombardi, responsabile della Commissione medico-scientifica del progetto - e' quello di ridurre lo stress dei pazienti, cercare di rimuovere in qualche modo le preoccupazioni di chi deve sottoporsi a un'operazione chirurgica o a un esame fastidioso, ma anche, per esempio, a donne che hanno una gravidanza difficile".

Rocco Bellantone, preside della Facolta' di Medicina, ha precisato che con l'apertura della sala cinematografica "svolgeremo anche un'attivita' di ricerca che attraverso protocolli clinici allo studio ci portera' a misurare l'efficacia della 'cinematerapia' sui malati. Padre Agostino Gemelli, fondatore del policlinico, ci ha dato come missione quella di essere con il cuore nella realta' - ha concluso Bellantone - ed e' stato con il cuore che siamo riusciti a superare tutte le difficolta' che si sono presentate nella realizzazione di questo progetto". "Senza la Walt Disney - ha affermato il direttore generale della Fondazione del policlinico, Enrico Zampedri - non sarebbe stato possibile fare tutto questo ma sono state molto importanti anche le altre realta' coinvolte nel progetto, a partire dalla Rai. Grazie a un gioco di squadra perfetto e un impegno fortissimo siamo riusciti in pochi mesi a costruire questa sala ed e' motivo di grande soddisfazione. Speriamo che possa in qualche modo alleviare le sofferenze e i pensieri dei pazienti. Gia' giovedi' scorso - ha raccontato infine Zampedri - abbiamo avuto un primo paziente che e' venuto a vedere un film: un bambino da noi ricoverato per il quale era proprio la prima volta che vedeva un film al cinema. E' stato un momento bellissimo, di forti emozioni". (AGI)

AL GEMELLI DI ROMA 

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Roma - E' stata inaugurata oggi al Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma la prima sala cinematografica ricavata all'interno di un ospedale italiano. La sala, realizzata tra l'ottavo e il nono piano del complesso ospedaliero, puo' ospitare fino a 130 persone tra pazienti, familiari, amici, volontari e personale di assistenza. E' stata costruita in modo da poter accogliere anche pazienti non autosufficienti, a letto o in sedia a rotelle. Il progetto e' stato possibile attraverso una raccolta fondi solidale promossa da MediCinema Italia Onlus: la somma ricavata e' stata sufficiente per finanziare il costo totale dell'operazione, pari a circa 500 mila euro. C'e' anche stato un sostegno di diversi partner, primo fra tutti la Walt Disney Company Italia, alla quale si e' aggiunta la Rai. "In due anni abbiamo realizzato qualcosa che in Italia non era mai esistito e che poteva sembrare un progetto impossibile", ha detto la presidente di MediCinema Italia Onlus, Fulvia Salvi, sottolineando che "e' la prima sala cinematografica integrata in una struttura ospedaliera italiana ed e' la prima di queste dimensioni realizzata in Europa". "Il nostro obiettivo - ha spiegato Celestino Pio Lombardi, responsabile della Commissione medico-scientifica del progetto - e' quello di ridurre lo stress dei pazienti, cercare di rimuovere in qualche modo le preoccupazioni di chi deve sottoporsi a un'operazione chirurgica o a un esame fastidioso, ma anche, per esempio, a donne che hanno una gravidanza difficile".

Rocco Bellantone, preside della Facolta' di Medicina, ha precisato che con l'apertura della sala cinematografica "svolgeremo anche un'attivita' di ricerca che attraverso protocolli clinici allo studio ci portera' a misurare l'efficacia della 'cinematerapia' sui malati. Padre Agostino Gemelli, fondatore del policlinico, ci ha dato come missione quella di essere con il cuore nella realta' - ha concluso Bellantone - ed e' stato con il cuore che siamo riusciti a superare tutte le difficolta' che si sono presentate nella realizzazione di questo progetto". "Senza la Walt Disney - ha affermato il direttore generale della Fondazione del policlinico, Enrico Zampedri - non sarebbe stato possibile fare tutto questo ma sono state molto importanti anche le altre realta' coinvolte nel progetto, a partire dalla Rai. Grazie a un gioco di squadra perfetto e un impegno fortissimo siamo riusciti in pochi mesi a costruire questa sala ed e' motivo di grande soddisfazione. Speriamo che possa in qualche modo alleviare le sofferenze e i pensieri dei pazienti. Gia' giovedi' scorso - ha raccontato infine Zampedri - abbiamo avuto un primo paziente che e' venuto a vedere un film: un bambino da noi ricoverato per il quale era proprio la prima volta che vedeva un film al cinema. E' stato un momento bellissimo, di forti emozioni". (AGI)

 

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Rivoluzione in studi medici, aperti 16 ore e 7 giorni su 7

Dal “Corriere della Sera”

 

Rivoluzione in studi medici, 
aperti 16 ore e 7 giorni su 7

da Redazione Salute

 

 

È una vera e propria «rivoluzione» quella che avverrà, a breve ed a tutto vantaggio dei cittadini, negli studi dei medici di famiglia: l’assistenza sarà infatti garantita 16 ore e 7 giorni su 7 con gli studi aperti dalle 8 alle 24, mentre nelle ore notturne entra in campo il 118. Ma soprattutto, a regime niente più file per pagare ticket e prenotare visite: si farà tutto direttamente nello studio medico. La nuova organizzazione è prevista nell’Atto di indirizzo per il rinnovo della convenzione di medicina generale, che il Comitato di settore Governo-Regioni ha approvato oggi. Mai più file estenuanti al pronto soccorso, dunque, perché il medico di fiducia non c’è. E presto anche niente attese per pagare il ticket o prenotare una visita: operazioni che bypassando il Cup (Centro unico di prenotazione) si potranno fare rapidamente dallo studio del medico. Un meccanismo che potrebbe portare anche maggiore trasparenza nella gestione delle liste d’attesa.

Disponibilità del medico

La novità di maggior rilevo è però quella che assicura agli assistiti la disponibilità del medico per 16 ore al giorno e 7 giorni su 7. Una continuità assistenziale che dovrà essere garantita dalle 8 del mattino alla mezzanotte da medici di famiglia e guardia medica, oramai assimilati in un ruolo unico. Nelle ore notturne sarà invece attivo il 118. Una «staffetta che consente di avere più medici disponibili nell’arco della giornata, andando a coprire anche fasce orarie come quelle delle 8 alle 10 del mattino o del primo pomeriggio, dalle 14 alle 16, oggi meno coperte. E che generano così intasamenti nei pronto soccorsi a discapito di chi ha una vera emergenza», spiega il segretario del sindacato dei medici di medicina generale Fimmg, Giacomo Milillo.

Le aggregazioni territoriali funzionali

A garantire la continuità delle cure saranno le Aft, Aggregazioni territoriali funzionali, non un luogo fisico, ma un nuovo modello organizzativo che consentirà comunque ai cittadini di trovare il medico per tutto l’arco della giornata. Terminato il turno del proprio medico di fiducia, ce ne sarà comunque un altro a disposizione, collegato a un data base che consentirà in qualsiasi momento di avere sottomano il profilo sanitario dell’assistito. I servizi di pediatria saranno invece garantiti dalle 8 alle 20 per cinque giorni la settimana. Il nuovo modello di assistenza di base dovrebbe inoltre favorire la nascita di nuovi maxi-ambulatori, con presenza di più medici, dove è possibile fare prime analisi cliniche, accertamenti diagnostici meno complessi e piccola chirurgia ambulatoriale. Anche se sotto sigle diverse (come Case della salute in Emilia e Toscana o Ucp nel Lazio) oggi lungo lo Stivale si contano già otre 800 di queste strutture, «che dovrebbero ora diffondersi in tutto il territorio nazionale grazie alla nuova convenzione, sempre che arrivino poi le autorizzazioni regionali», precisa Milillo. L’atto di indirizzo, «è un atto doveroso, dopo sei anni di blocco della convenzione. Aggiustamenti saranno necessari ma il giudizio è positivo. Fermo restando - conclude il leader sindacale - che vigileremo sul rispetto dei livelli occupazionali”. La nuova Convenzione rappresenta un segnale «positivo» anche secondo il Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, purché, tuttavia, «il tutto avvenga senza ulteriori costi per le famiglie».

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Dolore cronico, casi in aumento e trattamento ancora inadeguato

Medicina scienza e ricerca

 

Dolore cronico, casi in aumento e trattamento ancora inadeguato

 

Un’indagine condotta dal Movimento Consumatori, in collaborazione con il Centro studi Mundipharma, ha mostrato che circa la metà degli intervistati presenta un dolore cronico, nella maggior parte dei casi trattato con Fans o paracetamolo. Solo 4 persone su 10 però si ritengono soddisfatte della gestione della malattia

di Redazione Aboutpharma Online 22 aprile 2016

 

Negli ultimi dieci anni, nonostante anche l’introduzione della legge 38/2010 sul dolore, la prevalenza della malattia in Italia è aumentata e resta ancora sottotrattata o curata in maniera non adeguata. È quanto emerge da un’indagine condotta dal Movimento Consumatori, in collaborazione con il Centro studi Mundipharma. Secondo l’indagine – condotta su un campione di circa duemila soci del Movimento consumatori – circa la metà degli intervistati (il 46,4%) ha dichiarato di convivere con un dolore cronico, cioè che dura in maniera costante da almeno tre mesi. Di questi l’87% afferma di avere dolore da oltre sei mesi. Tra le cause annoverate per l’insorgenza della malattia (così viene ormai considerato il dolore cronico) nell’49,8% dei casi si parla di artrosi, seguita da mal di testa ed emicrania (19,9%) e artrite (14,4%( mentre) l’origine oncologica si riscontra solo nel 4% degli intervistati. Gli intervistati inoltre hanno dichiarato di convivere con un dolore di grado severo (47,5%) o moderato (42%) e sette persone su dieci hanno affermato che il tipo di dolore è tale da compromettere la qualità di vita, influenzando soprattutto lo svolgimento delle attività quotidiane (65%), il riposo notturno (45%) e anche le mansioni lavorative (36,4%). Per quanto riguarda il trattamento del dolore, quasi il 42% ha riferito che il dolore viene misurato dal proprio medico di famiglia ad ogni visita, come dovrebbe essere secondo la legge 38/2010, mentre ad un 16,9% non viene mai misurato e a un 15% ogni due visite per citare i dati principali. Su 1023 intervistati che avevano dichiarato di avere un dolore cronico, il 33% ha dichiarato di non seguire nessuna terapia, mentre il 67%  è in cura, nella maggior parte dei casi con fans e paracetamolo. Sono queste due classi di farmaci a coprire rispettivamente il 50,8% e il 29,5% dei trattamenti citati dal campione – facilitati probabilmente anche da un accesso più facile per i cittadini a cui è richiesta una ricetta ripetibile o nessuna prescrizione per l’acquisto dei farmaci rispetto gli altri farmaci considerati per cui serve una ricetta non ripetibile – seguiti da un 8,9% dell’associazione codeina/paracetamolo, il 4,7% di tramadolo/paracetamolo, il 2,8% di solo tramadolo e infine il 14% di oppioidi forti. I fans quindi continuano ad essere la terapia più utilizzata nel trattamento del dolore cronico nonostante il loro utilizzo sia sconsigliato nel lungo periodo da numerose Linee guida e dall’Autorità regolatoria italiana ed europea per gli effetti collaterali che possono manifestarsi a livello gastrico e cardiovascolare. Nel campione di intervistati però solo 4 persone su dieci si è ritenuto sodisfatto della gestione del problema.

“Dalla ricerca emerge  una situazione italiana ancora preoccupante – spiega Vittorio Schweiger, direttore Strutture semplice Terapia del dolore dell’Azienda ospedaliero universitaria integrata di Verona – è aumentata la percentuale di cittadini con dolore persistente, e nonostante sia stato fatto molto per aumentare la cultura della valutazione del dolore, tale aspetto è ancora sottovalutato con una buona percentuale di pazienti in cui il dolore vien misurato mai o raramente, impedendo cosi un monitoraggio puntuale della malattia.   Inoltre il consumo di Fans in Italia è ancora troppo elevato, nonostante debbano essere utilizzato solo per breve tempo. Oggi le evidenze scientifiche consigliano di trattare il dolore con bassi dosaggi di oppioidi forti, più efficaci e con minor effetti collaterali. Sicuramente bisogna partire dalla sensibilizzazione degli operatori sanitari.

“Benché negli ultimi anni sia cresciuta l’attenzione delle istituzioni e della comunità medica verso il problema – commenta Marco Filippini, General manager di Mundipharma Italia ­– l’indagine dimostra che la gestione del problema in Italia è ancora ben lontana da potersi definire ottimale. L’impiego dei farmaci oppioidi è ancora troppo limitato e sconta probabilmente il retaggio culturale e timori infondati per cui gli oppiacei possono dare dipendenza, che tuttavia non riguarda le realtà italiana dove il consumo di questi farmaci a scopo analgesico è tra i più bassi in Occidente”.

 

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Nasce la prima società scientifica italiana dedicata a dolore muscolo-scheletrico e algodistrofia

Medicina scienza e ricerca

Nasce la prima società scientifica italiana dedicata a dolore muscolo-scheletrico e algodistrofia

Ortopedici, reumatologi e fisiatri lanciano “Guida” per stimolare la ricerca scientifica e promuovere una gestione interdisciplinare delle patologie

di Redazione Aboutpharma Online 2 maggio 2016 

 

Il panorama delle società scientifiche italiane si arricchisce con un nuovo soggetto: è stata appena costituita la Società italiana per la gestione unificata ed interdisciplinare del dolore muscolo-scheletrico e dell’algodistrofia” (Guida). Fra gli obiettivi – si legge in un comunicato – promuovere ricerca, attività culturali e formazione, ma soprattutto fare chiarezza sugli aspetti scientifici e gestionali.  Guida è la prima società scientifica in Italia con un focus specifico su queste patologie e riunisce ortopedici, reumatologi e fisiatri. A presiederla è Ombretta Di Munno, docente associato di Reumatologia all’Università di Pisa.

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Dolore acuto o cronico, ecco come riconoscerlo e affrontarlo

Medicina scienza e ricerca

 

Dolore acuto o cronico, ecco come riconoscerlo e affrontarlo

 

Assosalute e Simg insieme per fare chiarezza sul tema durante l’incontro ‘I Mille Volti del Dolore’

di Redazione Aboutpharma Online 3 maggio 2016

 

Un mal di testa, un mal di pancia improvviso. Ma anche il ciclo mestruale o una brutta caduta. Stati diversi, ma accomunati da una cosa, il dolore. A volte forte, altre volte più blando. E’ proprio per riconoscere le varie forme di dolore e imparare a gestirle correttamente che la Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg) e Assosalute, l’Associazione nazionale farmaci di automedicazione, hanno promosso l’incontro ‘I Mille Volti del Dolore’, un confronto tra esperti finalizzato a eleggere il percorso più appropriato per riconoscere il dolore acuto e affrontarlo nel migliore dei modi.

Il dolore rappresenta una tra le manifestazioni più importanti di un disturbo o di una malattia; inoltre, fra i sintomi, è quello che tende a minare maggiormente la qualità di vita. Secondo un’indagine dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), su 5.447 soggetti ospitati da 15 centri di tutto il mondo, il dolore persistente nell’ambito delle cure primarie risulta avere una prevalenza del 20%. In Italia, uno studio osservazionale pubblicato nel 2005, che ha coinvolto 89 medici di medicina generale, ha rilevato come circa un terzo dei contatti ambulatoriali che il medico ha durante la sua attività routinaria lamenti dolore, classificato dai medici ricercatori nel 52,8% dei casi come cronico. In aggiunta, in una recente ricerca condotta dalla Simg, sono stati selezionati i pazienti che hanno richiesto un consulto al proprio medico a causa del proprio dolore. Sono stati considerati solo i pazienti che denunciavano un dolore con intensità maggiore di 3 alla scala Nrs (Numerical Rating Scale), un sistema di valutazione del dolore che viene compilata chiedendo al paziente di assegnare un punteggio da 0 a 10 corrispondente al dolore provato. Ebbene, all’interno di questo campione, il dolore cronico (maggiore del valore 3 alla scala Nrs con durata superiore ai tre mesi) era presente nel 3% del totale della popolazione assistita, con proiezione su base annua e rappresentava circa il 27% dei primi accessi per dolore. Secondo quanto emerso, quindi, si può ritenere che la maggior parte dei pazienti, il 70% di quelli che consultano il proprio medico per un problema di dolore, lo fa per la presenza di un dolore acuto.

“Tra i principali obiettivi che la Simg si propone, figura anche quello di supportare le persone costrette a convivere con alcuni problemi di salute che, nella maggior parte dei casi, provocano la comparsa di dolore – commenta Ovidio Brignoli, vice presidente di Simg – E’ per questo che il medico di famiglia, quando opportunamente consultato, sarà in grado di prescrivere una terapia idonea o, in caso di lievi sintomi da leggeri disturbi, indirizzare il paziente verso una gestione autonoma del dolore, tramite l’assunzione responsabile di farmaci di automedicazione”.

In caso di una causa scatenante netta e chiara – la presenza del ciclo mestruale, una piccola contusione, un arrossamento degli occhi, un’indigestione o un mal di testa – il dolore acuto può essere controllato in autonomia, tramite la corretta assunzione di farmaci di automedicazione o da banco, acquistabili senza obbligo di prescrizione e riconoscibili grazie al bollino rosso che sorride, presente sulla confezione, dove è indicato chiaramente che quello che si sta acquistando è un farmaco senza obbligo di ricetta. Questi medicinali sono disponibili senza ricetta medica perché nel loro impiego diffuso e di lungo corso si sono dimostrati sicuri, efficaci ed hanno ricevuto un’apposita autorizzazione da parte dell’Autorità sanitaria.

In presenza di dolore cronico, invece, è opportuno consultare il proprio medico di fiducia, il quale sarà in grado di individuare la giusta diagnosi e, di conseguenza, prescrivere il trattamento più efficace. “Oltre a limitare in maniera impattante la qualità della vita, il dolore è causa di una serie considerevole di costi sociali, in termini di rendimento al lavoro, conseguenze psicologiche e ripercussioni fisiche – conclude Pierangelo Lora Aprile, responsabile Area dolore Simg – Per arginare in maniera efficace questo fenomeno complesso, in presenza di sintomi derivanti da semplici disturbi è opportuno educare la popolazione a una gestione autonoma del dolore, tramite una terapia che preveda l’assunzione responsabile di farmaci da banco. In caso di dolori caratterizzati da un’intensità più forte che non si risolvono a breve e non sono strettamente correlati a eventi acuti e/o traumatici, è opportuno consultare un medico per una diagnosi più puntuale e l’inizio di un trattamento specifico”.

 

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Igiene delle mani, Giornata mondiale: Boggio (Assobiomedica), “Da prevenzione infezioni ospedaliere 500 mln l’anno di risparmio”

 Medicina scienza e ricerca

 

Igiene delle mani, Giornata mondiale: Boggio (Assobiomedica), “Da prevenzione infezioni ospedaliere 500 mln l’anno di risparmio”

 

In Italia ogni anno dal 5 all’8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera, che provoca il decesso di circa 5-6mila persone: si tratta di un problema che potrebbe pesare fino a 1 miliardo di euro sulla Sanità italiana, quando il 20-30% di infezioni potrebbe essere evitato con le buone pratiche cliniche

di Redazione Aboutpharma Online 5 maggio 2016

 

La lotta alle infezioni ospedaliere è fondamentale per la tutela della sicurezza del paziente e il  contrastarle frutterebbe anche al Ssn qualcosa come 500 milioni di risparmi l’anno. A ricordarlo – in occasione della Giornata mondiale dell’igiene delle mani, è il presidente Assobiomedica, Luigi Boggio: “La giornata mondiale sull’igiene delle mani – afferma in una nota – pone l’accento su un problema di dimensioni rilevanti, con un impatto potenzialmente devastante sul paziente e molto oneroso per le casse sanitarie. Il tema può sembrare banale mentre invece il corretto e costante lavaggio delle mani può davvero contribuire in larga parte a evitare il fenomeno delle infezioni ospedaliere. Per evitare una gestione tardiva delle infezioni e la resistenza alla terapia antibiotica è sempre più urgente  un approccio coordinato e preventivo tra reparti, ma anche tra strutture sanitarie, enti locali e centrali, volto ad avviare in maniera omogenea politiche sulla prevenzione dei rischi; formazione del personale sulle pratiche di controllo delle infezioni; utilizzo di metodiche e dispositivi appropriati per la pulizia, l’igiene e la disinfezione delle apparecchiature. Ciò significherebbe un risparmio annuale stimato di più di 500mila euro a struttura sanitaria, oltre a una riduzione del 50% delle infezioni nosocomiali”.

In Italia ogni anno dal 5 all’8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera, che provoca il decesso di circa 5-6mila persone. Le infezioni ospedaliere rappresentano sempre più una crisi sanitaria che richiede una gestione preventiva e adeguata. Assobiomedica ha stimato risparmi di almeno 500 milioni di euro l’anno applicando in Italia modelli, utilizzati in altri paesi europei, per ridurre le infezioni correlate all’assistenza ospedaliera. Si tratta di un problema che potrebbe pesare fino a 1 miliardo di euro sulla Sanità italiana, quando il 20-30% di infezioni potrebbe essere  evitato con l’attuazione di buone pratiche cliniche, come l’igiene delle mani, ma anche con l’utilizzo di tecnologie mediche appropriate e la messa a punto di adeguati meccanismi di controllo e di processo da parte degli operatori sanitari.

“Si fanno tagli alla Sanità con spending review, payback e rinegoziazioni, quando mettendo in atto buone pratiche come questa si otterrebbero risparmi notevoli e si garantirebbe ai pazienti un più elevato livello di sicurezza. Le infezioni ospedaliere –prosegue Boggio – giocano un ruolo di primo piano per la sicurezza del paziente e hanno un elevato impatto clinico ed economico, ma sarebbero evitabili con l’adozione di misure di provata efficacia, che Assobiomedica ha presentato, purtroppo inascoltata, a Governo e Regioni insieme ad altre proposte di risparmio alternative al payback. Sarebbe fondamentale promuovere un programma, insieme al Ministero della Salute e alle Regioni, in cui le imprese del settore dei dispositivi medici potrebbero impegnarsi in iniziative di sensibilizzazione e di formazione del personale medico-sanitario. Questo sarebbe un modo strategico e sostenibile di ottenere risparmi in alternativa a misure che non faranno altro che abbassare la qualità del servizio offerto ai cittadini”.

 

 

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Troppi bisturi sulla tiroide: la chirurgia non è sempre indicata

 

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Troppi bisturi sulla tiroide: la chirurgia non è sempre indicata

Gli esperti chiedono di migliorare l'inquadramento diagnostico per patologie sostanzialmente innocue. Presentata a Milano la Giornata mondiale della Tiroide in programma il 25 maggio. Sul fronte della prevenzione è ancora troppo basso il consumo di sale iodato

di Stefano Di Marzio 17 maggio 2016 

 

Troppe tiroidectomie in Italia: ricorrere al bisturi per patologie che potrebbero semplicemente essere controllate nel tempo (noduli ma anche alcuni tumori papillari poco aggressivi) potrebbe essere un intervento inappropriato. Serve piuttosto un più accurato inquadramento diagnostico da parte degli endocrinologi e maggior consenso da parte degli specialisti. Questo ha detto oggi a Milano Luciano Pezzullo, presidente dell’associazione che raggruppa le unità endocrinochirurgiche italiane (Club Uec) nel presentare insieme a numerosi colleghi la Giornata mondiale della Tiroide in programma il prossimo 25 maggio. “Nel 2014 sono stati eseguiti in Italia 37.217 interventi – ha spiegato Pezzullo – per un totale di 127.734 giornate di degenza. Nello stesso periodo negli Usa le tiroidectomie sono state 66 mila ma su una popolazione sei volte superiore a quella italiana. Qualcosa non va…”.
La patologia tiroidea tout court è considerata in forte ascesa in tutto il mondo (in Italia si registrano punte del 30% rispetto alla popolazione generale nelle aree che consumano meno iodio nella dieta). In tale ambito l’insorgenza di noduli e tumori è verosimilmente legata all’esposizione a radiazioni ionizzanti di varia origine ma all’epidemiologia occorre fare la tara. “Esiste un documentato effetto screening – dice Furio Pacini, presidente dell’
European Thyroid association (Eta) – legato al fatto che senza gli ecografi, trent’anni fa, tante anomalie non si vedevano. Comunque i tumori maligni sono il 5%-6% di tutti i noduli diagnosticati e solo il 5% di questi è rappresentato da forme realmente aggressive”.
La Giornata mondiale si svolge all’interno della Settimana mondiale della Tiroide, occasione privilegiata per parlare di prevenzione e fare informazione. Causa più frequente della patologia tiroidea è la carenza di iodio, cui occorre rispondere con un’adeguata alimentazione (pesce soprattutto) e ricorrendo al sale iodato sia in cucina, che nell’industria alimentare (es. panificazione). L’Italia si è dotata di uno specifico programma di prevenzione della carenza iodica (legge 55 del 2005) che però è largamente disatteso, come spiegato a Milano da Antonella Olivieri, responsabile scientifico dell’
Osservatorio nazionale per il monitoraggio della iodioprofilassi (Osnami) attivo presso l’Istituto superiore di Sanità. “L’obbligo di esposizione di sale iodato sugli scaffali nei punti vendita non è rispettato – spiega l’esperta – come pure quello delle tabelle informative sull’importanza dello iodio”. Risultato? Il sale iodato venduto in Italia è appena il 56% del totale sale acquistato dai cittadini. Per l’Oms l’obiettivo è il 90%”.

 

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Università Cattolica e policlinico Gemelli in prima linea nella ricerca su nutrizione e salute

 

 

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Università Cattolica e policlinico Gemelli in prima linea nella ricerca su nutrizione e salute

 

Il cibo come fonte di prevenzione e cura nel campo delle malattie del metabolismo, ma anche nelle condizioni di fragilità, nelle patologie del fegato e dei reni, nelle malattie neurologiche o in particolari condizioni come la gravidanza. Giovedì la Giornata per la Ricerca 2016

di Redazione Aboutpharma Online 19 maggio 2016

 

Il cibo può essere amico e nemico della nostra salute, dipende da ciò che mettiamo nel piatto. La Facoltà di Medicina e chirurgia dell’università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione policlinico universitario A. Gemelli sono impegnati in numerosi progetti di ricerca sul tema della nutrizione, dalla ricerca di base, con studi molecolari, alla ricerca preclinica e clinica sul cibo come fonte di prevenzione e cura nel campo delle malattie del metabolismo, quali diabete ed obesità, ma anche nelle condizioni di fragilità, quali l’invecchiamento, nelle patologie del fegato e dei reni, nelle malattie neurologiche o in particolari condizioni come la gravidanza.

Tutta la ricerca in questo ambito verrà presentata in occasione della quinta edizione della ‘Giornata per la Ricerca 2016’ di università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione policlinico universitario A. Gemelli, in programma il 26 maggio, a partire dalle 8,30, nell’Aula Brasca del Policlinico romano. Anche quest’anno il tema sarà ‘Il ruolo della nutrizione dalla prevenzione alla cura’.

“La Giornata per la ricerca si incentra anche quest’anno sul tema della nutrizione, su tutti i riflessi che la nutrizione ha sulla nostra salute, soprattutto perché riteniamo sia ancora poco o non correttamente conosciuto l’impatto che questa ha sulla prevenzione e cura delle malattie – afferma il preside di Medicina, Rocco Bellantone – Non tutti sanno, ad esempio, che l’efficacia delle cure per un paziente oncologico può essere potenziata se si sta più attenti alla sua alimentazione; altre malattie, come quelle cardiovascolari, metaboliche o neurologiche possono essere prevenute con una maggiore attenzione nutrizionale. L’intuizione geniale del nostro fondatore Padre Gemelli fu quella di creare un Policlinico universitario proprio nella convinzione che non si potesse fare una buona didattica senza accomunarla a una ricerca di altro livello. La ricerca è l’inizio di una buona assistenza. Non è possibile fare un’assistenza moderna, aggiornata se gli stessi operatori medici non sono coinvolti in ricerche di altissimo livello”.

Purtroppo “si investe molto poco in ricerca – continua Bellantone – e investendo poco siamo costretti ad acquistare da altre nazioni i risultati della ricerca, e questo comporta un ritardo nel somministrare cure d’avanguardia ai nostri pazienti e dal punto di vista economico ciò comporta costi molto superiori a quelli che avremmo se si investisse maggiormente in ricerca”.

“Fare buona ricerca è la condizione essenziale per poter poi garantire buone cure ai nostri pazienti – aggiunge Enrico Zampedri, direttore generale del Gemelli – Per noi fare ricerca etica è mettere la persona al centro delle nostre attenzioni. Questo è il principio generale che deve guidare chiunque, a maggior ragione una realtà come la nostra che è un ospedale di ispirazione cattolica”.

Con 253 nuovi progetti di ricerca no profit che ogni anno portano ad oltre 1.500 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali, oltre 19 milioni di euro di ricerca finanziata nel corso del 2015, 17 brevetti attivi e depositati, 15 Istituti della Facoltà di Medicina e chirurgia che hanno ottenuto finanziamenti europei, 142 sperimentazioni cliniche avviate e 329 sperimentazioni in corso nel 2016, l’università Cattolica è impegnatissima sul fronte della ricerca biomedica.

 

 

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Jim O’Neill: “Basta trattare gli antibiotici come caramelle”

Medicina scienza e ricerca

 

Jim O’Neill: “Basta trattare gli antibiotici come caramelle”

 

“Se non si agisce subito, entro il 2050 i superbatteri resistenti uccideranno una persona ogni tre secondi” stima una revisione appena conclusa dall’attuale ministro del governo britannico ed economista O’Neill. A conferma dell’emergenza uno studio pubblicato su Jama ha quantificato il numero di prescrizioni inappropriate di antibiotici negli Usa: circa il 30% annuo

di Redazione Aboutpharma Online 19 maggio 2016

 

Si torna a parlare di antibiotico resistenza e inappropriatezza prescrittiva. Questa volta con una revisione guidata dall’economista Lord Jim O’Neill, Responsabile commerciale del Tesoro nel Regno Unito ed ex presidente della Goldman Sachs Asset Management, “Tackling Drug-Resistant Infections Globally: final report and recommendations”,   e uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani del Centers for Disease Control and Prevention pubblicato su Jama, che hanno cercato di quantificare l’entità del problema, partendo dal presupposto che – come ricorda l’editoriale che accompagna lo studio, sempre su Jama,  – “se non si può misurare qualcosa, non si può migliorarla”. Lo studio rientra nel  National Action Plan for Combating Antibiotic-Resistant Bacteria, piano d’azione voluto dall’amministrazione Obama, che si pone come obiettivo, entro il 2020, di ridurre del 50% le prescrizioni inappropriate di antibiotici, per fronteggiare quella che sempre più appare come una minaccia globale e di difficile gestione. “La metodologia proposta – come spiega anche l’Aifa ­– potrà essere riprodotta per estendere l’indagine ad altri contesti nazionali, e rappresentare così un prezioso strumento per pianificare strategie più efficaci contro la diffusione dei superbatteri”.

Si stima che nel giro di circa 30 anni, se non si agisce subito, i “super-bug” arriveranno a uccidere una persona ogni tre secondi, secondo quanto emerge da lavoro di O’Neill, che oltre a rinnovare l’allarme propone anche un piano d’intervento dalla portata di miliardi di dollari di investimenti. Il problema si fonda su diverse questioni: la prima è che da tempo ormai non si sviluppano nuovi antibiotici, perché poco appeal per l’industria farmaceutica; la seconda che usiamo in maniera inappropriata quelli disponibili.  Dall’avvio della Review on Antimicrobial Resistence, a metà del 2014, oltre un milione di persone sono morte a causa dei super-bug, e nel frattempo i medici hanno anche identificato batteri in grado di resistere a un farmaco di ultima istanza, la colistina, fatto che ha incrementato gli allarmi sulla minaccia di un’era “post-antibiotica”. E il futuro non è certo dei migliori se si considera che secondo le stime 10 milioni di persone saranno destinate a morire ogni anno per infezioni resistenti ai farmaci entro il 2050, soprattutto in Asia e in Africa, ma anche nei Paesi occidentali (sono stati stimati circa 390 mila decessi l’anno in Europa). Non solo: il costo finanziario della resistenza ai farmaci arriverà a 100 trilioni di dollari a metà di questo secolo.

Tra le soluzioni il report raccomanda una campagna globale di sensibilizzazione urgente e massiccia sui rischi, l’istituzione un Global Innovation Fund da due miliardi di dollari per finanziare la ricerca in fase iniziale; migliorare l’accesso all’acqua pulita, ma anche i servizi igienico-sanitari e l’igiene in ospedale per prevenire la diffusione delle infezioni. E ancora: ridurre l’abuso di antibiotici in agricoltura, monitorare la diffusione della resistenza ai farmaci, finanziare con un miliardo di dollari le aziende per ogni nuovo antibiotico scoperto, ideare incentivi finanziari per sviluppare nuovi test ed evitare la somministrazione inutile degli antibiotici, promuovere l’uso di vaccini e alternative a farmaci.

A riprova dell’inappropriatezza prescrittiva di questi farmaci, lo studio pubblicato su Jama ha evidenziato come nel biennio 2010-1011 il 30% annuo delle prescrizioni ambulatoriali di antibiotici per via orale potrebbe essere stato inappropriato, con solo 353 prescrizioni su 506 ogni 1000 abitanti appropriata. “Una quota notevole dell’eccesso prescrittivo deriva dalla tendenza dei medici a sovradiagnosticare alcune patologie – si legga ancora sul sito dell’Aifa – come per esempio la faringite, per la quale i protocolli sanitari limitano il ricorso alla terapia antibiotica esclusivamente a quella da streptococco. L’efficacia delle strategie contro l’antibiotico-resistenza richiede non solo un’intensa attività di sensibilizzazione rivolta alla popolazione, ma anche l’impegno dei medici perché si diffonda e consolidi nel personale sanitario una gestione responsabile delle prescrizioni antibiotiche”.

“È ora di intervenire e smettere di trattare i nostri antibiotici come caramelle – ha concluso O’Neill – perché se non risolviamo il problema andremo incontro a tempi bui e moltissime persone moriranno”.

 

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'Superbatteri' resistenti a tutti i farmaci, anche in Italia

'Superbatteri' resistenti a tutti i farmaci, anche in Italia

Esperta Iss, da noi di tipo diverso da quello Usa

27 maggio, 20:19
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RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSAROMA - Anche in Italia ci sono già dei pazienti che si sono infettati con batteri che resistono a tutti gli antibiotici, anche se di tipo diverso da quello che ha colpito nei giorni scorsi la donna negli Stati Uniti. Lo afferma Annalisa Pantosti, ricercatrice dell'Istituto Superiore di Sanità, secondo cui la mortalità in questi casi può arrivare al 50%. 

"La gravità dell'impossibilità di trattare il paziente noi l'abbiamo già nel nostro paese - spiega Pantosti -, non per l'Escherichia Coli come nel caso statunitense ma per un'altra classe di batteri, le clebsielle pneumoniae resistenti ai carbapenemi, che nel 30-40% dei casi sono ormai resistenti anche alla colistina. In questi casi si ricorre ad antibiotici 'di fortuna', magari in disuso, oppure a combinazioni di più farmaci, ma la mortalità è molto alta, anche se difficile da quantificare perchè di solito i pazienti hanno anche altri problemi medici".

Per quanto riguarda il batterio Escherichia Coli, quello trovato nella paziente Usa, anche in Europa ci sono forme resistenti alla colistina. "Una volta che il gene che conferisce la resistenza è stato isolato in Cina lo abbiamo cercato un po' tutti - racconta l'esperta -. Anche da noi ci sono ceppi di Escherichia con questo gene, ma per fortuna non hanno altre resistenze. 

La scoperta in Usa però è preoccupante perchè la resistenza di quel tipo è facilmente trasmissibile ad altri batteri. Speriamo che queste scoperte spingano verso la ricerca di nuovi antibiotici, anche perchè ce ne serve più di uno per contrastare il fenomeno e al momento ci sono poche molecole allo studio. L'altra cosa da fare è limitare l'uso di quelli esistenti, anche se non sempre è possibile".

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Tatuaggi, per uno su 10 infezioni e allergie

Tatuaggi, per uno su 10 infezioni e allergie

E in più della metà dei casi più di 4 mesi di cure

13 giugno, 19:48

 

 Il 10% di chi si fa un tatuaggio ha una reazione avversa, che in oltre metà dei casi diventa cronica e dura oltre quattro mesi. Lo afferma uno studio della Langone University di New York pubblicato da Contact Dermatitis, secondo cui i problemi vanno da semplici arrossamenti a reazioni allergiche che richiedono la rimozione del tattoo.

La ricerca è stata condotta su 300 persone fermate a caso a Central Park, a cui è stato chiesto se avevano mai avuto problemi con i loro tatuaggi. Circa il 10% ha affermato di avere avuto qualche complicazione, e sei su dieci in questo gruppo hanno riportato problemi che sono durati per più di quattro mesi. "Spesso il problema è un'infezione batterica, ma in alcuni casi quello che abbiamo trovato era sicuramente una allergia all'inchiostro - racconta Marie Leger, uno degli autori, al sito Livescience -, persone che si sono fatte un tatuaggio rosso senza problemi, poi dopo qualche anno ne hanno fatto un altro e all'improvviso entrambi hanno iniziato a prudere e a gonfiarsi".

Secondo uno studio tedesco pubblicato su Lancet il 5% dei tatuaggi genera un'infezione, mentre più recentemente una ricerca ha puntato il dito anche sui tattoos non permanenti per una sostanza chimica allergizzante spesso presente nell'henne'.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

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In Italia 1,7 mln donatori, pochi giovanio

DA AGI SALUTE
SALUTE

In Italia 1,7 mln donatori, pochi giovani

Roma - Sono oltre 1.700.000 i donatori di sangue italiani, ma ancora troppo pochi sono i giovani. Questo e' uno dei dati relativi al 2015, presentati oggi all'Istituto superiore di sanita' in occasione della Giornata mondiale del donatore di sangue, che si celebra annualmente il 14 giugno. Nel 2015 in Italia sono stati prodotti 2.572.567 unita' di globuli rossi, 276.410 unita' di piastrine e 3.030.725 unita' di plasma. Sono stati trasfusi 8.510 emocomponenti al giorno e curati 635.690 pazienti (1.741 pazienti al giorno). "L'83 per cento dei donatori italiani dona in maniera periodica, non occasionale", ha spiegato Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue. "Questa fidelizzazione - ha continuato - e' fondamentale per via del legame molto stretto che esiste tra donazione volontaria, consapevole e non remunerata e qualita' del sangue in termini di sicurezza. Grazie ai donatori l'Italia e' un Paese autosufficiente gia' da diversi anni e normalmente esiste una situazione di bilancio positivo tra numero di unita' di sangue ed emocomponenti donate e fabbisogno a livello locale". La fascia d'eta' dalla quale proviene la maggioranza dei donatori e' rappresentata da persone in eta, compresa tra i 30 ed i 55 anni, una componente del corpo sociale destinata a ridursi in modo significativo nei prossimi decenni stando alle proiezioni demografiche. La percentuale di giovani che sul numero totale di donatori, nel 2015, si attesta al 31.67 per cento (13,39 per cento classe di eta' 18-25 anni, 18,28 per cento classe di eta' 26-35 anni) e' ancora troppo bassa. Se si considerano i dati sull'invecchiamento della popolazione, infatti, tra il 2009 e il 2020, la riduzione dei donatori e' stimata nel 4,5 per cento. .

 

 

 

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Torna l’allarme Zika in Portorico, ma la ricerca fa passi avanti

Medicina scienza e ricerca

 

Torna l’allarme Zika in Portorico, ma la ricerca fa passi avanti

 

Partono i primi test sugli esseri umani di un possibile vaccino contro il virus, e anche altri risultati sono attesi entro fine anno. Mentre la Roche e la Tib Molbiol hanno messo sul mercato un nuovo rapido test diasgnotico. Tutto questo mentre in Portorico aumentano in contagi e le previsioni non sono migliori

di Redazione Aboutpharma Online 20 giugno 2016 

 

Si continua a parlare di Zika, sia per l’ennesimo allarme che arriva da oltre oceano sia per alcune novità diagnostiche/preventive. Dal punto di vista dei trattamenti, buona notizie arrivano dagli Stato Uniti dove l’Autorità statunitense ha dato il via libera ai primi test sugli esseri umani di un possibile vaccino contro il virus. A darne l’annuncio è la stessa compagnia produttrice la Inovio Pharmaceuticals Inc, che dovrebbe iniziare a testare il prodotto sui primi 40 volontari sani nelle  prossime settimane. “Contiamo di avere i primi risultati parziali entro la fine dell’anno” ha spiegato in un comunicato la società.  Il test di fase 1 è condotto su volontari sani per verificare la sicurezza del vaccino e misurare la risposta immunitaria.  Sempre oggi la multinazionale farmaceutica svizzera Roche con la società tedesca Tib Molbiol hanno annunciato la disponibilità sil mercato di un nuovo dispositivo per rilevare la presenza del virus nei campioni di sangue in maniera rapida. Il test LightMix Modular Zika Virus Assay, presenta il marchio Ce, e potrà essere condotto nei pazienti che presentano i sintomi dell’infezione che vivono nelle zone colpite dal virus. “Il test fornisce agli operatori sanitari la possibilità immediata di rilevare il virus” spiega Uwe Oberlaender, capo di Roche Molecular Diagnostics. “Il processo completo, dalla preparazione del campione ai risultati per 96 campioni, può essere eseguito in appena 2 ore”. Il test sarà prodotto da Tib Molbiol e distribuito in esclusiva da Roche.

Tutto questo mentre in Portorico scoppia di nuovo l’allarme Zika, con un boom di contagi e la possibilità, nei prossimi mesi estivi e il conseguente diffondersi delle zanzare  portatrici del virus, che migliaia di donne incinte vengano  infettate dalla zanzara. A lanciare l’ennesimo preoccupato allarme questa volta sono i Centri per il controllo e la  prevenzione delle malattie Usa (Cdc), riferendosi agli ultimi  dati sulla presenza di Zika nel sangue dei donatori: più  dell’1% dei campioni di sangue analizzati nel periodo compreso dal 5 al 11  giugno a Portorico sono risultati infetti. Nel periodo precedente la percentuale di infezioni tra i donatori era  risultata dello 0.5%.    Secondo le stime dei Cdc, i contagi tra i donatori si traducono in un tasso di infezioni, nella popolazione in  generale, di almeno il 2%: “Ciò significa che nei prossimi mesi  è possibile che migliaia di donne incinte contraggano il  virus” ha riferito il direttore dei Cdc, Thomas Frieden. “E questo  può risultare in decine o centinaia di bimbi  che nasceranno con microcefalia.

Per quanto riguarda i vaccini però, sicuramente qualcosa dovrebbe emergere entro al fine dell’anno quando sono previsti i risultati di diversi test: in totale secondo l’Oms sono almeno 23 i progetti sui vaccini portati avanti da 14 gruppi in Usa, Brasile, India, Austria e Francia.

 

 

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ITALIA SPAGNA 2-0

                  ITALIA SPAGNA 2-0

                                     Lunedì 27 Giugno 2016 - Stade de France - Parigi                

Una grande Italia batte la Spagna 2-0 e si qualifica per i quarti di finale di Euro 2016, dove affronterà la Germania (sabato 2 luglio a Bordeaux). Allo Stade de France di Parigi gli azzurri al termine di una prestazione straordinaria eliminano i campioni d'Europa in carica con i gol di Chiellini al 33' del pt (sugli sviluppi di una punizione calciata da Eder) e di Pellè al 46' st (su assist di Darmian).

 CRONACA STATISTICHE e GRAFICI

Sampa Spagna, "E' la fine di un'era" - '"E' la fine di un'era". E' questa la frase che sintetizza il pensiero della stampa spagnola che, subito dopo il triplice fischio di Italia-Spagna, vinta dagli azzurri per 2-0, celebra il funerale sportivo della nazionale iberica, campione d'Europa in carica. Sui principali siti dei giornali sportivi spagnoli il leitmotiv è sempre lo stesso: "E' la fine di un ciclo", titola l'edizione on line del 'Marca', "E' la fine di un'era", gli fa praticamente eco il cugino 'As'. Grande risalto al crollo delle furie rosse anche sui giornali non sportivi. Per 'El Pais' "Un'Italia nettamente superiore ha eliminato la Spagna". Ancora più netta la bocciatura di 'El Mundo': "La squadra campione è morta stasera contro l'Italia". Spazio anche per il ct Del Bosque che potrebbe lasciare dopo questa eliminazione. "Un addio senza onore", si legge ancora sul sito di 'El Mundo' sotto la foto di Ramos e Piquè con le mani in faccia per coprire la cocente delusione.

 "Lo sapevo che sarebbe finita così. Questi ragazzi sono straordinari, hanno dentro qualcosa di speciale, fuori dall'ordinario. Dimostrato che Italia non è catenaccio: l'idea può battere talento''. Queste le parole a caldo ai microfoni della Rai del ct azzurro Antonio Conte dopo la vittoria con la Spagna per 2-0. "Adesso c'è da recuperare, ci aspetta un'altra partita dura, tosta, contro la Germania - ha detto ancora Conte ai microfoni di RaiSport -, ma abbiamo dimostrato che l'Italia non è solo catenaccio. Il più bel complimento ce l'ha fatto Xavi quando ha detto che l'Italia gli ricorda metà Atletico Madrid e metà Barcellona. Sabato sarà più dura di oggi, dispiace per Thiago Motta, che è il nostro dodicesimo".

Italia-Germania mi mette i brividi - "Adesso godiamoci questa vittoria e recuperiamo le forze perchè contro la Germania è una partita tosta, più difficile di questa con la Spagna". Antonio Conte è raggiante e ai microfoni di RaiSport pensa già alla sfida con la Germania ai quarti. "Solo a sentirlo Italia-Germania è una sfida che mette i brividi", ha aggiunto.

Giaccherini, è stata una vittoria di cuore  - "Avevamo preparato la partita nel minimo dettaglio, il ct ci ha dato le indicazioni giuste, ma per vincere oggi bisognava mettere tanto cuore. Lo abbiamo fatto e si è visto". Così l'azzurro Emanuele Giaccherini, ai microfoni di Sky Sport, dopo il successo sulla Spagna. "La nostra vittoria è stata legittima - dice ancora l'azzurro - perchè abbiamo avuto tante occasioni. Abbiamo sofferto la Spagna nel finale quando ci siamo abbassati. Però, lo ripeto, abbiamo avuto tante occasioni e potevamo chiuderla prima".

 

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Il caldo può danneggiare i farmaci, ecco le regole per una corretta conservazione

Medicina scienza e ricerca

 

Il caldo può danneggiare i farmaci, ecco le regole per una corretta conservazione

 

I consigli di Federfarma Verona per usare in tutta tranquillità i medicinali anche durante la stagione calda, al mare e in città

di Redazione Aboutpharma Online 30 giugno 2016

 

Il caldo può danneggiare i farmaci, per questo è necessario porre la massima attenzione al loro aspetto prima di utilizzarli, soprattutto se vengono tenuti in casa già da qualche mese. Bastano, infatti, anche poche giornate con temperature superiori ai 25 gradi per ridurre la data di scadenza. Qualora, dunque, l’aspetto del medicinale che si utilizza abitualmente appaia diverso dal solito o presenti dei difetti – particelle solide in sospensione o sul fondo, cambio di colore o odore, modifica di consistenza – si deve subito consultare il farmacista o il medico. E’ importante, inoltre, segnalare qualsiasi malessere, anche lieve, in concomitanza con una terapia farmacologica, perché non tutti i farmaci possono avere effetti facilmente correlabili al caldo. A mettere in guardia è Federfarma Verona, che in una nota offre consigli per il corretto utilizzo dei medicinali durante la stagione del grande caldo.

Le formulazioni liquide, contenendo acqua, sono in genere termolabili, cioè maggiormente sensibili alle alte temperature. Qualora le indicazioni per la conservazione non siano specificate vale la regola generale del luogo fresco e asciutto a una temperatura inferiore ai 25 gradi. Se si espongono i farmaci per un tempo esiguo (una o due giornate) a temperature superiori ai 25 gradi non se ne pregiudica la qualità, ma per un tempo più lungo, si riduce considerevolmente la data di scadenza. Se invece la temperatura di conservazione è specificamente indicata, non rispettarla potrebbe addirittura renderli dannosi per la salute.

Durante i viaggi si consiglia di trasportare i farmaci in un contenitore termico e di tenerli nell’abitacolo dell’auto evitando le alte temperature del bagagliaio. Si ricorda anche che il tradizionale portapillole, che non è adibito al trasporto, può surriscaldarsi o rilasciare sostanze nocive alterando le caratteristiche del prodotto.

Anche per chi resta in città, le insidie non mancano. Quando si acquista un farmaco ricordiamoci che non può stare per ore in auto al caldo mentre si fanno altre commissioni, in quel caso è opportuno procurarsi un contenitore termico. Anche farmaci comuni, infatti, possono produrre effetti potenzialmente dannosi se esposti a temperature troppo elevate, ma il discorso si accentua se si parla di patologie croniche come il diabete o di una malattia cardiaca: l’alterazione anche di una sola dose di un farmaco fondamentale, come l’insulina o la nitroglicerina, può essere rischiosa per la salute del paziente. Particolare attenzione va prestata anche con gli antiepilettici e gli anticoagulanti, piccole modificazioni in farmaci come questi possono fare una grande differenza per la salute. Alcune alterazioni che potrebbero verificarsi in antibiotici e aspirina possono causare danni ai reni o allo stomaco. Anche una crema a base di idrocortisone per effetto del calore potrebbe separarsi nei suoi componenti e perdere di efficacia. Le stesse precauzioni valgono per i farmaci in spray che non devono mai essere lasciati all’esposizione diretta dei raggi solari o a temperature elevate.

“Sono tantissime e tutte importanti le regole da seguire per la corretta conservazione di farmaci durante la stagione calda – spiega Marco Bacchini, presidente di Federfarma Verona – anche le strisce per test diagnostici, come ad esempio quelle per verificare i livelli di zucchero nel sangue, la gravidanza o l’ovulazione, soffrono l’elevata umidità, che potrebbe causarne l’alterazione fornendo una lettura non corretta del risultato. I farmaci per la tiroide, i contraccettivi e altri medicinali che contengono ormoni sono particolarmente sensibili alle variazioni termiche. E poi esiste anche il paradosso di pazienti che mettono i farmaci nel congelatore non sapendo che è una prassi estremamente dannosa per l’integrità dei principi attivi. Addirittura l’insulina e i farmaci in sospensione possono perdere la loro efficacia se congelati e non devono mai essere conservati a temperature inferiori ai 2°C”.

E in aereo? In questo caso “i farmaci devono essere portati nel bagaglio a mano e qualora la terapia preveda farmaci salvavita essi devono viaggiare con le relative ricette di prescrizione, poiché potrebbe essere necessario esibirle nelle fasi di controllo – continua Bacchini – È molto frequente, inoltre, riscontrare in estate problemi agli occhi con arrossamenti anche di grave entità per l’utilizzo di creme o pomate non idonee all’uso oftalmico. Infine è da segnalare il coretto utilizzo di gel/cerotti a base di ketoprofene o creme a base di prometazina (per punture di insetti o allergie cutanee) incompatibili con l’esposizione al sole che può provocare macchie e vere e proprie ustioni”.

 

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Epatiti killer peggiori: uccidono come Aids e Tbc

Medicina scienza e ricerca

 

Epatiti killer peggiori: uccidono come Aids e Tbc

 

In 20 anni i decessi sono aumentati del 60% secondo i dati di uno studio pubblicato su Lancet. Solo nel 2013 i morti per complicanze da epatite C sono stati 1 milione e 450 mila, più o meno quanto quelli per Aids e Tbc

di Redazione Aboutpharma Online 8 luglio 2016

 

Attenzione alle epatiti virali spesso sottovalutate ma che in realtà si sono rivelate essere uno dei killer più aggressivi. A lanciare l’allarme sono un gruppo di scienziati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, dell’Università di Washington, e Imperial College di Londra che hanno estrapolato i dati dallo studio Global Burden of Disease (Gbd) in modo da stimare morbilità e mortalità per l’epatite virale acuta, cirrosi e il cancro del fegato – causati sempre da epatite virale – in 183 paesi tra il 1990 e il 2013. Dallo studio – pubblicato su Lancet – è emerso che le epatiti a differenza di quanto si possa pensare nel corso di questi anni hanno ucciso come Aids e Tbc. Le complicazioni associate alle epatiti infatti hanno fatto 1 milione e 450 mila vittime nel 2013. Più o meno tante quanto l’Aids e la tubercolosi, con rispettivamente 1,2 milioni e 1,5 milioni di decessi nel 2014, secondo quanto riporta l’Organizzazione mondiale della sanità. In particolare tra il 1990 e il 2013, le morti per epatite virale a livello mondiale sono passate da 0,89 milioni a 1,45 milioni. Sempre nel 2013, inoltre, l’epatite virale si è posizionata settima tra le principale causa di morte nel mondo, mentre nel 1990 occupava la decima posizione.

Il numero di morti per epatiti è cresciuto del 60% negli ultimi 20 anni, in parte per l’aumento della popolazione globale, mentre i decessi per Aids e Tbc sono diminuiti. E benché il problema sia particolarmente grave in Asia orientale, in termini di vite umane il maggior prezzo lo pagano i Paesi ad alto e medio reddito.   Le epatiti sono causate da 5 diverse forme di virus: A, B, C, D, E, si legge sul lavoro. Alcune si trasmettono attraverso il contatto con fluidi corporei infetti (B, C, D), altre (A ed E) attraverso l’esposizione ad acqua o alimenti contaminati. La maggior parte delle morti che si registrano nel mondo sono riconducibili ai virus B e C, che provocano gravi danni al fegato e predispongono all’insorgenza di tumori epatici. Ma le prime fasi della malattia sono silenti, il che comporta un alto tasso di diagnosi tardive: si scopre di soffrire di epatite a danno d’organo ormai avvenuto.

“Nonostante esistano trattamenti efficaci e vaccini contro le epatiti virali – osserva Graham Cooke dell’Imperial College londinese e autore del lavoro – sono veramente basse le risorse economiche investite per favorire l’accesso dei pazienti a questi presidi. Sono disponibili vaccini anti-epatite A e B, e nuove terapie contro la C anche se i prezzi dei nuovi farmaci sono fuori alla portata di ogni Paese, povero o ricco”.

Gli autori dello studio evidenziano la necessità di concretizzare il piano d’azione definito dall’Oms, che fra gli obiettivi di propone la riduzione dei nuovi casi di epatiti B e C entro il 2020, con un -10% di mortalità. L’agenzia Onu per la sanità invita i singoli Stati e le organizzazioni competenti a espandere i programmi vaccinali, a concentrarsi sulla prevenzione della trasmissione dell’epatite C da madre a bambino, e a migliorare l’accesso ai nuovi trattamenti farmacologici.

 

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Ddl Concorrenza: Fofi, tetto “fantoccio” al 20% danneggia presìdi e concorrenza

Sanità e Politica

 

Ddl Concorrenza: Fofi, tetto “fantoccio” al 20% danneggia presìdi e concorrenza

 

Ordini sul piede di guerra: “Così basterebbero solo cinque società per detenere “a norma di legge” la totalità delle 20mila farmacie esistenti”.

di Redazione Aboutpharma Online 15 luglio 2016

 

Il Ddl Concorrenza nella versione che sta per approdare in aula a Palazzo Madama (S 2085) non può che condurre alla” subordinazione del sistema alla logica del profitto”, tradendo i principi cardine del servizio farmaceutico –  la capillarità della presenza e l’equo accesso al farmaco anche nelle aree svantaggiate geograficamente ed economicamente – e “mettendo a rischio l’indipendenza professionale del farmacista, e quindi il rispetto degli obblighi deontologici, e le prospettive occupazionali di tutta la categoria”.

Suona così la dura presa di posizione del Consiglio direttivo della Fofi riunitosi oggi per valutare le ricadute del testo pronto per l’esame dell’Assemblea del Senato e in particolare di quel tetto “fantoccio”  del 20%, a livello regionale, al possesso delle farmacie da parte di ciascuna società di capitali che “apre alla possibilità di formazione di un oligopolio che renderebbe residuale il ruolo delle farmacie rette dai professionisti”.

Di seguito il testo integrale del documento – approvato all’unanimità dall’assemblea dei Delegati regionali – che chiude sollecitando” la convocazione di un tavolo tecnico-politico di tutte le componenti della professione, che elabori proposte concrete su tutti gli aspetti sui quali è ormai indispensabile un intervento, a cominciare dall’istituzione del numero chiuso nelle facoltà di farmacia, dal futuro dei colleghi che operano negli esercizi di vicinato, all’attuazione del modello della farmacia dei servizi”.

Il documento Fofi.

La Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, alla vigilia dell’approdo nell’Aula del Senato del Ddl Concorrenza (S 2085) ribadisce la sua netta opposizione alle misure ivi contenute sul servizio farmaceutico. Come già rappresentato con estrema chiarezza nel corso delle audizioni parlamentari, la Fofi conferma la sua contrarietà all’ingresso delle società di capitali nella gestione delle farmacie per l’impatto che questo può avere sulla continuità del servizio offerto fino a oggi ai cittadini dalla rete delle farmacie indipendenti, sull’autonomia professionale e le prospettive occupazionali dei farmacisti  e infine perché controproducente ai fini dello stesso concetto di concorrenza.

La Federazione ritiene che l’ingresso dei capitali nella gestione della farmacia avrebbe dovuto, in via subordinata, avvenire sulla base di quanto previsto dal nostro ordinamento per le altre società di professionisti, ovvero con una quota minoritaria che lasci la gestione nel controllo della componente professionale, a tutela in primo luogo delle finalità socio-assistenziali connaturate all’esercizio della farmacia quale primo presidio sanitario sul territorio. L’assetto disegnato dall’attuale testo di legge non può che condurre alla subordinazione del sistema alla logica del profitto che, come dimostrano le esperienze estere, non coincide con principi cardine quali la capillarità della presenza e l’equo accesso al farmaco anche nelle aree svantaggiate geograficamente ed economicamente. L’emendamento 48.100, al di là delle controversie sulla sua interpretazione, nell’indicare un tetto del 20%, a livello regionale, al possesso delle farmacie da parte di ciascuna società di capitali apre alla possibilità di formazione di un oligopolio che renderebbe residuale il ruolo delle farmacie rette dai professionisti. Si tratta, quindi, di un tetto che è tale soltanto di nome, in quanto cinque sole società potrebbero detenere “a norma di legge” la totalità delle 20mila farmacie italiane oggi esistenti.

In questo quadro vengono messe a rischio l’indipendenza professionale del farmacista, e quindi il rispetto degli obblighi deontologici, e le prospettive occupazionali di tutta la categoria. Un farmacista che si trovi ad agire come una sorta di assistente alla vendita inserito in una logica di marketing viene meno ai valori della professione che vedono al primo posto la risposta al bisogno di salute del cittadino che non passa necessariamente attraverso la dispensazione di un medicinale o la vendita di un prodotto. Inoltre, stante l’attuale fragilità economica di una parte significativa delle farmacie, la formazione di grandi concentrazioni volte a massimizzare la remunerazione del capitale investito, non può che accentuare la tendenza al ridimensionamento in termini di personale e investimenti nella struttura cui si assiste ormai da tempo, come la Federazione ha puntualmente denunciato. E’ quindi fonte di sgomento e preoccupazione il fatto che in  questo scenario si assiste al perdurare dello squilibrio tra il numero dei farmacisti che Servizio sanitario e comparto del farmaco possono assorbire e i professionisti laureati ogni anno, che determina un saldo di oltre tremila unità destinate a costituire un esercito di disoccupati disposti ad accettare condizioni di lavoro al ribasso. Anche in questo caso non mancano esempi negli altri Paesi europei.

La concorrenza, dalla quale può e deve scaturire la corsa al miglioramento dell’offerta al cittadino e l’aumento dell’occupazione, viene tradita se si mettono in competizione modelli di attività differenti per finalità e possibilità economiche e se il solo riferimento è il prezzo del bene ceduto. A maggior ragione quando si tratta della tutela della salute, si può instaurare un circolo virtuoso soltanto avendo come obiettivo la messa in campo di servizi e prestazioni imperniati sulle capacità del professionista e sull’evidenza scientifica, mettendo al centro non il mercato ma la persona e i suoi bisogni soprattutto ora che la domanda  di salute è sempre più ampia e complessa. Per questo la Federazione degli Ordini ritiene necessario proseguire con rinnovato impegno la promozione del ruolo professionale del farmacista in materia di aderenza alle terapie e di monitoraggio sull’uso del farmaco al fine di sostenere l’efficientamento della terapia e il maggior governo della spesa.

 E’ questa anche la via per contrastare la disoccupazione, come abbiamo indicato fin dal documento federale sulla professione del 2006.

Di fronte alla gravità della situazione è indispensabile la convocazione di un tavolo tecnico-politico di tutte le componenti della professione, che elabori proposte concrete su tutti gli aspetti sui quali è ormai indispensabile un intervento, a cominciare dall’istituzione del numero chiuso nelle facoltà di farmacia, dal futuro dei colleghi che operano negli esercizi di vicinato, all’attuazione del modello della farmacia dei servizi.

 

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Epatite C, nelle sedi Cdi test salivare Hcv gratis

Medicina scienza e ricerca

 

Epatite C, nelle sedi Cdi test salivare Hcv gratis

 

Il 28 luglio, in occasione della Giornata mondiale contro l’epatite

di Redazione Aboutpharma Online 26 luglio 2016

 

Anche il Centro diagnostico italiano (Cdi) aderisce alla Giornata mondiale contro l’epatite, dando la possibilità di effettuare il test salivare Hcv per la diagnosi dell’epatite C nelle sedi di Milano, Legnano, Cernusco, Varese e Pavia. Sarà possibile effettuare il test a risposta rapida giovedì 28 luglio, dalle 10 alle 12.

Il test, che consiste in un semplice prelievo salivare, richiede un digiuno assoluto di almeno 30 minuti e offre risposta in soli venti minuti; in caso di positività, verrà effettuato un prelievo ematico per confermare la diagnosi. Per sottoporsi allo screening occorre prenotare al numero 02-48317444.

E non è tutto. Nelle giornate dell’1 e 2 agosto sarà attivo il servizio di consulenza telefonica gratuita per approfondire l’esito del test. Dalle 14.30 alle 15.30, al numero 02-48317684, un medico epatologo del Cdi sarà a disposizione dei partecipanti all’iniziativa per fornire maggiori informazioni su questa malattia.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss) nel nostro Paese si stima che i pazienti portatori cronici del virus dell’epatite C siano oltre un milione, di cui 330.000 con cirrosi. Le cause principali della diffusione del virus sono infezioni contratte per inadeguata sterilizzazione e per carenza d’igiene: piercing, tatuaggi, trattamenti estetici o un semplice intervento dal dentista in condizioni di rischio si trasformano in possibili occasioni di contagio.

 

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Zika, la lotta al virus diventa hi-tech: software e app per mappare l’evoluzione dell’epidemia

Aziende

 

Zika, la lotta al virus diventa hi-tech: software e app per mappare l’evoluzione dell’epidemia

 

Da Ibm un aiuto tecnologico per monitorare la diffusione del virus, anche attraverso social network e dati sui viaggiatori. Mentre un supercomputer virtuale in crowdsourcing consente uno screening su milioni di composti chimici per individuare sostanze candidate a sviluppare trattamenti

di Redazione Aboutpharma Online 28 luglio 2016

 

Mappare l’evoluzione del virus Zika, seguirne le tracce anche attraverso i dati dei social network e quelli ufficiali sui viaggiatori. Ma anche passare al setaccio, attraverso un’applicazione digitale, milioni di composti chimici per individuare le sostanze candidate a sviluppare i trattamenti per combattere il virus. È, in sintesi, il contributo che il colosso informatico Ibm sta offrendo nella lotta al virus Zika, mettendo a disposizione risorse, tecnologia e competenze per aiutare gli scienziati, i servizi sanitari nazionali e le agenzie umanitarie.

Ibm, ad esempio, fornisce la tecnologia e le competenze alla Oswaldo Cruz Foundation (Fiocruz) in Brasile, istituto di ricerca affiliato al ministero della Salute brasiliano, impegnato a mappare la diffusione di Zika utilizzando la tecnologia sviluppata da Ibm, gli indizi sui social media e i dati ufficiali sui viaggiatori.

I ricercatori dei laboratori di ricerca di Ibm a San Jose, in California e in Brasile insegneranno agli scienziati di Fiocruz ad utilizzare Stem (Spatiotemporal Epidemiological Modeler), un software che modella e visualizza la diffusione delle malattie infettive analizzando fattori come la geografia, la meteorologia, il trascorrere del tempo, i modelli di viaggio, le strade e gli aeroporti. La piattaforma è stata utilizzata per studiare e aiutare a prevedere la diffusione di malattie infettive come l’influenza ed Ebola, ma anche quelle trasmesse dalle zanzare come la malaria e la febbre dengue.

Si cercherà anche di comprendere le preoccupazioni dei cittadini, attraverso l’analisi dei tweet in lingua portoghese su Zika, Dengue e Chikungunya, ma anche la comparsa della zanzara Aedes aegypti, la specie principale responsabile di queste malattie. Fa parte dell’impegno contro Zika il progetto OpenZika attivo sull’Ibm World Community Grid, il supercomputer virtuale in crowdsourcing. Un’applicazione gratuita disponibile per il download fornisce automaticamente ai ricercatori la potenza di calcolo inutilizzata proveniente dai computer o dai dispositivi android dei volontari. Grazie a questa iniziativa filantropica, gli scienziati in Brasile e gli Stati Uniti hanno ora la possibilità di fare lo screening di milioni di composti chimici per individuare le sostanze candidate a sviluppare i trattamenti per combattere il virus. Non solo: Ibm Research e l’Istituto di Bioingegneria e Nanotecnologia di Singapore hanno recentemente annunciato di aver identificato una macromolecola che potrebbe aiutare a prevenire le infezioni virali come Zika.

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SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

Da AGI

·                                       SUCCHIARSI IL POLLICE RIDUCE RISCHIO ALLERGIE

Washington - I bambini che si succhiano il pollice o si mangiano le unghie hanno meno probabilita' di sviluppare sensibilita' allergiche. E quelli che hanno entrambe le "cattive abitudini" hanno ancora meno probabilita' di essere allergici a cose come ad acari della polvere, erba, gatti, cani, cavalli o funghi dispersi nell'aria. Queste sono le conclusioni di uno studio della Dunedin School of Medicine, in Nuova Zelanda, e della McMaster University, in Canada. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Pediatrics. I ricercatori hanno coinvolto nello studio oltre mille bambini in Nuova Zelanda con 5, 7, 9 e 11 anni d'eta'. I ricercatori hanno misurato la sensibilizzazione atopica dei soggetti tramite test cutanei sia a 13 che a 32 anni d'eta'. I ricercatori hanno trovato che i 31 per cento del campione si succhiava il pollice o mangiava le unghie di frequente. Tra tutti i bambini di 13 anni d'eta', il 45 per cento ha mostrato una sensibilizzazione atopica, ma tra quelli con una di queste abitudini, solo il 40 per cento ha avuto allergie. Questa tendenza si e' mantenuta anche in eta' adulta e non sono state rilevate differenze tra chi vive in casa con fumatori o con gatti e cani, ecc. "I nostri risultati sono coerenti con la teoria dell'igiene, secondo la quale l'esposizione precoce alla sporcizia o ai germi riduce il rischio di sviluppare allergia", hanno spiegato i ricercatori. "Anche se non e' consigliabile incoraggiare queste abitudini, ci sembra che esse abbiano un lato positivo", hanno concluso. (AGI) .

 

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Meningite: Lorenzin, Ministero vigila, vaccinare bambini

Meningite: Lorenzin, Ministero vigila, vaccinare bambini

'Nel piano nazionale si consiglia vivamente di farlo'

04 agosto, 16:39

"Il Ministero sta vigilano su tutti i contatti avuti dalla ragazza. A queste persone si fa una profilassi antibiotica di due giorni". Nel nuovo Piano Nazionale Vaccini "sono consigliati anche quelli per la meningite e questo l'unico modo che si ha per difendersi, quindi si consiglia vivamente di far vaccinare di bambini". Così Ministro della Salute Beatrice Lorenzin a margine dell'incontro oggi in Conferenza delle Regioni commenta il caso di meningite che ha provocato la morte di una ragazza romana che aveva partecipato alla Giornata Mondiale della Gioventù. Il tema della meningite, "come dico da anni, è un tema molto serio", ha sottolineato. 

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Dieta mediterranea potente arma anti tumore

Dieta mediterranea potente arma anti tumore

Meno rischio cancro anche per quelli della testa e del collo

10 agosto, 11:14
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La dieta mediterranea protegge dai tumori della testa e del collo, tra i più frequenti.

Più si è fedeli ai precetti della nostra tradizione gastronomica, più si riduce il rischio di questo cancro.

Sono i risultati di una ricerca pubblicata sull'European Journal of Cancer Prevention, svolta presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e condotta da Stefania Boccia e Gabriella Cadoni del Policlinico A. Gemelli.

I tumori della testa e del collo sono localizzati principalmente a livello della laringe, della faringe e della bocca. Nel 2015 sono stati diagnosticati in Italia circa 9.200 nuovi casi. Considerando l'intera popolazione maschile, quelli della testa e del collo sono i tumori più frequenti dopo il cancro della prostata (35.200), del polmone (29.400), del colon retto (29.100) e della vescica (21.100). Il rapporto fra maschi e femmine per questo tumore è 4 a 1. Il fumo e il consumo di alcolici sono i principali fattori di rischio. La dieta mediterranea è un modello alimentare che prevede il consumo quotidiano di cereali, frutta, ortaggi e verdura, legumi, latte e yogurt, olio di oliva; il consumo frequente di uova e alimenti quelli di origine animale (pesce e carni bianche); il consumo moderato di dolci e carne rossa. Prevede, infine, il consumo di moderate quantità di vino durante i pasti.

I ricercatori hanno analizzato le abitudini alimentari di circa 500 casi di tumore della testa e del collo e di oltre 400 soggetti senza patologie tumorali (gruppo di controllo). E' emerso che seguire la tradizionale dieta mediterranea riduce il rischio di tumori della testa e del collo: in particolare si è visto che gli individui più fedeli alla dieta mediterranea avevano un rischio di questi tumori del 50% minore rispetto agli individui meno fedeli allo stile alimentare nostrano. 

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Una nuova legge per la donazione e distribuzione dei farmaci

Sanità e Politica

 

Una nuova legge per la donazione e distribuzione dei farmaci

 

Entrerà in vigore il 14 settembre la legge numero 166 del 19 agosto 2016 – Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi – pubblicata il 30 agosto sulla Gazzetta Ufficiale

di Redazione Aboutpharma Online 5 settembre 2016

 

Entrerà in vigore il 14 settembre il provvedimento “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”. La legge numero 166 del 19 agosto 2016 – pubblicata il 30 agosto sulla Gazzetta Ufficiale – contiene in particolare una serie di modifiche al decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, anch’esso emanato in materia di raccolta di medicinali non utilizzati o scaduti e donazione di medicinali.

La norma in particolare sancisce che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della disposizione “dovranno essere individuate le modalità che rendono possibile la donazione di medicinali non utilizzati a organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus); e l’utilizzazione dei medesimi medicinali da parte di queste, in confezioni integre, correttamente conservati e ancora nel periodo di validità, in modo tale da garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia originarie”. Esclusi tutti i medicinali che devono essere conservati in frigorifero a temperature controllate, quelli che contengono sostanze stupefacenti o psicotrope e quelli che sono dispensabili solamente all’interno di strutture ospedaliere.

“Con il medesimo decreto – dispone la legge 166/2016 – sono definiti anche i requisiti dei locali e delle attrezzature idonei a garantirne la corretta conservazione e le procedure necessarie per garantire la tracciabilità dei lotti dei medicinali ricevuti e distribuiti. È inoltre consentita alle Onlus, la distribuzione gratuita di medicinali non utilizzati direttamente ai soggetti indigenti o bisognosi, dietro presentazione di prescrizione medica, ove necessaria, a condizione che dispongano di personale sanitario ai sensi di quanto disposto dalla normativa vigente. Gli enti che svolgono attività assistenziale sono equiparati, nei limiti del servizio prestato, al consumatore finale rispetto alla detenzione e alla conservazione dei medicinali. È vietata qualsiasi cessione a titolo oneroso dei medicinali oggetto di donazione”.

 

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Da Agenzia Usa stop a vendita saponi antibatterici

Da Agenzia Usa stop a vendita saponi antibatterici

Per quelli con triclosano e altre 18 sostanze,no prove sicurezza

05 settembre, 20:27

Stop dalla Food and Drug Administration (Fda) alla vendita negli Stati Uniti di saponi antibatterici per il lavaggio di mani e corpo, contenenti triclosano e altre 18 sostanze. Pubblicizzati come strumento per prevenire malattie e il diffondersi di infezioni, più efficace del semplice lavarsi le mani con acqua e sapone, in realtà, dice l'Agenzia Usa che regola i farmaci, per queste sostanze non è statq dimostrata la sicurezza a lungo termine di un uso giornaliero, né che sono più efficaci di acqua e normale sapone.

La decisione è contenuta in un documento appena pubblicato, spiega l'Fda sul suo sito, e alcune aziende hanno già eliminato queste sostanze dai loro prodotti. Si tratta di 19 componenti attivi, di cui i più comuni sono triclosano e triclocarban. La decisione non riguarda però i disinfettanti per le mani, salviette, o i prodotti antibatterici usati nelle strutture sanitarie. ''I consumatori possono essere indotti a pensare che i lavaggi con saponi antibatterici siano più efficaci nel prevenire la diffusione di germi, ma non ci sono prove scientifiche che siano migliori del semplice acqua e sapone.

Anzi, "alcuni dati suggeriscono che le sostanze antibatteriche possano fare più male che bene nel lungo periodo", commenta Janet Woodcock, dell'Fda. La decisione dell'agenzia federale americana è arrivata dopo che nel 2013, sulla scorta di alcuni dati che indicavano possibili rischi per la salute, come resistenza batterica ed effetti sugli ormoni con l'uso dei saponi antibatterici, aveva chiesto alle aziende produttrici di presentare nuovi dati sulla loro sicurezza ed efficacia. Dati che però non sono arrivati o sono stati insufficienti. Lavarsi le mani con l'acqua corrente e il normale sapone, conclude l'Fda, sono uno dei metodi migliori per evitare di ammalarsi ed evitare il diffondersi di batteri.

 

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Zika, negli Usa test molecolari su sangue donato. Iss: in Italia misure di prevenzione già sufficienti

Zika, negli Usa test molecolari su sangue donato. Iss: in Italia misure di prevenzione già sufficienti

Il Centro nazionale sangue spiega in un comunicato le ragioni che hanno spinto l’Fda a rafforzare la prevenzione e chiarisce la situazione italiana, dove per l’assenza di casi autoctoni il livello di allarme rimane più basso


Queste ultime sono basate sul rafforzamento della sorveglianza anamnestica del donatore (con particolare riferimento ai viaggi) e sull’applicazione del criterio di sospensione temporanea per i donatori che abbiano soggiornato nelle aree dove si sono registrati casi autoctoni di infezione o che riferiscano un rapporto con partner sessuale a rischio di infezione da Zika virus oppure con infezione probabile o confermata”.

Negli Stati Uniti, contro la minaccia del virus Zika, la Food and Drug Administration (Fda) chiede il rafforzamento delle misure per prevenire la trasmissione attraverso le donazioni di sangue, raccomandando l’esecuzione del del test molecolare (Nucleic Acid Testing – NAT). Una precauzione che in Italia – secondo il Centro nazionale sangue (Cns) che fa capo all’Istituto superiore di sanità (Iss) – non è necessaria in quanto il nostro Paese è “da considerarsi area non endemica” poiché non sono stati registrati casi autoctoni d’infezione.

“Sulla base della situazione epidemiologica attuale ed in linea con quanto raccomandato dall’European centre for disease prevention and control (Ecdc) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns – confermiamo la validità delle misure di prevenzione della trasmissione trasfusionale dell’infezione da Zika virus già introdotte in Italia. Queste ultime sono basate sul rafforzamento della sorveglianza anamnestica del donatore (con particolare riferimento ai viaggi) e sull’applicazione del criterio di sospensione temporanea per i donatori che abbiano soggiornato nelle aree dove si sono registrati casi autoctoni di infezione o che riferiscano un rapporto con partner sessuale a rischio di infezione da Zika virus oppure con infezione probabile o confermata”.

Diversa la situazione negli Stati Uniti, dove a causa del crescente numero di casi di infezione acquisiti localmente in alcune aree (Florida, Puerto Rico, American Samoa, U.S. Virgin Islands), è aumentato il livello del rischio di trasmissione di questo virus. “Per questo motivo, l’Fda ha raccomandato l’esecuzione sulle donazioni di sangue ed emocomponenti ad uso trasfusionale autorizzando le banche del sangue americane ad utilizzare test non ancora completamente validati per la qualificazione biologica del sangue donato”, spiega una nota diffusa da Iss e Cns.

 

 

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Un italiano su cinque è scettico sulla sicurezza dei vaccini

Sanità e Politica

Un italiano su cinque è scettico sulla sicurezza dei vaccini

A dirlo è una ricerca pubblicata sulla rivista EBioMedicine, condotta su un campione di quasi 66mila persone in 67 Paesi. A livello globale, il 12% della popolazione li giudica poco sicuri. Francesi in testa con il 41%

di Redazione Aboutpharma Online 9 settembre 2016 

 

In Italia circa il 20% della popolazione non crede alla sicurezza dei vaccini. Quasi il doppio della media globale (12%) e la metà rispetto alla Francia, che con il 41% è il Paese con il più alto tasso di scetticismo al mondo. È la fotografia che emerge da una ricerca condotta da esperti del Vaccine Confidence Project presso la London School of Hygiene & Tropical Medicine, in collaborazione con l’Imperial College di Londra e la National University of Singapore. I risultati – che riguardano non solo la sicurezza, ma anche l’importanza, l’efficacia e la compatibilità con le diverse fedi religiose – sono stati pubblicati nei giorni scorsi sulla rivista EBioMedicine.

Nel nostro Paese, di fronte all’affermazione “i vaccini sono sicuri”, il 5,7% dei rispondenti si è detto “fortemente in disaccordo”, mentre il 14,9% “tendenzialmente in disaccordo”. In totale gli scettici sono poco più del 20%, mentre il 72% è convinto del contrario e circa il 7% risponde “non so”.

Dall’analisi emerge un primato negativo per l’Europa: si trovano nel Vecchio Contenente ben sette dei dieci Paesi con il tasso più alto di scetticismo sulla sicurezza delle vaccinazioni, tra cui Bosnia Erzegovina (36%), Russia (28%), Grecia e Ucraina (25%). Una “posizione sconsiderata” che alimenta i non pochi casi di focolai di malattie prevenibili col vaccino come il morbillo, sottolineano gli autori dell’indagine. Nella top ten anche Mongolia (27%) e Giappone (25%).

 

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Quasi 23mila medici 'a lezione' per parlare con pazienti

Quasi 23mila medici 'a lezione' per parlare con pazienti

Da Fnomceo un corso a distanza per migliorare relazione di cura

16 settembre, 12:56

 

Sempre più medici a lezione per imparare a parlare meglio con i pazienti. "Sono quasi 23mila, in un solo anno, quelli che hanno aderito al corso di formazione continua a distanza che abbiamo organizzato per far apprendere al meglio le tecniche comunicative col paziente e la sua famiglia". A spiegarlo all'ANSA è Roberta Chersevani, presidente della Federazione dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Fnomceo.

Dialogo, empatia, scambio, relazione. Sono le chiavi di volta per migliorare la comunicazione tra medico e paziente, esigenza sempre più sentita dagli uni come dagli altri. A sancire che "il tempo di comunicazione è tempo di cura" è lo stesso codice deontologico medico. Non sempre però ci si riesce, a volte per mancanza di tempo, altre per mancanza di sensibilità, altre ancora per mancanza di tecniche. Quando invece avviene, le ricadute positive sono molte. "Una buona relazione aiuta a sviluppare un rapporto di fiducia tra medico e paziente - spiega Chersevani - e se il paziente si fida del medico è anche più predisposto a seguirne le indicazioni terapeutiche e meno incline a una relazione conflittuale, che può sfociare in un aumento anche delle denunce. In ultimo, una buona comunicazione riduce l'impatto della medicina difensiva che ha un costo altissimo per la sanità pubblica". Nello, specifico a giugno 2015 a giugno 2016, ben 22.700 medici hanno fatto il primo modulo del corso a distanza organizzato insieme al Ministero della Salute. 

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Fondazione Gimbe: “Basta tagli, è arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani”

Sanità e Politica

Fondazione Gimbe: “Basta tagli, è arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani”

Il presidente Cartabellotta: “Di fronte al Pil che cresce meno del previsto e a un sistema sanitario ormai allo stremo, ostinarsi a utilizzare la sanità come un bancomat al portatore è da parte del Governo una scelta autodistruttiva"

di Redazione Aboutpharma Online 19 settembre 2016

 

È arrivato il momento di investire sulla salute degli Italiani. A lanciare il monito al Premier Matteo Renzi e al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan è la Fondazione Gimbe, il cui presidente, Nino Cartabellotta, afferma: “Di fronte al Pil che cresce meno del previsto e a un sistema sanitario ormai allo stremo, ostinarsi a utilizzare la sanità come un bancomat al portatore è da parte del Governo una scelta autodistruttiva. Perché piuttosto non giocare la carta della tutela della salute, offrendo a 60 milioni di cittadini un segnale concreto di voler finalmente rimettere al centro dell’agenda politica il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e l’intero sistema di welfare? Perché anzi non investire più dei 2 miliardi di euro previsti, parametrando l’incremento del finanziamento pubblico con la capacità delle Regioni di recuperare risorse da sprechi e inefficienze?”.

Ancora una volta, alla vigilia della Legge di Stabilità, le stime sul finanziamento del Ssn vengono progressivamente riviste al ribasso dalle irrealistiche previsioni del Def 2016, l’incremento è sceso ai 2 miliardi di euro richiesti dalle Regioni e promessi dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sino a una ulteriore riduzione ipotizzata alla luce delle ultime stime sul Pil rese pubbliche dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – si legge in una nota Gimbe – Il Premier Renzi ha immediatamente smentito l’ipotesi di nuovi tagli, senza tuttavia fornire alcuna certezza sull’entità delle risorse che il Governo metterà sul piatto nella Legge di Stabilità, mentre la Lorenzin ribadisce la certezza dei 113 miliardi di euro per il 2017.

“In questo contesto di progressivo definanziamento della sanità pubblica – continua Cartabellotta – accanto al crescente disagio di cittadini, pazienti, professionisti e operatori sanitari si sono consolidate inequivocabili evidenze sulle diseguaglianze regionali, sulla scarsa qualità dell’assistenza, sulle difficoltà di accesso alle prestazioni, sulla rinuncia dei cittadini alle cure e, per la prima volta in Italia, si è ridotta l’aspettativa di vita”.

Tagli e mancati aumenti hanno fatto rotolare l’Italia sempre più giù nel confronto con gli altri Paesi: la percentuale del Pil destinata alla sanità è inferiore alla media dei paesi Ocse; la spesa sanitaria pubblica è inferiore a quella di Finlandia, Regno Unito, Francia, Belgio, Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Olanda; tra i Paesi del G7 siamo ultimi per spesa pubblica e spesa totale, ma secondi solo agli Usa per spesa out-of-pocket. “Questi dati – continua il presidente Gimbe – testimoniano che negli anni, per legittime esigenze di finanza pubblica, i Governi hanno progressivamente ridotto il finanziamento del Ssn e scaricato la spesa privata sui cittadini, ignorando le raccomandazioni dell’Ocse che richiamava il nostro Paese a garantire che gli sforzi in atto per contenere la spesa sanitaria non intaccassero la qualità dell’assistenza”.

 

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Vicino l'addio a ricette rosse, in Italia l'80% è digitale

Vicino l'addio a ricette rosse, in Italia l'80% è digitale

Almeno 250mln risparmi annui per il Ssn e vantaggi per cittadini

25 settembre, 16:35

 

Chi prima chi dopo, chi più velocemente e chi a stento, tutte le Regioni hanno ormai introdotto la ricetta elettronica, portando in Italia la quota delle prescrizioni digitali all'80%. Tanto che l'addio alle ricette rosse potrebbe diventare realtà entro fine 2016, sostituite da un semplice promemoria cartaceo accompagnato da un codice digitale. Un risultato che porterà milioni di risparmi alla sanità pubblica, anche se difficili da calcolare. "Se si considera che in un anno di impegnative per farmaci se ne fanno circa 600 milioni e che ognuna costa 40 centesimi solo per la stampa e la carta fornita dal Poligrafico di Stato (con filigrana antifalsificazione), il risparmio per il solo 2017 potrebbe essere di almeno 250 milioni. A cui aggiungere i risparmi nel trasporto per portare i ricettari da Roma verso il resto d'Italia e quelli che derivano dal controllo informatizzato delle ricette al posto di quello manuale", chiarisce all'ANSA Daniele D'angelo, direttore di Promofarma, società di informatica di Federfarma.

"Questo traguardo costituisce un grande risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale, ma anche per gli italiani - sottolinea la presidente di Federfarma Annarosa Racca - perché la ricetta digitale vale su tutto il territorio del Paese.

Quindi i cittadini possono andare con l'impegnativa del proprio medico in qualsiasi farmacia italiana e avere il farmaco dispensato, pagando il ticket della propria regione di appartenenza. Spesso la gente ancora non lo sa".

In base agli ultimi dati di Promofarma, relativi a luglio, la media italiana di ricette digitali rispetto al totale di quelle emesse è del 77%. Le regioni però non procedono affatto di pari passo, ma con qualche sorpresa rispetto al solito. In cima alla classifica delle virtuose, infatti, troviamo la Campania e il Veneto con l'89,5% delle ricette dematerializzate, seguite da Molise (88,4%) e Sicilia (87,8%). In coda la Calabria (26,7%) e la provincia autonoma di Bolzano (2,6%) partite per ultime, rispettivamente a luglio e giugno, ma che negli ultimi due mesi hanno già fatto molti progressi. "Visto che i dati sono relativi a luglio, pensiamo sia realistico arrivare al 90% di ricette elettroniche in tutta Italia entro fine anno", commenta D'Angelo. Questo infatti era l'obiettivo previsto dall'Agenda Digitale, "perché anche quando il sistema sarà completamente a regime resterà sempre una quota pari a circa il 10% di farmaci per i quali continuerà ad essere utilizzata la ricetta rossa, come per i farmaci in distribuzione per conto e quelli contenenti sostanze psicotrope''.

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Pronto soccorso al collasso, in attesa anche oltre 48 ore

Pronto soccorso al collasso, in attesa anche oltre 48 ore

Tdm-Simeu, solo in 13% strutture spazi per malati terminali

06 ottobre, 14:55

 

ROMA - Sovraffollamento, tempi di attesa per il ricovero in reparto che possono superare le 48 ore, adeguata attenzione alla terapia del dolore solo in sei strutture su 10 ma in modo differente a seconda delle realtà regionali, spazi dedicati al malato in fase terminale solo nel 13% delle strutture. E' questa la fotografia sullo stato di salute dei Pronto soccorso italiani scattata dal monitoraggio presentato oggi dal Tribunale per i Diritti del Malato di Cittadinanzattiva e la Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu).

Secondo il monitoraggio, oltre due giorni di attesa per il ricovero in reparto si registrano nel 38% dei Dipartimenti di emergenza urgenza (Dea) II livello e nel 20% nei Pronto Soccorso (l'attesa è fino a 48 ore nel 40% dei Pronto soccorso). L'attesa massima è stata invece di 7 giorni (168 ore) nei reparti Osservazione breve intensiva, nuove strutture previste dal Regolamento sugli Standard qualitativi sull'assistenza ospedaliera.

E ancora: il 30% dei pazienti in pronto soccorso non ha visto preservarsi privacy e riservatezza, e la procedura di rivalutazione del dolore in tutto il percorso del paziente al pronto soccorso viene svolta da poco più del 60% delle strutture monitorate. Altro problema resta la disomogeneità della 'salute' dei Pronto soccorso a seconda delle regioni: la situazione, rileva il monitoraggio, appare infatti ''ancora oggi molto diversa fra strutture del Nord del Centro e del sud, soprattutto come conseguenza di un'organizzazione dei servizi di emergenza non ancora standardizzata sul territorio nazionale''.

Il monitoraggio fotografa 93 strutture di emergenza urgenza; dà voce a 2944 tra pazienti e familiari di pazienti intervistati; misura accessi, ricoveri e tempi di attesa di 88 strutture di emergenza urgenza. La rilevazione è stata svolta tra il 16 maggio ed il 30 novembre 2015 attraverso un questionario rivolto a familiari e pazienti. Tdm e Simeu hanno anche promosso una Carta dei Diritti al Pronto Soccorso, che definisce in otto punti i diritti irrinunciabili di tutti i cittadini, pazienti e operatori sanitari.

 

Pronto soccorso, oltre 1 italiano su 2 soddisfatto assistenza

ROMA - Oltre su due si dice soddisfatto dell'assistenza ricevuta in pronto soccorso e questo nonostante i problemi e le criticità che caratterizzano la maggioranza delle strutture di emergenza degli ospedali italiani. Il dato emerge dal monitoraggio sullo stato di salute dei pronto soccorso italiani presentato oggi da Cittadinanza Attiva insieme alla Società Italiana di Medicina-Urgenza. 

Se da un lato gli italiani intervistati denunciano varie criticità, dalle lunghe attese all'assenza del rispetto della privacy, tuttavia in oltre un caso su due si dicono ad ogni modo soddisfatti dell'assistenza ricevuta e del fatto che il pronto soccorso sia comunque una struttura sempre presente in grado di dare una risposta. Tanto che, un cittadino su tre ha affermato di essersi rivolto al pronto soccorso poiché si fida solo dell'ospedale. 

Per i cittadini, ha rilevato il coordinatore nazionale di Cittadinanzattiva, Tonino Aceti, "il pronto soccorso resta un presidio fondamentale del Servizio Sanitario Nazionale, in cui si ha una grande fiducia. Tuttavia molte e gravi sono le criticità emerse dal monitoraggio, a partire dalla scarsa trasparenza della gestione dei posti letto: addirittura, il 53% dei pronto soccorso non conosce in tempo reale i posti letto disponibili nella struttura e solo il 13% dei pronto soccorso italiani ha una funzione di 'bad management' per gestire in modo ottimale i posti letto ed evitare così attese estenuanti e sovraffollamento". 

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In una vita 3 miliardi di battiti del cuore

In una vita 3 miliardi di battiti del cuore

Il primo ad appena 16 giorni dal concepimento

12 ottobre, 16:38

 

Il primo dei tre miliardi di battiti del cuore di una vita umana media inizia presto, a 16 giorni dal concepimento. Prima di quanto si pensasse in precedenza, perché il limite era fissato a 21 giorni. E' quanto emerge da una ricerca guidata dall'Università di Oxford, nel Regno Unito, pubblicata sulla rivista eLife. Gli studiosi hanno lavorato sullo sviluppo del cuore di un topolino, scoprendo che il muscolo ha iniziato a contrarsi in una fase iniziale di sviluppo, che si forma 7 giorni e mezzo dopo il concepimento, che equivalgono a 16 giorni nell'embrione umano. Prima invece si credeva che il cuore iniziasse a battere quando il muscolo appariva come un tubo lineare, a otto giorni dal concepimento nei topolini, che nell'embrione umano equivalgono a 21. Con l'aggiunta di marcatori fluorescenti alle molecole di calcio all'interno dell'embrione animale, il team è stato in grado di osservare esattamente in quale momento il calcio da' l'impulso alle cellule del muscolo cardiaco per contrarsi e quindi diventare abbastanza coordinate per produrre un battito cardiaco.

I ricercatori hanno anche scoperto che questo inizio del battito cardiaco è essenziale perché il cuore si sviluppi correttamente e che una proteina chiamata NCX1 svolge un ruolo chiave nella generazione dei 'segnali' di calcio necessari per produrre il battito cardiaco. La speranza degli studiosi è che comprendere sempre meglio i meccanismi alla base della formazione del cuore e del battito cardiaco possa aiutare a prevenire condizioni che si presentano quando il feto si sviluppa, come le malattie congenite, che nel solo Regno Unito vengono diagnosticate in media a 4000 bimbi ogni anno.

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Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

Medicina scienza e ricerca

 

Tumore alla prostata, in arrivo un nuovo test per la diagnosi precoce

 

Affiancato al Psa (antigene prostatico specifico), potrebbe portare a una diagnosi più precisa del tumore arrivando a evitare quasi il 60% delle biopsie

di Redazione Aboutpharma Online 17 ottobre 2016

Un nuovo test da affiancare al Psa (antigene prostatico specifico), per diagnosticare con più precisione il tumore alla prostata ed evitare biopsie ed esami invasivi inutili. È l’ultima novità nel campo dell’urologia, presentata al congresso della Società italiana di urologia (Siu), in corso a Venezia. Il 4K Score – questo il nome – è un test del sangue attraverso cui vengono dosate quattro callicreine, molecole della famiglia del Psa e che secondo un recente studio potrebbe evitare fino al 60% delle biopsie attualmente realizzate in seguito all’esame del Psa.  “Il nuovo test può aumentare la capacità diagnostiche dell’attuale test del Psa – spiega Vincenzo Mirone, segretario generale Siu – vengono misurati i livelli del Psa totale, il Psa libero, il Psa intatto e la callicreina 2, e i dati raccolti, associati ai risultati della visita digito-rettale e alla valutazione della familiarità per tumore alla prostata, consentono di individuare la percentuale di rischio di avere un carcinoma aggressivo prima di eseguire una biopsia. Uno studio condotto su oltre 740 uomini nell’ambito della più ampia indagine europea sul carcinoma prostatico, sottoposti a biopsia ma non a test del Psa, ha dimostrato che il 60% delle biopsie si sarebbe potuto evitare sottoponendosi al 4K Score”.

Il test per il momento non è stato ancora validato per l’uso su vasta scala e viene eseguiti solo in alcuni laboratori all’estero, di cui due in Europa. Il più vicino all’Italia è in Spagna e inviare il campione e ricevere il risultato in 4-5 giorni costa 300 euro. “L’ulteriore precisione fornita dall’esame potrebbe aiutare a superare i limiti dell’analisi del solo Psa totale – precisa Mirone – e individuare con maggior chiarezza se il tumore c’è, e soprattutto se sia o meno aggressivo”. Molti tumori infatti sono “indolenti” e non serve intervenire; mentre quelli più pericolosi possono essere riconosciuti grazie alla biopsia, che però è un esame invasivo. Il 4K Score permette di avere maggiori elementi sul tipo di tumore in esame, individuando i pazienti in cui la probabilità di una forma aggressiva è più alta. In questo senso il test permette una selezione più ristretta dei pazienti da sottoporre a biopsia, riuscendo a evitarla in molti casi con un risparmio di sofferenze e di risorse economiche.

I candidati ideali per il 4K Score sono i pazienti che non hanno mai fatto una biopsia e hanno una visita digito-rettale non sospetta ma un Psa costantemente elevato di cui non si riesce a spiegare l’origine, oppure chi ha una biopsia negativa associata a un Psa elevato e una visita digito-rettale dubbia, per capire se sia opportuno sottoporsi di nuovo al test invasivo.

In attesa che il futuro prenda piede, gli urologi sottolineano l’importanza del “vecchio” test del Psa evidenziando che non è solo un marcatore utile per individuare il tumore alla prostata, ma anche un indicatore dell’ipertrofia prostatica benigna. “Chi è contrario all’uso del Psa – conclude Mirone –  sottolinea come un uomo su 5 abbia questo valore al di sopra del range di normalità. Certamente il test da solo non può bastare e va saputo interpretare in modo corretto, altrimenti il rischio è trovare neoplasie indolenti che non daranno mai problemi clinici e aggredirle con interventi che potrebbero essere evitati. Tuttavia c’è sostanziale accordo sul fatto che un buon programma di prevenzione preveda una valutazione del Psa di base, seguita da test ripetuti con una periodicità decisa sulla base delle caratteristiche del singolo soggetto. Il primo test è consigliabile attorno ai 40 anni per chi ha avuto un padre o un fratello con tumore, mentre si può ritardare a circa 50 anni se non c’è familiarità per il carcinoma prostatico”.

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Visite, farmaci, ospedali e Asl: disagi per 4 pazienti su 10

Visite, farmaci, ospedali e Asl: disagi per 4 pazienti su 10

Tre su 4 vorrebbero trovare in farmacia medicinali e presidi

 

22 ottobre, 18:49

 

ROMA - Liste d'attesa troppo lunghe per i controlli dopo un ricovero, un'odissea avere in tempi brevi i medicinali per la terapia: per 4 pazienti italiani su dieci avere rapporti con un ospedale o una Asl territoriale per gestire la propria malattia è fonte di disagi e difficoltà. Così il 67% dei cittadini e ben il 75% (3 su 4) di coloro che hanno ha già un problema di salute accoglierebbe con sollievo il passaggio alla farmacia del territorio di molti dei servizi gestiti da Asl e ospedali, prima fra tutte la distribuzione dei medicinali erogati finora solo in ospedale.

Lo dimostra un'indagine condotta da Datanalysis su 2.000 cittadini e 500 persone con patologie croniche come diabete di tipo 2, artrite reumatoide, broncopneumopatia cronica ostruttiva, presentata a un convegno organizzato da Federfarma Servizi e Federfarma.Co. a Napoli.

Un italiano su quattro vorrebbe trovare in farmacia anche altri servizi, come una gestione integrata con ospedale e medico di famiglia, l'assistenza ad anziani, disabili e pazienti con malattie croniche, l'accesso a servizi infermieristici e fisioterapici, la possibilità di prenotare visite ed esami. La farmacia si conferma perciò un punto di riferimento essenziale, tanto che uno su tre vorrebbe un canale di comunicazione più facile e diretto, magari attraverso i social media o whatsapp.

"I distributori di farmaci e le cooperative di farmacisti sono pronti a rispondere alle esigenze e si propongono di distribuire alle farmacie territoriali anche quei farmaci e quei presidi attualmente distribuiti soltanto dalle Asl-spiega Giancarlo Esperti, direttore generale di Federfarma Servizi- grazie al nostro sistema distributivo capillare possiamo già oggi assicurare la consegna su tutto il territorio". 

 

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In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Medicina scienza e ricerca

 

In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Una combinazione di contraccettivi ormonali da somministrare tramite iniezione è stata testata in un trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, su 320 uomini sani, con buoni risultati. Unico problema il tasso di eventi avversi: depressione e altri disturbi dell'umore

di Redazione Aboutpharma Online 28 ottobre 2016

 

Pari condizioni anche per la contraccezione. Presto infatti potrebbe essere disponibile un anticoncezionale maschile in grado di prevenire gravidanze indesiderate. Si tratta di una combinazione di contraccettivi ormonali – ancora da perfezionare – da somministrare tramite iniezione. Per ora il farmaco è stato testato in un trial clinico di fase Il coordinato da esperti di numerose università sotto la supervisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

“Lo studio – spiega Mario Philip Reyes Festin, dell’Oms – ha rilevato che è possibile somministrare un contraccettivo ormonale agli uomini per ridurre il rischio di gravidanze non pianificate nelle partner. I nostri risultati hanno confermato l’efficacia di questo metodo, già precedentemente osservata in piccoli studi”.

Il trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, ha testato la sicurezza e l’efficacia dei contraccettivi iniettabili in 320 uomini sani, fra i 18 e 45 anni d’età, tutti impegnati da almeno un anno in relazioni monogame con partner di sesso femminile dai 18 ai 38 anni. Gli uomini sono stati sottoposti a test per assicurarsi che avessero un normale numero di spermatozoi all’inizio dello studio. Ciascun volontario ha ricevuto iniezioni di 200 milligrammi di un progestinico a lunga durata d’azione chiamato noretisterone enantato e 1.000 milligrammi di un androgeno chiamato testosterone undecanoato, per 26 settimane. L’obiettivo era tentare di azzerare gli spermatozoi. Le iniezioni sono state somministrate a distanza di otto settimane, per 56 settimane in tutto. I risultati hanno confermato che gli ormoni sono efficaci nel ridurre il numero di spermatozoi a meno di 1 milione/ml entro 24 settimane in 274 dei partecipanti. Il metodo contraccettivo è stato efficace, dunque, in quasi il 96% dei volontari. Solo quattro gravidanze si sono verificate durante la fase di test di efficacia del metodo.

Gli esperti hanno però smesso di arruolare nuovi partecipanti allo studio a causa del tasso di eventi avversi, in particolare depressione e altri disturbi dell’umore. Nonostante gli effetti negativi, oltre il 75% ha riferito di essere disposto a usare questo metodo di contraccezione. “Anche se le iniezioni sono apparse efficaci nel ridurre il tasso di gravidanza, la combinazione di ormoni deve essere studiata di più per arrivare a un migliore equilibrio tra efficacia e sicurezza” ha concluso il gruppo di ricerca.

 

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In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

In arrivo l’iniezione anticoncezionale maschile: positivi i risultati del trial

Una combinazione di contraccettivi ormonali da somministrare tramite iniezione è stata testata in un trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, su 320 uomini sani, con buoni risultati. Unico problema il tasso di eventi avversi: depressione e altri disturbi dell'umore

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Pari condizioni anche per la contraccezione. Presto infatti potrebbe essere disponibile un anticoncezionale maschile in grado di prevenire gravidanze indesiderate. Si tratta di una combinazione di contraccettivi ormonali – ancora da perfezionare – da somministrare tramite iniezione. Per ora il farmaco è stato testato in un trial clinico di fase Il coordinato da esperti di numerose università sotto la supervisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

“Lo studio – spiega Mario Philip Reyes Festin, dell’Oms – ha rilevato che è possibile somministrare un contraccettivo ormonale agli uomini per ridurre il rischio di gravidanze non pianificate nelle partner. I nostri risultati hanno confermato l’efficacia di questo metodo, già precedentemente osservata in piccoli studi”.

Il trial prospettico di fase II a braccio singolo, multicentrico, ha testato la sicurezza e l’efficacia dei contraccettivi iniettabili in 320 uomini sani, fra i 18 e 45 anni d’età, tutti impegnati da almeno un anno in relazioni monogame con partner di sesso femminile dai 18 ai 38 anni. Gli uomini sono stati sottoposti a test per assicurarsi che avessero un normale numero di spermatozoi all’inizio dello studio. Ciascun volontario ha ricevuto iniezioni di 200 milligrammi di un progestinico a lunga durata d’azione chiamato noretisterone enantato e 1.000 milligrammi di un androgeno chiamato testosterone undecanoato, per 26 settimane. L’obiettivo era tentare di azzerare gli spermatozoi. Le iniezioni sono state somministrate a distanza di otto settimane, per 56 settimane in tutto. I risultati hanno confermato che gli ormoni sono efficaci nel ridurre il numero di spermatozoi a meno di 1 milione/ml entro 24 settimane in 274 dei partecipanti. Il metodo contraccettivo è stato efficace, dunque, in quasi il 96% dei volontari. Solo quattro gravidanze si sono verificate durante la fase di test di efficacia del metodo.

Gli esperti hanno però smesso di arruolare nuovi partecipanti allo studio a causa del tasso di eventi avversi, in particolare depressione e altri disturbi dell’umore. Nonostante gli effetti negativi, oltre il 75% ha riferito di essere disposto a usare questo metodo di contraccezione. “Anche se le iniezioni sono apparse efficaci nel ridurre il tasso di gravidanza, la combinazione di ormoni deve essere studiata di più per arrivare a un migliore equilibrio tra efficacia e sicurezza” ha concluso il gruppo di ricerca.

 

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Infezioni, in Italia un nuovo antibiotico contro i “super batteri”

 

 

Infezioni, in Italia un nuovo antibiotico contro i “super batteri”

Da Msd una nuova arma contro i gram-negativi resistenti ai farmaci: ceftozolano/tazebactam ha ottenuto la rimborsabilità per il trattamento di pielonefriti acute e infezioni complicate intra-addominali e delle vie urinarie

di Redazione Aboutpharma Online 10 novembre 2016

 

La guerra ai super batteri e il contrasto all’antibiotico-resistenza, che sempre più preoccupa governi e organizzazioni internazionali, può contare su un’arma in più­: arriva in Italia un nuovo antibiotico (ceftozolano/tazebactam) che aggredisce i batteri gram-negativi resistenti alle terapie già disponibili e responsabili dell’insorgenza di molte infezioni ospedaliere. È quanto ha annunciato oggi l’azienda Msd in una conferenza stampa, dopo che il farmaco (nome commerciale Zerbaxa) ha ottenuto nelle scorse settimane la rimborsabilità in classe H da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per il trattamento di infezioni intra-addominali complicate, pielonefrite acuta e infezioni complicate delle vie urinarie.

Il nuovo antibiotico, spiega l’azienda, è composto da ceftolozano, una nuova cefalosporina, e tazobactam, un inibitore delle beta-lattamasi dall’uso ben consolidato nella pratica clinica. Ceftolozano colpisce l’integrità della parete cellulare dei batteri Gram-negativi sensibili, eludendo inoltre i molteplici meccanismi di resistenza messi in atto dai patogeni, mentre tazobactam protegge ceftolozano, facendo sì che non venga inattivato da parte degli enzimi beta-lattamasi prodotti dai batteri Gram-negativi.

Oltre a garantire una risposta efficace a molte infezioni, il nuovo antibiotico – rappresentando una valida opzione per i clinici – può contribuire a preservare le terapie disponibili, razionalizzando l’uso dei farmaci carbapenemici, riducendo così il rischio di sviluppare resistenze. “E’ il primo di una serie di nuovi antibiotici – spiega Pierluigi Viale, ordinario di Malattie Infettive all’Università di Bologna – è in grado di rispondere ai criteri dell’antimicrobial stewardship: il suo spettro d’azione molto mirato, quasi chirurgico, permette di utilizzarlo nei confronti di specifici profili di resistenza massimizzando quindi l’efficacia della terapia, evitando cosi l’ulteriore selezione di specie resistenti”. Ridurre l’uso dei carbapenemici, aggiunge Carlo Tascini –  direttore della 1° Divisione di Malattie Infettive a indirizzo Neurologico dell’Ospedale Cotugno di Napoli – significa limitare l’azione “dei selettori più potenti di germi Gram-negativi multiresistenti nell’intestino dei pazienti fragili, ricoverati a lungo in ospedale”.

Da tempo i clinici segnalano l’importanza di nuove, potenti opzioni terapeutiche in grado di contrastare le infezioni causate dai batteri Gram-negativi, in rapido aumento in tutto il mondo. Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa rappresentano il 70% di tutti i patogeni Gram-negativi, causa più comune di infezioni di grande impatto clinico ed epidemiologico come le infezioni intra-addominali e le infezioni del tratto urinario. In Italia le infezioni correlate all’assistenza (ICA) colpiscono ogni anno circa 284.100 pazienti con circa 4.500-7.000 decessi.

Con il nuovo antibiotico Msd conferma l’impegno continuo nella lotta, cominciata 125 anni fa, alle malattie infettive: “La nostra ambizione è quella di essere riconosciuti come il partner di riferimento della sanità pubblica nella lotta all’antibiotico-resistenza, con la nostra offerta olistica di valore che parte dalla prevenzione attraverso i vaccini e arriva fino alla cura sia della salute umana che degli animali”, commenta Nicoletta Luppi, presidente e amministratore delegato dell’azienda.

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Aterosclerosi in pazienti con malattia coronarica: regressione significativa della placca con evolocumab

Aziende

 

Aterosclerosi in pazienti con malattia coronarica: regressione significativa della placca con evolocumab

 

A dirlo i risultati completi dello studio di Fase III GLAGOV sull’anticorpo monoclonale in aggiunta alla terapia statinica ottimizzata annunciati da Amgen all’ultimo congresso dell’American hearth association (Aha) e pubblicati su Jama

di Redazione Aboutpharma Online 28 novembre 2016

 

Evolocumab, in aggiunta alla terapia statinica ottimizzata, determina una regressione della placca aterosclerotica statisticamente significativa in pazienti con malattia coronarica. A dirlo sono i risultati completi dello studio di Fase III GLAGOV, che utilizza l’imaging dell’ultrasonografia intravascolare, presentati dall’azienda Amgen al congresso dell’American heart association (Aha) 2016 e contemporaneamente pubblicati sul Journal of the American Medical Association (Jama). Evolocumab – spiega l’azienda – è un anticorpo monoclonale completamente umano che inibisce la proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9), una proteina deputata alla degradazione dei recettori LDL che, quindi, riduce la capacità del fegato di eliminare il colesterolo LDL, il cosiddetto colesterolo “cattivo”, dal sangue. L’anticorpo monoclonale si lega alla proteina PCSK9 impedendole di legarsi a sua volta ai recettori delle LDL sulla membrana epatica. In assenza della PCSK9, sulla membrana epatica sono presenti più recettori delle LDL in grado di eliminare il colesterolo LDL dal sangue.

Lo studio GLAGOV ha valutato se il trattamento con evolocumab, indicato per il trattamento di particolari popolazioni di pazienti con livelli di colesterolo LDL elevati, sia in grado di modificare l’accumulo di placca aterosclerotica nelle coronarie di pazienti già in terapia statinica ottimizzata, utilizzando l’imaging dell’ultrasonografia intravascolare (IVUS), al basale e alla settimana 78.

Lo studio ha raggiunto il suo endpoint primario dimostrando che il trattamento con evolocumab ha determinato una regressione statisticamente significativa rispetto al basale del volume percentuale dell’ateroma (PAV), ovvero la percentuale del lume dell’arteria occupata dalla placca. Inoltre, l’aggiunta di evolocumab ha prodotto una regressione della placca in PAV in una percentuale di pazienti maggiore rispetto a quelli in trattamento con placebo.

“Lo studio GLAGOV rappresenta una pietra miliare per il trattamento dell’ipercolesterolemia, i cui risultati sono estremamente interessanti – commenta Furio Colivicchi, direttore Uoc  di Cardiologia, ACO San Filippo Neri (Roma) –  non solo è il primo studio nel quale sono stati raggiunti livelli di colesterolemia LDL così bassi (36mg/dL), ma è anche il primo studio nel quale si è dimostrata una regressione importante della placca aterosclerotica con un inibitore del PCSK9 rispetto alla terapia statinica ottimizzata. Sebbene conoscessimo l’efficacia terapeutica di questo farmaco in termini di riduzione dell’ipercolesterolemia, fino ad oggi non avevamo nessun dato sugli effetti vascolari”.

Lo studio GLAGOV ha confermato il profilo di sicurezza di evolocumab. L’incidenza degli eventi avversi emergenti correlati al trattamento è stata comparabile nei due gruppi (rispettivamente 67.9% evolocumab, 79.8% placebo).

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Esami di laboratorio, 3 su 10 inutili o addirittura dannosi

Esami di laboratorio, 3 su 10 inutili o addirittura dannosi

Biochimici clinici, rischio sovradiagnosi e 'sindrome Ulisse' per pazienti

Redazione ANSA ROMA 

30 novembre 201615:03

 

Spesso inutili se non, addirittura, dannosi. Ben tre esami di laboratorio su 10 sono infatti inappropriati, generando anche un notevole spreco in termini di risorse economiche. A mettere in guardia dall'eccesso di test è il presidente della Società di medicina di laboratorio (Società italiana di biochimica clinica e biologia molecolare Sibioc), Marcello Ciaccio, sottolineando come il rischio sia quello di falsi positivi, come per la funzionalità della tiroide, di sovradiagnosi e di un moltiplicarsi confuso di esami.
    "Se si continua così - avverte Ciaccio in occasione del convegno nazionale Sibioc al ministero della Salute - il Servizio sanitario nazionale non potrà più essere garantito".
    Gli esami di laboratorio sono fondamentali perché influenzano fino al 70% delle diagnosi mediche e dei successivi trattamenti, ma ne va definito il ruolo in rapporto diretto col clinico, affermano gli esperti della Sibioc. Prendiamo i test di funzionalità tiroidea: "L'opinione diffusa - rileva Renato Tozzoli del Presidio Ospedaliero S. Maria degli Angeli, Pordenone - è che più esami si fanno, meglio è. E' vero invece il contrario: più profili di test vengono effettuati maggiore è la possibilità di risultati discordanti, il che complica la diagnosi per il medico e si concretizza la cosiddetta 'sindrome di Ulisse' del malato che, come fece Ulisse per il Mediterraneo - conclude - è costretto ad un viaggio continuo per fare altri test, non perché sia veramente malato, ma perché sono stati prescritti test non adeguati". 

In altre aree, invece, i test genetici diventano prioritari. È il caso della celiachia (oggi il laboratorio è in grado di effettuare diagnosi senza biopsia intestinale, con grande vantaggio per il malato) e della malattia renale cronica, che colpisce in Italia circa 2,2 mln di persone. La medicina di laboratorio svolge, in quest'ultimo caso, un ruolo centrale per l'identificazione dei fattori di rischio e la diagnosi precoce. Ma l'appropriatezza, avvertono gli esperti della Sibioc, entra in campo soprattutto in cardiologia e oncologia. Nel caso del dolore toracico acuto, per esempio, alcuni esami risultano ormai obsoleti e va invece scelto, affermano gli specialisti, "il solo esame appropriato, la troponina cardiaca, che permette di dimostrare che il 30% dei pazienti con dolore cardiaco senza segni elettrocardiografici ha un infarto ben definito. E nel cancro, i marcatori tumorali devono essere richiesti in modo adeguato". E proprio per favorire una maggiore appropriatezza degli esami, la Sibioc 'punta' sui medici di base, ai quali saranno destinati vari corsi gratuiti di formazione a distanza sui test in alcune grandi patologie croniche.

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Scompenso cardiaco, dal 2017 un nuovo farmaco per ridurre la mortalità

Medicina scienza e ricerca

 

 Scompenso cardiaco, dal 2017 un nuovo farmaco per ridurre la mortalità

 

Con il 2017 sarà disponibile un nuovo farmaco a base di sacubitril e valsartan che ridurrebbe del 15% la mortalità della patologia. Il medicinale è un inibitore del recettore dell'angiotensina e della neprilisina e riduce la fibrosi miocardica

di Redazione Aboutpharma Online 9 dicembre 2016

 

“Nei prossimi mesi sarà disponibile un nuovo farmaco che ridurrà il rischio di mortalità di questi pazienti del 15%”. A fare il punto sulle persone affette da scompenso cardiaco è Ciro Inolfi, direttore del dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell’Università Magna Grecia di Catanzaro ad AdnKronos Salute.
“All’inizio del 2017 sarà disponibile un farmaco a base di sacubitril e valsartan, un inibitore del recettore dell’angiotensina e della neprilisina. Una novità assoluta – sottolinea Inolfi – già passata
al vaglio di un grande studio condotto su migliaia di pazienti, lo studio Paradigm, che ne ha sancito sia la sicurezza che l’efficacia”. Il medicinale “può essere prescritto a meno che non si sia in presenza di ipotensione o di iperpotassiemia. Rispetto ai farmaci tradizionali – continua – provoca l’aumento dei livelli di Anp (Peptide natriuretico atriale) con l’effetto benefico di far perdere acqua e sodio e di ridurre la fibrosi miocardica”.

La patologia colpisce oltre un milione di italiani l’anno, ovvero l’1,5% della popolazione. Percentuale che sale al 6-10% dopo i 65 anni. Lo scompenso cardiaco rappresenta una delle prime causa di morte in Italia e spiega l’esperto, è responsabile di oltre centonovantamila ricoveri l’anno. È la seconda causa di ricovero dopo il parto naturale e la prima tra gli over 65. Sempre secondo i dati forniti dal cardiologo, la spesa totale per la patologia in Italia “ammonta a tre miliardi di euro l’anno circa (il 2% della spesa sanitaria complessiva). Mentre la spesa media per la gestione di un paziente è di quasi dodicimila euro l’anno (l’85% della spesa è rappresentata dai costi di ricovero)”. Nel mondo, invece, per lo scompenso cardiaco si spendono ogni anno cento miliardi di euro. Cifra destinata a raddoppiare entro il 2030.

 

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Dall’Ema nuovo invito a monitorare l’epatite B con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C

Dall’Ema nuovo invito a monitorare l’epatite B con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C

L'Ema suggerisce di fare lo screening per l'epatite B su tutti i pazienti prima di iniziare il trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l'epatite C, e continuare a monitorare i malati affetti da entrambe le forme di epatite


Continua il monitoraggio dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) sui nuovi farmaci antivirali per l’epatite C in seguito alla riattivazione dell’epatite B tramite gli antivirali di ultima generazione. Le ultime indicazioni dell’Ema dicono ricordano infatti di fare lo screening per l’epatite B su tutti i pazienti prima di iniziare il trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C, e continuare a monitorare i malati affetti da entrambe le forme di epatite secondo le attuali linee guida.
I nuovi superfarmaci per l’epatite C, venduti in Europa, sono quelli che contengono come principio attivo daclatasvir, dasabuvir, ledipasvir, simeprevir, sofusbuvir, paritaprevir, ombitasvir e ritonavir. Il Comitato di farmacovigilanza e valutazione del rischio (Prac) dell’Ema, sulla base della revisione dei casi, pensa che la riattivazione dell’epatite B in persone trattate con questi antivirali sia dovuta alla riduzione del virus dell’epatite C (nei casi di co-infezione il virus dell’epatite B viene soppresso) per via del farmaco, e la mancanza di azione dell’antivirale sul virus dell’epatite B. Da qui la raccomandazione di mettere un avviso sul foglio informativo dei farmaci sulla riattivazione dell’epatite B e su come minimizzarla, e l’invito alle aziende farmaceutiche a fare uno studio per valutare il rischio di tumore al fegato nei pazienti con epatite C cronica e cirrosi trattati con tali farmaci. Il parere del Prac, avallato anche dal Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp), sarà ora valutato dalla Commissione Europea, che dovrà prendere una decisione vincolante per tutta l’Ue.

 

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Il grafene entra in sala operatoria contro i super-batteri

Il grafene entra in sala operatoria contro i super-batteri

Ricercatori italiani studiano l'applicazione di un idrogel antimicrobico a ferri chirurgici e protesi


La lotta ai super-batteri si fa anche in sala operatoria. Ad esempio rivestendo i ferri chirurgici e le protesi con sostanze antimicrobiche. Una di queste è l’ossido di grafene le cui proprietà sono state sperimentate da un gruppo di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr), dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dell’Università Sapienza di Roma e dell’Università degli Studi dell’Aquila. Gli scienziati hanno pubblicato un lavoro sulla rivista Scientific Reports che prende le mosse dagli allarmanti dati sull’antibiotico-resistenza (400 mila persone infettate in Europa dal 2009 a oggi). “Abbiamo realizzato un rivestimento con un idrogel a base di ossido di grafene – spiega Massimiliano Papi dell’Università Cattolica – la cui azione antibatterica è dovuta alla struttura in fogli, in grado di tagliare la membrana della cellula batterica o di avvolgerne la superficie, contrastando così lo sviluppo di batteri resistenti ai farmaci”.

 

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Sanità, oltre 2 euro su 10 vengono sprecati: indispensabile recuperarli

 

Sanità e Politica

Sanità, oltre 2 euro su 10 vengono sprecati: indispensabile recuperarli

A lanciare l’allarme la rivista The Lancet e l’Ocse: il sovra-utilizzo e il sotto-utilizzo di servizi e interventi sanitari hanno raggiunto proporzioni epidemiche, mettendo a rischio la sopravvivenza dei sistemi sanitari di tutto il mondo

di Redazione Aboutpharma Online 10 gennaio 2017

 

TAC e RMN per lombalgia e cefalea, antibiotici per infezioni virali delle vie respiratorie, densitometria ossea, test pre-operatori (ECG, Rx torace, ecostress) in pazienti a basso rischio, antipsicotici negli anziani, nutrizione artificiale in pazienti con demenza in fase avanzata e in pazienti oncologici terminali, catetere vescicale a permanenza, imaging cardiaco in pazienti a basso rischio, screening oncologici di efficacia non documentata (PSA, CA-125), tagli cesarei senza indicazioni cliniche.
Sono solo alcune degli esempi di sovra-utilizzo riportati da una serie di articoli “Right Care” pubblicati su The Lancet, in cui vengono messi in luce esempi di sprechi in sanità, sia in termini di sovra-utilizzo di interventi sanitari di efficacia non dimostrata e sotto-utilizzo di interventi sanitari efficaci. A fare eco anche il report dell’OCSE Tackling Wasteful Spending on Health, con esempi che convivono in tutti i sistemi sanitari a livello di popolazioni, percorsi assistenziali e singoli pazienti, che peggiorano esiti clinici, psicologici e sociali, determinando una impropria allocazione di risorse e generando sprechi evitabili.

Il messaggio è unanime: “I fenomeni di overuse e underuse di servizi e interventi sanitari (farmaci, test diagnostici, procedure chirurgiche, etc.) costituiscono oggi una vera e propria pandemia: oltre a mettere a rischio la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari, sovra- e sotto-utilizzo non riflettono l’etica della medicina e della sanità, in quanto minano la possibilità di una copertura sanitaria equa e sostenibile e del diritto universale all’assistenza sanitaria”.
A ricordarlo è la Fondazione Gimbe che lo scorso giugno aveva presentato in Senato il Rapporto sulla sostenibilità del SSN 2016-2025: “La serie di The Lancet e il rapporto OCSE – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – sono perfettamente in linea con quanto riportato dal nostro rapporto. Secondo le nostre stime, infatti, in Italia circa 11 miliardi di euro l’anno vengono erosi da sovra- e sotto-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie, a cui si aggiungono oltre 13 miliardi di euro relativi a frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, complessità amministrative e inadeguato coordinamento dell’assistenza”.

In particolare dal report Ocse emerge come la spesa sanitaria abbia ripreso a crescere nella maggior parte dei Paesi dell’Ocse, e che ogni 10 euro spesi in sanità sino a 2 vengono sprecati, in quanto non migliorano la salute e il benessere delle persone o addirittura li peggiorano: un’enorme opportunità dunque per recuperare preziose risorse ed aumentare il value for money. “Considerato che la maggior parte degli interventi sanitari si colloca in un’area grigia, dove il profilo rischio/beneficio non è così netto – continua Cartabellotta – è indispensabile prendere in considerazione le preferenze dei pazienti. Ecco perché è impossibile migliorare l’appropriatezza degli interventi sanitari senza un coinvolgimento di cittadini e pazienti attraverso il processo decisionale condiviso, strategia di efficacia documentata per ridurre sprechi, aspettative irrealistiche di malati e familiari e contenzioso medico-legale. Il processo di disinvestimento e riallocazione suggerito dal nostro Rapporto viene legittimato come strategia irrinunciabile per garantire la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari, che richiede una vera e propria “chiamata alle armi” di tutti gli stakeholders del Ssn”.

 

 

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Mai tante donazioni di organi come nel 2016. E si accorciano le liste d’attesa per i trapianti

Medicina scienza e ricerca

Mai tante donazioni di organi come nel 2016. E si accorciano le liste d’attesa per i trapianti

I donatori sono stati 1.596 contro i 1.489 del 2015. Più di tremila i pazienti trapiantati. Finora tre casi di "donazione samaritana". Ecco i nuovi dati presentati oggi dal Centro Nazionale Trapianti al ministero della Salute

di Redazione Aboutpharma Online 10 gennaio 2017

 

Un anno eccezionale per le donazioni di organi e i trapianti in Italia. Nel 2016 abbiamo avuto 1.596 donatori contro i 1.489 dell’anno precedente e 1.282 di dieci anni fa. Ed è cresciuto del 13% il numero di pazienti trapiantati: 3.736 contro i 3.327 del 2015. Sono questi i dati principali forniti oggi dal Centro nazionale trapianti (Cnt) durante la presentazione del report di attività 2016 al ministero della Salute. La regione più ‘generosa’ si conferma la Toscana, con in generale il Nord che supera il sud per donatori pro capite. Al contrario le “opposizioni” alla donazioni (stabili intorno a una media nazionale del 30%) sono presenti di più nel Mezzogiorno.

I numeri dei trapianti. Il trend positivo è confermato anche dall’aumento dei “donatori utilizzati”, che superano per la prima volta quota 1.300 contro i 1.165 del 2015. Quanto ai trapianti effettuati, l’incremento di attività vale un po’ per tutti gli organi, che si attestano su questi dati: 2.086 per il rene, 1.235 per il fegato, 267 per il cuore, 154 per il polmone e 69 per il pancreas. Tra i “donatori utilizzati” si registrano “finalmente – sottolinea il Cnt – diverse donazioni dopo accertamento di morte con criteri cardiocircolatori, cioè con una modalità che potrebbe ulteriormente sviluppare le donazioni ed i trapianti in Italia, come sta avvenendo nelle principali nazioni europee”. Le donazioni a “cuore fermo (DCD)” sono passate da 9 a 21 tra il 2015 e il 2016, mentre i trapianti da 6 a 13.

Liste d’attesa. Tra le buone notizie, i numeri sulle liste d’attesa: per la prima volta la lista del rene e quella del polmone sono in diminuzione rispetto all’anno precedente (circa 300 pazienti in meno nel primo caso). Al 31 dicembre 2016, i pazienti in lista di attesa sono 8.856: la maggior parte di questi per ricevere un trapianto di rene (6.598); 1.041 di fegato, 742 di cuore e 346 di polmone.

Donazioni “samaritane”. Nel 2016 – spiega il ministero – sono state realizzate anche due catene di trapianti di rene da vivente in modalità cross-over innescate da una “donazione samaritana”. L’ultima catena si è sviluppata tra dicembre 2016 e gennaio 2017: grazie al terzo donatore samaritano nel nostro Paese, sono state coinvolte 5 coppie donatore/ricevente incompatibili tra loro. I centri trapianto che hanno sviluppato questa catena di solidarietà sono stati 4 (Vicenza- Ospedale San Bartolo, Palermo- Ospedale Civico, Pisa- Ospedale di Cisanello e Parma- Ospedale Riuniti), in collaborazione la Polizia di Stato.

Donatori di midollo osseo. Cresce anche l’attività di donazione e trapianto di cellule staminali emopoietiche: nel 2016, gli iscritti al Registro italiano donatori di midollo osseo (Ibmdr) sono stati 498mila contro i 469mila del 2015. I trapianti da donatore volontario adulto sono stati 742 (contro i 704 del 2015) mentre i trapianti da donatore familiare semi-compatibile (noto come trapianto aploidentico) sono stati 360 (mentre nel 2015 erano 338).

L’impegno continua. Con il nuovo anno, ministero e Cnt puntano a rafforzare l’impegno sul fronte della comunicazione. Il primo obiettivo sarà sicuramente di provare a ridurre quel 30% di opposizioni alla donazione. Ai cittadini sarà ancora chiesto di esprimere il consenso alla donazioni di organi e tessuti in occasione del rinnovo della carta d’identità: con questa modalità, hanno detto “sì” 380mila cittadini in 1.350 comuni italiani. Infine, proseguirà la campagna “Diamo il meglio di noi”, iniziativa dedicata alle grandi organizzazioni pubbliche e private per diffondere tra i propri dipendenti la cultura del dono e aumentare il numero delle dichiarazioni di volontà. Con l’obiettivo di coinvolgere le Regioni e moltiplicare le iniziative sul territorio.

 

Nota della Redazione del Sito

Naturalmente siamo molto soddisfatti dai notevoli risultati conseguiti dalle organizzazioni Ospedaliere, con una delle quali, che opera presso l'Azienda Ospedaliera S. Camillo di Roma abbiamo un rapporto di collaborazione, aiutate da efficenti Associazioni di Volontariato, così come EMA-ROMA da sempre collabora con alcuni Trasfusionali di Roma.

Ma a questa soddisfazione si contrappone la grande delusione causata dai risultati che invece da molti anni caratterizzano il settore "Donazioni di Sangue", tanto che da anni si parla di Emergenza Sangue. Risultato - i Trasfusionali degli Ospedali del Lazio e di Roma attualmente sono senza scorte di sangue, tanto che molti interventi chirurgici vengono rinviati.

Perchè tanta differenza tra enti simili? Quali i motivi? Perchè manca costantemente un organo così vitale come il sangue destinato alla salute dei cittadini?

Per inefficienza, disinteresse e scarsa professionalità dei responsabili. Esistono altri motivi quando le cose non funzionano? E come ricorrono ai ripari i responsabili, tra l'altro  ignorando la prevenzione che da anni invochiamo? Acquistando in continuazione importanti quantità di sacche e spendendo somme notevoli versate dai contribuenti, arricchendo i bilanci di altre Regioni meglio organizzate e meglio dirette! Formula non più facilmente praticabile, poichè anche altrove oggi esistono difficoltà di approvvigionamento.

Da anni e con tutte le amministrazioni che si sono susseguite EMA-ROMA ha chiesto un incontro tra competenti, per affrontare il problema ed esaminare la proposta che abbiamo presentato più volte, l'unica che a nostro avviso può risolvere il problema e cioè, quella di coinvolgere in modo corretto e assiduo i circa sei milioni di abitanti residenti nel Lazio. Se da questo calcolo eliminiamo i non maggiorenni, coloro che hanno superato l'età che gli consente di donare (60 anni e 65 per i donatori abituali) coloro che non godono di buona salute, i timorosi, gli indifferenti, ecc, resta un serbatoio di candidati che, se infornati in modo corretto, possono garantire cisterne di sangue!

Abbiamo persino inviato una copia del  "Piano annuale di Comunicazione" da noi proposto, dove elenchiamo i media da utilizzare e persino alcuni spot pubblicitari idonei. Consigliando persino l'utilizzo di un numero telefonico adatto (Es. il 060606 del Comune di Roma) dotandolo di un gingle particolare, che fornisca solo le prime nozioni importantie, quali - dove risiede e dove svolge la sua attività colui o colei che chiede chiarimenti, fornire gli indirizzi e gli orari di esercizio e le coordinate telefoniche dei Trasfusionali più vicini e quelli delle Associazioni di volontariato. In anni di attività abbiamo appurato che molti candidati che intendono intervenire non sanno neppure a chi rivolgersi e come muoversi!

E' solo un inizio, ma è indispensabile e urgente iniziare. Esistono molteplici esempi della Solidarietà umana che gli italiani dimostrano ogni giorno aiutando il prossimo. Vogliamo ignorarlo?

La Redazione del Sito 

 

 

 

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Carenze di sangue in nove Regioni, appello ai donatori

 

 

Carenze di sangue in nove Regioni, appello ai donatori

Nel Lazio la situazione più critica. Secondo il Centro nazionale sangue (Cns), maltempo e malanni di stagione hanno scoraggiato l’afflusso ai centri trasfusionali. Le associazioni in campo per promuovere le donazioni


Mancano scorte di sangue in nove Regioni italiane, soprattutto nel Lazio, ma anche in Abruzzo, Toscana, Campania, Basilicata, Liguria, Umbria, Marche, e Puglia. In totale, mancano all’appello 2.600 unità di globuli rossi. Per quali ragioni? Probabilmente a causa dell’epidemia influenzale che tiene a letto molti italiani e del maltempo che sta scoraggiando l’accesso ai centri dove è possibile donare. È questo, in sintesi, il quadro descritto dal Centro nazionale sangue (Cns), che ha inviato alle Strutture regionali per il coordinamento delle attività trasfusionali (Src) un invito “a coordinarsi con le associazioni di donatori per far fronte all’emergenza”.

“La mobilitazione – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro Nazionale Sangue – deve riguardare però tutte le regioni, non solo quelle che hanno carenze; l’autosufficienza per quanto riguarda il sangue, infatti, è sovraziendale e sovraregionale e in questi casi diventa vitale la compensazione coordinata tra regioni”.

La carenza di sangue può mettere a rischio l’esecuzione di interventi chirurgici e di terapie per pazienti con malattie come la talassemia che necessitano di continue trasfusioni. L’invito per tutti i donatori è contattare l’associazione di appartenenza o il Servizio Trasfusionale di riferimento per programmare una donazione. “Le associazioni e federazioni dei donatori di sangue – sottolinea Aldo Ozino Caligaris, portavoce del Civis (Coordinamento interassociativo volontari italiani sangue) – devono intensificare la chiamata dei donatori periodici e associati sulla base di quanto concordato con le Src attraverso una programmazione straordinaria per cercare di sopperire alle necessità contingenti. È inoltre fondamentale il coinvolgimento di nuovi volontari che possano garantire in maniera costante la disponibilità di emocomponenti, al fine di assicurare la necessaria terapia trasfusionale ai cittadini che ne hanno bisogno”.

Nota della Redazione

E noi continuiamo ad affermare da anni che............. Senza il coinvolgimento dei residenti nel Lazio grazie ad una campagna annuale di informazione e di sensibilizzazione......Non risolviamo il problema!!!!!!! E questo è compito delle istituzioni!!!

E senza un parco adeguato di Autoemoteche regionali capaci ed efficenti, da anni costituito da 3 mezzi di cui uno da soli due lettini, non si aiutano le Raccolte esterne! Per far fronte a questa deficenza EMA-ROMA ne ha acquistata una affrontando una spesa importante!

 

 

 

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Mal di schiena cronico, dati real life promuovono ossicodone/naloxone contro dolore neuropatico

Aziende

Mal di schiena cronico, dati real life promuovono ossicodone/naloxone contro dolore neuropatico

Nello studio OXYNTA, condotto su 261 pazienti, la combinazione si è rivelata superiore del 55,5% al tapentadolo nel procurare sollievo dal dolore, ridurre la disabilità e migliorare la qualità di vita, a fronte di una buona tollerabilità

di Redazione Aboutpharma Online 26 gennaio 2017

 

Dati “real life” provenienti da uno studio su 261 pazienti con mal di schiena cronico associato a dolore neuropatico promuovono la combinazione ossicodone/naloxone. A confronto con tapentadolo, altro farmaco appartenente alla classe degli oppioidi, l’associazione si è rivelata superiore del 55,5% nel procurare sollievo dal dolore, ridurre la disabilità e migliorare la qualità di vita, a fronte di una buona tollerabilità. Lo spiega l’azienda Mundipharma in una nota, illustrando i dati dello studio OXYNTA.

Lo studio – spiega Mundipharma – è stato condotto per 12 settimane in condizioni di vita “reale” su di età compresa tra 20 e 71 anni, inseriti nel German Pain Registry e affetti da lombalgia cronica con componente neuropatica e dolore moderato-severo, che non avevano tratto beneficio o avevano avuto effetti collaterali da precedenti trattamenti con altri analgesici. Sono stati randomizzati in cieco 128 pazienti al trattamento con ossicodone-naloxone e 133 hanno ricevuto tapentadolo. L’endopoint primario prevedeva una valutazione combinata di 6 parametri: 3 relativi all’efficacia (miglioramento del 30% del dolore, della disabilità e della qualità di vita) e 3 relativi alla tollerabilità (assenza di eventi avversi a livello del sistema nervoso centrale, no abbandono della terapia per effetti collaterali e funzionalità intestinale nella norma). Ossicodone/naloxone ha raggiunto l’endpoint primario combinato, dimostrandosi superiore a tapentadolo (39,8% contro 25,6%), con un incremento del 55,5% nel tasso di risposta dei pazienti. Questi risultati sarebbero riconducibili alla sua maggiore attività analgesica, che ha consentito di ottenere miglioramenti più significativi sul dolore, la disabilità e la qualità di vita. I profili di tollerabilità dei due farmaci sono stati sostanzialmente sovrapponibili.

“I risultati dello studio – riassume Stefano Masiero, ordinario di Medicina Fisica e Riabilitativa, Università degli Studi di Padova – hanno evidenziato che l’associazione ossicodone/naloxone non solo si è dimostrata non inferiore a tapentadolo e ben tollerata ma ha avuto un’efficacia analgesica superiore per quanto riguarda il miglioramento del dolore, della disabilità ad esso correlata e della qualità di vita. L’auspicio è che questi dati contribuiscano in futuro a ridurre abitudini prescrittive poco corrette e l’abuso di farmaci, soprattutto FANS, talvolta responsabili di serie complicanze, come quelle gastroenteriche o cardiovascolari”.

“La lombalgia costituisce uno dei motivi più frequenti di ricorso al medico di medicina generale e determina da un minimo di 3,5 prestazioni a settimana a 2 visite al giorno”, aggiunge Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia. “Se in molti casi – aggiunge – può esserci, nella prima fase, una forma infiammatoria che giustifica l’uso per breve tempo di FANS o COXIB, in presenza di una componente neuropatica la terapia deve rapidamente orientarsi verso altri farmaci. Gli analgesici oppioidi sono stati a lungo ghettizzati a un utilizzo nel solo dolore da cancro. Negli ultimi anni, grazie alle semplificazioni introdotte dalla Legge 38 e a una maggiore cultura in materia, è cresciuta la fiducia verso questi farmaci da parte dei medici di famiglia, complice anche la disponibilità di nuove formulazioni, più maneggevoli e meglio tollerate, come l’associazione che unisce all’ossicodone il suo antagonista naloxone”.

La lombalgia cronica – ricorda la nota di Mundipharma – è una tra le più comuni e invalidanti condizioni dolorose, colpisce quasi un adulto su quattro. Nel 20-35% dei casi, può presentare una componente neuropatica, dovuta alla compressione o lesione di un nervo, che rende particolarmente difficile la gestione del problema, richiedendo un approccio specifico con terapie in grado di agire su un dolore più intenso e di natura più complessa. “È fondamentale offrire ai pazienti soluzioni terapeutiche che siano efficaci contro il dolore e, al tempo stesso, ben tollerate. L’impegno di Mundipharma va da sempre in questa direzione”, sottolinea Amedeo Soldi, Medical Director Mundipharma Pharmaceuticals.

 

 

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Salute sul web, molti italiani si fidano delle prime informazioni che trovano. Arriva il decalogo anti-bufale

Sanità e Politica

Salute sul web, molti italiani si fidano delle prime informazioni che trovano. Arriva il decalogo anti-bufale

Più dell’88% degli italiani s’informa in rete, ma il 44% non presta attenzione all’affidabilità delle fonti. Da Ibsa Foundation una guida per documentarsi online in sicurezza

di Redazione Aboutpharma Online 26 gennaio 2017

 

Quasi nove italiani su dieci consultano il web per ricerca informazioni sulla salute. Non tutti si fidano, ma ben il 44% ritiene che rivolgersi a “dottor Google” sia “poco o per nulla rischioso”. È quanto emerge da un sondaggio commissionato da Ibsa foundation for scientific research e presentato oggi a Roma in occasione del workshop “E-Health tra bufale e verità: le due facce della salute in rete”, promosso insieme a Cittadinanzattiva.

“L’enorme possibilità offerta dalla rete in tema di disponibilità di informazioni può trasformarsi in un pericolo se gli utenti non sono in grado di valutare l’affidabilità di quello che trovano – spiega Silvia Misiti, direttore della Ibsa foundation for scientific research – Questo è tanto più vero quanto più sono delicate le aree oggetto delle ricerche. La decisione di iniziare dalle associazioni di pazienti è scaturita dal fato che rappresentano un anello di congiunzione sempre più prezioso tra il mondo dei medici e la necessità dei pazienti che rappresentano”.

Incrociando i dati relativi alla frequenza dell’utilizzo del web nella ricerca di informazioni sulla salute e il grado di fiducia della rete stessa, emerge che gli intervistati della fascia di età 24-34 anni vedono nella rete un “supporto” ma sono più “diffidenti” rispetto ai 45-54enni. “Diffidenti a priori” (usano poco il web e lo percepiscono come fonte “ad alto rischio”) sono, invece, gli ultra 65enni. Notevoli anche le differenze rispetto al titolo di studio: a ricorrere alla rete in cerca di informazioni sulla salute è il 96% dei laureati contro il 24,5% di chi non è andato oltre la licenza elementare. Scarsa anche l’attenzione verso le fonti: il 44% si affida per abitudine ai primi risultati della pagina con una differenza rilevante tra i 18-24enni (55%) e gli ultra 65enni (22,7%).

“È soprattutto quando il cittadino è a caccia di informazioni sulla salute sul web, e questo accade sempre più spesso, che le nozioni di base diventano l’unica arma per difendersi da informazioni parziali o scorrette – spiega Antonio Gaudioso, segretario generale Cittadinanzattiva – ma quando parliamo di “health literacy” non ci riferiamo solo a questo: maggiori competenze significano anche un migliore rapporto tra medico e paziente. Un circolo virtuoso che spesso si traduce in una terapia più efficace e quindi una salute migliore. È una materia di cui in Italia si parla ancora troppo poco ma che ha e avrà una rilevanza sempre maggiore”.

Per imparare a difendersi dalle bufale in rete arriva anche il primo decalogo sulla “health literacy”. Tra i consigli, prestare massima attenzione alle fonti, privilegiando le pagine ufficiali di organizzazioni riconosciute e affidabili; fare attenzione a forum e blog, fonti “insidiose” che suscitano empatia ma non è detto abbiano affidabilità scientifica; controllare la data di pubblicazione dei contenuti che potrebbero non essere più attuali; non cercare solo conferme; fare attenzione all’effetto paura quando cerchiamo sul web sintomi (veri o presunti). E ancora: non vergognarsi di chiedere al medico di ripetere, se parla rapidamente o con termini troppo tecnici; farci accompagnare da qualcuno nelle visite più importanti; ripetere quello che si è capito rispetto alla patologia e al percorso di cura prima di congedarci dal medico; capire a cosa servono i farmaci che si prendono. Infine, diffidare dai siti che dicono come curarci ma confrontarsi con un professionista da cui ricevere informazioni e le cure adatte alla sua condizione.

IL DECALOGO

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Papillomavirus, uno sconosciuto per circa un terzo dei giovani under24

Papillomavirus, uno sconosciuto per circa un terzo dei giovani under24

Tra i ragazzi italiani (12-24 anni), c’è ancora bisogno di informazione: il 36% non ne ha mai sentito parlare. Ecco cosa è emerso da un’indagine del Censis sulle malattie sessualmente trasmesse


Il 36,4% dei giovani italiani di 12-24 anni non ha mai sentito parlare del Papillomavirus umano (Hpv). Una minoranza rispetto al restante 63,6% che dice di saperne qualcosa, ma che rimanda comunque alla necessità di fare uno sforzo in più sul piano dell’informazione. È uno dei dati che emerge dall’indagine “Conoscenza e prevenzione del Papillomavirus e delle patologie sessualmente trasmesse tra i giovani in Italia” realizzata dal Censis con il supporto di Sanofi Pasteur-Msd e distribuita da Msd Italia.

Tra le ragazze – spiega il Censis – la quota di chi dice di aver sentito parlare del virus sale all’83,5%, mentre tra i maschi si riduce al 45%. Rispetto alle modalità di trasmissione dell’Hpv, la gran parte cita i rapporti sessuali completi (82%), ma una quota inferiore sa che l’Hpv si può trasmettere anche attraverso rapporti sessuali non completi (58%). Per il 64,6% il preservativo è uno strumento sufficiente a prevenire la trasmissione del virus, ma solo il 18% è consapevole del fatto che non è possibile eliminare i rischi di contagio se si è sessualmente attivi. L’80,0% degli “informati” sa che si tratta di un virus responsabile di diversi tumori, soprattutto di quello al collo dell’utero; il 62,4% sa che si stratta di un virus che causa diverse patologie dell’apparato genitale, sia benigne che maligne ma che molto spesso rimane completamente asintomatico; il 37,1% sa invece che l’Hpv è responsabile di tumori che riguardano anche l’uomo, come quelli anogenitali. Infine, un terzo pensa che questo virus colpisca solo le donne e il 26,4% sa che si tratta di un virus responsabile dei condilomi genitali.

Estendendo lo sguardo alla totalità delle infezioni e malattie sessualmente trasmesse, soltanto il 6,2% non ne ha mai sentito parlare, ma il dato sale 18,7% nella fascia di età 12-14 anni. È l’Aids la patologia che viene citata più spesso (89,6%). Solo il 23,1% indica la sifilide, il 18,2% la candida. Con percentuali tra il 15% e il 13% vengono citate la gonorrea, le epatiti e l’herpes genitale. Tra le fonti di informazione, prevale l ruolo dei media (tv, riviste, internet), utilizzate dal 62,3%. Poi viene riconosciuto come significativo il contributo della scuola (53,8%), ma con differenze rilevanti tra le diverse aree geografiche del Paese: si passa da oltre il 60% al Nord al 46% al Centro e al 48% al Sud.

Più in generale, l’indagine esplora il rapporto tra giovanissimi e sessualità. L’età media al primo rapporto sessuale è di 16,4 anni. Sale a 17,1 quella del primo “rapporto completo”. Il 74,5% si protegge sempre per evitare infezioni e malattie a trasmissione sessuale. La distinzione tra contraccezione e prevenzione non è sempre chiara tra i giovani: il 70,7% usa il profilattico come strumento di prevenzione, ma il 17,6% dichiara di ricorrere alla pillola anticoncezionale, collocandola erroneamente tra gli strumenti di prevenzione piuttosto che tra i mezzi di contraccezione.

 

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Governance, risorse economiche e meno sprechi, ecco i tre passi per un miglior Ssn

Sanità e Politica

Governance, risorse economiche e meno sprechi, ecco i tre passi per un miglior Ssn

Al convegno Innovazione e Sostenibilità organizzato a Roma hanno parlato i big dell'healthcare italiano. La rotta tracciata è quella di seguire una governance che sappia far fruttare le qualità del sistema Italia riducendo al minimo i costi inutili

di Redazione Aboutpharma Online 22 febbraio 2017

 

Attenzione alle risorse economiche, governance, misurazione degli sprechi. Ecco i tre passi per garantire le migliori cure ai pazienti e investire in ricerca e innovazione. Quanto è emerso durante l’evento “Innovazione e Sostenibilità” organizzato ieri a Roma, indica la strada da seguire.
“Il Convegno di oggi ha l’obiettivo di sensibilizzare l’intera comunità del mondo della Salute sul notevole sviluppo che stanno avendo a livello mondiale le nuove terapie innovative. Il nostro compito sarà quello di garantire il più rapido accesso alle nuove terapie e, in particolar modo – ha detto Francesco Rossi, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e Past President della Società Italiana di Farmacologia (Sif) – ai nuovi farmaci biologici/biotecnologici, che attualmente ricoprono un ruolo chiave nel trattamento di numerose patologie gravi e invalidanti, come quelle di natura neoplastica e autoimmunitaria.
“Nonostante il momento di crisi economica che sta attraversando il nostro Paese oramai da tempo, bisogna auspicare a una sempre maggiore partnership pubblico-privato, senza però trascurare di valorizzare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica”, ha spiegato Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto superiore di Sanità.
Alessandro Aiuti, Direttore UO di Pediatria Immunoematologica, Ospedale San Raffaele, Milano, ha aggiunto che “la terapia genica è un approccio di medicina personalizzata che potrebbe offrire un trattamento curativo per alcune forme di malattie genetiche ereditarie e tumori. I risultati degli studi clinici sono molto promettenti”. Inoltre, secondo Aiuto, l’alleanza tra accademia, no profit ed industria sarà essenziale per accelerare il percorso di sviluppo clinico di questi farmaci innovativi.
Alla base di questo ottimismo c’è una sorta di rinascimento della ricerca. Massimo Scaccabarozzi, Presidente Farmindustria, spiega che “nel giro di poche decine di anni gli scenari per il trattamento delle patologie sono totalmente cambiati. Oggi sono settemila i farmaci in sviluppo nel mondo. Ecco perché una nuova e buona governance, unita alla certezza e alla prevedibilità delle regole, è necessaria per garantire il sistema e rendere l’Italia sempre più attrattiva e competitiva”.
Durante l’incontro si è parlato anche dell’aumento della domanda legata all’evoluzione demografica e alla cronicizzazione di molte patologie. Per rispondere alle nuove esigenze, l’arrivo dei generici, secondo Enrique Häusermann, Presidente di Assogenerici, è stato provvidenziale. “Questo meccanismo virtuoso rappresenta il valore distintivo delle nostre aziende. Generici equivalenti e biosimilari sono un’occasione di cui anche in futuro il Servizio sanitario nazionale ed il Paese non potranno permettersi di fare a meno”.
Häusermann snocciola i dati. “Tra il 2006 ed il 2016, grazie al filgastrim biosimilare, il numero dei pazienti trattati è aumentato di oltre il 53%. Le nostre sessanta aziende, per metà a capitale italiano, che danno lavoro a diecimila addetti investendo cento milioni di euro l’anno con un fatturato di 2,7 miliardi, sono pronte a dare il loro contributo. Ma per farlo serve un patto di stabilità pluriennale che non può che essere il frutto di un dialogo trasparente tra tutte le parti interessate. Le soluzioni giuste – continua il numero uno di Assogenerici – vanno trovate al tavolo della governance e vanno trovate in fretta, prima che l’avvento di nuovi farmaci innovativi attesi dai nostri pazienti esponga il sistema all’obbligo di “selezioni” insopportabili o imponga ai cittadini nuove rinunce alla cura”.
Infine l’evoluzione digitale, quella con la quale ogni aziende deve e dovrà fare i conti nell’immediato futuro. “In un mondo sempre più digital – sottolinea Andrea Mantovani, Country Market Access Head, Sanofi, Milano – è impensabile immaginare un rimborso dei farmaci che non tenga conto della Real World Evidence (esperienza clinica che il paziente vive ogni giorno al di fuori dello studio clinico). Allo stesso modo è fondamentale tenere conto del reale impatto sulla qualità di vita del paziente e degli outcome clinici anche in relazione alle condizioni di accesso già negoziate in precedenza”.

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Arriva in Italia un sensore impiantabile per monitorare la glicemia

Medicina scienza e ricerca

Arriva in Italia un sensore impiantabile per monitorare la glicemia

Il dispositivo messo a punto da Roche Diabetes Care, rileva la glicemia fino a 90 giorni e viene inserito durante una seduta ambulatoriale di pochi minuti a livello sottocutaneo sulla parte superiore del braccio. Finora trattati cinque pazienti

di Redazione Aboutpharma Online 7 marzo 2017

 

Pazienti diabetici un po’ “cyborg” grazie al nuovo sistema impiantabile per monitorare la glicemia. Si tratta di un nuovo dispositivo messo a punto da Roche Diabetes Care, in grado di rilevare la glicemia fino a 90 giorni senza necessità di sostituzione del sensore ogni settimana. Un passo avanti rispetto rispetto ai 7 o 14 giorni dei sistemi non impiantabili disponibili sul mercato fino a questo momento. Eversense, questo il nome, viene inserito durante una seduta ambulatoriale di pochi minuti. Il sensore viene impiantato a livello sottocutaneo sulla parte superiore del braccio, con un’incisione millimetrica. I pazienti impiantati nella prima settimana di marzo sono in tutto 5. Tre sono stati seguiti a Padova dal team dell’Unità operativa complessa di Malattie del metabolismo e 2 sono stati impiantati a Olbia presso il Centro di Diabetologia dell’Ospedale San Giovanni di Dio, diretto da Giancarlo Tonolo.  “L’impianto di per sé è molto semplice, fatto in anestesia locale con un taglio microscopico, la procedura occupa solo qualche minuto – afferma Tonolo – si tratta di un’evoluzione molto interessante. Lo strumento è molto preciso, rispetto ai sistemi tradizionali ha il vantaggio che il sensore non rischia di staccarsi in quanto è impiantato sotto cute. A mio avviso l’evoluzione del sistema permetterà in un prossimo futuro di condurre una vita ancora migliore”.

Il dispositivo inoltre invia allarmi, avvisi e notifiche relativi ai valori del glucosio visibili in qualsiasi momento su una app. “Gli algoritmi predittivi avvertono il paziente di probabili episodi di ipo o iperglicemia. Il paziente – spiega l’azienda in una nota – può condividere questi dati con il proprio diabetologo in ogni momento attraverso il portale dedicato”.

“Stiamo assistendo ad una vera e propria trasformazione nella gestione del diabete – aggiunge Massimo Balestri, General Manager di Roche Diabetes Care Italy – questa tecnologia garantisce un livello elevato di accuratezza delle rilevazioni. I primi riscontri da parte dei pazienti, recentemente impiantati, ci dicono che abbiamo imboccato la strada giusta”.

 

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Passi avanti per il vaccino contro l’ebola

Medicina scienza e ricerca

Passi avanti per il vaccino contro l’ebola

I risultati finali di fase 1 pubblicati su JAMA indicano che il regime vaccinale prime-boost contro l’ebola ha indotto una risposta immunitaria mantenuta nel 100% dei volontari sani sino ad almeno un anno dalla vaccinazione

di Redazione Aboutpharma Online 20 marzo 2017

 

Cento percento. È la risposta immunitaria indotta dal regime vaccinale prime-boost contro l’ebola, sul totale dei partecipanti allo studio clinico di Fase I a un anno dalla vaccinazione. I risultati delo studio sono stati pubblicati sul The Journal of the American Medical Association (JAMA) come ha reso noto Johnson & Johnson, gruppo di cui fa parte la società Janssen che ha sviluppato il vaccino.

Lo studio di Fase 1 è stato condotto dall’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford sul regime vaccinale prime-boost contro l’Ebola sviluppato da Janssen Vaccines & Prevention B.V. e basato sulla tecnologia AdVac® di Janssen e sulla tecnologia MVA-BN® di Bavarian Nordic A/S. Volontari sani hanno ricevuto una dose di vaccino (prime) per attivare la risposta del sistema immunitario e, successivamente, l’altro vaccino (booster) per rafforzare la risposta immunitaria. Sono in corso ulteriori studi di Fase 1, 2 e 3 per confermare questi risultati.

“Il mondo ha bisogno di un vaccino che aiuti a prevenire o mitigare future epidemie di Ebola e idealmente offra una protezione duratura alle popolazioni a rischio” ha dichiarato Paul Stoffels, Chief Scientific Officer di Johnson & Johnson. “Siamo impegnati ad aiutare la comunità internazionale per portare a termine lo sviluppo di un vaccino preventivo contro l’Ebola”

Evidenze recenti, che mostrano la persistenza del virus dell’Ebola nei fluidi corporei e la possibile trasmissione sessuale del virus fra coloro che sono sopravvissuti, rafforzano l’importanza di un vaccino potente che offra una protezione duratura contro questa malattia.

“La nostra Tecnologia AdVac® è composta da vettori virali, basati su virus appartenenti alla famiglia degli adenovirus, trasformati in modo tale da non risultare patogeni per l’uomo” ha spiegato Maria Grazia Pau, Senior Director Area Malattie Infettive e Vaccini, Ricerca e sviluppo, Janssen Vaccines B.V. “In altre parole, non provocano malattie, perché non possono moltiplicarsi nelle cellule umane; servono, invece, per trasportare le informazioni geniche fondamentali per indurre il sistema immunitario a combattere contro i virus. Tra questi, l’Ebola, dove siamo riusciti a modificare un vettore, che si basa appunto sull’adenovirus tipo 26, per fargli trasportare un gene della malattia in grado di codificare una glicoproteina del virus. Si tratta dell’antigene più importante per generare una risposta immunitaria efficace contro Ebola”.

Lo studio di Fase 1 è stato condotto a Oxford, Regno Unito, e ha arruolato volontari sani di età compresa fra i 18 e i 50 anni. Dei 75 soggetti che hanno ricevuto il vaccino attivo, 64 si sono presentati al follow-up al 360esimo giorno, ovvero l’ultima analisi in ordine temporale. Dal 240esimo al 360esimo giorno non sono stati osservati eventi avversi seri associati al vaccino. Tutti i soggetti che hanno ricevuto il vaccino attivo hanno mantenuto una risposta anticorpale specifica per il virus dell’Ebola (immunoglobulina G) dalla prima analisi post-vaccinazione sino all’ultima al 360esimo giorno. Come riferito da Matthew Snape, principale sperimentatore dello studio, “si tratta del periodo più lungo di follow-up su un regime vaccinale eterologo prime-boost contro l’Ebola per cui, ad oggi, ci siano risultati pubblicati”.

Ci sono in totale 10 studi clinici condotti in parallelo negli Stati Uniti, in Europa e in Africa a sostegno dell’eventuale futura registrazione del regime vaccinale contro l’Ebola. Il primo studio sul regime vaccinale in un paese dell’Africa Occidentale colpito dalla recente epidemia di Ebola è stato avviato in Sierra Leone a ottobre 2015

“I due componenti del nostro regime contro l’Ebola vengono utilizzati in tempi diversi: la prima vaccinazione viene svolta con il vettore Janssen, la seconda con quello Bavarian Nordic A/S. Abbiamo dimostrato che, grazie a questa combinazione, induciamo il sistema immunitario a produrre una risposta più potente rispetto al singolo componente” ha affermato ancora Pau. “Un approccio definito Heterologous prime-boost vaccination, che sta mostrando di portare anche a una risposta immunitaria duratura”.

Lo scorso settembre 2016, Janssen ha completato la richiesta di Valutazione e Approvazione all’Uso per le Emergenze (Emergency Use Assessment and Listing, Eual) all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per il suo regime vaccinale sperimentale prime-boost per la prevenzione dell’Ebola. La Eual è una procedura speciale che può essere applicata quando si verifica un’epidemia di una malattia che presenta alti tassi di morbilità o mortalità e per la quale non esistono opzioni terapeutiche o di prevenzione approvate. Se l’Oms concederà l’autorizzazione, questo accelererà la messa a disposizione del regime vaccinale sperimentale di Janssen per la comunità internazionale nell’eventualità che si verifichi un’altra epidemia di ebola.

 

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Tumori del sangue: dall’immunoterapia una nuova arma contro la leucemia linfoblastica acuta

Tumori del sangue: dall’immunoterapia una nuova arma contro la leucemia linfoblastica acuta

Arriva in Italia blinatumomab, l’anticorpo monoclonale bi-specifico che aiuta il sistema immunitario a riconoscere gli “invasori”. Sviluppato da Amgen, è il capostipite di una nuova classe di immunoterapici che si avvale della tecnologia BiTE (Bispecific T-cell Engager)edazione Aboutpharma Online 5 aprile 2017

 

Un “bacio della morte” che neutralizza le cellule maligne. È questa la suggestione, forte ma efficace, a cui l’azienda Amgen ricorre oggi per presentare l’arrivo in Italia di una nuova arma terapeutica contro la leucemia linfoblastica acuta (LLA), un tumore del sangue raro e molto aggressivo. Si tratta di blinatumomab, un anticorpo monoclonale bi- specifico che aiuta il sistema immunitario a riconoscere gli “invasori”. Il nuovo farmaco, ora rimborsabile nel nostro Paese, è destinato ai pazienti adulti affetti da “LLA da precursori delle cellule B recidivante o refrattaria, negativa per il cromosoma Philadelphia”, ovvero una delle diverse forme in cui può presentarsi la patologia.

La leucemia linfoblastica acuta coinvolge il sangue e il midollo osseo. Si verifica quando all’interno di una cellula del midollo osseo avviene una mutazione o un errore nella duplicazione del Dna che ne altera i normali processi di proliferazione e differenziazione. Nei pazienti si determina un accumulo incontrollato di globuli bianchi immaturi e maligni (blasti) che toglie spazio alle cellule sane del midollo osseo, compromettendo le normali funzioni ematopoietiche.

“Nei pazienti adulti – spiega Alessandro Rambaldi, direttore dell’Unità strutturale complessa di Ematologia dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo – si registrano circa 7-10 nuovi casi all’anno per milione di abitanti. Per questo motivo la leucemia acuta linfoblastica dell’adulto è da considerare una malattia rara. Negli Stati Uniti, per esempio, nel corso del 2015 il numero di casi stimati è stato di circa 6.000. In Europa e in Italia i dati di incidenza sono del tutto analoghi e quindi la stima di nuovi casi di pazienti adulti nel nostro paese è di circa 300 nuovi casi all’anno”.

Blinatumomab – spiega Amgen – rappresenta una strategia terapeutica rivoluzionaria per il trattamento dei pazienti affetti da questa patologia per la quale fino a oggi le opzioni terapeutiche sono state molto limitate. E’ il primo e unico anticorpo monoclonale bi-specifico, che si avvale della tecnologia BiTE (Bispecific T-cell Engager) sviluppata dall’azienda. Gli anticorpi bispecifici BiTE agiscono legandosi a due bersagli contemporaneamente: da una parte le cellule T del sistema immunitario e dall’altra le cellule B maligne. Le cellule T sono globuli bianchi speciali che rivestono un ruolo centrale nel sistema immunitario, essendo deputate a riconoscere e annientare le cellule tumorali iniettando al loro interno tossine che ne causano la morte. Le cellule tumorali, però, possono eludere il sistema immunitario evitando di essere attaccate e distrutte. Blinatumomab crea un ponte tra il CD3, recettore espresso sulla superficie delle cellule T, e il CD19, recettore presente sulla superficie delle cellule B. In questo modo stimola il sistema immunitario a riconoscere le cellule maligne e combatterle.

Diversi studi di fase Fase I e II condotti nel corso degli anni hanno restituito risultati incoraggianti. Al punto da spingere Fda ed Ema a concedere a blinatumomab una revisione accelerata e un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. Di recente, Fda, integrando i risultati dello studio TOWER, ha convertito l’autorizzazione da condizionata a totale. Il TOWER è uno studio di Fase III, il primo trial clinico condotto su un’immunoterapia che ha dimostrato un beneficio in termini di sopravvivenza globale quasi raddoppiandola: dai 4 mesi con la terapia standard ai 7,7 mesi con blinatumomab.

“I risultati dello studio TOWER – spiega Robin Foà, direttore dell’Ematologia del Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma – sono stati rilevanti perché hanno dimostrato che, rispetto alla terapia convenzionale, blinatumomab ha permesso di ottenere percentuali di remissione completa di malattia significativamente più elevate e ha praticamente raddoppiato la sopravvivenza globale, rispetto alla chemioterapia standard. Risultati mai osservati con un singolo farmaco e recentemente pubblicati sulla più prestigiosa rivista di medicina, il New England Journal of Medicine”.

Oggi – spiega Francesco Di Marco, amministratore delegato di Amgen Italia – blinatumomab è l’unica alternativa alla chemioterapia per i pazienti affetti da LLA. “ Come azienda – sottolinea il manager – abbiamo compiuto un grande sforzo per fare in modo che i pazienti potessero beneficiarne anche prima della conclusione dell’iter registrativo, sia attraverso la sperimentazione clinica arruolando 45 pazienti in 13 Centri solo per lo studio TOWER, sia avviando un programma di uso compassionevole grazie al quale in un anno siamo riusciti a dare il farmaco in maniera gratuita a 67 pazienti”. Grazie alla piattaforma BiTE, Amgen è al lavoro anche su tre nuove molecole per il trattamento della leucemia mieloide cronica e del mieloma multiplo.

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Corruzione, nell’ultimo anno illeciti in un’azienda sanitaria su quattro

Sanità e Politica

Corruzione, nell’ultimo anno illeciti in un’azienda sanitaria su quattro

Oggi la Giornata nazionale contro la corruzione in sanità. Ecco i dati del report realizzato Transparency International Italia, Censis, Ispe Sanità e Rissc. Farmaci e sperimentazioni cliniche tra le aree più a rischio

di Redazione Aboutpharma Online 6 aprile 2017

 

La corruzione continua a infettare la sanità italiana. Con il suo fardello di inefficienze, ingiustizie, immoralità e risorse sprecate, che resiste anche ai notevoli progressi compiuti in questi anni sia dal punto di vista normativo che in termini di coscienza e consapevolezza. Parlano i numeri: nell’ultimo anno in Italia un’azienda sanitaria su quattro ha registrato almeno un episodio di corruzione.  È questo, in sintesi, il messaggio che arriva dalla seconda “Giornata nazionale contro la corruzione”, celebrata oggi a Roma dai partner del progetto “Curiamo la corruzione”, l’iniziativa coordinata da Transparency International Italia, in collaborazione con Censis, Ispe Sanità (Istituto per la promozione dell’etica in sanità) e Rissc (Centro ricerche e studi su sicurezza e criminalità), e finanziata nell’ambito della Siemens Integrity Initiative.

A fotografare lo stato di integrità della sanità italiana è il rapporto “Curiamo la corruzione 2017” presentato oggi e articolato in tre analisi: un’indagine sulla percezione del fenomeno da parte dei responsabili della prevenzione della corruzione, realizzata dal Censis tra il 2016 e il 2017;  l’analisi di sprechi e inefficienze che emergono dalla valutazione dei Conti Economici 2013 delle Asl e delle aziende ospedaliere elaborata da Ispe Sanità; la valutazione dei rischi e delle contromisure contenute nei Piani triennali di prevenzione della corruzione 2016-2018 (Ptpc) delle strutture sanitarie, condotta da Rissc.

Secondo l’indagine Censis, basata su un campione di 136 strutture, nell’ultimo anno il 25,7% delle aziende sanitarie italiane ha registrato almeno un episodio di corruzione. Un dato medio nazionale, con punte più alte al Sud: nel Meridione, infatti, il malaffare ha colpito più di un’azienda su tre (37,3%). I settori ritenuti più a rischio sono quello degli acquisti e delle forniture, le liste d’attesa e le assunzioni del personale.

Ma quanto costa la corruzione? Sulla base dell’analisi dei conti economici delle aziende, Ispe Sanità stima che circa il 6% delle spese correnti annue del Servizio sanitario nazionale siano riconducibili a sprechi e corruzione. Più concretamente, secondo i numeri presentati dall’economista Francesco Saverio Mennini, la corruzione genera un impatto che oscilla tra un “minimo” di 4,3 miliardi e un massimo di 9,2 miliardi di euro all’anno. Ma i numeri crescono se si considera “l’ammontare delle potenziali inefficienze nell’acquisto di beni e servizi sanitari del Ssn” – ovvero gli sprechi a 360 gradi –  stimato in circa 13 miliardi di euro.

Esaminando, invece, i risultati dell’analisi – condotta su tutte le aziende sanitarie e non soltanto sul campione Censis – dei Piani anticorruzione realizzata da Rissc, emerge un altro dato preoccupante: il 51,7% delle strutture non ha adottato piani anticorruzione adeguati. Ma il report “Curiamo la corruzione 2017” non restituisce solo ombre. Qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta: il 96% delle aziende sanitarie ha già reso disponibili dei sistemi di raccolta delle segnalazioni di corruzione (whistleblowing) e il 44% lo ha fatto utilizzando delle piattaforme informatiche. Il 79% delle strutture ha adottato i Patti di integrità, da sottoscrivere con le aziende che partecipano agli appalti e il 90% ha intrapreso percorsi di formazione rivolti al personale sui temi dell’etica e della legalità. Sono proprio la formazione e la sensibilizzazione dei dipendenti ad essere ritenute le misure più efficaci per contrastare la corruzione dal 52% dei responsabili della prevenzione, più dell’aumento dei controlli sulle spese (45%) e sulle procedure di appalto (37%): solo nelle Regioni del Sud i responsabili della prevenzione mettono al primo posto i controlli sulle spese.

Dall’analisi sui Piani triennali di prevenzione anche una “top five” sui “rischi di corruzione più elevati”, cinque aree critiche dove si contrano i pericoli più gravi. Se al quinto, quarto e terzo posto figurano – in ordine – “segnalazioni di decessi alle imprese funebri; favoritismi ai pazienti provenienti dalla libera professione e violazioni dei regolamenti di polizia mortuaria”, le posizioni più rilevanti sono occupate dalla “iper-prescrizione di farmaci per favorire gli sponsor” e dalla “sperimentazione clinica condizionata”, rispettivamente seconda e prima in classifica. Un campanello d’allarme che la stessa industria del farmaco non sottovaluta: “Il miglior modo per curare la corruzione non è combatterla, ma prevenirla. E noi facciamo tanto per la prevenzione”, commenta il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, ricordando “il codice deontologico dell’associazione che è più rigido e rigoroso delle leggi”, così come le iniziative per “la trasparenza delle transazioni economiche tra industria e operatori sanitari”.

 

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Vaccini, in Europa record di scetticismo

Vaccini, in Europa record di scetticismo

Francia al primo posto nel mondo per dubbi sulla sicurezza. Italia, Russia e Azerbaijan i paesi in cui è messa più in discussione la loro importanza come strumento di prevenzione. L’indagine del Vaccine Confidence Project


Lo scetticismo anti-vaccini avanza in Europa. La Francia è il Paese con il minor grado di fiducia sulla sicurezza delle vaccinazioni, mentre Azerbaijan, Russia e Italia sono i più scettici sulla loro importanza. È quanto emerge da una nuova indagine condotta nell’ambito Vaccine Confidence Project e pubblicata sulla rivista EBiomedicine.

La ricerca ha esaminato l’atteggiamento verso i vaccini di oltre 65mila persone di 67 Paesi. Se Bangladesh, Ecuador e Iran sono i paesi in cui i vaccini vengono ritenuti “più importanti”, in Europa la diffidenza aumenta. Anche se i tassi di copertura vaccinale rimangono alti, nel Vecchio Continente si trovano sette dei dieci Paesi che mostrano più dubbi sulla sicurezza dei vaccini, tra cui la Francia (45,2%) e la Bosnia (38,3%), mentre nel resto del mondo la media è del 13%. Molte più certezze, invece, in Argentina (1,3%), Etiopia (2,1%) ed Ecuador (2,2%), i tre Paesi con il tasso di scetticismo sulla sicurezza più basso.

Se si considera, invece, un altro parametro di valutazione, ovvero la scarsa importanza assegnata ai vaccini, vincono la maglia nera Russia (17,1%), Azerbaijan (15,7%) e Italia (15,4%), contro una media mondiale del 5,8%.

Per quanto riguarda le coperture, i tassi di vaccinazione più bassi si registrano nel sub-continente indiano, nell’Africa Sub-sahariana e nel Sud-est asiatico, per via della povertà, l’accesso limitato ai servizi vaccinali e la poca educazione sanitaria. In Europea, comunque, le coperture mostrano un’ampia variabilità: in Danimarca, Islanda, Romania, Austria, Moldavia, San Marino e Ucraina si registrano i tassi più bassi dal 2000.

Lo studio

 

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Digital & Life Sciences: quali norme per il futuro presente?

Digital & Life Sciences: quali norme per il futuro presente?

Con questo articolo di presentazione prende avvio la rubrica settimanale curata dallo studio legale Portolano Cavallo, che si occuperà di temi giuridici nascenti dall’incontro “Digital & Life Sciences”

Con questo articolo di presentazione prende avvio la rubrica settimanale curata dal nostro studio legale, che si occuperà di temi giuridici nascenti dall’incontro “Digital & Life Sciences”.
La scelta di questo tema nasce dalla nostra esperienza e dalla nostra curiosità: nell’assistenza legale che forniamo ai nostri clienti, ci viene chiesto sempre più spesso di rispondere alle domande poste dall’incrocio tra tecnologia e Scienze della Vita. Per fare ciò, siamo chiamati a costruire soluzioni giuridiche innovative, stante il quadro normativo non sempre aggiornato e i limitati o spesso inesistenti precedenti giurisprudenziali. Ciò alimenta la nostra curiosità e fa sì che il nostro interesse per tali materie non si esaurisca nella dimensione professionale ma si dispieghi anche in quella accademica e di ricerca, il che ci consente di meglio applicare creativamente la disciplina in vigore e riflettere sulla sua evoluzione. Nel nostro piccolo, anche il nostro studio ha una funzione di “Ricerca e Sviluppo”.
Del resto è facile essere conquistati da questioni che stanno ridefinendo la nostra società intorno a due grandi perni: (i) quello digitale, dell’informatica e della comunicazione, il cui sviluppo non conosce sosta (si pensi ai big data, all’Internet of Things, all’augmented e alla virtual reality, alla blockchain, per citare solo alcuni dei temi ora al centro del dibattito pubblico); (ii) quello delle scienze della vita, protagonista di una crescita vertiginosa, cominciata nel 2000 ad esito della conclusione del primo sequenziamento dell’intero genoma umano, ulteriormente acceleratasi nell’ultimo lustro con il calo dei costi di sequenziamento del Dna e lo sviluppo della tecnica CRISPR/Cas9 (essa stessa oggetto di numerose dispute brevettuali).

Questi due filoni tecnologici fino a tempi molto recenti hanno agito in modo indipendente e parallelo, entrando in contatto sporadicamente. Ma lo scenario è cambiato: l’ingranaggio digitale e quello delle Life Sciences ora interagiscono in modo sistematico e stabile, creando sinergie che si propongono di condurci, entro breve tempo, a una nuova entusiasmante rivoluzione tecnologica, con implicazioni giuridiche, etiche e sociali che possiamo immaginare solo in parte.
Nel campo delle Life Sciences l’apporto delle conoscenze digitali può avere effetti positivi dirompenti e contribuire a un significativo salto; ma può anche condurre a scenari imprevisti e di difficile gestione senza un’adeguata base normativa.
Si pensi al ricorso all’intelligenza artificiale a fini diagnostici e come strumento di ausilio alle attività di ricerca: ciò porterà ad affrontare nuove questioni giuridiche in tema di responsabilità medica in caso di mancata o errata diagnosi, di trattamento dei dati personali dei pazienti, che devono essere conservati e continuamente elaborati per consentire alla macchina di imparare ed evolvere, di protezione degli investimenti, poiché nel nostro ordinamento il software in quanto tale non è brevettabile, così come non lo sono i metodi diagnostici, chirurgici e terapeutici, etc.

C’è poi l’ampio fronte della digitalizzazione dei dispositivi medici. L’approccio più avanzato è rappresentato dalle “terapie digitali” che, mediante l’interazione tra dispositivi medici dotati di software e farmaci, intende perseguire l’ottimizzazione dell’efficacia dei medicinali. Altra frontiera è quella dell’utilizzo di dispositivi impiantabili nel corpo umano per il monitoraggio e il trattamento a distanza dei pazienti. In questo ambito si inseriscono anche le app mediche, e le conseguenti questioni relative alla qualificazione come dispositivi medici, pur non rientrando necessariamente in questa categoria. Con il nuovo regolamento europeo sui dispositivi medici, che sarà applicabile a partire dal 2020, il legislatore ha iniziato a fare chiarezza; vi sono però altri importanti temi aperti, legati anche all’interazione dei dispositivi medici digitali con i big data, e altri ne nasceranno.
Allo stesso modo, si pensi all’utilizzo dei social media nel settore Life Sciences , per esempio da parte delle società farmaceutiche nell’attività di reclutamento di pazienti per le sperimentazioni, soprattutto dei farmaci orfani. Anche qui vi sono evidenti questioni connesse al rispetto della privacy, ma anche di compliance con la normativa in materia di sperimentazioni cliniche e sulle modalità di arruolamento dei pazienti, oltre alle implicazioni di carattere etico connesse al fatto che il target dei pazienti della fase 2 e 3 è rappresentato da persone malate, talvolta alla disperata ricerca di una cura. O, ancora, in ambito internet, si pensi all’utilizzo di cookies o di tecniche di Search Engine Optimization e Search Engine Marketing da parte delle società farmaceutiche.

In ambito sanitario anche nel nostro Paese è già in corso un ambizioso processo di digitalizzazione. Avviato con l’introduzione della ricetta elettronica, esso verrà ulteriormente rafforzato: il Documento di Economia e Finanza 2017 prevede l’attuazione, entro la fine di quest’anno, del Patto per la salute digitale approvato a luglio 2016 dalla Conferenza Stato-Regioni.
In questo spazio discuteremo di questo e di molto altro.
Lo faremo, come è nostro costume, con un rigoroso approccio giuridico unito ad linguaggio chiaro e diretto. Saremo aperti al confronto e agli stimoli che verranno dai lettori che ci onoreranno della loro attenzione. Soprattutto, saremo onesti, cercheremo di non essere banali, di fare del nostro meglio e di migliorare con il vostro aiuto.

A cura di Portolano Cavallo 

Homepage “Digital & Life Sciences”

 

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Sprechi in sanità, esami pre-operatori “sorvegliati speciali”

Sprechi in sanità, esami pre-operatori “sorvegliati speciali”

Routine, timori (anche legali), inappropriatezza diffusa: la Fondazione Gimbe lancia l’allarme sull’eccesso di esami prima degli interventi chirurgici e pubblica la sintesi italiana delle Linee Guida del Nice


Troppi esami prima degli interventi chirurgici. Non sempre indispensabili, ma prescritti comunque. Per varie ragioni: timori medico-legali ingiustificati, routine professionali consolidate e resistenti al cambiamento, limitata condivisione dei rischi operatori con i pazienti. Un “pezzo” di sanità da tenere sotto osservazione secondo la Fondazione Gimbe, che presenta in Italia la traduzione delle “Linee guida per la richiesta appropriata dei test pre-operatori nella chirurgia elettiva” del britannico National institute for health and care excellence (Nice).

“L’utilizzo routinario – spiega Nino Cartabllotta, presidente della Fondazione Gimbe – di test preoperatori da sottoporre a chirurgia elettiva non incide sulla gestione chirurgica e il riscontro di risultati falsamente positivi genera un ulteriore sovra-utilizzo di prestazioni, quali terapie inappropriate, consulti specialistici ed esami invasivi che possono determinare danni ai pazienti. Inoltre, i conseguenti sprechi non sono dovuti solo all’eccesso di esami, ma anche ai ritardi generati nel processo chirurgico”.

La linee guida del Nice prendono in considerazione lo stato fisico del paziente secondo le classi di rischio Asa(American society of anesthesiologists) e la complessità dell’intervento chirurgico (minore, intermedia, maggiore), forniscono le raccomandazioni per i test diagnostici con un pratico schema che utilizza i colori del semaforo: rosso (non di routine), giallo (raccomandato in casi particolari), verde (sempre raccomandato).

“Il Nice –  continua Cartabellotta – raccomanda di includere i risultati di tutti i test pre-operatori effettuati dal medico di famiglia quando si richiede un consulto chirurgico, oltre che considerare tutti i farmaci assunti dal paziente prima di effettuare qualsiasi test pre-operatorio, al fine di evitare inutili duplicazioni di esami, in particolare quelli eseguiti per specifiche comorbidità o terapie assunte dal paziente”.

La Fondazione Gimbe pone l’accento anche sul ruolo delle linee guida nella nuova legge sul rischio clinico (24/2017). L’articolo 5 fa riferimento alla tutela medico-legale del professionista che si attiene a “linee guida elaborate da elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie e, in assenza di queste, da buona pratiche clinico-assistenziali”. Il lavoro del Nice è, per la Fondazione, un esempio da seguire.

 

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Svelato un nuovo meccanismo di resistenza agli antibiotici

Svelato un nuovo meccanismo di resistenza agli antibiotici

Grazie a un potente microscopio un gruppo di ricercatori australiani ha scoperto che le infezioni resistenti da stafilococco aureo sviluppano una mutazione a varie cellule di distanza dai ribosomi, i complessi macromolecolari responsabili della sintesi proteica


È un “metodo di resistenza sorprendente e non ortodosso” quello che lo stafilococco aureo utilizza per raggirare l’effetto degli antibiotici di ultima linea. Ad affermarlo Matthew Belousoff del Biomedicine Discovery Institute della Monash University di Melbourne che con il suo team è riuscito a svelare il meccanismo attraverso un microscopio elettronico per documentare a livello molecolare i cambiamenti che avvengono nei batteri quando diventano resistenti agli antibiotici. In particolare i ricercatori hanno comparato sotto il microscopio elettronico le strutture cellulari di specie di stafilococco aureo resistenti e non resistenti, e hanno osservato che le infezioni resistenti sviluppano una mutazione a varie cellule di distanza dai ribosomi, i complessi macromolecolari responsabili della sintesi proteica. La mutazione causa un effetto a cascata sulla sistemazione strutturale della cellula e gradualmente corrompe l’area raggiunta dall’antibiotico. Nei casi di infezione da stafilococco, circa uno su cinque è resistente agli antibiotici, ricorda lo studioso. E l’infezione è comune nella popolazione: nella maggior parte dei casi è innocua, ma può essere letale su persone con sepsi. Quasi tutte le infezioni sono ormai diventate resistenti all’antibiotico più comunemente prescritto, la meticillina. Farmaci finora riservati come ultima linea di difesa, presto dovranno essere usati in prima istanza.

“Sappiamo che i batteri hanno una grande capacità di adattarsi ai cosiddetti stress ambientali, e nulla causa più stress quanto una forma di vita che cerca di ucciderli” scrive Belousoff. “Ovviamente si cerca di ucciderli con gli antibiotici ma si adattano rapidamente. Finora non sapevamo come, quale fosse il meccanismo”. Gli antibiotici attaccano le infezioni interferendo con il ribosoma batterico, la parte della cellula che produce proteine. E la cellula muore se non può più produrre proteine. “L’antibiotico funziona bloccando gli ingranaggi e la cellula non può più produrre proteine, ma i batteri resistenti trovano la maniera di oleare la macchina e di riavviarla”, spiega ancora. La scoperta riguarda solo il modo con cui lo stafilococco sconfigge il farmaco linezolid, ma la nuova tecnologia potrà essere adattata per formulare nuovi farmaci e a combattere altri batteri.

 

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Vaccini, la posizione di Walter Ricciardi (Iss) nel suo editoriale

Vaccini, la posizione di Walter Ricciardi (Iss) nel suo editoriale

"Basti pensare che solo sei regioni riescono a superare la soglia di sicurezza (95%) e otto, invece, sono addirittura sotto il 93%", scrive il presidente nel suo editoriale per la newsletter dell'Istituto superiore di sanità


“I dati di copertura vaccinale del 2016, appena pubblicati dal Ministero della Salute, mettono in evidenza che poca strada è stata fatta per risalire la china delle coperture vaccinali in Italia”.
Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, esordisce così nel suo
editoriale per la newsletter dell’Iss.
Ricciardi mostra preoccupazione per una soglia di vaccinazioni obbligatorie che si arrestano su una soglia di copertura che resta critica per la tutela della salute pubblica futura. “Basti pensare che solo sei regioni riescono a superare la soglia di sicurezza (95%) e otto, invece, sono addirittura sotto il 93% ma per tutte le altre restano differenze significative tra regione e regione che testimoniano ancora di più, se ce ne fosse bisogno, l’importanza di un indirizzo unico per tutto il Paese in materia di prevenzione primaria”, scrive Ricciardi.

Il Veneto, che già nel 2007 aveva sospeso l’obbligo vaccinale, creando un sistema di monitoraggio sulle vaccinazioni e promuovendo un’adesione consapevole non è riuscito, però, a impedire un livello insoddisfacente di copertura proprio sulle vaccinazioni obbligatorie, che è infatti inferiore di oltre un punto rispetto alla media nazionale.
“La copertura di vaccinazioni raccomandate come morbillo, parotite e rosolia è superiore di quasi due punti rispetto al resto d’Italia ma comunque inferiore al livello critico (95%), necessario per il raggiungimento dell’eliminazione del morbillo”.
Il Veneto, inoltre, sempre stando ai dati forniti da Ricciardi nel suo editoriale, risulta fra le poche regioni ad avere un recupero della copertura della vaccinazione esavalente inferiore al 5% a 36 mesi. Ciò significa che solo il 5% dei bambini non vaccinati secondo il calendario prestabilito si mette in pari con questa vaccinazione entro i tre anni. A differenza del resto d’Italia dove il recupero nella stessa fascia temporale avviene con percentuali intorno al 18%.

 

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Una nuova terapia genica per l’emofilia A potrebbe iniziare i trial clinici

Aziende

Una nuova terapia genica per l’emofilia A potrebbe iniziare i trial clinici

Shire ha fatto domanda di Investigational New Drug (Ind) per un trattamento che mira a proteggere i pazienti da sanguinamenti garantendo un livello costante di fattore VIII

di Redazione Aboutpharma Online 12 luglio 2017

 

Novità in vista contro l’emofilia A. Shire annuncia la sottomissione alla Fda (Food and Drug Administration) Usa della richiesta di Investigational New Drug (Ind) per un farmaco sperimentale: SHP654  (designato anche come BAX 888), una terapia genica per la cura dell’emofilia A. Il farmaco, si legge in una nota, mira a proteggere i pazienti con emofilia A da sanguinamenti, attraverso un trattamento che a lungo termine garantisce un livello costante di fattore VIII.  In particolare la terapia genica di Shire  utilizza un vettore, un virus adeno-associato ricombinante, per veicolare una copia funzionale di FVIII al fegato e quindi consentire un’autoproduzione del fattore VIII.

“Il farmaco utilizza una piattaforma di tecnologia proprietaria, progettata per produrre livelli sostenuti del fattore VIII, simili ai meccanismi naturali dell’organismo” ha dichiarato Paul Monahan, Senior Medical Director, Gene Therapy, Shire. “Il nostro obiettivo con la terapia genica per l’emofilia è quello di rispettare i più alti standard di sicurezza ed efficacia”.

La domanda alla Fda si basa sui risultati di studi pre-clinici e di fase 1 che dimostrano l’utilità potenziale di questa terapia (che saranno presentati al Congresso della Società internazionale per la trombosi e l’emostasi (Isth), in corso a Berlino). Una Ind, ricorda l’azienda, è una richiesta per l’autorizzazione a somministrare un farmaco sperimentale agli esseri umani. Una volta ottenuto il via libera, Shire avvierà uno studio multicentrico globale per valutare la sicurezza e le dosi di terapie necessarie, con l’obiettivo finale di portare il medicinale ai pazienti.

 

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Leucemie, trapianto possibile anche in assenza di un donatore completamente compatibile

Medicina scienza e ricerca

Leucemie, trapianto possibile anche in assenza di un donatore completamente compatibile

La tecnica di manipolazione delle cellule staminali sviluppata dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è stata allargata a leucemie pediatriche e tumori del sangue: un’occasione di guarigione definitiva per centinaia di bambini in Italia e nel mondo

di Redazione Aboutpharma Online 26 luglio 2017

 

È l’ultima frontiera del trapianto di cellule staminali per i pazienti pediatrici con una leucemia acuta. Una nuova tecnica di manipolazione cellulare messa a punto dai ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e sviluppata con la più grande casistica al mondo nell’Ospedale della Santa Sede su bambini affetti da leucemie e tumori del sangue. Anche in assenza di un donatore completamente compatibile, la nuova tecnica rende possibile il trapianto di midollo da uno dei due genitori con percentuali di guarigione sovrapponibili a quelle ottenute utilizzando un donatore perfettamente idoneo. I risultati eccezionali di questa sperimentazione – potenzialmente applicabile a centinaia di bambini in Italia e nel mondo – sono stati  pubblicati sulla rivista scientifica internazionale Blood e rilanciati dalla Società americana di ematologia (Ash).

La  rivoluzionaria metodologia, messa a punto dall’équipe di Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia e Medicina Trasfusionale al Bambino Gesù, era già stata applicata e pubblicata, sempre su Blood, per quanto riguarda le immunodeficienze e le malattie genetiche (talassemie, anemie, ecc.). Il nuovo paper allarga le patologie trattabili con questa innovativa tecnica alle leucemie e ai tumori del sangue.

Il trapianto di cellule staminali del sangue rappresenta una terapia salvavita per un elevato numero di pazienti pediatrici affetti da leucemia o da altri tumori del sangue, così come per bambini che nascono senza adeguate difese del sistema immunitario o con un’incapacità a formare adeguatamente i globuli rossi (malattia talassemica). Per tanti anni, l’unico donatore impiegato è stato un fratello o una sorella immunogeneticamente compatibile con il paziente. Ma la possibilità che due fratelli siano identici tra loro è solamente del 25%. Per ovviare a questa limitazione, sono stati creati i Registri dei donatori volontari di midollo osseo che arruolano ormai più di 29 milioni di donatori e le Banche di raccolta e conservazione del sangue placentare, le quali rendono disponibili circa 700.000 unità nel mondo.

A dispetto di questi numeri, esiste un 30-40% di pazienti che non trova un donatore idoneo o che ha un’urgenza di essere avviato al trapianto in tempi non compatibili con quelli necessari a identificare un donatore al di fuori dell’ambito familiare. Con lo scopo di rispondere a questa “urgenza” terapeutica, negli ultimi 20 anni molto si è investito nell’utilizzo di uno dei due genitori come donatore di cellule staminali emopoietiche, per definizione, immunogeneticamente compatibile per il 50% con il proprio figlio.

Tuttavia, l’utilizzo di queste cellule senza alcuna manipolazione rischia di causare gravi complicanze, potenzialmente fatali, correlate alla procedura trapiantologica stessa. Per questo motivo, fino a pochi anni fa, si utilizzava un metodo di “purificazione” di queste cellule che garantiva una buona percentuale di successo del trapianto (attecchimento) ma che, sfortunatamente, si associava a un elevato rischio infettivo (soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto) con un’elevata incidenza di mortalità. Come risultato finale, i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, o un soggetto identificato al di fuori dell’ambito familiare.

Negli ultimi anni, i ricercatori dell’Ospedale Bambino Gesù hanno dedicato i loro sforzi a mettere a punto una nuova tecnica di manipolazione delle cellule staminali che permette di eliminare le cellule pericolose (linfociti T alfa/beta+), responsabili dello sviluppo di complicanze legate all’aggressione da parte di cellule del donatore sui tessuti del ricevente (Graft versus host disease), lasciando però elevate quantità di cellule buone (linfociti T gamma/delta+, cellule Natural Killer), capaci di proteggere il bambino da infezioni severe e dalla ricaduta di malattia. In particolare, il ruolo delle cellule Natural Killer da oltre 10 anni è stato oggetto di approfondito e meticoloso studio grazie alla collaborazione tra il Locatelli e  Lorenzo Moretta, responsabile dell’area di ricerca in immunologia del Bambino Gesù. Proprio la stretta interazione tra ricerca clinica e ricerca di base ha permesso di capire che con il nuovo approccio di manipolazione selettiva dei tessuti da trapiantare, i pazienti possono beneficiare fin da subito dell’effetto positivo dei linfociti T gamma/delta+ e delle cellule Natural Killer del donatore. Largo supporto alle attività di ricerca è stato dato da un grant finanziato da AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), che conferma il proprio ruolo importantissimo nel promuovere importanti avanzamenti terapeutici nella cura dei tumori nel nostro Paese.

In particolare, questa innovativa procedura di trattamento cellulare è stata applicata a 80 pazienti con leucemie acute resistenti ai trattamenti convenzionali o già ricadute dopo i convenzionali trattamenti chemioterapici. I risultati del Bambino Gesù dimostrano come il rischio di mortalità da trapianto è straordinariamente basso (nell’ordine del 5%), il rischio di ricaduta di malattia è del 24% e, conseguentemente, la probabilità di cura definitiva per questi bambini è superiore al 70%, un valore sovrapponibile (anzi lievemente migliore) a quello ottenuto nello stesso periodo in pazienti leucemici trapiantati (sempre nell’Ospedale della Santa Sede) da un donatore, familiare o non consanguineo, perfettamente compatibile. Inoltre, il rischio particolarmente basso di sviluppare complicanze a breve e lungo termine correlate al trapianto ottenuto grazie a questo nuovo approccio metodologico, rende questa procedura un traguardo solo pochi anni fa impensabile e, oggi, una realtà potenzialmente applicabile a centinaia di altri bambini nel mondo.

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VERSO IL BUGIARDINO DIGITALE

Legal & Regulatory

VERSO IL “BUGIARDINO” DIGITALE SECONDO LA LEGGE SULLA CONCORRENZA IN CASO DI MODIFICHE AL CONTENUTO DEL FOGLIETTO ILLUSTRATIVO, L’AIFA AUTORIZZA LA VENDITA AL PUBBLICO “PREVEDENDO CHE IL CITTADINO SCELGA LA MODALITÀ PER IL RITIRO DEL FOGLIETTO SOSTITUTIVO CONFORME A QUELLO AUTORIZZATO IN FORMATO CARTACEO O ANALOGICO O MEDIANTE L'UTILIZZO DI METODI DIGITALI ALTERNATIVI, E SENZA ONERI PER LA FINANZA PUBBLICA”

di Elisa Stefanini

Portolano Cavallo 21 settembre 2017 La nuova legge sulla concorrenza (legge n. 124 del 4 agosto 2017) nota, nel settore sanitario, soprattutto per aver previsto l’ingresso nella proprietà delle farmacie alle società di capitale, ha apportato una significativa novità anche in relazione alle modalità di consegna al paziente del foglietto illustrativo dei prodotti farmaceutici. In base alla nuova legge, infatti, in caso di modifiche al contenuto del foglietto illustrativo, l’Aifa autorizza la vendita al pubblico delle scorte dei medicinali interessati “prevedendo che il cittadino scelga la modalità per il ritiro del foglietto sostitutivo conforme a quello autorizzato in formato cartaceo o analogico o mediante l’utilizzo di metodi digitali alternativi, e senza oneri per la finanza pubblica”. Questa previsione riguarda un caso particolare: la vendita al pubblico delle scorte di medicinali per i quali siano intervenute modificazioni del foglietto illustrativo. Tali modifiche si rendono normalmente necessarie a seguito di variazioni nelle autorizzazioni alle immissioni in commercio (Aic) dei medicinali. Come era prima La norma finora vigente (comma 1-bis dell’art. 37 del D.Lgs. 219/2006) prevedeva che l’Aifa potesse autorizzare la vendita al pubblico delle scorte di medicinali per i quali siano intervenute variazioni, “subordinandola alla consegna al cliente, a cura del farmacista, di un foglietto sostitutivo conforme a quello nuovo”. A tale norma era stata data attuazione da Aifa con la propria determina n. 371 del 14 aprile 2014 recante criteri per l’applicazione delle disposizioni relative allo smaltimento delle scorte dei medicinali. In base a tale determina: • se le variazioni dell’Aic comportano una modifica del foglietto illustrativo concernente alcuni specifici contenuti (tra cui: restrizione dell’indicazione terapeutica; aggiunta di una nuova controindicazione; avvertenze speciali e precauzioni d’impiego; interazioni con altri medicinali; uso in gravidanza e allattamento; aggiunta effetti indesiderati; etc.), l’autorizzazione di Aifa all’esaurimento delle scorte dei medicinali è subordinata alla consegna da parte dei farmacisti agli utenti del foglio illustrativo aggiornato; • se le variazioni riguardano altri contenuti, l’esaurimento delle scorte è autorizzato senza obbligo della consegna del foglio illustrativo aggiornato e, pertanto, i lotti già prodotti alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento di modifica o di rinnovo dell’Aic possono essere mantenuti in commercio fino alla data di scadenza senza ulteriori accorgimenti. Nel primo caso, i farmacisti sono tenuti a consegnare il foglio illustrativo aggiornato ai propri clienti a decorrere dal termine di trenta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (italiana o europea) del provvedimento di modifica o rinnovo dell’Aic. A tal fine, entro il medesimo termine, i titolari delle Aic variate devono rendere accessibile il foglio illustrativo aggiornato al farmacista mediante la consegna materiale dello stesso oppure mediante “un alternativo sistema informatico”, che dovrà garantire la conformità alle ultime modifiche approvate dall’Aifa. La possibilità di assolvere a quest’obbligo informativo verso i pazienti con strumenti digitali era già stata prevista dal documento recante chiarimenti sull’applicazione della determina n. 371/2014, emanato da Aifa nel giugno 2015. In particolare, Aifa aveva chiarito che la consegna del foglio illustrativo da parte del farmacista al paziente può essere effettuata sia mediante consegna cartacea sia mediante l’utilizzo di metodi informatici alternativi quali, ad esempio, app, wifi, mail o bluetooth, purché il paziente sia in grado di aderire a tali modalità. Un cambiamento di prospettiva Tuttavia, dalla lettura della nuova norma, sembra che si sia verificato un cambiamento di prospettiva: se prima il farmacista era tenuto alla consegna del foglietto aggiornato in formato cartaceo e poteva discrezionalmente adempiere a tale obbligo informativo anche tramite strumenti informatici/digitali (purché il cliente fosse nelle condizioni di usufruire di tali modalità), la nuova norma prevede che sia il cliente ad avere il diritto di scegliere tra il ritiro del nuovo foglietto in formato cartaceo e la ricezione del medesimo mediante metodi digitali, trasformando per i farmacisti in obbligo quello che prima era solo un’opzione, cioè il dotarsi degli strumenti necessari per assolvere all’eventuale richiesta di contenuti digitali da parte del cliente. Questo obbligo per i farmacisti rischia di tradursi in un analogo obbligo, a monte, per le società titolari delle Aic variate, di creare un sistema per consentire al cliente di optare per la versione digitale del nuovo foglietto illustrativo. Si può immaginare che, come le società titolari delle Aic variate siano tenute a rendere accessibile il foglio illustrativo aggiornato al farmacista, analogamente (ed entro gli stessi tempi) debbano rendere disponibile allo stesso uno strumento informatico/digitale affinché i clienti possano ricevere la comunicazione nelle modalità richieste. In alternativa, lo stesso farmacista potrebbe creare in autonomia strumenti idonei a garantire questa comunicazione con i propri clienti. Non sono chiare le conseguenze di una mancata predisposizione di strumenti atti a consentire la ricezione al cliente del foglietto aggiornato in formato digitale. La determina Aifa n. 371/2014 prevede sanzioni sia a carico del titolare dell’Aic variata che non trasmetta ai farmacisti il foglietto aggiornato entro i termini richiesti (la sospensione dell’Aic e il conseguente divieto di vendita), sia a carico del farmacista che non renda l’informazione ai propri clienti (segnalazione all’ordine professionale). Le medesime sanzioni sembrerebbero applicabili anche nel caso in cui il foglietto aggiornato venga fornito in formato cartaceo ma non in formato digitale? Come evidenziato, sono ancora numerosi gli interrogativi sulle modalità operative di funzionamento di questo nuovo sistema. Presumibilmente Aifa adotterà provvedimenti di chiarimento ma, nel frattempo, è opportuno che sia le società farmaceutiche che i farmacisti inizino a riflettere e a familiarizzare con questi nuovi adempimenti digitali, anche al fine di coglierne tutte le opportunità. A cura di Elisa Stefanini – Portolano Cavallo

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Vaccini, nel 2018 partirà il meccanismo centralizzato d’acquisto

Vaccini, nel 2018 partirà il meccanismo centralizzato d’acquisto

Lo ha affermato il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, che ha incontrato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ma c'è la necessità di aumentare le coperture vaccinali in tutta Europa e di armonizzare i calendari nazionali


Potrebbe partire “nella prima metà del 2018” il meccanismo centralizzato europeo per l’acquisto dei vaccini. Lo ha affermato il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, che oggi ha incontrato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, affrontando vari temi di interesse comunitario. “Il processo – ha spiegato il commissario – è iniziato nel 2014. Stiamo definendo le procedure e pensiamo che nella prima metà del 2018 si potrebbe partire con tale meccanismo, che aiuterebbe anche ad affrontare la problematica legata alle possibili carenze di vaccini in Ue. Ma da considerare – ha aggiunto – è pure l’aspetto dei risparmi che sarebbe legato ad un acquisto centralizzato europeo”. Andriukaitis ha quindi elogiato l’Italia per la posizione avuta in merito alle politiche vaccinali: “L’Italia e il ministro Lorenzin – ha detto – hanno fatto un ottimo lavoro rispetto alle vaccinazioni. Dobbiamo infatti lottare contro lo scetticismo intorno alle vaccinazioni.

Maggiore copertura vaccinale
In Europa – ha avvertito – ci sono trenta milioni di persone che si spostano, quindi la situazione deve essere tenuta sotto controllo da tutti i Paesi, che devono essere unti su questo fronte. C’è la necessità infatti di aumentare le coperture vaccinali in tutta Europa e di armonizzare i calendari nazionali”. Come “ha detto il presidente Juncker – ha rilevato – è inaccettabile che nel 2017 ci siano tanti morti per morbillo, una malattia che dovrebbe già essere debellata da tempo proprio grazie alle vaccinazioni. Questi sono cioè segnali di pericolo e l’azione forte del ministro Lorenzin” a favore dell’obbligo vaccinale per l’iscrizione a scuola “è un esempio lodevole”. L’obbligo di vaccinazione “per alcune malattie è sicuramente indispensabile e in sedici paesi – ha concluso Andriukaitis – è già attuato”.

 

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COME EVITARE PUNTURE ACCIDENTALI E INFEZIONI OCCUPAZIONALI:

COME EVITARE PUNTURE ACCIDENTALI E INFEZIONI OCCUPAZIONALI:
 
LE DIECI REGOLE D’ORO PER L’INFERMIERE
1. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, PER PRIMA COSA PORTA CON TE IL CONTENITORE RIGIDO A PROVA DI PUNTURA PER LO SMALTIMENTO.
Il contenitore deve essere su un carrello, poggiato in maniera stabile, sul ripiano superiore, con l’apertura ben visibile, non pieno oltre i due terzi, e con una capacità tale da accogliere l’intero dispositivo e non solo l’ago.
2. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, NON AVERE FRETTA, NON LASCIARTI DISTRARRE.
Se il paziente non è collaborativo, perché ha una ridotta coscienza (e.g. età estreme, patologie neurologiche), attendi che ti aiuti un collega.
3. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, LA DISTANZA MASSIMA ACCETTABILE CHE L’AGO DOVRÁ PERCORRERE È PARI ALLA LUNGHEZZA DEL TUO BRACCIO.
Questa è la distanza che va generalmente calcolata tra il punto dal quale estrarrai l’ago o il tagliente una volta completata la procedura e il punto in cui è posizionato il contenitore dove smaltirai l’ago/tagliente che hai utilizzato.
4. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE È NECESSARIA.
Se lo è, effettua l’igiene delle mani e mettiti i guanti, e se esiste la possibilità di uno schizzo di sangue, copri gli occhi con occhiali protettivi (non da vista!) e bocca e naso con una mascherina chirurgica.
5. QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE IL DISPOSITIVO CHE STAI PER USARE È QUELLO CORRETTO. SE HAI A DISPOSIZIONE UN DISPOSITIVO CHE INTEGRA UN MECCANISMO DI SICUREZZA, USALO.
Non usare un ago staccato al posto di una lancetta, non attaccare una seconda linea sulla prima, non bucare una linea per iniettarvi un farmaco, non usare aghi non necessari per la preparazione dei farmaci. Se per questa procedura è disponibile un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, utilizzalo secondo la formazione e l’addestramento che hai ricevuto.
6. QUANDO HAI EFFETTUATO LA PROCEDURA, SMALTISCI IMMEDIATAMENTE IL DISPOSITIVO CHE HAI APPENA USATO IN MODO DEFINITIVO, NEL CONTENITORE IDONEO.
Non rincappucciarlo, non disconnettere l’ago, non piegarlo o spezzarlo. Se hai usato un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, verifica che il meccanismo sia attivato al termine della
procedura. Ricorda che quello che fai riguarda anche gli altri: l’esempio, buono o cattivo, viene imitato.
7. NON LASCIARE MAI UN AGO O UN TAGLIENTE IN GIRO, ANCHE QUANDO È STERILE, O NON È STATO USATO SU UN PAZIENTE.
Chi poi si ferisce non sa se il dispositivo sia stato usato, e si spaventa comunque, soprattutto quando non è un operatore sanitario, ma, per esempio, un operatore della ditta di pulizie, della lavanderia, del trasporto rifiuti. Educa anche il paziente ad eliminare i dispositivi che usa nei contenitori rigidi a prova di puntura, anche a casa: è una sicurezza per tutti.
8. NON ASPETTARE DI AVERE UN’ESPOSIZIONE A RISCHIO: VACCINATI CONTRO I PATOGENI TRASMISSIBILI IN OSPEDALE.
Verifica se hai risposto alla vaccinazione, e impara il tuo titolo anticorpale. Devi essere sicuro di essere protetto. La vaccinazione protegge te, i tuoi cari, i tuoi colleghi, e i tuoi pazienti.
9. SE NONOSTANTE TUTTE LE PRECAUZIONI, DURANTE O AL TERMINE DELLA PROCEDURA, PER UN MOVIMENTO BRUSCO DEL PAZIENTE O PER ALTRA CAUSA IMPREVEDIBILE, L’AGO O IL TAGLIENTE TI FERISCONO, RIMANI CALMO.
Facilita il sanguinamento, se c’è, ma non in modo esagerato. Lava con sapone antisettico e disinfetta con povidone iodio o clorexidina. Informa il paziente dell’accaduto, se è cosciente, come premessa per chiedere il consenso ai test sierologici per virus a trasmissione ematica. Ricorda che per tutti gli agenti infettivi noti è disponibile una efficace profilassi o terapia, o entrambe: le conseguenze dell’incidente non sono mai irrimediabili, se lo denunci immediatamente e vieni assistito. Quindi, informa immediatamente il caposala, il tutor, il medico di guardia, a seconda della situazione, per farti aiutare nei passi successivi: con il trascorrere del tempo, le profilassi sono meno efficaci, e potrebbe non essere più possibile sapere notizie del paziente-fonte, per dimissione, trasferimento, decesso. Non vergognarti di denunciare l’incidente, anche se pensi che la colpa dell’incidente sia in parte tua: solo chi non fa non sbaglia.
10. IMPARA DAL TUO INCIDENTE O DA QUELLO DEL TUO COLLEGA. LE DENUNCE SERVONO ANCHE A QUESTO.
Correggi i comportamenti pericolosi anche a rischio di passare per uno scocciatore. Cambia le procedure sbagliate, quelle dove si impiegano aghi o taglienti inutili, o si inseriscono o lasciano in sede dispositivi non necessari. Sollecita l’introduzione di dispositivi integranti un meccanismo di sicurezza, se esistono per la specifica attività che devi svolgere. Valuta l’idoneità dei contenitori, le dimensioni dei carrelli. Verifica che nessun ago o dispositivo che viene a contatto col sangue possa essere riutilizzato per più pazienti. Scegli sempre la procedura e il dispositivo più sicuri possibile, per il paziente e per te: lui è importante, ma lo sei anche tu
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Parola d’ordine, rivedere il superticket. Ecco le proposte di Fondazione Gimbe

Parola d’ordine, rivedere il superticket. Ecco le proposte di Fondazione Gimbe

La prima prevede la rimodulazione della percentuale di detraibilità in base alla fascia di reddito. Ciò permetterebbe un recupero di 915 milioni di euro. La seconda si basa sulla riduzione proporzionale al rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, generando un recupero di oltre un miliardo di euro


Parola d’ordine, rivedere il superticket. “Una tassa estremamente iniqua”, rimodulando il sistema “altrettanto iniquo” che regola le detrazioni Irpef per le spese sanitarie. È la proposta “a costo zero” della Fondazione Gimbe. Obiettivo: cancellare il balzello tornato sotto i riflettori alla vigilia della discussione parlamentare sulla legge di Bilancio 2018. L’organismo presieduto da Nino Cartabellotta propone due ipotesi di riduzione proporzionale della detraibilità Irpef per le spese mediche. Le due proposte sono “entrambe in grado di recuperare con ampio margine le risorse per eliminare il superticket”, stimate tra 500 milioni e un miliardo di euro.

Serve rivedere il sistema

I due scenari prospettati dalla Fondazione permetterebbero rispettivamente un recupero di oltre 900 milioni e di più di un un miliardo. “Siamo pronti a portare in audizione parlamentare i dettagli della nostra proposta”, annuncia Cartabellotta. “L’obiettivo è rendere più equo il sistema delle detrazioni fiscali per le spese sanitarie. Ciò a fronte di un piccolo sacrificio dei più abbienti, recuperando risorse per eliminare il superticket, rappresenta una soluzione coraggiosa. E dovrebbe incontrare il favore di tutte le forze politiche alla fine di questa legislatura”.

…e redistribuire le risorse

“Innanzitutto – spiegano dalla Fondazione – una maggiore equità sociale grazie a una redistribuzione delle agevolazioni fiscali in relazione al reddito”. In secondo luogo, la proposta avanzata “trasforma la frammentata governance regionale di superticket mal disegnati in minori agevolazioni fiscali gestite a livello nazionale. Infine, se tarata sul rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, potrebbe favorire l’emersione del sommerso. Infatti a parità di reddito, è interesse del contribuente disporre di tutti i documenti fiscali per ‘conquistare’ lo scaglione superiore di detraibilità”.

Le due proposte possibili

“La prima prevede la rimodulazione della percentuale di detraibilità in base alla fascia di reddito. Ciò permetterebbe un recupero di 915,93 milioni. La seconda aggancia la riduzione proporzionale al rapporto spesa sanitaria media/reddito medio, generando un recupero di 1.023,94 milioni di euro. Tenendo conto che le stime riguardano l’anno fiscale 2015, e che l’eventuale rimodulazione andrebbe a regime con l’anno fiscale 2018 – conclude il Gimbe – le cifre previsionali, visto il trend in continuo aumento delle spese mediche portate in detrazione, sarebbero molto più elevate”.

L’aggiornamento del Documento di economia e finanza

Nella Risoluzione sulla nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Def 2017), ricorda il Gimbe, la maggioranza ha chiesto al Governo di “rivedere gradualmente il meccanismo del cosiddetto superticket, al fine di contenere i costi per gli assistiti che si rivolgono al sistema pubblico”. Torna dunque attuale, osserva la Fondazione, “una questione mai risolta, nonostante il Patto per la Salute 2014-2016 avesse previsto un riordino del sistema di compartecipazione alla spesa, poi timidamente rilanciato – senza esito – nella primavera scorsa dal ministro Lorenzin e dalle Regioni”.

Quelle risorse che mancano

Il vero problema – riflette il Gimbe – è rappresentato dalle risorse necessarie per eliminare il superticket. Si tratta di una cifra impossibile da determinare con precisione” ma stimata appunto fra 500 milioni e un miliardo. “Considerato che il decreto sulla rideterminazione del fabbisogno sanitario ha eroso al Servizio sanitario nazionale 604 milioni nel 2018, e vista l’inderogabile necessità di garantire il rinnovo di contratti e convenzioni”, secondo la fondazione “la priorità assoluta della legge di Bilancio è riportare il finanziamento agli originali 114 miliardi. Sperando di recuperare anche le risorse per consentire lo sblocco del turnover. Ecco perché, nonostante le aperture del ministro Padoan, reperire in legge di Bilancio le risorse per eliminare il superticket appare al momento una missione impossibile. Ed è a mero rischio di strumentalizzazione nel dibattito pre-elettorale”.

Una tassa iniqua

“Il super ticket – riconosce Cartabellotta – è una tassa estremamente iniqua. Perché proporzionalmente pesa di più sui redditi più bassi”. Non solo. “È fonte di diseguaglianze in quanto applicata in maniera diversa dalle Regioni. Inoltre, determinando per molte prestazioni uno spostamento verso il più concorrenziale mercato privato, si traduce in uno svantaggio per le casse del la sanità pubblica. Peraltro, se il superticket nasce come ‘tassa provvisoria’ con la Finanziaria del 2011, negli anni si è trasformato per le Regioni in una boccata d’ossigeno strutturale”.

Come rivedere le detrazioni Irpef

“Oggi i contribuenti possono detrarre dall’Irpef il 19% delle spese sanitarie sostenute per la parte eccedente una franchigia di 129 euro (tranne per i disabili)”, continua la fondazione . Secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate sull’anno fiscale 2015, i contribuenti hanno portato in detrazione 16 miliardi di spese mediche. E il minor gettito fiscale è stato pari a tre miliardi”. Le analisi del Gimbe, precisa il presidente, “documentano l’iniquità di questa agevolazione fiscale. Infatti, a fronte di un rapporto spesa sanitaria media/reddito medio pari al 4,69%, il range oscilla dallo 0,5% per la fascia di reddito oltre 300 mila euro al 137% per la fascia fino a 1.000 euro. Senza considerare i contribuenti a reddito negativo, confermando l’enorme impatto della spesa sanitaria privata sulle fasce di reddito più basse”.

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Adulti non vaccinati: in fumo ogni anno oltre un miliardo di euro

Adulti non vaccinati: in fumo ogni anno oltre un miliardo di euro

Uno studio della scuola Altems, presentato al congresso nazionale della Sihta, stima l'impatto economico della mancata vaccinazione della popolazione adulta contro influenza, pneumococco ed herpes zoster. Da The European House Ambrosetti, invece, un piano in 10 azioni per la profilassi anti-influenzale


Se tutti gli adulti si vaccinassero contro influenza, polmonite e Fuoco di Sant’Antonio (herpes zoster), in Italia si potrebbero recuperare risorse per oltre un miliardo di euro. È questo, infatti, il costo complessivo della mancata adesione degli adulti alle campagne di vaccinazione secondo uno studio dell’Alta scuola di Economia e Management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica. I risultati dell’analisi sono stati presentati oggi a Roma in occasione del congresso nazionale della Società italiana di health technology assessment (Sihta).

Un modello per calcolare l’impatto

Per la prima volta un gruppo di esperti di Hta ha valutato impatto fiscale e costi sociali per chi ancora lavora e si ammala a causa di influenza, polmoniti batteriche ed herpes zoster. Tre malattie prevenibili con la profilassi che, tra l’altro, il nuovo Piano nazionale vaccini offre gratuitamente a tutti gli over65.  “I primi risultati del modello – sottolinea Americo Cicchetti, presidente della Sihta e direttore di Altems – stanno dando risultati molto rilevanti e determinanti per sollecitare i decisori pubblici a livello nazionale e nelle Regioni a sviluppare efficaci strategie e campagne per la vaccinazione degli adulti e degli anziani”.

I costi

Come si arriva a stimare la cifra di un miliardo di euro? A spiegarlo è Matteo Ruggeri, economista sanitario della Cattolica e ricercatore di Altems: “Il numero di infetti dalle tre patologie varia fra 1,2 e 2,4 milioni all’anno e il mancato gettito fiscale può variare fra i 100 e i 180 milioni di euro all’anno. Se a questo aggiungiamo i costi sociali generati dalle perdite di produttività a carico della previdenza sociale, superiamo il miliardo di euro”.

Dieci azioni per la vaccinazione contro l’influenza

Nella cornice del congresso nazionale Sihta è stato presentato anche un documento sul valore della vaccinazione anti-influenzale: un piano con dieci azioni concrete per migliorare la prevenzione messo a punto da The European House Ambrosetti con il contributo incondizionato di Sanofi Pasteur. Ecco i dieci punti:

  • Introdurre nelle valutazioni di Hta della vaccinazione antinfluenzale e nei criteri di definizione delle strategie di prevenzione vaccinale gli impatti del “fiscal impact” per avere una visione più completa del reale valore della vaccinazione sia i termini economici che di salute.
  • Estendere la raccomandazione per l’adulto a partire dai 50 anni in quanto è nella fascia di età che va dai 50 ai 64 anni che si ha il massimo impatto dell’influenza sia sulla produttività del lavoro che sui consumi.
  • Promuovere l’utilizzo del quadrivalente, quale vaccino più efficace per ridurre i casi di mismatch vaccino-virus e aumentare anche la fiducia del paziente nei confronti della profilassi vaccinale. Definire raccomandazioni specifiche sulla tipologia di vaccino da somministrare ai pazienti in base alla loro età e al loro profilo di rischio (immunodepressi, anziani, bambini, donne in gravidanza ecc.) secondo quanto indicato al Calendario vaccinale per la vita.
  • Migliorare il processo di programmazione delle campagne stagionali, anticipando i tempi di pubblicazione e gli indirizzi della Circolare ministeriale (Circolare di programmazione) a febbraio/marzo (come avviene nel Regno Unito) e introdurre una seconda Circolare a settembre con i dati successivi.
  • Creare un dialogo diretto tra Dipartimenti di Prevenzione e delle Cure Primarie per migliorare la programmazione del fabbisogno in termini di dosi e tempi di distribuzione, per facilitare la comunicazione attraverso sistemi informativi integrati, per l’aggiornamento dei dati e il monitoraggio dei pazienti e dell’andamento delle vaccinazioni com’è già previsto dal Pnpv 2017/2019 e dalla legge 119/17 per quelle dell’età evolutiva.
  • Definire un sistema chiaro di definizione degli obiettivi, monitoraggio e remunerazione della Medicina generale e della Pediatria di libera scelta in linea agli obiettivi di copertura vaccinale condivisi che vengono programmati. Inserire il livello di coperture vaccinali raggiunte negli operatori sanitari fra gli obiettivi di performance dei direttori generali delle Asl, al pari di quelle rilevate per la popolazione generale, nonché fra quelli dei dirigenti di tutte le UU. OO. e dei Distretti.
  • Promuovere l’aumento delle coperture per la vaccinazione antinfluenzale tra gli operatori sanitari in quanto rappresenta un dovere etico e deontologico verso la tutela della salute degli assistiti. Rendere la vaccinazione una prerogativa di accesso alle strutture assistenziali, ivi incluse le realtà di formazione universitaria in ambito sanitario (o quantomeno rendere obbligatoria la sottoscrizione di un dissenso formale, con relativa assunzione di responsabilità, per tutti gli operatori sanitari che rifiutano la vaccinazione).
  • Realizzare campagne di comunicazione sulla vaccinazione con un ruolo attivo di medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. Bisogna compiere sforzi maggiori per attrarre coloro che generalmente decidono di non vaccinarsi ed è fondamentale dare feedback ai pazienti sull’andamento delle coperture. Prevedere un reminder per la vaccinazione antinfluenzale ad esempio sulla ricetta medica, come avvenuto nella Regione Sicilia o in occasione degli acquisti in farmacia, come nel caso della Regione Puglia.
  • Realizzare iniziative di comunicazione e informazione nelle strutture sanitarie per aumentare le coperture degli operatori sanitari.
  • Pubblicare i tassi di copertura degli operatori sanitari sui siti aziendali delle strutture sanitarie con l’obiettivo di favorire un meccanismo di maggiore trasparenza.

 

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Legge sul whistleblowing, ok del Senato: più tutele a chi denuncia illeciti

Disco verde di Palazzo Madama al ddl che tutela gli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato. Ora il testo attende l'approvazione definitiva di Montecitorio


Il Senato dà il via libera alla legge sul whistleblowing, ovvero l’attività, da parte di un dipendente, di segnalare illeciti e irregolarità sul posto di lavoro. Pubblico o privato che sia. Gli ok da parte di Palazzo Madama sono stati 142, 61 i no e 32 gli astenuti. Se la Camera, a 600 giorni dalla prima approvazione, dirà “sì” al testo modificato dai senatori, ci saranno più tutele per le persone che denunciano possibili episodi di malaffare o di corruzione. Montecitorio aveva infatti dato il suo via libera il 21 gennaio 2016. Nel passaggio al Senato, però, il disegno di legge sul whistleblowing ha subito diverse modifiche. Quindi necessita di una terza lettura parlamentare e di ulteriore disco verde da parte dei deputati.

Cosa prevede la legge sul whistleblowing approvata in Senato

Il testo di legge sul whistleblowing che ha avuto il lasciapassare al Senato prevede innanzitutto una maggiore protezione dell’identità di chi sporge le denunce all’Anac o all’autorità giudiziaria. In più, tutela il “whistleblower” da possibili ritorsioni da parte del datore di lavoro. Come sanzioni, demansionamenti, trasferimenti, licenziamenti o altre misure penalizzanti. E vieta ulteriormente azioni di discriminazione per il dipendente che ha scelto di fare le segnalazioni.

Del Monte, direttore esecutivo di Transparency International Italia: “Buone norme ma serviva un fondo di garanzia”

“Il testo che esce dal Senato è meglio di quello arrivato in prima battuta dalla Camera”, dice Davide Del Monte, direttore esecutivo di Transparency International Italia. “Ora i whistleblower hanno qualche tutela in più. Sono infatti previste sanzioni per chi commette ritorsioni nei loro confronti. E in ogni caso sarà il datore di lavoro a dover dimostrare che la ritorsione non ha alcun legame con la segnalazione del dipendente. Inoltre, è previsto l’obbligo di introdurre canali di segnalazione confidenziali negli enti. Ci rammarica solo non vedere un fondo di garanzia a supporto dei whistleblower e la completa tutela dell’identità del segnalante. A ogni modo, ci riteniamo più che soddisfatti dal testo così approvato”.

Carnevali, presidente di Transparency International Italia: “Vinta una battaglia, ma non ancora la guerra”

Sullo stesso tono, i commenti di Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia. “Finalmente anche il Senato si è reso conto dell’importanza di questa legge sul whistleblowing. È dal 2009 che Transparency International Italia, per prima nel nostro Paese, ha intrapreso una lunga battaglia a livello politico e a livello culturale, per far comprendere l’importanza dei whistleblower nella nostra società. Oggi abbiamo vinto una battaglia importantissima, ma non ancora la guerra: aspettiamo infatti l’approvazione definitiva della legge da parte della Camera entro la fine di questa legislatura”.

 

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Antibiotici, ecco gli indicatori per misurare i progressi della lotta ai superbatteri resistenti

Antibiotici, ecco gli indicatori per misurare i progressi della lotta ai superbatteri resistenti

Un parere scientifico di Efsa, Ecdc ed Ema suggerisce alla Commissione Ue i dati da tenere sotto controllo per monitorare i passi avanti contro la diffusione dei superbatteri in ambito umano e veterinario


Misurare i passi avanti fatti in Europa contro l’antibiotico-resistenza, con strumenti attendibili e comuni ai diversi Paesi. È l’obiettivo di una serie di indici individuati – su richiesta della Commissione Ue – da Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare), Ema (Agenzia europea dei medicinali) ed Ecdc (centro per la prevenzione e il controllo delle malattie).

Il parere Efsa-Ema-Ecdc

Gli indici sia il settore umano che animale – spiega una nota sul sito dell’Efsa – esono il frutto della collaborazione tra le tre agenzie dell’Ue culminata nella pubblicazione di un parere scientifico. Un esempio di indice per valutare la resistenza agli antibiotici in medicina umana è la percentuale di batteri di Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina (MRSA). Ma anche il tasso di batteri di Escherichia coli (E. coli) resistenti alle cefalosporine di terza generazione. Sul fronte veterinario, invece, è bene tenere sotto controllo la percentuale di E. coli da animali per la produzione alimentare che sono suscettibili o resistenti ad alcuni antimicrobici. In termini di consumo, i principali indici suggeriti sono il consumo umano di antibiotici e le vendite complessive di antibiotici veterinari.

Andriukaitis (Commissione Ue): indici indispensabili

“Quando ho presentato il nuovo piano d’azione dell’Ue contro l’antibiotico-resistenza a giugno – commenta Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare – ho promesso che entro la fine dell’anno la Commissione avrebbe definito indici per misurare i progressi dei piani d’azione Ue e nazionali. Accolgo con grande favore il parere scientifico elaborato da Ecdc, Ema ed Efsa, che definisce indici che riguardano sia il settore umano che animale, in linea con l’approccio ‘One Health’. Senza questi indici – conclude Andriukaitis – non saremmo in grado di valutare i nostri progressi nel combattere la grave minaccia per la salute rappresentata dall’antibiotico-resistenza”.

 

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Legge di Bilancio, i dubbi delle Regioni: servono più risorse per la sanità

Legge di Bilancio, i dubbi delle Regioni: servono più risorse per la sanità

Slitta il parere dei governatori sulla manovra. Toti: “Ad oggi non ci sono le condizioni per un’intesa”. Garavaglia: “Situazione compromessa, Fsn si riduce”. Il 7 novembre audizione in Parlamento


Fumata nera dalla prima seduta della Conferenza delle Regioni sulla nuova legge di Bilancio. Il parere dei governatori sulla manovra slitta a giovedì 9 novembre. Con la sanità, ancora una volta, protagonista del braccio di ferro tra Regioni e Governo.

“Situazione compromessa”

“A oggi – spiega Giovanni Toti, governatore della Liguria e vicepresidente della Conferenza – non ci sono le condizioni minime per un’intesa, che significherebbe, alle condizioni attuali, intervenire ancora una volta sulle voci della sanità. Il Fondo sanitario nazionale aumenta nominalmente, ma su di esso viene caricato il rinnovo dei contratti e quindi di fatto diminuisce”. Nel testo della manovra, in effetti, non ci sono riferimenti a fondi ad hoc per il rinnovo contrattuale (2016/2018) del personale della sanità. Ecco, dunque, una situazione “molto compromessa”, dice Massimo Garavaglia, membro della giunta lombarda e coordinatore degli assessori regionali al Bilancio: “Di fatto il Fondo sanitario si riduce perché ciò che riguarda il contratto non è finanziato. Scende quindi a poco più di 112 miliardi, rispetto ai 112,6 di quest’anno. Sono circa 500 milioni in meno. Altro che nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea): sono meno servizi e più liste d’attesa”. Resta un miraggio, dunque, l’aumento nominale che avrebbe dovuto portare il Fondo sanitario nazionale a 114 miliardi nel 2018. Un cifra già ridimensionata dal contributo alla finanza pubblica richiesto alle Regioni (circa 600 milioni di euro).

Martedì 7 l’audizione

La Conferenza delle Regioni sarà convocata nuovamente il 9 novembre. Nel frattempo, martedì 7, è prevista un’audizione dei governatori davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato. I temi sul tavolo sono sostanzialmente due: la sanità e il passaggio di personale personale dalle Province alle Regioni. “Utilizzeremo i prossimi giorni per cercare di superarle e trovare dei punti di equilibrio per cercare di fare la nostra parte”, spiega la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, sulla stessa linea degli altri governatori per quanto riguarda la sanità: “Stiamo affrontando sfide nuove (dai nuovi farmaci ai Lea), abbiamo quindi la necessità di rifare i conti e anche di prevedere delle risorse in più”.

 

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Crimine farmaceutico, Fda: “I big del web ci fanno guerra sui dati”

Crimine farmaceutico, Fda: “I big del web ci fanno guerra sui dati”

Da un incontro a margine del G7 Salute è emerso che il contrasto alle attività illecite è limitato dall'ostruzionismo di colossi come Google e Amazon (parola di Robert Burke, della Food and drug administration) e dalla scarsità di risorse umane ad hoc. In Italia solo l'1% dei siti che vendono farmaci è legale


Il crimine farmaceutico? “Il peggio deve ancora arrivare”. Lo ha detto Alain Lemangnen, responsabile della francese Oclaesp (Ufficio centrale contro il crimine ambientale e sanitario), durante l’incontro “Strategies to Fight Pharmaceutical Crime”, organizzato a latere del G7 Salute in corso a Milano. Al meeting – coordinato e introdotto dal nuovo direttore dei Carabinieri Nas, il generale di divisione Adelmo Lusi – hanno partecipato le principali agenzie che combattono furti, contraffazione e commercio illegale dei farmaci a livello mondiale. Globali sono le sfide che riguardano la salute (lo ha sottolineato più volte il ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel suo discorso inaugurale) e globali devono essere le strategie di prevenzione e contenimento: non solo delle malattie ma anche dei crimini.

Il crimine farmaceutico in Italia

Il direttore generale dell’Aifa Mario Melazzini ha ricordato che “nel 2016 sono state sequestrate 344.615 unità di farmaci”. Dal 2013, ha precisato Melazzini, in Italia è presente “una banca dati sui furti dei farmaci, dove vengono registrati tutti i casi di farmaci rubati o perduti sul territorio e nelle varie fasi del percorso”. Tuttavia, stando ai numeri forniti e alle statistiche sulla contraffazione, gli strumenti per il contrasto al crimine si fanno sempre più evoluti ma il pericolo resta sempre alto.

Le segnalazioni di sospetto crimine farmaceutico nel nostro Paese

Cosa hanno riguardato le segnalazioni di casi sospetti prese in carico dall’Agenzia italiana del farmaco? “Per esempio – ha affermato il dg Aifa – versioni falsificate di prodotti originali che contengono tossina botulinica messi in commercio da soggetti senza autorizzazione. O prodotti illegali per trattare le disfunzioni maschili. Oppure farmaci presentati come integratori alimentari. O ancora, altre tipologie di prodotto che in realtà contengono sostanze attive a livello farmacologico. Nel settembre di quest’anno con l’operazione Pangea X sono state sequestrate oltre 90 mila unità di farmaci e dispositivi medici illegali o contraffatti”.

Per quanto riguarda i siti internet legali autorizzati a vendere farmaci online, Melazzini ha dichiarato che sono meno dell’1% rispetto a tutta l’offerta del web. “E a oggi sono cinquecento i siti chiusi, con server localizzato in Italia”. Melazzini ha affermato anche che 99 farmaci su 100 che circolano online sono di qualità dubbia. Inutile dire quanto sia elevato il rischio per chi compra farmaci su internet.

La taskforce dedicata e i due casi affrontati di recente

“Il crimine farmaceutico – ha dichiarato il direttore generale Aifa – mette a rischio la sicurezza dei pazienti, creando un problema di salute pubblica. Per questo l’Aifa, insieme al ministero della Salute e ai Carabinieri Nas, dedica particolare attenzione al contrasto al crimine farmaceutico, concentrandosi nello specifico sulla produzione e la distribuzione di farmaci illegali o falsificati, sui furti e il riciclaggio di medicinali, sulla promozione e la vendita di medicinali attraverso siti internet non autorizzati. L’impegno dell’Aifa è testimoniato da una serie di iniziative come il sistema di tracciabilità del farmaco o l’istituzione di una taskforce dedicata”.

La Fda: “Google, Microsoft e Amazon ci fanno la guerra”

Inquietanti le circostanze (e le cifre) riferite a Milano da Daniel Burke, direttore del programma CyberPharm in seno alla Food and Drug Administration. Secondo il funzionario, a complicare le indagini sui traffici del dark web come su quelli che avvengono alla luce del sole, c’è il proliferare delle monete elettroniche (bitcoin e simili) che rallentano la possibilità di tracciare le transazioni economiche (arma fondamentale per gli investigatori) e l’ostruzionismo di colossi come Microsoft, Google e Amazon. “Ci fanno la guerra – ha detto Burke – e negano i dati che dai domini riconducono a persone e organizzazioni. È stata necessaria una sentenza della Corte suprema americana per permetterci l’accesso ai dati delle farmacie online”. Tra le case history riferite a Milano, Burke ha parlato di un falso farmaco per la fibrillazione atriale (che conteneva solo talco) che ha incassato 12 milioni di dollari grazie a informazioni fasulle veicolate dal web.

La Francia è in prima fila

In attesa del rapporto internazionale sulle azioni intraprese dagli Stati Ue che sarà presentato a Parigi il prossimo 13 dicembre, tra i vari casi riassunti a Milano spicca quello raccontato proprio da Alain Lemangnen. Di recente la Gendarmerie francese è riuscita a smantellare – collaborando con le dogane di Svezia e Finlandia – un’organizzazione britannica che immetteva sul mercato francese enormi quantità di Subutex (nome commerciale dell’oppioide di sintesi buprenofina). I numeri: 28 mila compresse sequestrate, che provengono da furti; 150 mila euro confiscati oltre a beni mobili e immobili; prescrizioni compiacenti per 110 mila blister e 770 mila compresse; vendite stimate in 77 milioni di euro e una perdita a carico del servizio sanitario francese che si aggira sui 2 milioni di euro.

Una lotta impari?

La strategia di contrasto internazionale – secondo gli esperti – sconta la scarsità di risorse umane competenti. A parere di Lusi, Burke e Lemangnen i cyber investigatori sono merce rara.

 

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Tumori: la terapia sottocutanea riduce tempi, costi e disagi per il paziente

Tumori: la terapia sottocutanea riduce tempi, costi e disagi per il paziente

Ad affermarlo uno studio della scuola Altems sull’utilizzo delle formulazioni sottocutanee di rituximab e trastuzumab per il trattamento del linfoma non-Hodgkin e del carcinoma mammario. Costi sociali evitati per oltre 60 milioni di euro


La somministrazione richiede meno tempo (cinque minuti contro 90). La permanenza in ospedale è più breve, con benefici per l’organizzazione. La qualità di vita dei pazienti migliora e si riducono i costi per il sistema. Si possono riassumere così i vantaggi di alcune terapie contro i tumori somministrate per via sottocutanea anziché endovenosa.  Ed è quanto emerge da uno studio condotto dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica di Roma, realizzato con il sostegno di Roche e presentato oggi a Roma.

Lo studio

Altems ha realizzato un’analisi comparativa della somministrazione endovenosa e sottocutanea di due anticorpi monoclonali, rituximab e trastuzumab, rispettivamente nel trattamento del linfoma non-Hodgkin e del tumore al seno. Lo studio si basa sui dati di oltre 3mila questionari compilati dai pazienti e da oltre 60 centri ospedalieri italiani. Secondo i risultati, il ricorso a formulazioni sottocutanee di rituximab e trastuzumab riduce la durata della somministrazione a soli cinque minuti, taglia i tempi di attesa in ospedale del 34% e, più in generale, dimezza la durata della permanenza nel day-hospital. Un tempo risparmiato e “riconsegnato” alla vita quotidiana del paziente e dei suoi familiari.

Costi evitati

Dal punto di vista organizzativo ed economico, l’adozione di terapie “brevi” comporta – secondo lo studio Altems – più efficienza organizzativa e operativa nei day-hospital, con dimezzamento del tempo impiegato da infermieri e farmacisti, e risparmi che si traducono in oltre 60 milioni di euro di costi sociali evitati (31,5 milioni in oncoematologia e 31 milioni per il tumore del seno). “Il cambiamento delle vie di somministrazione dei due anticorpi monoclonali non modifica i livelli di efficacia e sicurezza già molto elevati in questi farmaci – commenta Americo Cicchetti, direttore di Altems – ma il passaggio dalla somministrazione endovena a quella sottocute rappresenta una vera e propria rivoluzione sotto il profilo organizzativo e riduce i costi dell’assistenza”.

Risorse ottimizzate

A sottolineare l’impatto positivo delle formulazioni sottocutanee sulla gestione dell’assistenza è anche Vito Antonio Delvino, direttore dell’Istituto Tumori “Giovanni Paolo II” di Bari: “Quello che cambia in modo clamoroso è il tempo che impiegano gli operatori sanitari a preparare il farmaco prima e ad assistere il paziente poi. Una somministrazione sottocutanea che dura 5 minuti si traduce in 5 ore in meno di lavoro per infermieri, medici e farmacisti per ciascuno paziente, tempo che può essere dedicato all’ottimizzazione delle risorse”.

Cure e vita quotidiana

Risparmi, efficienza, ma anche benefici per la vita quotidiana del paziente e del suo caregiver: “Poter offrire alle pazienti una soluzione di cura che permette loro di conciliare il momento della cura con l’attività lavorativa e la routine quotidiana sia un valore clinico e sociale cui possiamo e dobbiamo tendere tutti”, commenta Alessandra Cassano, dirigente medico dell’Uoc di Oncologia Medica del Policlinico Gemelli di Roma, riferendosi alle pazienti con carcinoma mammario.

 

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Informazione o pubblicità dei medicinali? L’interpretazione del Tribunale di Milano

Informazione o pubblicità dei medicinali? L’interpretazione del Tribunale di Milano

Il caso di Doc Generici e dell'informativa su alcuni suoi prodotti. La corte milanese si è espressa in favore di una maggiore attenzione sul rispetto delle norme che limitano la diffusione di dettagli sui medicinali al pubblico


L’informazione e la pubblicità dei medicinali sono temi oggi cruciali. Il Tribunale civile di Milano (sent. n. 8240 del 24 luglio 2017) ha recentemente affermato che la pubblicazione da parte di una società farmaceutica, sia sul proprio sito web che a mezzo stampa, dell’elenco dei prodotti e dei prezzi dei propri medicinali è qualificabile come attività promozionale. Ed è quindi soggetta agli stringenti limiti previsti dalla normativa sulla pubblicità dei prodotti farmaceutici. Il Tribunale ha altresì affermato che la violazione di questi limiti costituisce concorrenza sleale e ha inibito la prosecuzione di tale attività.

La vicenda

Doc Generici, società italiana che produce medicinali generici, aveva pubblicato sul proprio sito web e su alcune riviste settimanali: L’elenco dei propri prodotti che includeva, per ciascuno di essi, l’indicazione del relativo principio attivo. Nonché della classe di rimborsabilità, del nome del farmaco “originatore” e dell’assenza di eccipienti che possono causare allergie. E l’elenco dei prezzi estratti dalle liste di trasparenza pubblicate dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Queste informazioni sono state pubblicate senza l’autorizzazione preventiva del Ministero della Salute, sul presupposto che la loro diffusione non costituisse pubblicità. Bayer aveva inviato diverse diffide a Doc Generici a proseguire tali attività.  L’azienda tedesca contestava la violazione della disciplina sulla pubblicità dei medicinali e la violazione dei propri diritti sui marchi con i quali venivano identificati i prodotti “originatori”. Senza considerare la condotta di concorrenza sleale per appropriazione di pregi. Doc Generici si è quindi rivolta al Tribunale di Milano affinché dichiarasse che le attività di comunicazione dalla stessa effettuate non costituivano una violazione delle norme sulla pubblicità dei medicinali, in quanto non potevano essere qualificate come “pubblicità”.

Informazione o pubblicità?

Il Tribunale di Milano è chiamato a valutare in primo luogo se le attività di comunicazione svolte da Doc Generici siano qualificabili o meno come pubblicità. La risposta a tale interrogativo è infatti il presupposto per poter dirimere la questione. Ossia se tali attività siano effettuate lecitamente (nel rispetto delle norme sulla pubblicità dei medicinali) e quindi possano essere proseguite.

Per effettuare tale valutazione, il Tribunale di Milano richiama una sentenza della Corte di giustizia del 5 maggio 2011 (C-316/09, MSD Sharp & Dohme GmbH contro Merckle GmbH). Qui la Corte aveva identificato i seguenti principali indici di una comunicazione a carattere meramente informativo (e quindi non pubblicitario).

  • Informazioni limitate alla riproduzione fedele della confezione del medicinale. E in una riproduzione letterale ed integrale del foglietto illustrativo o del riassunto delle caratteristiche del prodotto.
  • Assenza di qualsiasi selezione/manipolazione delle informazioni “poiché tali manipolazioni delle informazioni possono spiegarsi solo con uno scopo pubblicitario”.
  • Informazioni disponibili con sistema “pull”, per cui la loro consultazione richiede un’azione attiva di ricerca da parte dell’utente di internet. E non attraverso finestre indesiderate, dette “pop-up”, che appaiono spontaneamente sullo schermo.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Milano ha ritenuto nel caso in esame che, seppure le pubblicazioni non includessero alcun messaggio promozionale, Doc Generici aveva selezionato le informazioni da pubblicare, in quanto parzialmente riprese da più liste di trasparenza. E aveva manipolato queste informazioni poiché aveva aggiunto criteri di classificazione dei prodotti non contenuti nella lista di trasparenza. In aggiunta, secondo la sentenza, aveva aggiunto ulteriori informazioni sugli eccipienti che non erano incluse nei documenti pubblicati dall’Aifa.
Inoltre, le informazioni erano state diffuse con tecniche (non specificate dal Tribunale) che non richiedevano alcuna ricerca da parte dell’utente di internet né del lettore della rivista.
Per questi motivi, applicando gli stessi criteri utilizzati dalla Corte di giustizia nel 2011, il Tribunale di Milano ha concluso che le attività di comunicazione condotte da Doc Generici dovessero essere qualificate come pubblicità.
Dopo aver qualificato tali comunicazioni come pubblicità, il Tribunale ha quindi accertato che esse non erano state eseguite conformemente alla normativa sulla pubblicità dei medicinali. E ha dichiarato che la violazione di tali norme integrava una condotta di concorrenza sleale.
Di conseguenza, il Tribunale ha inibito a Doc Generici di proseguire tale attività.

Dalla conferma del principio all’applicazione restrittiva

La sentenza in commento conferma il principio enunciato dalla Corte di giustizia. Ossia che la semplice pubblicazione dell’elenco dei medicinali, unitamente a una fedele riproduzione dell’imballaggio e del foglietto illustrativo o del riassunto delle caratteristiche del prodotto, senza alcuna selezione o manipolazione, non è qualificabile come pubblicità. E, quindi, non ricade nel campo di applicazione delle relative norme. Ciò significa che, se la pubblicazione riguarda medicinali soggetti a prescrizione, essa può essere legittimamente effettuata. Mentre la pubblicità sarebbe vietata. E, se riguarda medicinali non soggetti a prescrizione, non richiede la previa autorizzazione del Ministero (che sarebbe necessaria in caso di pubblicità).

Se tale affermazione di principio è importante, si evidenzia tuttavia che il Tribunale di Milano ne ha fornito un’interpretazione molto restrittiva. Infatti, in questo caso, il giudice ha ritenuto che la limitatissima attività di modifica e selezione effettuata da Doc Generici sia comunque sufficiente a conferire al messaggio un carattere pubblicitario. Questo approccio suggerisce molta cautela nella scelta dei mezzi più idonei a fornire un’informativa sui prodotti farmaceutici che si sottragga al rischio di essere qualificata come pubblicità.

A cura di Ernesto Apa e Elisa Stefanini – Portolano Cavallo

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Cardiologia, al via il congresso Sic. Focus sui giovani: allarme ipertensione tra gli under18

Cardiologia, al via il congresso Sic. Focus sui giovani: allarme ipertensione tra gli under18

Fino al 18 dicembre a Roma il 78esimo congresso nazionale della Società italiana di cardiologia (Sic). Fra i temi in agenda, la prevenzione delle malattie cardiovascolari in età pediatrica e la sottovalutazione del rischio tra le donne


Prevenzione delle malattie del cuore già in età pediatrica. Salute delle donne, che spesso sottovalutano i rischi cardiovascolari. E ancora: i quarant’anni dalla prima angioplastica, le nuove linee guida per la stenosi aortica, l’impegno per la formazione dei giovani specialisti. Sono questi alcuni dei temi principali che animano il 78esimo congresso nazionale della Società italiana di cardiologia (Sic), inaugurato oggi a Roma. Quattro giorni di lavori che riuniscono nella Capitale 2.200 partecipanti, impegnati in centinaia di simposi, corsi di aggiornamento, relazioni e letture magistrali.

Giocare d’anticipo

Secondo la Società italiana di cardiologia, l’ipertensione arteriosa pediatrica e giovanile è una realtà sottostimata. Circa il 10% dei ragazzi con meno di 18 anni è a rischio ipertensione. Per gli esperti, bisogna individuare i fattori di rischio e con l’aiuto dei genitori modificare lo stile di vita dei giovani. Poiché molte patologie del cuore sono presenti in forma subclinica tra gli under18 e potrebbero essere prevenute. “Come per ogni malattia cronica – spiega il presidente della Sic, Giuseppe Mercuro – è verosimile che l’ipertensione arteriosa sviluppi le sue premesse fisiopatologiche anni o decenni prima di manifestare segni e sintomi clinicamente inequivocabili”. L’indizio è ciò che gli specialisti chiamano “impronta pressoria”, ovvero il riscontro di “valori tensivi ai limiti superiori della norma per l’età, insieme a un’accresciuta massa corporea”. Una condizione che richiede “riduzione del peso corporeo, dieta povera di sale ed esercizio fisico aerobico”, riservando la terapia farmacologica ai casi “più severi e refrattari a qualunque altra misura di carattere generale sullo stile di vita”.

Il cuore delle donne

Giovani e donne dominano la 78esima edizione del congresso Sic. Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte tra le donne, ma la maggior parte di loro non ne è consapevole e spesso sottovaluta il rischio. L’infarto – spiega la Sic – è la prima causa di morte nella donna over65. Eppure, prosegue Mercuro, c’è una “sostanziale sottovalutazione dei rischi che corre la donna”, per diverse ragioni. “Il dolore toracico o il disagio toracico – spiega il presidente della Sic – è riconosciuto come il sintomo caratteristico della malattia coronarica, ma le donne hanno meno probabilità di riportare dolore o disagio al torace rispetto agli uomini”. Di fronte ai primi sintomi di cardiopatia, inoltre, le donna hanno in media 10 anni in più rispetto agli uomini e circa 20 in più al momento del primo “evento cardiaco”. E ancora: le donne, spiega Mercuro, sono spesso meno curate per diabete, dislipidemie, ipertensione, obesità, e di conseguenza gli obiettivi terapeutici sono molto meno raggiunti. “Ecco perché – sottolinea Mercuro – in presenza di sintomi che suggeriscono una malattia coronarica dovrebbero essere sottoposte a una valutazione completa del rischio e ad una stima della probabilità di malattia coronarica”. Un impegno da affiancare a un’intesa campagna di informazione, sottolinea la Sic.

40 anni di angioplastica

Se la Sic celebra il suo 78esimo congresso, un altro traguardo importante lo festeggia l’angioplastica coronarica. La prima risale al 1977 ed è considerata – spiega il past presidente della Sic, Francesco Romeo – una “una pietra miliare nel trattamento della patologia coronarica aterosclerotica, che è il substrato anatomopatologico che sottende tutte le manifestazioni cliniche della malattia coronarica, come angina, infarto, morte improvvisa coronarica”. In questi 40 anni la tecnica si è evoluta da “semplice angioplastica con palloncino, all’introduzione degli stent con ulteriori successive generazioni che oggi ci permettono di affrontare qualsiasi problema tecnico”. Il numero delle angioplastiche in Italia è arrivato a oltre 150 mila su un totale di circa 300 mila coronarografie all’anno. Quello delle angioplastiche primarie, cioè per il trattamento dell’infarto acuto, ha superato quota 35mila.

Linee guida Tavi

Una delle più importanti innovazione della cardiologia degli ultimi anni è la Tavi (impianto valvolare aortico transcatetere) per il trattamento della stenosi aortica. “Oggi – spiega Ciro Indolfi, presidente eletto della Sic – è possibile impiantare una valvola di maiale completamente per via percutanea introducendo il catetere da un’arteria della gamba”. Al congresso di Roma sono state presentate le nuove linee guida per l’utilizzo della Tavi in pazienti affetti da patologia della valvola aortica. “La Tavi – spiega indolfi – è una tecnologia innovativa, molto efficace, ma ancora poco diffusa. In Italia viene utilizzata nel 22% dei casi rispetto alla chirurgia tradizionale, contro una media europea del 33%. Richiede un centro altamente specializzato e a oggi è disponibile in 44 strutture italiane”.

La cardiologia guarda al futuro

La cardiologia si presenta al 78esimo congresso Sic rivendicando i traguardi di mezzo secolo: “E’ la disciplina – sottolinea Mercuro – che ha avuto il più importante sviluppo negli ultimi 50 anni, contribuendo per oltre il 70 per cento al guadagno in aspettativa di vita che è stato di circa 7 anni negli ultimi 30 anni. Questi progressi hanno riguardato la diagnostica, la terapia farmacologica, la terapia interventistica coronarica e strutturale”. Un patrimonio da trasferire ai giovani cardiologi, non solo italiani, proiettati verso nuovi successi: “L’intenso confronto con i numerosi partecipanti stranieri e il grande spazio dedicato ai giovani – commenta Paolo Camici, presidente della commissione per il congresso – sottolineano la vocazione internazionale della cardiologia italiana, spinta a un continuo miglioramento. Abbiamo fatto tutto il possibile per favorire i giovani che sono il nostro domani, per questo abbiamo una serie di iniziative a loro dedicate”. Prima fra tutte, la partecipazione gratuita al congresso per specializzandi in Malattie cardiovascolari e giovani cardiologi.

 

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Meningite, in Toscana prorogata di un anno la campagna straordinaria di vaccinazione

 

 


Proseguirà anche nel 2018 la campagna straordinaria di vaccinazione contro la meningite della Regione Toscana. Lo prevede una delibera approvata dalla giunta, su proposta dell’assessore al diritto alla Salute, Stefania Saccardi. La campagna contro il meningococco sarebbe dovuta scadere il 31 dicembre 2017.

15 casi di meningite nel 2017

L’iniziativa – riporta ToscanaNotizie – era stata lanciata dalla Regione nel 2015, dopo un aumento di casi di meningite da meningococco C rispetto agli anni precedenti. Quell’anno, infatti, sono stati registrati 38 casi di meningococco, con 7 decessi. Nel 2016 i casi sono passati a 40 (con altri 7 decessi). Nel 2017, invece, sono stati segnalati 15 casi, di cui l’ultimo pochi giorni fa a Lucca, senza esiti fatali.

Il calendario vaccinale

La vaccinazione contro il meningococco C, come da calendario vaccinale, è sempre offerta gratuitamente:

  • ai nuovi nati, con una prima dose dal 13° al 15° mese di vita (preferibilmente al 15°), una seconda dose dai 6 anni compiuti al 9 non compiuti  e una terza dose a 13 anni compiuti;
  • ai ragazzi appartenenti alla fascia di età 9 – 20 anni  già vaccinati con una dose di vaccino da più di cinque anni. Questi riceveranno il richiamo della seconda o della terza dose, con vaccino coniugato tetravalente ACWY;
  • ai soggetti a rischio individuati nel calendario vaccinale regionale.

Nella fase di transizione al nuovo calendario vaccinale, approvato il 27 dicembre 2016, sarà garantita l’offerta attiva e gratuita della vaccinazione ai non vaccinati di qualsiasi età, fino al compimento dei 20 anni

Le misure straordinarie

Le misure straordinarie, valide fino al 31 dicembre 2018, prevedono l’offerta gratuita del vaccino ad altre categorie:

  • su richiesta, alle persone di età tra 20 e 45 anni residenti  o con domicilio sanitario nell’area della Asl Toscana Nord Ovest e della Asl Toscana Sud Est;
    sempre su richiesta, alle persone dai 20 anni compiuti residenti o con domicilio sanitario nell’area dell’Asl Toscana Centro
  • alle persone sottoposte a profilassi in quanto contatti di un caso di meningococco C;
  • alle persone che hanno frequentato la stessa comunità in cui si è verificato  un caso  di sepsi/meningite da meningococco C nei dieci giorni precedenti l’inizio dei sintomi con contatto stretto o regolare, su valutazione dell’Igiene Pubblica della Azienda Usl;
  • su richiesta, agli studenti fuori sede delle Università presenti sul territorio toscano.

Potranno avere il vaccino, pagando una quota di compartecipazione, gli over45 residenti o con domicilio sanitario nella Asl Toscana Nord Ovest e della Asl Toscana Sud Est. E anche i non residenti che frequentano in modo continuativo il territorio toscano (es. motivi di lavoro).

Dove vaccinarsi

Per la vaccinazione, ci si può rivolgere agli ambulatori delle Asl, o al proprio medico o pediatra di famiglia. Secondo le modalità indicate sul sito della Regione Toscana.

 

 

 

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Tumore al seno, palbociclib ottiene rimborsabilità in Italia


Tumore al seno, palbociclib ottiene rimborsabilità in Italia

di Redazione Aboutpharma Online 8 gennaio 2018

Una nuova arma contro il tumore al seno è ora garantita dal Servizio sanitario nazionale. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato la rimborsabilità di palbociclib, inibitore orale delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK 4/6) sviluppato da Pfizer. Ad annunciarlo è una nota dell’azienda.

Con una determina pubblica in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 dicembre, Aifa ha approvato il regime di rimborsabilità per palbociclib, in classe H, nelle formulazioni da 75 mg, 100 mg e 125 mg in capsule rigide. La terapia è soggetta a prescrizione da parte di centri utilizzatori individuati dalle Regioni. È indicata per il trattamento del carcinoma mammario localmente avanzato o metastatico positivo ai recettori ormonali (HR) e negativo al recettore del fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2) in associazione a un inibitore dell’aromatasi in donne che non hanno ricevuto una terapia sistemica precedente per lo stadio avanzato e in associazione a fulvestrant in donne che hanno ricevuto una terapia endocrina precedente. In donne in pre o perimenopausa, la terapia endocrina deve essere associata ad un agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH).

Palbociclib, spiega l’azienda, è ad oggi l’unico inibitore delle cicline CDK 4/6 rimborsato in Italia. È anche il primo nuovo farmaco, almeno degli ultimi dieci anni, a essere stato approvato per il trattamento delle donne con carcinoma al seno metastatico HR+/HER2-, che rappresentano circa il 60% di tutti i casi di cancro al seno metastatico.

 

 

 

Via libera dall’Agenzia italiana del farmaco all’inibitore delle cicline CDK 4/6 di Pfizer.

 

Una nuova arma contro il tumore al seno è ora garantita dal Servizio sanitario nazionale. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato la rimborsabilità di palbociclib, inibitore orale delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK 4/6) sviluppato da Pfizer. Ad annunciarlo è una nota dell’azienda.

 

Con una determina pubblica in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 dicembre, Aifa ha approvato il regime di rimborsabilità per palbociclib, in classe H, nelle formulazioni da 75 mg, 100 mg e 125 mg in capsule rigide. La terapia è soggetta a prescrizione da parte di centri utilizzatori individuati dalle Regioni. È indicata per il trattamento del carcinoma mammario localmente avanzato o metastatico positivo ai recettori ormonali (HR) e negativo al recettore del fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2) in associazione a un inibitore dell’aromatasi in donne che non hanno ricevuto una terapia sistemica precedente per lo stadio avanzato e in associazione a fulvestrant in donne che hanno ricevuto una terapia endocrina precedente. In donne in pre o perimenopausa, la terapia endocrina deve essere associata ad un agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH).

 

Palbociclib, spiega l’azienda, è ad oggi l’unico inibitore delle cicline CDK 4/6 rimborsato in Italia. È anche il primo nuovo farmaco, almeno degli ultimi dieci anni, a essere stato approvato per il trattamento delle donne con carcinoma al seno metastatico HR+/HER2-, che rappresentano circa il 60% di tutti i casi di cancro al seno metastatico.

 

 

 

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Ricerca sull’Alzheimer e Snc: il rischio di fallimento è alto

Medicina scienza e ricerca

 

Ricerca sull’Alzheimer e Snc: il rischio di fallimento è alto

Sviluppare farmaci per il Sistema nervoso centrale non è più attrattivo per le aziende del pharma che in questi anni hanno chiuso divisioni e convogliato fondi su altre aree. Tanto da portare alcuni ricercatori a chiedere nuovi incentivi per il settore. Eppure qualcosa si potrebbe fare, a partire dalla statistica

di Cristina Tognaccini 9 gennaio 2018

 

Dal numero di aprile di AboutPharma and medical devices – scarica il pdf

Divisioni di ricerca chiuse, trial falliti con perdite di centinaia di milioni di euro, minori fondi destinati alla sperimentazione. È la situazione che da diversi anni fa da cornice alla ricerca sull’Alzheimer e Snc. E il conseguente  sviluppo di nuovi farmaci del sistema nervoso centrale (Snc). Un esempio su tutti il caso del solanezumab, molecola anti-Alzheimer sviluppata da Eli Lilly che nonostante le alte aspettative non ha superato i test di Fase III con un aggravio stimato di 150 milioni di dollari per la società.

Troppe energie pochi ricavi

Sviluppare medicinali per trattare le malattie del cervello insomma, è sempre meno attrattivo: è più difficile, richiede più tempo e un maggior dispendio di fondi rispetto ad altre aree terapeutiche. La situazione è talmente critica che qualche anno fa un gruppo di ricercatori, con un articolo pubblicato su Neuron, avanzò la proposta di ricevere nuovi incentivi per il settore. Come per esempio un’approvazione regolamentare accelerata. Quasi al pari delle agevolazioni concesse per le malattie rare, per lo sviluppo di nuovi antibiotici in tempi di antibioticoresistenza o per le sperimentazioni pediatriche. Ma è davvero la scelta giusta?

La perdita di “fascino”

Che si parli di clinical trial in fase iniziale o avanzata, a partire dagli anni ‘90 il comparto del Snc ha registrato un netto calo. Nel 1990 su 125 nuovi studi di Fase I, 14 riguardavano farmaci del sistema nervoso centrale (11%) al pari di quelli in oncologia. Mentre nel 2012 i primi erano scesi al 7% con 19 trial su 286 e i secondi balzati al 20%, secondo un lavoro pubblicato su Nature reviews drug discovery basato sull’analisi del database Pharmaprojects.

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Inoltre se in Fase I e II non vi erano sostanziali differenze nella probabilità di progressione dei prodotti sviluppati nell’area del Snc e in tutte le altre, la probabilità di aver successo e passare dalla Fase III al deposito della registrazione, scendeva del 45% per i primi rispetto agli altri. Nel periodo di tempo esaminato i ricercatori hanno identificato 70 interruzioni degli studi clinici per i farmaci del Snc in Fase III. Dovute per il 46% dei casi a una efficacia non adeguata, seguita da problemi di sicurezza (11%) e motivi finanziari (7%). Da qui la necessità secondo gli autori di destinare più fondi per la ricerca di base e traslazionale. Ma anche di creare nuove partnership per aumentare il numero di attori coinvolti in un clinical trial.

Bisogna decodificare il network neuronale

“Da anni non abbiamo nuovi farmaci – spiega Giovanni Biggio ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università degli Studi di Cagliari – soprattutto perché ancora non sappiamo esattamente come funziona il cervello. Negli ultimi vent’anni le conoscenze sono aumentate tantissimo ma i farmaci più recenti si basano sempre sugli stessi meccanismi. La vortioxetina per esempio è l’ultimo antidepressivo arrivato in commercio lo scorso anno, ma si diversifica solo per la sua azione sul glutammato (che sembra avere un valore importante per l’aspetto cognitivo più che per l’azione antidepressiva), per il resto sfrutta sempre il blocco del reuptake della serotonina come i vecchi Ssri (Selective serotonin reuptake inhibitors). Non riusciamo ad avere nuove molecole perché non riusciamo a decodificare il network neuronale”.

Investire in ricerca di base

“Bisogna continuare a investire soldi nella ricerca di base – continua Biggio – per questo progetti come lo Human Connectome Project o lo Human Brain Project finanziati dal National Institutes of Health (Nih) americano sono molto importanti: perché un domani (lontano) porteranno a decifrare il funzionamento cerebrale e a sviluppare nuovi e rivoluzionari prodotti. Oggi però lo stesso Nih ha tagliato i fondi destinati alla ricerca sulla schizofrenia per dedicarli all’oncologia che sta dando risultati più immediati. Non c’è da stupirsi se le aziende preferiscono investire soprattutto dove vedono sbocchi più immediati”.

Dipende tutto dalle fasi iniziali

Tra il 1995 e il 2014 l’European medicines agency (Ema) ha ricevuto 103 richieste di autorizzazione per nuovi farmaci o nuove indicazioni: 57 in ambito neurologico e 46 in psichiatria secondo un lavoro pubblicato su Nature reviews drug discovery. Di questi un terzo ha mostrato problemi di efficacia e oltre la metà problemi di sicurezza. Nel dettaglio i ricercatori scrivono che nel 37% dei trial condotti per lo sviluppo di farmaci psichiatrici e nel 46% di quelli che riguardano la neurologia, sono stati riscontrati problemi di evidenza clinica (mancante o poco chiara), dose, farmacocinetica e farmacodinamica. Nel gruppo di applicazioni in difficoltà con l’esito dello studio (efficacia e sicurezza) oltre la metà (54%) aveva sofferto già nelle fasi iniziali della ricerca.

I motivi del fallimento della ricerca sull’Alzheimer e Snc

In generale il 91% dei programmi di sviluppo che hanno avuto problemi nelle fasi iniziali, li hanno avuti anche nelle fasi successive di efficacia o sicurezza. Il buon andamento di uno studio clinico sembra quindi dipendere totalmente dall’impostazione delle fasi primarie del clinical trial. Le due aree terapeutiche hanno inoltre mostrato delle differenze per quanto riguarda gli elementi che hanno determinato il fallimento: la selezione della popolazione, il beneficio clinico, la sicurezza e la dose hanno avuto un impatto più determinante in psichiatria; mentre in neurologia sembrano contare di più l’incapacità di raggiungere l’end-point primario, la sicurezza e la mancanza di adeguati studi di farmacocinetica e farmacodinamica.

L’importanza della selezione del campione

“La diagnosi è senza dubbio una delle maggiori difficoltà in psichiatria – continua Biggio – e di conseguenza è più difficile selezionare la popolazione giusta. Se vengono arruolate persone che non soffrono di depressione grave – ma hanno per esempio disturbi comportamentali o il tono dell’umore un po’ basso senza raggiunge la soglia patologica – il farmaco può non servire. In questi casi i pazienti possono stare meglio anche con il placebo, perché se non hanno una depressione endogena patologica basta una situazione positiva per aiutarli. Così la terapia farmacologica risulta inutile: ma perché è sbagliata la popolazione in studio”.

Anche la statistica ha la sua parte

Parte delle colpe probabilmente va anche alla statistica: o per lo meno al modo in cui la si interpreta. I trial di fase III si basano sui dati di studi precedenti e spesso falliscono proprio per la bassa potenza dei risultati. “Nelle prime fasi di una sperimentazione vengono considerate numerosità campionarie non elevate – spiega Vincenzo Bagnardi che insegna Statistica medica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca – il problema è che anche in presenza di risultati positivi e statisticamente significativi (solitamente con p-value >0.05) sono molto elevate le probabilità che il risultato trovato sia sovrastimato e maggiore di quello reale. L’errore poi si amplifica ogni volta che si sommano studi di questo tipo. I trial successivi di conseguenza possono fallire perché si basano su aspettative troppo alte, date dai risultati precedenti troppo ‘ottimistici’”.

La mancata pubblicazione dei dati

Un secondo problema è senza dubbio la mancata pubblicazione di tutti i lavori scientifici, anche quelli negativi e la selezione solo degli studi significativi: “Se venissero resi noti tutti i dati forse si riuscirebbe a distinguere meglio un falso positivo da un risultato reale e sarebbe più facile intuire il grado di fallibilità di un trial” continua Bagnardi.

Le soluzioni

La prima soluzione che potrebbe venire in mente è quella di utilizzare p-value più basso – intorno allo 0.003-0.001 – che riducano il margine di errore. Ma la statistica non è così scontata. In realtà in questo modo diminuirebbe drasticamente la possibilità di portare avanti un’eventuale scoperta. Addirittura in Fase II si utilizzano anche dei p-value maggiori di 0.05. “Ciò perché si cerca di trovare qualcosa per andare avanti con la sperimentazione, anche rischiando di scontrarsi con un falso positivo. Bisognerebbe forse agire più sulla numerosità campionaria, aumentandola anche nelle fasi non avanzate di sviluppo di un farmaco”.

L’approccio “bayesiano”

“Infine dovrebbe essere introdotto il concetto di ‘probabilità a priori’” aggiunge Bagnardi. “E utilizzare degli approcci chiamati ‘bayesiani’ che permettono anche di correggere l’inferenza finale che viene fatta sugli esisti dello studio. Il che significa che se sto testando qualcosa che è già stato considerato promettente in studi precedenti, posso supporre che il mio nuovo farmaco abbia un certo tipo di successo. Perché esistono già delle evidenze. Quando invece sto testando qualcosa di nuovo le probabilità saranno più basse e il p-value dovrebbe essere aggiornato in base a esse. Quindi se si ottenesse un p-value piccolo (e incoraggiante) ma con delle probabilità a priori di successo del farmaco basse questo mi permettere di non sovrastimare il risultato. E prenderlo con più cautela rispetto al caso in cui le probabilità a priori siano alte”.

Non solo p-value

“È un concetto complicato ma è una delle proposte che vengono fatte per migliorare l’interpretazione dei dati statistici, che non si basi solo su un numero: il p-value” conclude Bagnardi.

I problemi della fase III e l’area del Snc

Dato di fatto resta che i farmaci destinati al Snc hanno una maggior probabilità di fallire durante la Fase III rispetto agli altri. Probabilmente collegato a un giudizio inappropriato da parte dello sponsor nelle fasi di ricerca precedenti, basato magari su un’efficacia marginale (come la statistica insegna). Il che evidenzia la necessità di testare e validare modelli preclinici e biomarker sempre più precisi se si vogliono approvare nuove terapie sulla base di end-point surrogati o insiemi di dati meno rigorosi. Per esempio per quanto riguarda la malattia si Alzheimer, la mancanza di modelli animali ben convalidati e la continua incertezza sull’eziologia della patologia può aver contribuito all’andamento negativo di studi clinici di Fase III negli ultimi anni.

I limiti della ricerca sull’Alzheimer e Snc

“L’inadeguata selezione dei pazienti, la complessità della malattia, l’assenza di indicatori clinici forti, la difficoltà nel creare modelli sperimentali, la lentezza nel traslare i risultati alla clinica. Sono i maggiori impedimenti che stanno frenando la ricerca e sviluppo dei farmaci in ambito del Snc” spiega Gianluigi Forloni responsabile del Dipartimento di Neuroscienze presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. “Noi creiamo modelli transgenici e sappiamo che stiamo lavorando in maniera parziale, perché mimano solo un pezzo del mosaico complesso che è la malattia. L’approccio sperimentale ha i suoi limiti soprattutto quando si tratta di malattie che hanno esordi tardivi e sono legate all’invecchiamento”.

Come superare i limiti

“Credo che per superare questo momento di impasse – continua Forloni – sia necessario identificare nuovi target terapeutici. Ma anche lavorare su numeri più ristretti e selezionati di pazienti. Nel contesto delle malattie neurodegenerative e in particolare dell’Alzheimer, che esiste sotto diverse eziologie, esistono anche diverse possibilità di intervento. Invece la sindrome viene messa tutta sotto un unico capello. Forse varrebbe la pena lavorare su gruppi più piccoli e meglio caratterizzati dal punto di vista clinico, che abbiano delle caratteristiche più omogenee. Invece di indagare su grande numeri come spesso si fa oggi. Io credo molto in questa idea ed è quello su cui stiamo puntando. Da un lato stiamo cercando di chiarire meglio la caratterizzazione fenotipica e genotipica dei pazienti, in modo da usare marker biologici più accurati. Dall’altra siamo alla ricerca di modelli sperimentali sempre più accurati”.

La proposta degli incentivi

Senza dubbio i tempi molto lunghi per lo sviluppo dei prodotti scoraggiano le aziende farmaceutiche a investire nel settore. Nonostante si tratti di un mercato molto ampio che, identificato un farmaco vincente ripagherebbe in larga misura gli investimenti. Perché allora non renderlo più attraente? È la proposta di alcuni ricercatori americani che su Neuron proposero di rivedere le politiche che regolano i rendimenti di mercato per i farmaci innovativi inserendo degli incentivi. Un po’ come è successo con l’Orphan Drug Act (Oda) per le malattie rare, il Best Pharmaceuticals for Children Act (Bpca) per i medicinali pediatrici e la Generating Antibiotic Incentives Now (Gain Act) per lo sviluppo di nuovi antibiotici.

Protezione brevettuale…

La prima richiesta riguardava la revisione dell’attuale sistema di protezione del mercato, con particolare riguardo per le terapie innovative a discapito delle “me too”. Garantendo loro così una durata del brevetto a partire da dopo l’approvazione della Fda, indipendentemente dal tempo trascorso in fase di sviluppo. “Per tutti i nuovi prodotti approvati in neurologia e psichiatria dalla Fda tra il 2003 e il 2012, il tempo medio di revisione è stato di 24,5 mesi” scrivono gli autori. “In confronto ai 17,7 mesi per i medicinali cardiovascolari, 12,5 mesi per quelli delle malattie infettive e immunologiche e 8,1 mesi per gli oncologici. Gli studi clinici per i prodotti approvati in questa area dalla Fda tra il 1996 e 2010 hanno richiesto in media 32 mesi in più rispetto le altre aree”. Tutto tempo sottratto al brevetto.

…e percorsi accelerati

Ma non solo, tra le altre richieste figuravano anche possibili incentivi e percorsi di approvazione accelerati. Punto quest’ultimo che non ha trovato per nulla d’accordo gli autori del secondo lavoro di Nature. I quali sottolineano come una soluzione simile, per molecole che spesso non riescono nemmeno a superare la fase III finirebbe solo per creare problemi aggiuntivi.

Serve più coraggio

“Dovremmo essere più coraggiosi – conclude Forloni – cercare di non percorrere le strade già battute da altri ed essere più originali. Certo non è semplice, e soprattutto non è facile convincere l’industria farmaceutica a investire in approcci innovativi e più rischiosi. Però credo che oggi, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze, sia necessario fare uno sforzo di creatività e sviluppare modelli migliori e approcci diversi. Aggiungere l’ennesimo “me too” è facile ma non porta a un avanzamento scientifico. Per superare un certo ostacolo dobbiamo provare ad alzare l’asticella”.

 

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Cardiochirurgia, al Gemelli debutta una nuova valvola biologica

Cardiochirurgia, al Gemelli debutta una nuova valvola biologica

Impiantata con procedura mininvasiva una nuova valvola biologica in pericardio bovino di Medtronic. L’intervento su una paziente settantenne affetta da stenosi valvolare aortica


La cardiochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma introduce per la prima volta in Italia una nuova valvola biologica all’avanguardia. È stato eseguito nella Capitale il primo impianto con procedura mininvasiva di Avalus, valvola in pericardio bovino sviluppata da Medtronic. L’intervento ha riguardato una paziente settantenne affetta da stenosi valvolare aortica, operata dal cardiochirurgo Massimo Massetti, direttore dell’Area cardiovascolare del Policlinico Gemelli e ordinario di Cardiochirurgia all’Università Cattolica.

L’intervento

“La paziente – racconta Massetti – è stata operata nella sala ibrida del Gemelli a dicembre con una degenza complessiva di quattro giorni dopo l’intervento e una riabilitazione di circa due settimane. L’intervento è perfettamente riuscito. L’impianto non è stato seguito da complicanze e la protesi ha dimostrato i vantaggi previsti con un miglioramento della funzione cardiaca e delle condizioni generali della paziente”.

Innovazione in cardiochirurgia

Le prime protesi biologiche risalgono agli anni ’70 e venivano prodotte con tessuti dello stesso paziente. In seguito, si è passati a quelle provenienti da tessuti di suino, fino alle valvole in pericardio bovino o equino. La nuova valvola impiantata per la prima volta al Gemelli è composta da foglietti valvolari in pericardio montati su un supporto semi flessibile che ne garantisce il funzionamento favorendone il posizionamento.

A sintetizzare alcuni vantaggi è lo stesso Massetti: “Un trattamento del materiale biologico, cioè del pericardio, che ne facilita la longevità, un profilo basso e un anello di sutura avanzato. Il tessuto artificiale dell’anello, inoltre, favorisce la cicatrizzazione rendendo la valvola ancor più compatibile con l’apparato circolatorio. Un impianto più semplice e più ‘biocompatibile’ rispetto al passato”.

Intervento mininvasivo

Grazie alla chirurgia valvolare mininvasiva ibrida applicata al Gemelli, la donna operata con successo ha oggi una cicatrice finale di appena tre centimetri. Un trauma chirurgico molto limitato, spiegano dal Policlinico, non paragonabile a quello della chirurgia tradizionale (circa 25 centimetri).

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Nasce Fondazione Roche: un ponte tra istituzioni e pazienti

Nasce Fondazione Roche: un ponte tra istituzioni e pazienti

Contribuire alla ricerca indipendente, dialogare in modo aperto e continuo con le istituzioni per individuare soluzioni innovative, sostenere le associazioni di pazienti e le realtà no profit del territorio. Ecco gli obiettivi della nuova iniziativa di Roche Italia


Creare un ponte tra istituzioni e pazienti, tra il privato e i cittadini. Questo lo scopo principale che ha portato alla nascita di Fondazione Roche. Una novità presentata oggi a Roma da Roche Italia, sulla scia delle celebrazioni per i 120 anni di presenza dell’azienda nel nostro Paese. A presiedere la neonata Fondazione è Mariapia Garavaglia, mentre il direttore generale è Fausto Massimino.

L’iniziativa

Il progetto punta a promuovere la ricerca indipendente, a favorire il dialogo con le istituzioni per individuare soluzioni innovative, a sostenere le associazioni di pazienti e le realtà no profit del territorio. Di fronte alle crescenti sfide per la sostenibilità del sistema sanitario, chiamato ad affrontare sempre maggiori difficoltà, la Fondazione Roche si pone come interlocutore e player innovativo e concreto.

Ripensare il Ssn

Il progetto nasce, non a caso, in occasione del quarantennale del Servizio sanitario nazionale (Ssn), che ricorre appunto nel 2018. “Il Ssn – sostiene Maurizio de Cicco, amministratore delegato di Roche Italia – ha affrontato un percorso molto lungo e penso sia giusto ripensare a temi come equità, lotta alle disuguaglianze e ricerca. Il ruolo dei pazienti in questi 40 anni è cambiato profondamente. Allora non si parlava ad esempio di farmaci per malattie rare o per tumori. Oggi, invece, siamo in grado di mettere a disposizione dei pazienti medicinali importanti. Fondamentale è soprattutto raccogliere quelle che sono le istanze degli stakeholder, delle istituzioni e dei pazienti stessi. Attraverso la Fondazione – continua de Cicco – rintracceremo le aspettative e affronteremo temi importanti per la salute dei cittadini”.

Un nuovo ruolo per il cittadino-paziente

Secondo la presidente di Fondazione Roche va rivisto anche il ruolo del cittadino-paziente all’interno del Ssn. “Troppo spesso – afferma Garavaglia – si abusa dello slogan ‘il cittadino al centro’. Non è corretto, il cittadino deve essere protagonista. Quando sa qual è il suo diritto, quando conosce qual è la complessità e la preziosità del sistema sanitario, diventa lui stesso una specie di avvocato, perché vuole mantenerlo. Così si impara ad apprezzare il Ssn. Non consumarlo, ma ad utilizzarlo. A me starà molto a cuore, attraverso la Fondazione, far passare una cultura di questo genere. Il sistema sanitario è prezioso, va salvaguardato. Dunque ‘no’ al consumismo sanitario, sì a un accesso equo che mantenga l’universalismo”.

Aree di intervento

Fondazione Roche ha individuato quattro aree di intervento: “ricerca”, “persona”, “istituzioni” e “comunità”.  La Fondazione si impegnerà nella promozione della formazione in campo scientifico degli enti di ricerca indipendenti e no profit. Agirà, inoltre, come leva dell’innovazione sociale, per rispondere ai bisogni delle persone e per ridurre le aree di disagio. “Roche – continua de Cicco –   è la prima azienda in termini di biotecnologie e di investimenti in ricerca.  In Italia investiamo circa 40 milioni all’anno in studi clinici. È attraverso la ricerca che siamo in grado di offrire nuove soluzioni terapeutiche. A differenza di altre aziende – precisa l’ad di Roche Italia – noi continueremo ad investire nella ricerca per l’Alzheimer. Nella sola Lombardia abbiamo circa 18 centri che studiano due farmaci per questa patologia e circa 50 in tutta Italia. La ricerca, spesso, è lunga e dispendiosa, può non portare i risultati che speravi. Ma bisogna essere coraggiosi”.

I progetti

“I progetti in cui ci impegneremo – spiega Francesco Frattini, segretario della Fondazione Roche – hanno una duplice natura. Esistono progetti che sono stati già iniziati dai soci fondatori, di cui Fondazione Roche si farà carico e condurrà sotto la propria egida, e ci sono altri progetti che verranno concepiti e condotti dalla Fondazione, sempre in partnership con i soci fondatori. In merito alle attività a sostegno delle ricerche indipendenti, la Fondazione continuerà con la terza edizione del premio ‘Roche per la Ricerca’ che verrà lanciato in marzo. Un altro progetto – prosegue Frattini – su cui Fondazione Roche si impegnerà, adottandolo dai soci fondatori, è il progetto ‘Persone, non solo pazienti’. Un’iniziativa che ha permesso a 19 associazioni di pazienti di lavorare insieme per elaborare una Carta che possa metterle nella condizione di accreditarsi presso le istituzioni per svolgere un ruolo di advocacy”.

Come esempi, invece, di progetti inediti, Frattini fa riferimento soprattutto ad “attività nel campo della corporate social responsability”. Nelle prossime settimane, infatti, verrà lanciata un’iniziativa in un’area particolare del territorio italiano: la cosiddetta “Terra dei fuochi”, in Campania. “Lavoreremo creando sinergie sul territorio, con gli oncologi e con le aziende che hanno lottato contro la camorra”, spiega Frattini. Il progetto s’intitolerà “Terra amata”.

 

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Vendere farmaci online: le istruzioni punto per punto

Vendere farmaci online: le istruzioni punto per punto

Farmacie comprese, sono poco più di seicento le imprese autorizzate a distribuire sul web Sop, Otc, integratori, cosmetici e device. Il fatturato totale si aggira sui 150 milioni all’anno ma è destinato a crescere. Ecco come avviare un ecommerce di medicinali su internet (dal numero 154 di AboutPharma)


Un fatturato di 150 milioni di euro l’anno: è questo il business generato dai 612 enti (tra farmacie ed esercizi commerciali) autorizzati dal ministero della Salute a vendere farmaci online. Un mercato, quello dell’ecommerce dei prodotti farmaceutici, destinato a crescere almeno per due motivi. Da un lato la capacità sempre più diffusa di utilizzare il web come canale di acquisto (più del 50% delle famiglie italiane ha almeno un componente capace di comprare online). Dall’altro l’invecchiamento della popolazione e la maggiore aspettativa di vita che portano ad aumentare l’attenzione verso tutti i servizi relativi alla salute. Così, dopo moda, food e gadget hi tech, nel carrello virtuale della spesa degli italiani finiscono i farmaci.

Vendere farmaci online: le normative

Il vendere farmaci online è regolato dall’articolo 112-quater del decreto legislativo n. 219 del 24 aprile 2006 e dalle circolari emanate dal ministero della Salute a gennaio e maggio del 2016, che disciplinano la procedura di richiesta di autorizzazione e le modalità di vendita su internet. Nelle norme è specificata innanzitutto la tipologia di medicinali ammessi alla vendita online. In Italia è possibile l’ecommerce per i farmaci senza obbligo di prescrizione (Sop) e i farmaci da banco (Otc), presenti in un apposito elenco disponibile sul sito dell’Aifa. È vietata invece la vendita sul web dei farmaci che necessitano di ricetta medica, per i quali è possibile l’acquisto solo in farmacie fisiche.

Si possono inoltre acquistare su internet prodotti parafarmaceutici e omeopatici, salvo che il produttore abbia precisato che il medicinale può essere venduto solo dietro presentazione di ricetta medica. In tal caso può essere acquistato solo nei punti vendita fisici. L’ecommerce è vietato anche per i prodotti officinali. Pur non essendo obbligatoria la ricetta medica, gli articoli del decreto 219 che regolano l’attività del vendere farmaci online senza ricetta si riferiscono ai soli medicinali preparati industrialmente. La vendita di medicinali e prodotti farmaceutici mediante i servizi di ecommerce è consentita solo a farmacie, parafarmacie ed esercizi commerciali che hanno già ottenuto la licenza e l’autorizzazione da parte del ministero della Salute alla vendita sul territorio mediante i canali offline. È vietata invece la vendita di farmaci sul web ai distributori all’ingrosso di medicinali.

Il mercato della vendita di farmaci online

Secondo l’elenco del ministero della Salute, nel nostro Paese si contano 518 farmacie e 94 esercizi commerciali autorizzati a vendere farmaci online. In testa il Piemonte con 82 farmacie e 15 esercizi commerciali. Seguono la Lombardia con 80 farmacie e 7 esercizi commerciali e la Campania con 68 farmacie e 9 esercizi commerciali. “Se paragonato al commercio elettronico di settori già consolidati, come quello della moda il cui fatturato si aggira attorno ai 2 miliardi di euro annui, i 150 milioni derivanti dalla vendita di medicinali online possono sembrare un business ancora agli albori”, dice Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il consorzio che raggruppa le imprese del commercio elettronico.

È però uno dei settori che sta suscitando grande interesse e per cui “si prevede una crescita annua del 25-30%. Nonostante oggi solo una decina tra le farmacie autorizzate raggiunga un fatturato di almeno 10 milioni di euro l’anno solo con il vendere farmaci online. Per le altre, invece, il fatturato non raggiunge il milione”, continua Liscia. Del resto, il giro d’affari delle farmacie online rappresenta ancora solo il 4% del mercato totale. A trainare le vendite sono soprattutto gli integratori (35%), seguiti da Sop e Otc (25%), cosmetici (20-25%), omeopatici (10%), dispositivi medici (6%).

Chi acquista medicinali online

Per quanto riguarda il profilo dell’utente medio, “negli ultimi due anni – continua il presidente di Netcomm – è cambiato notevolmente. Prima il web era il canale di acquisto utilizzato soprattutto da giovani tra 25 e 45 anni, con istruzione medio-alta e buona conoscenza dei dispositivi tecnologici. Oggi la diffusione dello smartphone ha permesso l’inclusione di cinquantenni e sessantenni tra gli utenti che sempre di più decidono di acquistare i farmaci online”. Il trend ha preso piede da una parte nelle grandi aree metropolitane, dove l’ecommerce è diventato un fattore culturale ed è entrato tra le abitudini del cittadino medio. Dall’altra, nei piccoli centri dove il commercio online ha risolto problemi relativi alla distribuzione. Chi non ha una farmacia sotto casa e chi non trova il prodotto desiderato nel punto vendita più vicino sceglie la via del web.

L’iter per vendere farmaci online

Il titolare della farmacia o dell’esercizio commerciale interessato ad avviare un’attività di commercio elettronico deve inviare una richiesta di autorizzazione all’autorità regionale competente. Una volta ottenuta, bisogna inviare al ministero della Salute la domanda di concessione del logo identificativo nazionale da esporre sul portale web, e di iscrizione della farmacia e del sito internet nel portale del ministero, dove è rintracciabile l’elenco dei siti autorizzati alla vendita online. Entro trenta giorni dalla richiesta, il ministero assegna al punto vendita richiedente il logo e il corrispondente collegamento ipertestuale che rimanda alla pagina del portale del ministero dove è stata inserita la farmacia con il sito autorizzato alla vendita online di farmaci senza ricetta.

L’importanza del logo

Il logo è un elemento fondamentale per la vendita online dei farmaci perché rappresenta uno strumento di tutela per il consumatore, che in ogni fase della procedura di acquisto può verificare se il venditore è un soggetto autorizzato o meno dal ministero della Salute. Nonché un mezzo di contrasto alla contraffazione dei farmaci e alla vendita illegale. “Aspetti di importanza fondamentale quando si parla di commercio elettronico dei farmaci”, afferma Annarosa Racca, presidente di Federfarma Lombardia.

L’altra faccia della medaglia: le farmacie web illegali

La conferma arriva dai numeri: nel 2016 sono state bloccate oltre 20 mila farmacie sul web perché illegali; già 6 mila quelle chiuse nei primi mesi del 2017. “Quando in Italia abbiamo pensato alla possibilità di introdurre le farmacie online, ci siamo confrontati con il Governo perché fossero rispettate due condizioni. Innanzitutto la gestione dei portali da parte di professionisti che avessero già una farmacia. Navigando in rete si finisce spesso in siti che vendono prodotti non sicuri per la salute, che hanno principi attivi diversi rispetto alla corretta formulazione o che non sono stati conservati nel modo corretto. Vedendo il logo sul portale, i consumatori possono essere sicuri che dietro quella vetrina online c’è davvero una farmacia gestita da esperti del settore”, spiega Racca.

In secondo luogo, Federfarma ha approvato il divieto della vendita online per i medicinali con ricetta medica. “È una scelta scaturita osservando alcuni comportamenti non corretti degli acquirenti. Spesso la gente cerca di acquistare i farmaci che non sono prescritti dal medico, né venduti dal farmacista. Come prodotti per la disfunzione erettile, medicinali per dimagrire o per gonfiare i muscoli. La distinzione tra farmaci con ricetta e farmaci senza è stata necessaria per salvaguardare la salute degli utenti”, continua il presidente di Federfarma Lombardia. Che puntualizza: “In questo modo abbiamo accolto nel nostro Paese una tendenza che non era possibile evitare. Cioè, l’utilizzo di internet nell’acquisto di prodotti, ma cercando di tutelare salute e sicurezza”.

Le regole per vendere farmaci online

Secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento, l’ecommerce dei farmaci ha regole che devono essere rispettate dal titolare della farmacia o del servizio commerciale che decide di avviare un’attività online. Regole che riguardano innanzitutto la struttura della vetrina virtuale. Il sito web va impostato distinguendo le pagine dedicate alla vendita di farmaci Sop e Otc – sulle quali deve comparire il logo identificativo nazionale – da quelle dedicate agli altri prodotti in commercio. Ovvero, parafarmaci, cosmetici, integratori alimentari e dispositivi medici, su cui non deve essere apposto il logo fornito dal ministero della Salute. Le diverse tipologie di prodotti, dunque, non possono essere messe in vendita sulla stessa pagina web. Nelle sezioni dedicate alla vendita di medicinali senza ricetta possono essere presenti fotografie o rappresentazioni grafiche dell’imballaggio esterno o del confezionamento primario del prodotto. Ma non è possibile lanciare alcun messaggio pubblicitario relativo allo stesso e al suo utilizzo.

Le norme sui prezzi

Un’altra regola per la vendita online riguarda il prezzo. Quello proposto per i farmaci senza ricetta deve essere obbligatoriamente lo stesso di quello praticato all’interno della farmacia. Un obbligo, questo, che non riguarda invece la vendita di tutti gli altri prodotti del settore. Pertanto, il prezzo online di un cosmetico o di un medical device, può differire da quello praticato in farmacia. È obbligatorio, poi, vendere online solo i medicinali già acquistati dalla stessa farmacia. In pratica, il farmacista può vendere in rete solo i medicinali senza ricetta di cui è già in possesso. Di conseguenza, nel caso in cui fosse sprovvisto di un prodotto richiesto online dal cliente, deve, prima di spedirlo, entrarne materialmente in possesso poiché, secondo quanto previsto dalla normativa, non può delegare il grossista a recapitarlo direttamente al cliente. Questa condizione riguarda anche le farmacie che detengono la licenza a operare in qualità di distributore intermedio.

Vietata la vendita tramite app e marketplace

Non è consentita la vendita mediante app per mobile. E sono vietati marketplace, siti web intermediari e piattaforme che dal prodotto scelto dall’utente possono risalire a un venditore selezionato dal sistema. Questi strumenti, infatti, pur essendo funzionali alla gestione online dei processi di acquisto, si pongono in contrasto con il principio che ammette le vendite online unicamente attraverso i siti dei soggetti autorizzati che devono coincidere con quelli presenti nell’elenco gestito dal ministero della Salute.

Cosa stabilisce la legge riguardo al trasporto

Un’ultima regola riguarda il trasporto dei medicinali venduti online. Questo deve essere effettuato secondo le linee guida contenute del decreto del ministero della Salute del 6 luglio 1999. Vanno trasportati in modo che non contaminino o siano contaminati da altri prodotti. E non devono essere sottoposti a calore diretto, freddo, luce, umidità o ad altre condizioni sfavorevoli che possano deteriorare il prodotto. I mezzi impiegati per il trasporto dei medicinali, inoltre, devono essere dotati, nel vano di trasporto, di impianti idonei a garantire una temperatura alla quale le caratteristiche del prodotto non vengano alterate.

 

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Un elettrostimolatore per curare l’emicrania

Un elettrostimolatore per curare l’emicrania

Approvato negli Stati uniti un elettrostimolatore per ridurre il dolore da emicrania attraverso la stimolazione del nervo vago. Prodotto dalla statunitense electroCore e testato in Italia presso la Fondazione Mondino di Pavia


L’elettroceutica inizia a diventare una soluzione terapeutica reale. Aboutpharma l’ha ricordato con un articolo sull’ultimo numero di febbraio e la Food and drug administration con l’approvazione giunta oggi di gammaCore. Un nuovo elettrostimolatore, prodotto dalla statunitense electroCore, che negli Stati Uniti potrà essere utilizzato da chi soffre di emicrania. Il dispositivo può essere applicato semplicemente sul collo del paziente dove stimolerà elettricamente il nervo vago. Riducendo così il dolore da emicrania. A contribuire all’approvazione dell’elettrostimolatore per curare l’emicrania, una sperimentazione clinica italiana. È stata infatti condotta alla Fondazione Mondino di Pavia dall’equipe diretta da Cristina Tassorelli, direttore del Centro per la Ricerca sulle Cefalee, l’Headache Science Centre.

Come funziona l’elettrostimolatore per curare l’emicrania

Praticamente tutte le funzioni del corpo umano sono regolate da impulsi elettrici, il sistema con cui i neuroni comunicano tra di loro e con gli organi attraverso i nervi periferici. Il sistema nervoso periferico dunque è una sorta di “autostrada” che trasporta i segnali sotto forma di impulsi elettrici da e verso il cervello tramite potenziali d’azione. Questi messaggi poi si traducono in cambiamenti chimici e biologici in tutto il corpo. Per cui, quando la comunicazione viene interrotta o alterata – per esempio con l’insorgere di una patologia – possono verificarsi conseguenze negative. L’idea dunque è di “hackerare” il circuito interno con uno stimolo esterno che parli la stessa lingua del corpo umano. Tramite potenziali d’azione indotti artificialmente, indistinguibili da quelli prodotti dall’organismo. In modo da ripristinare le condizioni fisiologiche, o per lo meno migliorarle.

Lo studio italiano

I risultati dello studio clinico multicentrico “PRESTO” (The Prospective Study of nVNS for the acute treatment of Migraine), presentati durante il congresso della International Headache Society a Vancouver, hanno dimostrato l’efficacia del nuovo trattamento, testato su 243 pazienti presso l’Headache Science Center di Pavia. Lo studio, interamente “made in Italy”, ha visto la partecipazione di 10 Centri Cefalee, tra cui quello di Pavia diretto da Grazia Sances, che hanno testato nell’arco di 18 mesi l’efficacia dello stimolatore su soggetti emicranici.

Una malattia disabilitante

“L’emicrania è la terza malattia più diffusa al mondo e una delle dieci patologie considerate più disabilitanti” ha commentato Tassorelli. Una nuova versione dello stimolatore, maneggevole e facilmente ricaricabile, sarà rilasciata contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti nel corso del 2018.

 

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Vaccini, l’appello dei medici: “No alle strumentalizzazioni politiche”

Vaccini, l’appello dei medici: “No alle strumentalizzazioni politiche”

Il board del “Calendario per la vita” - composto da medici di famiglia (Fimmg), pediatri (Sip e Fimp) e igienisti (Siti) – invita a tenere fuori la scienza dalla contesa elettorale. E ricorda i rischi di una mancata vaccinazione


“I vaccini non hanno colore politico e non vanno strumentalizzati”. Così pediatri, medici di famiglia e igienisti si appellano alla politica affinché il tema delle vaccinazioni resti fuori dalla contesa elettorale. Lo fanno con una nota congiunta del board del “Calendario per la vita”, il tavolo di esperti composto dalla Società italiana di igiene (Siti), dalla Società italiana di pediatria (Sip), dalla Federazione dei medici pediatri (Fimp) e dal sindacato dei medici di medicina generale (Fimmg).

“I vaccini non possono dividere”

“I vaccini affermano – i camici bianchi – sono uno strumento medico al servizio del bene della collettività, come lo sono gli antibiotici e i farmaci anti-tumorali. Saremmo stupiti che l’uso degli antibiotici diventasse oggetto di diverse scelte politiche. Perché quindi i vaccini devono essere oggetto di divisione politica?”. Divisioni riaccese dalla mozione approvata nei giorni scorsi dal comunale di Roma sull’accesso alla scuola dell’infanzia per i bimbi non vaccinati.

Parola alla scienza

Per i medici si è perso il senso della misura. “Si lasci alla scienza – prosegue la nota – stabilire quali siano le indicazioni e le misure da adottare per incrementare e difendere il livello eccellente di salute che nel campo delle malattie infettive proprio i vaccini ci hanno consentito di raggiungere”.

Perché l’obbligo

L’obbligatorietà delle vaccinazioni per l’accesso a scuola, ricordano i medici, si è resa necessaria per “la continua disinformazione e l’incomprensibile attacco che le vaccinazioni hanno subito negli anni scorsi, determinando nei genitori un diffuso stato di incertezza sulla loro bontà e grande beneficio, e un conseguente abbassamento delle coperture vaccinali”.

Evitare le epidemia

Gli obiettivi di copertura, sottolineano i camici bianchi, vanno raggiunti “per interrompere la diffusione degli agenti di malattie pericolose, che spesso provocano eventi epidemici”. Come avvenuto lo scorso anno con “quasi 5mila casi di morbillo notificati nel nostro Paese.

I rischi

Infine, un riferimento ai rischi sottovalutati da chi rifiuta le vaccinazioni. “Il rischio di encefalite dopo vaccino contro il morbillo – spiegano i medici – è uguale a quello ‘base’ di tutta la popolazione, quello di un bambino o adulto che contrae il morbillo è da mille a 2.500 volte più alto. Un genitore che per futili motivi o teorie complottiste risibili insista a non vaccinare e pretenda l’accettazione all’asilo infantile e alla scuola materna, mette in pericolo anzitutto il proprio figlio, e anche tutti i bambini più deboli, con malattie genetiche del sistema immunitario che non possono essere immunizzati per ragioni mediche”.

 

 

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Scoperte le malacidine, una nuova classe di antibiotici

Scoperte le malacidine, una nuova classe di antibiotici

Un gruppo di ricercatori Usa ha identificato un nuovo tipo di farmaci a partire dall’analisi di campioni di terreno. In studi preclinici sono stati efficaci nel debellare un'infezione batterica da Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina (Mrsa). Lo studio pubblicato su Nature microbiology apre la strada a un lungo percorso verso la clinica


Si chiamano malacidine, una nuova classe di antibiotici scoperta in campioni di terreno. I test sui modelli animali condotti finora dai ricercatori della Rockefeller University di New York hanno dimostrato che i composti sono in grado di contrastare diverse infezioni causate da batteri resistenti agli attuali antibiotici. Inclusi i superbugs Mrsa, gli Staphylococcus aureus resistenti alla meticillina. La ricerca è stata pubblicata su Nature microbiology e ripresa dalla Bbc.

La metodica per scovare nuove molecole

I ricercatori guidati da Sean Brady hanno utilizzato una particolare metodica per individuare composti potenzialmente terapeutici. Il tutto a partire dai milioni di microrganismi che si trovano nel suolo. Inclusi nuovi antibiotici. I ricercatori hanno usato una tecnica di sequenziamento dei geni per analizzare più di mille campioni di suolo prelevati da tutti gli Stati Uniti. “Per identificare composti naturali potenzialmente utili abbiamo sviluppato una piattaforma che include sequenziamento, analisi bioinformatica ed espressione eterologa di cluster di geni biosintetici catturati dal Dna estratto da campioni ambientali” spiegano gli autori del lavoro. Una volta scoperte le malacidine in molti dei campioni, gli scienziati hanno avuto l’impressione che fosse una scoperta importante.

La strada verso la clinica è ancora lunga

Brady e collaboratori hanno testato il composto sui ratti a cui era stato somministrato il Mrsa, riuscendo ad eliminare l’infezione dalle ferite della pelle. Ora i ricercatori stanno lavorando per migliorare l’efficacia del farmaco nella speranza che possa diventare un vero trattamento di utilizzo clinico. “È impossibile dire quando, o anche se, una scoperta di antibiotici nella fase iniziale come le malacidine arriverà in clinica – ha aggiunto Brady – è una strada lunga e ardua”.

Una buona notizia ma non troppo

O per lo meno che non basta secondo Colin Garner, dell’Antibiotic Research UK, che ha sottolineato come trovare nuovi antibiotici per il trattamento di infezioni gram-positive come l’Mrsa non è la prima necessità. “La nostra preoccupazione sono i cosiddetti batteri gram-negativi che sono difficili da trattare e in cui la resistenza è in aumento. Sono causa di gravi infezioni come polmoniti, ma anche del sangue, tratto urinario e pelle. Abbiamo bisogno di nuovi antibiotici per trattare questa classe”.

 

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“Estendere la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia”

“Estendere la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia”

È la richiesta che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin pone a Mario Melazzini, direttore generale di Aifa, per una migliore gestione delle patologie croniche e di conseguenza un accesso più appropriato e tempestivo alle terapie


Aprire la prescrizione dei farmaci innovativi ai medici di famiglia. È la richiesta che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin pone a Mario Melazzini, direttore generale di Aifa, in una lettera inviata nei giorni scorsi, in seguito alla riunione del Tavolo sulla Cronicità, che ha raccolto l’entusiasmo della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri). Un’iniziativa ormai diventata necessaria, secondo il ministro, per poter provvedere alla gestione delle malattie croniche. “Una delle maggiori criticità che la sanità pubblica, e non solo, si troverà ad affrontare – sottolinea Lorenzin – soprattutto in futuro con l’allungamento della vita media dei cittadini”.

Una scelta necessaria per il bene dei pazienti

“Per fornire una risposta efficace ai bisogni di cura dei pazienti affetti da tali patologie ritengo sia strategico coinvolgere i medici di medicina generale” continua la ministra. “In maniera da affrontare la cronicità direttamente sul territorio. La scelta di consentire alla medicina di base la facoltà di prescrivere i medicinali innovativi, permetterebbe un accesso più appropriato e tempestivo alle terapie per i pazienti cronici”.

Miglior monitoraggio dei piani terapeutici

L’auspicio di Lorenzin è che grazie a un monitoraggio dei piani terapeutici da parte dei medici di medicina generale possa anche migliorare l’aderenza terapeutica. Ed essere ridotto il tempo di accesso alle cure. “Per questo – conclude Lorenzin nella lettera rivolta a Melazzini – ti chiedo di individuare alcune malattie croniche diffuse, i cui trattamenti siano oggi prescrivibili esclusivamente dai medici specialisti e di estendere tale facoltà anche ai medici di medicina generale”.

La replica positiva della Fnomceo

Richiesta sostenuta dalla Fnomceo che tramite le parole del presidente Filippo Anelli fa sapere di apprezzare l’iniziativa del ministro. “La richiesta ha una duplice valenza positiva” continua Anelli. “Da una parte va incontro alle necessità dei pazienti cronici, che potranno essere curati sul territorio nella miglior maniera possibile. Dall’altra riconoscere a tutti i medici le competenze previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea”.

Ricadute positive anche per il Ssn

“Non solo – conclude il presidente Fnomceo – le ricadute di una tale scelta, se attuata, sarebbero oggettive per tutto il Servizio sanitario nazionale. In termini di maggior economicità, efficienza e aderenza terapeutica. Siamo certi che il direttore Melazzini saprà prendere una decisione rapida e competente in materia”.

Le mosse dell’Aifa

Intanto all’Aifa se ne discute. “È una questione di cui stiamo parlando”, spiega il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, Stefano Vella, a margine dell’evento “Il valore del farmaco, il valore della cura” in programma oggi a Roma. “Credo che con tutte le dovute cautele – sottolinea Vella – sia una cosa utile per i pazienti, che oggi fanno la fila dagli specialisti per il piano terapeutico. Bisogna però bilanciare i benefici per i pazienti con il rischio di aumentare la spesa, ma basterebbe un buon monitoraggio. È una buona idea, che va governata. Ovviamente parliamo solo di alcune patologie croniche molto diffuse, come il diabete e la Bpco. C’è una sensibilità politica – conclude il presidente dell’Aifa – ma serve che medici di famiglia e specialisti si siedano a discutere”.

 

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Fondo disabili: assegnati 75 milioni alle Regioni a statuto ordinario

Fondo disabili: assegnati 75 milioni alle Regioni a statuto ordinario

Via libera al decreto di riparto del fondo per le spese relative all’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con disabilità fisiche o sensoriali. Polemica con le Regioni a statuto speciale per aver preso parte alla ripartizione


Arrivano 75 milioni per il fondo disabili. A dirlo è stato Giovanni Toti, presidente di Regione Liguria e vicepresidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome. “Daremo sostanzialmente il via libera sul decreto di riparto del fondo per le spese relative all’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con disabilità fisiche o sensoriali”.

La ripartizione

“Complessivamente – spiega Toti – 75 milioni che saranno assegnati alle Regioni a statuto ordinario. A loro volta li ripartiranno a Province e Città metropolitane per far fronte soprattutto alle esigenze di trasporto degli alunni con disabilità delle scuole secondarie superiori”. In aggiunta, Toti spiega che è sta fatta richiesta al Governo di far “diventare strutturale questo fondo e di incrementarlo fino al raggiungimento del fabbisogno che l’esecutivo stesso ha stimato pari a 112 milioni”.

La questione delle Regioni a statuto speciale

Ma qualcuno non è d’accordo. Le Regioni a statuto speciale hanno lamentato il fatto di non essere state coinvolte. Difficilmente si raggiungerà l’intesa nel corso della Conferenza unificata. Le Regioni a statuto ordinario hanno però concordato all’unanimità e proposto al Governo una ripartizione delle risorse per l’80% attribuita in base al numero degli alunni con disabilità iscritti nelle scuole secondarie di II grado e per il 20 % basata sulla spesa media del periodo 2012-14.

I numeri

Qui di seguito le tabelle con tutte le ripartizioni regione per regione e le rispettive province

 

 

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Iss in campo contro le bufale: un nuovo portale e una mostra sui vaccini

Iss in campo contro le bufale: un nuovo portale e una mostra sui vaccini

Con Piero Angela e il ministro Lorenzin, l'Istituto superiore di sanità lancia il sito di informazione "ISSalute" e inaugura la mostra itinerante "Mondovaccini". Un doppio impegno contro le fake news


Un’enciclopedia digitale sulla salute come antidoto per le fake news. Nasce ISSalute, il nuovo portale dell’Istituto superiore di sanità (Iss) per orientarsi nel mare sconfinato dell’informazione scientifica sul web. Un’iniziativa presentata oggi a Roma dal presidente dell’Istituto, Walter Ricciardi, con il giornalista-divulgatore Piero Angela e il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. In concomitanza con l’inaugurazione della mostra “Mondovaccini”.

Il nuovo portale

ISSalute.it contiene oggi più di 1.700 schede su cause, disturbi, cure e prevenzione delle malattie. Smentisce ben 150 fake news sulla salute, che presto diventeranno 400. Ed è organizzato in quattro sezioni: “La salute dalla A alla Z”, “Stili di vita e ambiente”, “Falsi miti e bufale” e “News”. Quest’ultima sarà aggiornata quotidianamente in partnership con l’agenzia Ansa e ospiterà notizie su temi di attualità in medicina e ricerca.

Ricciardi: “Iss in campo contro le bufale”

“Scendiamo in campo contro le bufale online. Vogliamo – spiega Ricciardi – offrire ai cittadini che sempre più spesso consultano il web per motivi di salute, trovando tutto e il contrario di tutto, un approdo sicuro, un punto di riferimento rigoroso e autorevole. È un’informazione certificata all’origine perché prodotta negli stessi luoghi in cui si fa ricerca e si produce conoscenza scientifica e un contributo all’equità e alla sostenibilità del nostro sistema sanitario”.

Sui social

L’iniziativa dell’Iss sbarca anche sui principali social network. Secondo il Censis, ricorda l’istituto, un italiano su tre naviga in rete per ottenere informazioni sulla salute. Di questi, oltre il 90,4% effettua ricerche su specifiche patologie. Crescono i contatti dei quotidiani online (+2,6%) e degli altri portali web di informazione (+4,9%). A Facebook è iscritto il 50,3% dell’intera popolazione (il 77,4% dei giovani under 30), YouTube raggiunge il 42% di utenti (il 72,5% tra i giovani) e Twitter il 10%. ISSalute avrà anche un profilo Instagram.

Piero Angela: “Scienza non ammette par condicio”

Piero Angela è il testimonial scelto dall’Iss per il battesimo dell’iniziativa: “Oggi – afferma il giornalista – col web la disinformazione circola rapidamente. È pieno di pifferai magici a cui è facile credere. Ma la scienza non è democratica, non prevede par condicio. Non è la stessa cosa dire che la terra è quadrata oppure che è rotonda. Sono un cronista e da anni cerco di raccontare la scienza in modo corretto al grande pubblico. Saputo di questa iniziativa mi sono rallegrato perché finalmente le istituzioni entrano in un campo importante”.

La mostra “Mondovaccini”

Oggi all’Iss è stata anche inaugurata la mostra itinerante “Mondovaccini”. Un viaggio alla “scoperta di questi farmaci”, vittime più di altri di bufale e mistificazioni, e “del loro immenso valore terapeutico nella storia”, sottolinea Ricciardi.
La mostra è stata allestita all’interno del museo dell’Iss e sarà visitabile su prenotazione fino ad aprile. È la prima tappa di un’iniziativa, organizzata in collaborazione con QBGroup e con il sostegno di Eni Foundation, che toccherà altre città italiane, secondo un calendario ancora da definire.
I pannelli della mostra riassumono i conetti fondamentali delle vaccinazioni, la loro importanza per la salute e il vantaggio sociale che ne deriva. Spiegano, ad esempio, cos’è l’immunità di gregge e il suo ruolo a livello di comunità, oltre che il valore economico della vaccinazione. Forniscono informazioni sulla composizione dei vaccini, sui controlli di qualità e sicurezza e sul calendario vaccinale. Smentiscono i falsi miti più comuni sui vaccini, contestando notizie inesatte, false o spinte da motivazioni pseudo-scientifiche. Ma c’è spazio anche per contenuti multimediali e interattività: ci si può sedere davanti a una webcam e “vedersi” affetti da varicella o morbillo oppure giocare a un quiz per testare conoscenze o sciogliere dubbi.

Lorenzin: “I no-vax creano allarme e terrore”

Partecipando all’inaugurazione, Beatrice Lorenzin cita il caso dei manifesti no-vax apparsi in Emilia Romagna: “Parliamo di manifesti sei metri per tre, affissi per tutta la Regione, che creano procurato allarme e terrore nei cittadini. E’ incredibile che possa accadere in una regione dove c’è un livello di sanità altissimo”, sottolinea il ministro, annunciando di aver segnalato il caso alle autorità competenti per “verificare se siamo di fronte a un’ipotesi di procurato allarme”. Quanto alla necessità di contrastare la disinformazione in rete, il plauso del ministro all’Iss: “Non è possibile che le persone in rete digitano la parola ‘vaccini’ e trovano bufale una dopo l’altra. Bufale che poi determinano scelte di salute. Penso che l’Iss in questi anni ha dimostrato di essere l’istituzione della scienza in Italia. Il nuovo portale è una risposta forte delle istituzioni alla disinformazione”.

 

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Ricaduta di leucemia, possibile prevederla già alla diagnosi

Ricaduta di leucemia, possibile prevederla già alla diagnosi

I ricercatori del Centro Matilde Tettamanti di Monza e dell’Università di Stanford hanno scoperto nuove caratteristiche delle cellule tumorali che possono far prevedere il rischio di ricaduta dei pazienti con leucemia linfoblastica acuta. Se confermata permetterà di identificare sin dalla diagnosi i pazienti a maggiore rischio


Identificare chi avrà una probabile ricaduta di leucemia. Oggi sembra possibile sin dalla diagnosi grazie a un lavoro condotto in collaborazione tra Centro Matilde Tettamanti, Clinica Pediatrica, Università di Milano-Bicocca, A.O. San Gerardo di Monza, e dell’Università di Stanford. I ricercatori hanno scoperto che è possibile prevedere fin dalla diagnosi se i pazienti colpiti da leucemia linfoblastica acuta di tipo B (B-LLA) avranno maggiori probabilità di ricaduta dopo i trattamenti. In particolare hanno scoperto che alcune particolari caratteristiche funzionali della cellula tumorale, associate alla ricaduta di questa malattia, sono già presenti al momento della diagnosi. Finora occorreva aspettare la risposta al trattamento e la verifica molecolare della cosiddetta “malattia residua minima”, per stabilire l’eventuale rischio di ricaduta.

La ricerca sulla ricaduta di leucemia

Grazie a un’analisi ad altissima risoluzione che permette di studiare singolarmente le cellule, i ricercatori hanno potuto indentificare un preciso comportamento cellulare che sembra guidare la ricaduta. L’osservazione offre nuove conoscenze sul comportamento biologico della cellula tumorale. E potrebbe anche avere un impatto molto significativo negli attuali criteri di stratificazione del rischio e di conseguente definizione di una terapia. La ricerca sostenuta anche da Airc con il contributo della Fondazione Benedetta è la Vita Onlus è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Medicine. Il lavoro è particolarmente importante se si considera che, nonostante i successi nell’ottenimento di risposta iniziale al trattamento di prima linea, la mortalità nei tumori è in gran parte dovuta alla recidiva.

La citometria di massa e il machine learning

“Nel nostro studio – commenta Jolanda Sarno, ricercatrice italiana attualmente presso l’Università di Stanford grazie a una borsa di studio Airc e primo autore insieme a Zinaida Good – abbiamo utilizzato una tecnologia innovativa. Si tratta della citometria di massa che permette di individuare, quantificare e analizzare contemporaneamente decine di parametri biologici e funzionali in ogni singola cellula. Le cellule leucemiche di B-LLA alla diagnosi sono state confrontate con la loro controparte sana mediante un programma bioinformatico al fine di individuare i profili più caratteristici delle cellule leucemiche. I profili ottenuti sono poi stati confrontanti nei pazienti ricaduti rispetto a quelli in remissione (non ricaduti). Utilizzando un approccio di machine learning, infine, sono state identificate le caratteristiche funzionali predittive della ricaduta”.

La ricerca sulla ricaduta di leucemia

“Sin dalla fine degli anni ’90 la clinica pediatrica della Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma ha coordinato per l’Italia, all’interno di un network europeo, la standardizzazione e l’applicazione della tecnica di misurazione della malattia residua minima, in tutti i bambini e adolescenti con leucemia linfoblastica acuta di tipo B, dei centri dell’Associazione italiana ematologia e oncologia pediatrica (Aieop)” sottolinea Andrea Biondi, direttore della clinica pediatrica Università Milano Bicocca e direttore scientifico della Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma. “Questo studio si colloca  all’interno di una storia e di un’esperienza di ricerca decennale che pone il nostro centro come punto di riferimento in Italia”. Il centro ogni anno riceve e analizza circa 450 campioni di Dna, ed è un punto di riferimento in Italia per lo studio della malattia residua minima.

Il modello statistico di predizione delle ricadute

La ricerca si inserisce all’interno di un dibattito se le cellule tumorali resistenti al trattamento siano presenti fin dal momento della diagnosi iniziale o se  emergano sotto la pressione della terapia. Zinaida Good, co-autrice di questo lavoro, ha messo a punto un modello statistico di predizione delle ricadute: il Developmentally Dependent Predictor of Relapse (Ddpr). Il quale ha dimostrato chiaramente che alcune caratteristiche funzionali della cellula tumorale, responsabili della ricaduta di malattia, sono già presenti alla diagnosi.

Le caratteristiche cellulari

In particolare, sono state individuate sei caratteristiche cellulari, presenti in due sottopopolazioni leucemiche. Le quali permetteranno di prevedere la ricaduta del paziente fin dal momento della diagnosi. In una successiva analisi le coppie di campioni ottenuti al momento della diagnosi e della ricaduta sono state analizzate. Si è così ottenuta la conferma che il profilo predittivo iniziale, osservato alla diagnosi, si mantiene nelle cellule presenti alla ricaduta.

La ricerca futura

Il prossimo passo sarà validare il modello Ddpr in un numero più ampio di campioni prelevati da pazienti con B-LLA (circa 300). Campioni che saranno messi a disposizione dal COG (Children’s Oncology Group) americano. La prospettiva fa ben sperare che i risultati si convalidino con l’ampiamento dello studio.

 

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Celiachia, spesi 320 milioni all’anno per prodotti senza glutine

Celiachia, spesi 320 milioni all’anno per prodotti senza glutine

Lo afferma Coldiretti stessa in riferimento al nuovo decreto sull'assistenza ai celiaci la cui approvazione è attesa il 21 marzo in Conferenza Stato-Regioni. In questa sede si opterà per una riduzione media del tetto di spesa del 19% per l'acquisto dei prodotti senza glutine da parte dei celiaci


Per la Coldiretti, si spendono 320 milioni all’anno in prodotti senza glutine. Ma il problema non è nella spesa in sé, quanto nei motivi che stanno dietro alla spesa stessa. Infatti non sempre questo esborso è giustificato da motivi legati alla salute. Lo afferma Coldiretti stessa in riferimento al nuovo decreto sull’assistenza ai celiaci la cui approvazione è attesa il 21 marzo in Conferenza Stato-Regioni.

Cambio di sensibilità e necessità. Il paniere dell’Istat

Se il mercato degli alimenti senza glutine, sottolinea Coldiretti, “è cresciuto del 20% all’anno, sono saliti al 58% i ristoranti che offrono ricette senza glutine. Un cambiamento di abitudini che è stato riconosciuto anche dal paniere Istat. Proprio nel 2015, infatti, ha sancito l’ingresso della pasta e dei biscotti gluten free per il calcolo dell’inflazione”. Si stima che a scegliere alimenti privi di glutine, evidenzia l’associazione, “sia quasi il 10% degli italiani, anche se a beneficiare dell’assistenza saranno solo i celiaci riconosciuti. La crescita della domanda ha provocato anche un cambiamento nella produzione. Si pensi al ritorno nelle campagne italiane di grani antichi a basso contenuto di glutine per la produzione di pasta e biscotti”, conclude Coldiretti.

Decreto gluten free

Domani ci sarà l’approvazione finale della riduzione media del tetto di spesa del 19% per l’acquisto dei prodotti senza glutine da parte dei celiaci. La Conferenza Stato-Regioni si pronuncerà su una modifica che porterà a un risparmio stimato di oltre 30 milioni di euro. “Non una sforbiciata, ma una revisione razionale, che tiene conto della riduzione dei costi degli alimenti senza glutine e dei fabbisogni energetici della popolazione”. A sottolinearlo è l’Associazione italiana celiachia (Aic), che ha collaborato con il ministero della Salute per monitorare due aspetti fondamentali. Che i tagli fossero in linea con le esigenze dei pazienti e che non venisse meno la copertura del 35% dell’apporto calorico giornaliero dei carboidrati privi di glutine. Secondo l’associazione i cibi gluten free costano men.  “Questo risparmio – spiega Giuseppe Di Fabio, presidente Aic – costituirà un’importante riserva di risorse per venire incontro ai bisogni terapeutici dei pazienti che saranno diagnosticati nel prossimo futuro”. Quest’ultimi, stando alle stime, sono in crescita al ritmo del 10% annuo, con 400 mila nuove diagnosi attese.

 

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Ssn, aumentano i tempi d’attesa: in media oltre due mesi

 

 

 

 

 

 

Ssn, aumentano i tempi d’attesa: in media oltre due mesi

Lo registra l'Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi Sanitari Regionali, ricerca commissionata dalla Funzione pubblica Cgil e condotta dal centro Crea Sanità. Lo studio ha coinvolto 26 milioni di cittadini (soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania) tra il 2014 e il 2017


Aumentano i tempi delle liste d’attesa. Si va oltre i due mesi di media. Questo è quanto registra l’Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi Sanitari Regionali, ricerca commissionata dalla Funzione pubblica Cgil e condotta dal centro Crea Sanità. Lo studio ha coinvolto 26 milioni di cittadini (soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania) tra il 2014 e il 2017.

I dati

I numeri parlano chiaro. Per ottenere una visita specialistica o un esame ci vogliono almeno 65 giorni. In tre anni l’aumento è stato tra i 20 e 27 giorni. Per esempio una visita oculistica nel 2014 bisognava attendere 61 giorni. Oggi sono 88. Ben 26 giorni in più nell’arco degli ultimi tre anni. Non va meglio per gli ortopedici. Tre anni fa si doveva attendere poco più di un mese (36 giorni), nel 2017 l’attesa è di 56 giorni. Per non parlare della colonscopia. 69 giorni nel 2014 a fronte dei 96 del 2017. Un aumento di quasi un mese.

Il ricorso ai privati

La sanità privata dimezza i tempi e i costi sono competitivi (anche se in molti casi sono elevati). Non ci si discosta molto dal prezzo del ticket. Non è raro, inoltre, che il costo del privato sia inferiore all’intramoenia. Dall’oculista si risparmierebbe un euro (97 euro contro i 98 dell’intramoenia). Nell’ortopedia 103 contro 106 euro. Il problema è la carenza di personale e la difficoltà nel gestire i pazienti che richiedono delle visite specifiche. Si registra quindi, osserva la Funzione Pubblica Cgil, “un disallineamento tra le aspettative dei cittadini e i tempi di attesa dell’offerta pubblica, così come tra i costi e il valore di mercato delle prestazioni. Di conseguenza, le poco sostanziali differenze di prezzo e le lunghe liste di attesa hanno incentivato lo sviluppo di un’offerta privata di servizi spesso concorrenziale con quella pubblica, per costo e tempi di risposta”.

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Digitalizzazione dell’healthcare: partecipare o stare a guardare?

 

 

Digitalizzazione dell’healthcare: partecipare o stare a guardare?

Siamo nel pieno di una trasformazione digitale alla quale lo stesso mondo pharma approda con parziale ritardo. Dall’agenzia di comunicazione multicanale fablab una nuova rubrica per aiutare a capire cosa succede e come si fa. Per orientarsi tra le soluzioni e le opportunità di un mercato in continuo cambiamento


La digitalizzazione dell’healthcare e del relativo mercato è un dato di fatto. Che spalanca spazi sconfinati per quel che riguarda non solo gli strumenti e i canali di informazione sanitaria e farmaceutica, ma anche le possibilità di interazione tra tutti gli attori coinvolti. Dal produttore al paziente, dal medico al farmacista.

La rivoluzione digitale cambia il modo di cercare informazioni sulla salute

Tra comprensibili timori e resistenze, come in ogni “rivoluzione”, la digitalizzazione dell’healthcare scardina paradigmi ormai assodati per ridettare le regole del gioco. E ridefinisce, per ciascuno, le strategie utili a trarre concreto beneficio da un processo che, virtualmente, riunisce l’intero settore in una rete capillare e assidua di comunicazione multicanale. Un terzo degli italiani, secondo il Censis, cerca in rete informazioni sulla salute. Ed è una proporzione destinata a impennarsi. Non senza rischi, naturalmente. E bene ha fatto l’Istituto superiore di sanità ad allestire un apposito spazio per contrastare le “fake news”, ISSalute, che dilagano con l’amplificazione delle nuove tecnologie. Si tratta, comunque, del risvolto perverso di una tendenza ben più estesa e salutare, quella di una fondata domanda di informazione, che ora trova spazi potenziali di risposta a portata di mano.

La digitalizzazione dell’healthcare e l’attività dei professionisti sanitari

Tant’è che il fenomeno è analogo per i medici. Dedicano, in media (secondo uno studio della rete europea di consulenti Across Health), circa tre minuti al giorno a ricevere informatori farmaceutici e a partecipare a convegni. Mentre il tempo consacrato ad aggiornarsi sul web si decuplica. Il fenomeno sta assumendo proporzioni sempre più ampie che vanno ben al di là della rete. Ci sono le app, gli smartphone, i dispositivi che veicolano le informazioni direttamente nel gestionale del medico e del farmacista, i software per gli informatori, la comunicazione integrata e multicanale, gli strumenti di consulto diretto con i medici e di ausilio all’aderenza terapeutica. La comunicazione è oramai globalizzata e questo processo porta in sé elevate possibilità in termini di nuove conoscenze e nuovi mercati.

Gli obiettivi della rubrica

Paradossalmente, i pazienti lo hanno capito ben prima di almeno parte dei produttori, con l’esito che, tra le grandi quantità di stimoli e i controlli incrociati, la prima garanzia del successo comunicativo sta nella credibilità. Per i prossimi sei mesi, in questo spazio, indagheremo in modo chiaro e diretto:

  • i diversi attori di questo scenario (target);
  • i nuovi bisogni del mercato medico-farmaceutico (need);
  • le modalità privilegiate di comunicazione (canali);
  • gli strumenti per veicolarla (piattaforma).

Ma la vera parola d’ordine della comunicazione sulla salute è oggi più che mai la qualità, e quindi l’autorevolezza dell’informazione. Questa, come vedremo, ha molte declinazioni. Di contenuto, di linguaggio, di trasparenza, di pertinenza, di rispetto normativo e anche di nuove possibilità di monitoraggio sul contributo reale della comunicazione al marketing. Il dato di fondo è che non è più tempo di riflettere se starci o meno. Gli operatori devono solo scegliere quanto e come, con il solo imperativo di farlo bene.

A cura di Fablab 

 

 

 

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Farmacie francesi, cresce la paura della falsificazione dei farmaci

Farmacie francesi, cresce la paura della falsificazione dei farmaci

Un sondaggio dei distributori intermedi d’Oltralpe rivela la preoccupazione dei cittadini sui medicinali contraffatti e sulla diminuzione dei presidi rurali (una prospettiva che il 43% del campione teme “molto” e un altro 46% “abbastanza”)


Vita dura per le farmacie francesi. Aumentano i casi di falsificazione dei farmaci e preoccupa parecchio la diminuzione dei presidi rurali. Lo rivela un sondaggio condotto dall’Ipsos su un campione rappresentativo di mille cittadini francesi, commissionato dalla Chambre syndicale de distribution pharmaceutical (Csrp), sigla dei distributori intermedi d’Oltralpe.

La desertificazione delle campagne

Nove francesi su dieci hanno paura di vedere le farmacie scomparire nelle zone rurali. Dalla rilevazione emerge infatti che ben l’89% degli intervistati teme il fenomeno della progressiva erosione della rete territoriale delle farmacie. Specialmente nelle aree di campagna. Una prospettiva che il 43% del campione teme “molto” e un altro 46% “abbastanza”.

La falsificazione dei farmaci e la minaccia internet

Dal sondaggio emergono però anche altre preoccupazioni. Una è l’aumento della vendita di farmaci falsi contraffatti, che preoccupa l’87% degli intervistati. Segue il timore, strettamente correlato, della vendita dei farmaci su internet, indicato dall’85% del campione. Quindi la paura che i farmaci oggetto di provvedimenti di ritiro da parte dell’autorità non sia completamente ritirati dal mercato (83%). Infine, il timore di possibili carenze di alcuni farmaci sul mercato (79%). Emerge, con molta chiarezza, il desiderio dei cittadini francesi di vedere preservato l’attuale capillare sistema di accesso alle medicine. Per il 62% di essi, lo Stato deve finanziare l’equilibrio economico della rete dei presidi territoriali di distribuzione farmaceutica, nella misura in cui ne fissa gli obblighi di servizio pubblico.

 

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Screening, nel Lazio arrivano 122 nuove attrezzature

Screening, nel Lazio arrivano 122 nuove attrezzature 

Pubblicato il bando per l’ammodernamento di mammografi, colonscopi ed ecografi di fascia alta. L’investimento rientra in un fondo da 13,6 milioni di euro stanziato dalla Regione. Asl Roma 6 capofila per le procedure d’acquisto


Nel Lazio si rinnova il parco tecnologico per i programmi di screening delle aziende sanitarie locali. È stato pubblicato il bando della Regione per l’acquisto di 122 macchinari di ultima generazione, fra cui mammografi digitali con tomosintesi e stereotassi, colonscopi e colonne endoscopiche hd, ed ecografi alta fascia. La Asl Roma 6 è stata designata azienda capofila e sta procedendo all’acquisto per conto di tutte le asl del Lazio. Il bando rientra nel fondo di 13,6 milioni di euro, stanziato dalla Regione, per il potenziamento delle attività di prevenzione per la donna e il bambino, per l’incremento dei consultori e per i programmi di screening legati alla diagnosi precoce delle patologie oncologiche.

Gli screening per la prevenzione oncologica

Secondo gli ultimi dati della Regione, oltre mezzo milioni di cittadini (516.622) hanno partecipato nel 2017 alle campagne di screening gratuite alla mammella, alla cervice uterina e al colon retto. Le adesioni sono state 51.141 in più rispetto al 2016 e hanno consentito di diagnosticare 5.166 casi di tumore. Nel dettaglio, l’incremento più alto è stato registrato dagli screening del colon retto, con 40.487 adesioni in più. Segue lo screening del tumore alla mammella (8.855 in più) e infine alla cervice uterina (1.799). Per la prima volta, il Lazio raggiunge la soglia fissata dai Livelli essenziali di assistenza (Lea) in tutti e tre gli screening. “L’adesione è completamente gratuita e non occorre impegnativa medica”, ricorda la Regione.

 

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Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

 

 

 

 

Psoriasi, arriva in Italia una nuova terapia topica di Leo Pharma

Una schiuma spray che può essere utilizzata sia dai pazienti con psoriasi lieve-moderata che da quelli con forme moderate che non possono ricorrere ai farmaci sistemici


Una schiuma spray, una volta al giorno, per quattro settimane. Con risultati migliori rispetto a gel e unguenti. Ma anche con praticità e tollerabilità che favoriscono l’aderenza alle cure. Sono queste alcune caratteristiche di una nuova opzione terapeutica per i pazienti con psoriasi presentata oggi a Roma da Leo Pharma Italia, la filiale dell’azienda danese specializzata in dermatologia. Si tratta di una combinazione di calcipotriolo e betametasone dipropionato a dose fissa somministrata in formulazione in schiuma spray, che – spiega l’azienda – assicura una maggiore e più rapida penetrazione dei principi attivi attraverso la cute.

La novità

La schiuma spray può essere utilizzata sia dai pazienti con psoriasi lieve-moderata che da quelli con forme moderate che non possono ricorrere ai farmaci sistemici per delle controindicazioni. La posologia prevede un’applicazione al giorno per un ciclo di trattamento di quattro settimane. Il farmaco, sottolinea l’azienda, ha un effetto marcato o sui sintomi della psoriasi, come il prurito, e offre una risposta a molti dei bisogni insoddisfatti nel trattamento della malattia: dalla scarsa aderenza alla terapia alla percezione di bassa efficacia dei trattamenti topici, passando per la bassa qualità di vita per i pazienti.

“L’associazione tra calcipotriolo e cortisonico – spiega Piergiacomo Calzavara Pinton, direttore dell’Unità di Dermatologia degli Spedali Civili di Brescia e presidente della Società italiana di dermatologia (Sidemast) – è la terapia locale più efficace contro la psoriasi, con efficacia superiore a quella dei due principi attivi somministrati separatamente. Adesso, la nuova formulazione in schiuma sovrasatura permette di ottenere a livello cutaneo una concentrazione molto più alta di principi attivi. Il risultato terapeutico è decisamente superiore a quello dell’unguento o gel. Ma, cosa non meno importante, questa formulazione è ancora più gradevole e tollerata dal paziente”.

Gli studi clinici

L’efficacia della nuova formulazione, spiega Leo Pharma, è dimostrata da un corpus di studi clinici che hanno coinvolto complessivamente circa 1.700 pazienti: un paziente su due (51%) ha raggiunto un miglioramento quasi completo della malattia entro quattro settimane. L’altro 49% ottiene comunque un miglioramento, clinicamente visibile. In base ai dati misurati attraverso l’osservazione diretta dei pazienti, dopo cinque giorni di trattamento già il 50% ha riportato una riduzione del prurito di almeno il 70%, riduzione che dopo quattro settimane interessa l’80% dei pazienti. Infine, l’80% dei pazienti trattati a quattro settimane ha raggiunto un miglioramento clinicamente rilevante della qualità di vita.

L’impatto della psoriasi sulla vita delle persone

L’impatto della psoriasi – malattia cronica, recidivante e autoimmune che in Italia colpisce circa il 3% della popolazione – sulla vita delle persone è assai rilevante. Il sintomo principale è la comparsa di chiazze, arrossate e ricoperte di squame su diversi parti del corpo, tra cui cuoio capelluto, gomiti e ginocchia. “La psoriasi comporta spesso disagio, imbarazzo e frustrazione – spiega Giampiero Girolomoni, direttore della Clinica Dermatologica dell’Università di Verona – che si ripercuotono negativamente sull’autostima del paziente. Quando le placche si manifestano in zone del corpo fortemente esposte, come volto, cuoio capelluto, unghie, allora la psoriasi pone notevoli problemi di vergogna e imbarazzo e di conseguenza ha un rilevante impatto sulla quotidianità e sulle relazioni interpersonali. Se le chiazze si localizzano in aree del corpo meno visibili il disagio è minore ma la malattia è ugualmente fastidiosa per la presenza di prurito o dolore”.

L’impegno di Leo Pharma

L’arrivo di un nuovo prodotto sul mercato italiano è in sintonia col percorso di crescita dell’azienda, che ha progetti importanti per i prossimi anni. Leo Pharma guarda al 2020-2025 come arco di tempo per consolidare laleadership in dermatologia, grazie anche all’ingresso dell’azienda nell’area dei farmaci biologici, che si andranno ad affiancare ai trattamenti topici già in portfolio. “Ci siamo dati cinque anni di tempo, a partire dal 2020, per ‘cambiare pelle’, e riposizionarci come leader a tutto campo in dermatologia”, commenta Paolo Pozzolini, country lead di Leo Pharma Italia. “Saremo l’unica azienda – sottolinea Pozzolini – ad offrire trattamenti per tutti i tipi di psoriasi grazie ad un portfolio completo. Il nuovo processo comporterà un costante confronto con le istituzioni nazionali e regionali per condividere le opportunità dell’innovazione”. Negli ultimi anni la presenza di Leo Pharma in Italia è cresciuta: il fatturato è passato da 20 milioni di euro nel 2011 a 40 milioni nel 2016.

 

 

 

 

 

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Troppo basso il livello di digitalizzazione in farmacia

Troppo basso il livello di digitalizzazione in farmacia

Secondo uno studio dell'Università statale di Milano solo la metà dei farmacisti ha dimostrato di avere investito su una qualche forma di innovazione di processo nell’ambito della propria attività. Ma c'è un gap generazionale da superare. In questo senso gli over 50 comprendono meglio dei giovani le potenzialità delle nuove tecnologie


Troppo basso il livello di digitalizzazione delle farmacie. Questo è quanto emerge da una ricerca sullo stato di digitalizzazione dei processi in farmacia in Italia, condotta dall’Università degli Studi di Milano, presentata a Bologna in occasione dell’edizione 2018 di Cosmofarma.

I social

Da una parte c’è la farmacia solo “social”. Appare la tipologia più diffusa al livello nazionale, si affida soprattutto a Facebook e WhatsApp. Dall’altro stanno crescendo le farmacie “a fiore”, quelle che mostrano un forte impiego di risorse sulle nuove tecnologie ma che spesso non riescono a cogliere in pieno i frutti della digitalizzazione. Infine le farmacie “per gemmazione”, che senza disdegnare la propria immagine social utilizzano la rete soprattutto per l’e-commerce. Il modello più evoluto è sicuramente quello “espanso”, con la farmacia che integra al meglio le dimensioni virtuale e fisica, valorizzando le proprie competenze distintive attraverso il mix di canali. La rete diventa quindi uno strumento per dare continuità all’esperienza di acquisto.

Troppo pochi i farmacisti che investono in digitalizzazione

 

Dall’indagine, che ha coinvolto quasi 200 professionisti su tutto il territorio italiano, emerge un panorama molto complesso. Solo la metà, ad esempio, ha dimostrato di avere investito su una qualche forma di digitalizzazione di processo nell’ambito della propria attività. La percentuale scende addirittura a poco più del 40% di chi ha effettivamente maturato una certa consapevolezza su strategia, tecnologie e risultati. A far muovere l’attenzione, specialmente dei titolari delle farmacie (73,5%), sulla digitalizzazione è nel 67% dei casi la necessità di guardare al domani. Per questo Facebook e WhatsApp diventano soluzioni imprescindibili già attivate rispettivamente dal 76% e 49% delle farmacie al fianco di canali tradizionali. Soprattutto la telefonata per il recall (56%) o l’Sms (58%).

La differenza anagrafica: meglio gli over 50 che i giovani

“La farmacia sta assistendo oggi all’espansione delle tecnologie digitali senza avere ancora sviluppato una visione organica d’insieme”, ha spiegato Laura Iacovone dell’Università degli Studi di Milano. “Esiste una differenza “anagrafica” tra i più giovani che dovrebbero essere attivi in questo senso e gli over 50 che invece, pur non utilizzando i social, ne intuiscono le potenzialità. Grazie ad uno spirito imprenditoriale e una capacità di visione riescono a innescare processi di riorganizzazione in grado di sfruttarne in pieno i benefici in un’ottica di integrazione e continuità”.

 

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Dialisi a domicilio: meno accessi in ospedale, degenze più brevi e risparmi

Dialisi a domicilio: meno accessi in ospedale, degenze più brevi e risparmi

I risultati di una valutazione Hta sulla dialisi peritoneale sono stati discussi a Lecco in occasione di un convegno della Società italiana di nefrologia (Sin). Gli esperti: “Diventi la prima scelta”


La dialisi peritoneale riduce gli accessi in ospedale da parte dei pazienti con insufficienza renale cronica, abbrevia la durata delle degenze e genera risparmi per il sistema sanitario. È il messaggio che arriva dal XIX convegno del Gruppo dialisi peritoneale (Gsdp) della Società italiana di nefrologia (Sin), in corso in questi giorni a Lecco. Secondo gli esperti, la dialisi peritoneale – che è detta anche “intracorporea” e può essere gestita a domicilio –  garantisce benefici in termini di tolleranza, efficacia clinica e impatto sociale, ma viene prescritta a un numero di pazienti assai inferiore rispetto alla dialisi extracorporea, l’approccio “tradizionale” praticato in ospedale o in ambulatori specialistici.

Dialisi a domicilio

“La dialisi peritoneale – spiega Gianfranca Cabiddu, coordinatore del Gruppo dialisi peritoneale della Sin e responsabile della Struttura dialisi peritoneale dell’Azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari – è una metodica dialitica semplice, di facile apprendimento ed esecuzione. È inoltre, una metodica flessibile che si adatta allo stile di vita del paziente e non viceversa. Aumentare la dialisi domiciliare significa, quindi, prima di tutto crederci e, per poterci credere bisogna conoscerla. Solo in questo modo si potrà offrire al paziente l’opportunità di scegliere, in modo informato e consapevole, il tipo di trattamento che meglio si adatta alla propria situazione clinica e sociale”. Tuttavia, nonostante la dialisi peritoneale sia indicata per la maggior parte dei pazienti, ad oggi la percentuale di utilizzo di questa metodica in Italia non raggiunge il 10%. Del tema si è parlato nel corso del simposio dal titolo “Remote patient management: un innovativo approccio alla dialisi peritoneale” organizzato dall’azienda Baxter.

Focus sulla tecnologia

Nel dettaglio, gli esperti – spiega Baxter in una nota – si sono confrontati su un nuovo sistema per la dialisi peritoneale automatizzata (Apd) denominato “Claria”. Una piattaforma di connettività su cloud sviluppata da Baxter. “L’ausilio della tecnologia e dell’innovazione, attraverso piattaforme interattive, il cloud e sistemi di raccolta dati – spiega Lorenzo Di Liberato, medico dirigente dell’Asl-Nefrologia Chieti –  ci permette di diventare per il paziente una ‘famiglia digitale’ che lo accoglie e lo cura. Ulteriore evoluzione tecnologica – continua Di Liberato –  è la video dialisi che consiste in uno scambio di immagini e dati mediante una stazione trasportabile a domicilio del paziente collegata attraverso internet con una centrale di controllo informatico che consente il collegamento con il centro dialisi di riferimento”.

I numeri dell’Hta

Il sistema per la dialisi peritoneale automatizzata di Baxter è stato oggetto di uno studio di Health technology assessment (Hta) in Friuli Venezia Giulia, i cui risultati sono stati presentati a Lecco. La valutazione è stata realizzata dalla Regione in collaborazione con l’Asl Aas3 Friuli.  I dati sono stati analizzati dal Consorzio Crea dell’Università di Roma Tor Vergata. A descrivere i risultati principali è Gianpaolo Amici, direttore Nefrologia e Dialisi dell’Aas3 Friuli: “Abbiamo analizzato circa 21 pazienti prevalenti arruolati e seguiti per un anno, sei mesi con tecnologia preesistente e sei mesi con telemedicina-tele monitoraggio bidirezionale Claria Sharesource. Con l’applicazione della telemedicina si è osservata una riduzione delle telefonate pro-capite mensili (da 0.6 a 0.5), degli accessi programmati al centro (da 2.2 a 1.0), degli accessi non programmati (da 0.4 a 0.2) e delle giornate di degenza (da 1.7 a 0.8). L’analisi economica – prosegue Amici – ha restituito anche un vantaggio nei costi globali mensili di follow-up, escludendo il materiale dialitico necessario, da un range di costo di 747-1295 euro con la vecchia tecnologia a un range di costo di 305-389 euro con la nuova applicazione”. Un risparmio che oscilla tra 442 e 906 euro.

 

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Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

Cosmetici, Parlamento Ue propone il veto sulle sperimentazioni animali

L'organismo comunitario ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L'obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa. Dal 2013, infatti, in Europa è vietata la vendita di prodotti testati su cavie da laboratorio


L’organo legislativo europeo è tornato sulle sperimentazioni animali in cosmetica. Ha approvato una risoluzione non legislativa con 620 voti in favore, 14 contrari e 18 astensioni. L’obiettivo è quello di accelerare un processo che era già stato avviato alcuni anni fa, ossia porre un freno ai test animali. Ma ci sono troppi gap da colmare e gli eurodeputati ne sono consapevoli.

Il divieto dal 2013 di libera vendita

Da ormai cinque anni, all’interno dei territori Ue, è vietata la libera circolazione di cosmetici derivanti da sperimentazioni animali. Tuttavia I deputati hanno sottolineato che ciò non ha impedito all’industria cosmetica europea di prosperare e creare circa due milioni di posti di lavoro. L’obiettivo della risoluzione parlamentare è quella di spingere a livello diplomatico in tutto il mondo. Tutti i Paesi dell’unione devono fare il proprio dovere per convincere l’80% degli Stati del mondo che ancora praticano sperimentazione animale. Va inoltre fatto notare che la maggior parte degli ingredienti dei prodotti cosmetici è utilizzata in molti altri prodotti. A partire da quelli farmaceutici, dei detergenti o di certi alimenti. E possono pertanto essere stati già sperimentati sugli animali in base a leggi diverse.

Frontiere permeabili

Ma la volontà della Comunità europea trova ostacoli non da poco sul suo percorso. Il sistema di controllo doganale ai confini ha delle carenze tali per cui molti cosmetici vengono testati sugli animali in Paesi terzi e poi introdotti nel mercato unico. Spesso a seguito di ulteriori test all’interno di laboratori europei. Questo spinge sia le istituzioni comunitarie, che i singoli Stati, ad ampliare la propria rete diplomatica e a convincere i partner non comunitari non solo a sperimentare, ma a impedire che prodotti considerati illeciti varchino le frontiere europee.

 

 

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Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

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Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

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Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

Arriva il Gdpr, ma c’è chi dubita sulla sicurezza dei dati personali

"Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?". Se lo sono chiesto i due scienziati italiani Giuseppe Testa e Luca Marelli in un articolo pubblicato su Science


Sulla sicurezza dei dati personali regolamentata dal nuovo Regolamento sulla privacy europea, qualcuno esprime perplessità. Il 25 maggio è imminente e alcuni esponenti della comunità scientifica hanno sentito il dovere di esprimersi in proposito. “Che cosa succede se il dato passa di mano, ed entra in possesso di un’altra istituzione, con magari un profilo istituzionale diverso da quella che ha raccolto i dati?” Se lo sono chiesto Giuseppe Testa e Luca Marelli del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo del Dipartimento di oncologia ed ematoncologia dell’Università di Milano in un articolo su Science.

L’articolo su Science

Con l’articolo uscito il 4 maggio i due scienziati e studiosi italiani forniscono un importante contributo al dibattito sull’impatto sulla ricerca scientifica e sulla vita quotidiana del nuovo regolamento europeo. L’obiettivo del Gdpr è armonizzare la legislazione in merito alla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione Europea. Da una parte per aumentare la tutela e il potere di controllo dei cittadini sulle proprie informazioni e dall’altra di massimizzarne la circolazione delle informazioni stesse.

Il Gdpr non richiede il consenso al trattamento dei dati per fini clinici

I dati del Dna sono la base per le terapie più innovative e sono il nutrimento della medicina personalizzata e di tutta la ricerca biomedica attuale. “Ogni progetto di ricerca genera dati personali in formato riutilizzabile”, spiega Giuseppe Testa. “Dati acquisiti per un determinato studio, essendo in formato digitale, possono essere riutilizzati per un altro studio con finalità diverse. Ma se abbiamo giustamente sempre chiesto il consenso informato all’utilizzo delle informazioni personali, nel momento in cui ci si apre alla circolazione in contesti diversi cosa dobbiamo fare? O richiediamo ogni volta il consenso alla persona, o chiediamo un “consenso allargato” per l’uso dei dati in ricerca da parte della stessa istituzione”. Alla base delle perplessità di Testa c’è il fatto che il nuovo regolamento non prevede il trattamento dei dati dei pazienti per fini clinici. Un cavillo che, secondo gli scienziati, può portare a usi impropri.

Il caso Shardna e Tiziana Life Sciences

Si pensi al caso della biobanca genomica Shardna, che ha collezionato migliaia di dati genetici, sanitari e genealogici di cittadini sardi per fare ricerca sulle loro malattie. La biobanca è stata rilevata dalla biotech inglese Tiziana Life Sciences, ma il Garante della privacy italiano ha bloccato le operazioni di trattamento dei dati. L’autorità sosteneva infatti che in caso di cambiamento del titolare del trattamento, il nuovo titolare avrebbe dovuto ricontattare tutte le persone a cui i dati appartenevano. E poi richiedere di nuovo il consenso. Il Tribunale di Cagliari ha, invece, in una sentenza di primo grado per la quale è previsto il ricorso in appello, ribaltato questa posizione. Ha riconosciuto quindi a Tiziana Life Sciences la possibilità di utilizzare il database senza bisogno di acquisire un nuovo consenso.

Un’interpretazione molto ampia di “ricerca scientifica”

Il Gdpr introduce una serie di facilitazioni e deroghe per il trattamento di dati personali per scopi di ricerca scientifica. Ma fornisce, secondo Testa e Marelli un’interpretazione molto ampia di cosa costituisca il termine “ricerca scientifica”. Un calderone nel quale rischiano di finire ricerche svolte con fondi privati e per finalità non necessariamente volte al perseguimento del pubblico interesse. Dall’altro lato, il Gdpr pone le basi per la promozione degli interessi e delle istanze dei pazienti e dei partecipanti alla ricerca. Questo attraverso la richiesta, prima di poter riutilizzare dati personali, di condurre un’analisi del rapporto fra l’ente che cede il dato e quello che lo acquisisce.

“Tuttavia – conclude Testa – il potenziale di “maluso” di questa responsabilità non sfugge a nessuno. Il Gdpr rappresenta uno strumento duttile per sviluppare la ricerca scientifica, ma potenzialmente pericoloso da maneggiare. Inoltre, il nuovo regolamento ci imporrà un’utile riflessione sulla ricerca scientifica, i cui confini oggi sono fluidi. Molte società dichiarano di fare ricerca, ma che cosa intendiamo per ricerca e dove mettiamo un limite alla sua libertà?”

 

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La Commissione spinge verso la digitalizzazione del settore salute

La Commissione spinge verso la digitalizzazione del settore salute

Il 25 aprile l'esecutivo Ue ha pubblicato una comunicazione, rivolta alle altre istituzioni europee, al fine di stimolare l’adozione di atti comunitari volti a digitalizzare l'healthcare. Restano però le difficoltà nell'armonizzare le discipline nazionali in tema di trattamento dei dati personali. *In collaborazione con lo studio legale Portolano Cavallo


Il 25 aprile 2018 la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione sulla trasformazione digitale del settore salute definendolo uno strumento per responsabilizzare i cittadini e costruire una società più sana. La Comunicazione è rivolta alle altre istituzioni europee al fine di stimolare l’adozione di atti comunitari volti al raggiungimento degli obiettivi di digitalizzazione del settore. Restano tuttavia le difficoltà di armonizzazione delle discipline nazionali in materia di trattamento dei dati personali. Relativi soprattutto alle condizioni di salute, che possono avere un impatto negativo sulla circolazione dei dati e lo sfruttamento delle loro potenzialità per il progresso della ricerca medico scientifica.

Le attuali criticità

Secondo la Commissione, l’accesso e la condivisione dei dati sanitari (nel rispetto della riservatezza) sono un elemento chiave per la trasformazione digitale del settore. Tuttavia, come emerso dalla consultazione pubblica effettuata tra luglio e ottobre 2017, la sussistenza di significative differenze nelle modalità di gestione di questi dati rappresenta un fattore molto critico che rallenta il processo di digitalizzazione. Soprattutto tra gli Stati membri dell’Ue e talvolta persino tra le singole regioni all’interno degli stessi Stati.

Infatti, spesso, i dati sanitari dei pazienti non sono disponibili. Né ai professionisti medici o ai ricercatori che potrebbero utilizzarli per sviluppare e fornire diagnosi migliori, trattamenti o cure personalizzate. Né sono accessibili ai pazienti stessi o alle autorità pubbliche. Inoltre, i dati sanitari sono spesso supportati da tecnologie che non sono interoperabili, ostacolando così il loro uso su ampia scala e la loro condivisione tra Stati.
La consultazione ha altresì identificato preoccupazioni specifiche dei cittadini in relazione alla condivisione elettronica dei dati. In particolare il rischio di violazione della privacy, i rischi connessi alla cybersecurity e alla qualità e affidabilità dei dati.

Le principali aree di azione a livello europeo

Ciò premesso, la Commissione sottolinea come un’ulteriore azione a livello dell’Ue sia fondamentale. Sia per accelerare l’uso delle soluzioni digitali nella sanità pubblica che nell’assistenza sanitaria in Europa. Pertanto, la Commissione ha espresso l’intenzione di intraprendere ulteriori azioni nelle seguenti tre aree:

• Accesso sicuro dei cittadini ai propri dati sanitari e condivisione degli stessi attraverso le frontiere.
• Miglioramento dei dati disponibili  per promuovere la ricerca, la prevenzione delle malattie, la cura e la salute personalizzata.
• Strumenti digitali per l’empowerment dei cittadini e l’assistenza alla persona.

L’accesso sicuro ai dati sanitari

In particolare, la Commissione ritiene che i cittadini dovrebbero avere accesso sicuro, ovunque nell’Ue, a un registro elettronico completo dei loro dati sanitari. Gli attuali sforzi per lo scambio di dati sui pazienti transfrontalieri nell’Ue si basano sulla cooperazione volontaria delle autorità sanitarie. Ma sono limitati alle prescrizioni elettroniche e non coprono i registri sanitari elettronici.
La Commissione ritiene necessario estendere gradualmente questi casi pilota. Sia per coprire l’interoperabilità dei sistemi di cartelle cliniche elettroniche degli Stati membri, sia sostenendo lo sviluppo e l’adozione di un registro europeo della sanità elettronica.
A tal fine, secondo la Commissione, occorre altresì tenere conto delle tecnologie emergenti come la blockchain, meccanismi innovativi di gestione delle identità e meccanismi di certificazione.

Miglioramento dei dati per promuovere la ricerca

La Commissione intende altresì intensificare il coordinamento tra le autorità di tutta l’Ue per attuare uno scambio sicuro di dati genomici e di altri tipi di dati sulla salute al fine di promuovere la ricerca e la medicina personalizzata.
Ciò dovrebbe realizzarsi attraverso il collegamento di banche nazionali e regionali di dati genomici e simili, biobanche e altri registri in tutta Europa. L’obiettivo iniziale di questo coordinamento è di fornire l’accesso ad almeno 1 milione di genomi sequenziati nell’Ue entro il 2022. E quindi a una più ampia coorte prospettica basata su almeno 10 milioni di persone entro il 2025. Questa banca dati integrerà profiling molecolare, diagnostica per immagini, stili di vita (in particolare fattori di rischio), genomica microbiologica e dati ambientali. Nonché collegamenti a cartelle cliniche elettroniche. Si baserà inoltre su approcci predittivi basati su “pazienti digitali” in base a modellizzazione computerizzata, simulazioni e intelligenza artificiale.

La Commissione intende lavorare per concordare all’interno dell’Ue le specifiche tecniche per l’accesso e lo scambio di dati sanitari a fini di ricerca e sanità pubblica. E dovrà affrontare, ad esempio, la raccolta, la conservazione, la compressione, l’elaborazione e l’accesso ai dati sanitari in tutta l’Ue. La Commissione intende inoltre testare specifiche applicazioni pratiche dello scambio transfrontaliero di dati sanitari. Il tutto per migliorare il trattamento, la diagnosi e la prevenzione delle malattie, concentrandosi inizialmente sulle alcune aree pilota, tra cui quella delle malattie rare.

Strumenti digitali per l’empowerment dei pazienti

Secondo la Commissione, la digitalizzazione può contribuire a mettere i pazienti al centro del percorso terapeutico, migliorare il loro benessere e la qualità delle cure e contribuire a sistemi sanitari sostenibili. Utilizzando le soluzioni digitali, come i wereable e la mHealth, i cittadini possono impegnarsi attivamente nella promozione della salute e nell’autogestione delle proprie condizioni croniche. Questo a sua volta può aiutare a controllare la crescente domanda di salute e assistenza.
A tal fine, la Commissione incoraggerà una più stretta cooperazione tra autorità regionali e nazionali per stimolare lo sviluppo del settore delle tecnologie sanitarie. Ciò include il sostegno alle start-up e alle piccole e medie imprese che sviluppano soluzioni digitali per l’assistenza centrata sulla persona. La cooperazione coinvolgerà le autorità pubbliche e le altre parti interessate impegnate a promuovere principi condivisi per la convalida e certificazione delle soluzioni digitali da adottare nei sistemi sanitari.

Limiti a geometria variabile imposti dalle normative privacy

Se queste sono le intenzioni programmatiche della Commissione europea, non vi è dubbio che occorra fare i conti con discipline sulla protezione dei dai personali non ancora uniformi a livello europeo, nonostante la prossima applicazione del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr).
Proprio in materia di dati sensibili, come quelli relativi alle condizioni di salute, lo stesso Gdpr lascia aperta la possibilità per gli Stati membri di introdurre norme più stringenti rispetto a quelle dallo stesso poste. Tale circostanza, se non adeguatamente gestita, può rappresentare un freno allo sviluppo del processo di digitalizzazione del settore salute.

Ad esempio, la bozza di decreto di adeguamento del nostro ordinamento al Gdpr pone norme più stringenti per l’utilizzo dei dati sanitari a scopi di ricerca scientifica. In particolare, un eventuale “riutilizzo” di dati sanitari deve essere autorizzato dal Garante. Ma solo previa adozione di misure appropriate per tutelare i diritti degli interessati. Comprese forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati.
Peraltro, dal tenore della bozza del decreto, il “riutilizzo” dei dati genetici sembra del tutto precluso in Italia. Ulteriore circostanza che renderebbe difficile la realizzazione di progetti di creazione di biobanche condivise a livello europeo per la promozione e lo sviluppo della ricerca scientifica.

 

A cura di Laura Liguori (socia) e Elisa Stefanini (counsel) – Portolano Cavallo

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Un nuovo sistema per ridurre gli effetti collaterali

Un nuovo sistema per ridurre gli effetti collaterali

Il lavoro pubblicato su Science si basa su un metodo che sfrutta i magneti per separare le molecole chirali, che (come la talidomide decenni fa) possono causare gravi reazioni avverse


Ridurre gli effetti collaterali. È il sogno di qualsiasi ricercatore o produttore di farmaci e anche di chi i medicinali li utilizza. Yossi Paltiel della Hebrew University di Gerusalemme e Ron Naaman del Weizmann Institute of Science hanno sviluppato un’innovativa tecnologia per creare molecole con meno effetti indesiderati. Il lavoro descritto su Science parte dalla considerazione che i composti chimici sono fatti per lo più di molecole chirali. Molecole uguali per formula chimica e struttura ma che sono speculari, quindi orientate in maniere diversa nello spazio. Questa piccola modifica può essere la causa di diversi effetti biologici.

Il caso talidomide

Un noto esempio è la talidomide, farmaco commercializzato negli anni ’50 e ’60 per alleviare le nausee mattutine delle donne incinte. La forma “destrogira” aveva effettivamente un effetto antiemetico, ma quella “levogira” provocava gravi malformazioni nei bambini. La società farmaceutica che produceva talidomide non aveva separato la molecola chirale destra da quella sinistra. Nelle donne che la assunsero  provocò malformazione fetali.

Separare le molecole chirali

La separazione delle molecole chirali nelle loro componenti destrorse e sinistrorse è un processo costoso e richiede un approccio su misura per ogni tipo di molecola. Attualmente solo il 13% dei farmaci chirali viene distinto, anche se la Fda raccomanda che tutti lo siano. Ora, dopo un decennio di ricerche, Paltiel e Naaman hanno scoperto un metodo uniforme e generico che consentirà ai produttori di medicinali di separare in modo semplice ed economico le molecole chirali.

Il metodo basato sui magneti

Il nuovo metodo si basa sui magneti: le molecole chirali interagiscono allineandosi diversamente a seconda del loro orientamento. Le molecole levogire interagiscono meglio con un polo del magnete, e le molecole destrogire con l’altro. Questa tecnologia consentirà ai produttori chimici di mantenere le molecole buone e di scartare quelle cattive, che causano effetti collaterali dannosi o indesiderati.

Ne abbiamo parlato sul numero 147  di AboutPharma and medical devices, di aprile 2017

 

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In arrivo una nuova varietà di cannabis terapeutica in Italia

In arrivo una nuova varietà di cannabis terapeutica in Italia

Dovrebbe arrivare a giugno la FM-1, con una percentuale di Thc intorno al 14% utilizzata per i pazienti affetti da Sla. Tra gli altri obiettivi dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze: ridurre il costo, portare la produzione a 300 kg/anno e aprire a privati. È in studio inoltre l’estratto in olio di cannabis


Dovrebbe arrivare a giugno la FM1, nuova varietà di cannabis terapeutica prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare che segue la FM-2 già in uso da tempo. Con una percentuale di Thc intorno al 14-15% la FM-1 doveva essere il corrispettivo del bedrocan – specialità olandese importata in Italia al bisogno – ed essere utilizzato soprattutto per le persone affette da scleroso laterale amiotrofica, come ha spiegato lo stesso Antonio Medica, direttore dello Stabilimento chimico farmaceutico militare (Scfm) di Firenze, durante la “Prima Conferenza italiana sulla cannabis come possibile farmaco”, svoltasi presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano.

In realtà la percentuale di Thc sarebbe dovuta essere più alta – intorno al 19-22% per essere al pari del bedrocan – ma “14% era la percentuale che potevamo garantire” ha aggiunto Medica. “Abbiamo completato la parte sperimentale ed è pronta la documentazione necessaria per chiedere l’autorizzazione. Servono infatti il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco per la qualità e del ministero della Salute per la distribuzione”.

Ridurre il costo

Oltre all’arrivo della FM-1 Medica ha annunciato anche gli altri obiettivi dello Stabilimento di Firenze, a iniziare dalla riduzione ulteriore del prezzo. “Sono tuttora in corso studi per ottimizzare il processo e abbattere i costi – racconta Medica – per arrivare in futuro a un ulteriore abbassamento del prezzo di vendita, oggi pari a 6,88 euro al grammo più Iva e spese di spedizione, a prescindere dal contenuto di principio attivo. Per i primi mille kg, in base all’accordo con il ministero della Salute c’è un recupero di un euro sull’investimento iniziale. Quando lo avremo recuperato, si potrà abbattere il prezzo di vendita alle farmacie. Prezzo che potrà beneficiare ancora di più, se si riuscirà ulteriormente a fare economie di scala. Il nostro impegno – conclude Medica – resta garantire massima trasparenza e qualità per l’utilizzatore finale, oltre a velocizzare per quanto possibile lo sviluppo di nuove serre”.

La FM-2 è stata inoltre la prima specialità a conseguire una certificazione Gmp nel 2015 come ha ricordato Germana Apuzzo del ministero della Salute a cui poi hanno fatto seguito anche tutte le altre specialità. Requisito fondamentale per lo svolgimento di studi clinici che ne conferma la standardizzazione dei principi attivi.

Aumentare la produzione

Altro obiettivo sarà aumentare la produzione della specialità per rispondere all’esigenza dei pazienti. Oggi lo stabilimento riesce a produrre 100 kg all’anno, ma la richiesta dello scorso anno è stata superiore. Per questo l’Italia è dovuta ricorrere ancora all’importazione dall’estero, anche di specialità differenti dalla FM-2, per coprire le tante richieste e le diverse necessità terapeutiche. L’obiettivo è dunque portare la quota produttiva a 300 kg e oltre. Medica spiega che al momento è stato appena completato un lotto da 100 kg che verrà spedito nelle farmacie italiane a breve.

Due nuove serre

Oggi sono operative tre serre e una sperimentale e entro fine anno ne saranno allestite altre due più altri assetti produttivi per arrivare ai 150 kg di produttività annuale. Obiettivo prefissato dal direttore. “Per il momento – continua  – si è conclusa una gara per l’importazione di 100 kg per il 2018, che si sommano al prodotto coltivato in Italia e a quello che arriva dall’Olanda. Probabilmente lanceremo già a breve un’altra gara per un’ulteriore importazione di prodotto necessaria a coprire il fabbisogno 2019. Partiamo per tempo, dato che dobbiamo considerare i tempi di completamento dell’iter amministrativo, per arrivare al più presto ad avere un importatore individuato e selezionato”.

Aprire la produzione ai privati

Sempre per quanto riguarda la produzione c’è infine la possibilità già annunciata da tempo, di coinvolgere anche privati nella coltivazione della cannabis terapeutica. “Ministero della Salute e della Difesa sta lavorando a un accordo – ha spiegato Apuzzo – per aprire anche a terzi, fermo restando che il proprietario del prodotto finale sarà sempre e comunque lo Stato. Vanno quindi stabiliti i criteri di collaborazione e rapporto con i privati”.

L’estratto in olio

Se è chiaro che c’è un gran bisogno di evidenze cliniche e ancora un grande caos sul prodotto migliore da utilizzare, inizia a prendere piede la convinzione che l’oleolita sia la forma farmaceutica migliore. Perché consente di avere una concentrazione di principi attivi maggiore. L’estratto in olio di cannabis, da assumere in bocca tra guancia e la gengiva permette infatti una titolazione, cioè con una concentrazione nota e standardizzata di principio attivo. Sono in corso sperimentazioni per la messa a punto della forma farmaceutica e sfruttare così al meglio il prodotto e i sui principi attivi.

 

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Malattie croniche e rare, difficoltà economiche e troppa burocrazia per i pazienti

Malattie croniche e rare, difficoltà economiche e troppa burocrazia per i pazienti

Il XVI Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “Cittadini con cronicità: molti atti, pochi fatti” di Cittadinanzattiva fornisce un quadro dell'attuale gestione del'assistenza socio-sanitaria in Italia. Aceti: "È sempre più insostenibile lo scarto tra la mole di norme e gli atti di programmazione prodotti negli ultimi anni"


Si fanno riforme, atti e provvedimenti, ma le persone con malattie croniche e rare ancora non vedono grandi risultati. Non si sentono al centro del percorso di cura. Oltre il 70% vorrebbe che si tenessero in maggiore considerazione le difficoltà economiche e il disagio psicologico connessi alla patologia. Si chiedono cure più umane, attraverso un maggior ascolto da parte del personale sanitario (80,5%), liste d’attese meno lunghe (75,6%), aiuto alla famiglia nella gestione della patologia (70,7%). E soprattutto meno burocrazia (68,2%). È il quadro che emerge dal XVI Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “Cittadini con cronicità: molti atti, pochi fatti”, presentato il 29 maggio a Roma. A illustrarlo il Coordinamento nazionale delle associazioni di malati cronici (Cnamc) di Cittadinanzattiva, con il sostegno non condizionato di Msd. Al Rapporto hanno partecipato 50 associazioni di pazienti con patologie croniche (52%) e rare (48%).

Troppe parole e pochi fatti secondo Cittadinanzattiva

“É sempre più insostenibile lo scarto tra la mole di norme e atti di programmazione prodotti negli ultimi anni. Al futuro Governo e alle Regioni chiediamo di passare dagli atti ai fatti sulle politiche per la presa in carico della cronicità in ogni angolo del Paese”, dice Tonino Aceti responsabile del Coordinamento nazionale della Associazioni dei Malati Cronici. “Gli esempi più macroscopici sono il Piano nazionale cronicità, approvato ormai 20 mesi fa, e i nuovi Lea, in vigore da 14 mesi. Ebbene – lamenta Aceti – il recepimento del Piano procede a rilento e a macchia di leopardo. A oggi solo Umbria, Puglia, Lazio, Emilia Romagna e Marche lo hanno recepito formalmente. Mentre il Piemonte ha l’iter di recepimento ancora in corso. I nuovi Lea, che riconoscono nuovi diritti per i cittadini, per una buona parte invece sono ancora totalmente bloccati. Questo a causa dalla mancata emanazione dei due decreti per la definizione delle tariffe massime delle prestazioni ambulatoriali e quello dei dispositivi protesici”. Aceti poi punta il dito contro i mancati accordi tra Stato e Regioni “sui criteri per uniformare l’erogazione delle prestazioni demandate alle regioni che, se approvati, potrebbero ridurre iniquità e oneri inutili per i cittadini.”

La commissione Lea

Aceti aggiunge che bisogna fare di più sul fronte livelli essenziali di assistenza. “Se nel Piano cronicità le associazioni hanno avuto e continuano ad avere un ruolo da protagoniste altrettanto non si può dire per i Lea che restano autoreferenziali. L’appello che lanciamo oggi è quello di aprire la Commissione Nazionale LEA alle organizzazioni civiche”.

Ritardi nelle diagnosi, prevenzione e assistenza sociosanitaria

Secondo il 35,7% delle associazioni non si fa prevenzione. Solo per il 19% questa riguarda bambini e ragazzi. A promuovere programmi di prevenzione sono le stesse associazioni nel 98% dei casi. Oltre il 73% denuncia ritardi nella diagnosi, imputabili alla scarsa conoscenza della patologia da parte di medici e pediatri di famiglia (83,7%). Ma anche alla sottovalutazione dei sintomi (67,4%), mancanza di personale specializzato e di centri sul territorio (58%).
Del tutto carente l’integrazione tra assistenza primaria e specialistica (lo denuncia il 95,8%), così come la continuità tra ospedale e territorio (65,1%) e l’assistenza domiciliare (45,8%). L’integrazione sociosanitaria e i percorsi diagnostici-terapeutici sono attuati solo in alcune realtà (rispettivamente per il 52,2% e il 43,9%). Laddove esistono i Pdta, solo la metà delle persone si sente realmente inserita in un percorso di cura. Ma quando il Pdta si traduce in azioni concrete, gli effetti positivi non mancano. Prenotazione automatica di visite ed esami (50%), meno costi diretti (28,5%), diminuzione delle complicanze (21,4%).

Liste di attesa

In tema di assistenza ospedaliera, la metà denuncia lunghe liste di attesa per essere ricoverato. Senza contare la distanza dal luogo di cura, la mancata predisposizione della dimissione protetta. Sul territorio, le carenze sono evidenti: al primo posto i tempi di attesa, segnalati dal 90%, per accedere alle strutture riabilitative, alle lungodegenze o Rsa, alle strutture semiresidenziali.

La degenza

Nel caso delle Rsa e lungodegenze, si segnala la mancanza di équipe multiprofessionali (55%), i costi eccessivi per la retta (50%) e la necessità di pagare una persona per assistere il malato (45%). Nei centri diurni per attività terapeutico-riabilitative, spesso la riabilitazione è a totale carico del cittadino (44,4%) ed i tempi di permanenza sono troppo brevi per raggiungere il grado di riabilitazione necessario (44,4%).
Non va meglio per l’assistenza domiciliare: in questo caso, infatti, il numero di ore di assistenza erogate risulta insufficiente (61,9%). Manca l’assistenza psicologica e quella di tipo sociale (57,1%) è di difficile attivazione e spesso viene negata (52,3%).

Capitolo farmaci: limitazione prescrittiva e spese eccessive

Per quanto riguarda l’assistenza farmaceutica, in cima ai problemi si trova la spesa economica per farmaci in fascia C (62%). Seguita dalla limitazione di prescrizione da parte del medico di medicina generale (58,6%) e la difficoltà nel rilascio del piano terapeutico (48,2%).
Permane un problema di differenze regionali. Sia nella quantità (70,8%) che nella qualità (58,3%) dei presidi per l’assistenza protesica ed integrativa erogati. A seguire i tempi di autorizzazione e rinnovo troppo lunghi (54,1%).
A detta dell’81,5% delle associazioni, i bisogni psicosociali non vengono presi in considerazione. Per il 73,8% la persona, il familiare e il caregiver non vengono coinvolti né sostenuti dal punto di vista educativo e formativo.

 

 

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Corruzione in sanità, un decalogo per garantire “livelli essenziali” di integrità

Corruzione in sanità, un decalogo per garantire “livelli essenziali” di integrità

Dall’Istituto per la promozione dell’etica in sanità (Ispe) un elenco di proposte per rendere più efficace la prevenzione dei rischi corruttivi


Non solo Livelli essenziali di assistenza (Lea). La sanità pubblica ha bisogno anche di altri Lea: i “Livelli essenziali anticorruzione”. Un elenco di “standard minimi” per garantire integrità e trasparenza nelle strutture sanitarie. È la proposta lanciata oggi dall’Istituto per la promozione dell’etica in sanità (Ispe), che a Roma ha presentato il documento “L’anticorruzione possibile, un decalogo per la sanità”. Un decalogo in dieci punti, a loro volta articolati in diverse proposte, con una serie di indicazioni applicabili in ogni Regione “a legislazione vigente e senza costi aggiuntivi”.

Le proposte per prevenire la corruzione in sanità

Fra le proposte, una gestione più efficace del conflitto di interessi, l’attuazione del whistleblowing, l’implementazione di reti di responsabili per la prevenzione della corruzione e trasparenza (Rpct), la costruzione di un unico ufficio controlli coordinato, l’avvio di programmi di formazione; l’istituzione iniziative per rafforzare trasparenza e reputazione e costruire una “leadership etica” nelle aziende sanitarie. La premessa al decalogo è “il superamento dell’idea che l’anticorruzione sia percepita come un sistema ispettivo da subire o un orpello amministrativo” a favore della “consapevolezza che un’altra anticorruzione è possibile”.

Un cambio di passo

“A cinque anni dalla Legge 190 – commenta Francesco Macchia, abbiamo assistito ad un impegno straordinario della Pubblica amministrazione italiana nella prevenzione di corruzione e illegalità. Se si vuole che questa spinta non si trasformi in meri adempimenti burocratici con la conseguenza di disinnescare l’efficacia di quelle stesse indicazioni, si deve promuovere un approccio di sistema che punti ad un significativo ‘cambio di passo’ culturale, coinvolgendo tutte le forze che ne marcano l’urgenza, dalla stessa Autorità nazionale anticorruzione (Anac), alle Regioni, fino alle organizzazioni federative sul territorio e ai medici che stanno sul campo a fianco dei cittadini”.

Cinque parole chiave

Secondo l’Ispe, una nuova idea di anticorruzione dovrebbe fondarsi su cinque parole chiave (integrità, governance, merito, competenza e rete), oggetto del dibattito che ha accompagnato la presentazione del decalogo.

Integrità. “Il raggiungimento di elevati standard di integrità in sanità – commenta Massimo di Rienzo, responsabile formazione di Ispe Sanità e tra i principali autori del decalogo – dovrebbe essere un chiaro obiettivo di mandato che i governi regionali assegnano ai direttori generali nella nomina dei Responsabili della prevenzione della corruzione e trasparenza”.

Governance. Governance sanitaria e appropriatezza della cure sono una priorità secondo Tiziana Frittelli, presidente di Federsanità Anci: “L’inappropriatezza costituisce uno dei massimi sintomi di mancanza di positiva tensione etica del Servizio sanitario nazionale, perché irrispettosa verso il paziente e verso la necessità di non dissipare risorse limitate. Un perimetro che la governance delle aziende sanitarie deve presidiare per preservare l’eticità del sistema è il rispetto dei valori traguardo posti dal Patto della salute 2014-2016 e monitorati dal Programma Nazionale Esiti, sia con riferimento ai volumi minimi che agli outcomes clinici.”

Merito. Sulla questione “merito”, la voce dei giovani camici bianchi:   “E’ arrivato il momento – spiega Maria Grazia Tarsitano, referente del Segretariato italiano giovani medici (Sig,) – di acclamare che i valori del merito, cosi come i criteri di selezione per competenza e integrità e i meccanismi di controllo di gestione vanno ripensati, dando un messaggio coordinato alle Regioni e alle istituzioni ai fini di coltivare nei giovani medici e nei futuri professionisti della sanità il seme dell’etica in sanità.”

Competenza. Marcello Faviere, responsabile Prevenzione Corruzione di Estar Toscana, sottolinea il valore delle competenze: “Un punto fondamentale che le strutture sanitarie devono poter garantire è la competenza degli Rpct, i quali nell’adempimento dei piani di prevenzione alla corruzione si trovano a gestire le situazioni più varie che vanno dall’aspetto legale, all’aspetto contabile a quello delle risorse umane”.

Rete. Giacomo Galletti, ricercatore Agenzia regionale sanitaria (Ars) Toscana, racconta come “fare rete” in sanità: “Strutturare una rete tra Rpct significa creare opportunità di confronto con i responsabili di altre aziende. Tale strategia, da una parte finisce per valorizzare il lavoro della singola persona, dall’altra crea un valore aggiunto a livello regionale attraverso la promozione e condivisione delle buone pratiche che rendono i processi condivisi più efficaci ed efficienti”.

Focus sul Lazio

In materia di contrasto alla corruzione in sanità, il Lazio è stata la prima regione italiana ad aderire al protocollo tra ministero della Salute, Anac e Agenas (Agenzia servizi sanitari regionali). “Il tema della corruzione e della prevenzione dell’illegalità nel settore sanitario è centrale nella nostra azione di governo – ha spiegato Alessio D’Amato, assessore alla Sanità e all’Integrazione socio sanitaria della Regione Lazio – Dopo il Protocollo di Vigilanza collaborativa firmato con l’Anac nel 2016 sempre in ambito sanitario, questa adesione rappresenta una novità assoluta: introduciamo – conclude l’assessore – una ‘dichiarazione pubblica di interessi’ rivolta ai professionisti dell’area sanitaria e amministrativa quale ulteriore strumento per prevenire e contrastare fenomeni di corruzione anche a tutela degli stessi professionisti”.

 

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Spesa sanitaria privata ancora in crescita: i cittadini pagano 17 miliardi per i farmac

 

 

Spesa sanitaria privata ancora in crescita: i cittadini pagano 17 miliardi per i farmaci

Al Welfare Day 2018 presentato il nuovo rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute. La spesa sostenuta direttamente dagli italiani sfiora quota 40 miliardi di euro. E pesa soprattutto su redditi medio-bassi, malati cronici e anziani non autosufficienti


La crescita della spesa sanitaria privata non si ferma: il totale sfiora quota 40 miliardi di euro. È aumentata del 9,6% tra il 2013 e il 2017, a fronte di un incremento dei consumi generali pari decisamente più contenuto (+5,3%). E pesa di più sulle famiglie a reddito medio-basso: la tredicesima di un operaio se ne va in cure sanitarie per sé e i familiari. È, a grandi linee, lo scenario che emerge dal nuovo rapporto Censis-Rbm Assicurazione salute, presentato oggi a Roma in occasione del welfare Day.

La spesa sanitaria privata

Nel 2017 circa 150 milioni di prestazioni sanitarie sono state pagate di tasca propria dagli italiani per una spesa complessiva di 39,7 mld di euro. Un esborso che ha coinvolti oltre 44 milioni di cittadini, con una spesa media pro-capite di 655 euro. Nel dettaglio, sette cittadini su dieci hanno acquistato farmaci, per una spesa complessiva di 17 miliardi di euro. Il resto si divide tra visite specialistiche (7,5 miliardi); prestazioni odontoiatriche (8 miliardi), prestazioni diagnostiche e analisi (3,8 miliardi), lenti da vista (due miliardi) e protesi o presidi (quasi un miliardo).  Nel 2016-2017 la spesa sanitaria privata (che lo scorso anno era di 37,3 miliardi) è aumentata in termini reali del +2,9% di contro al +1,5% della spesa totale per consumi delle famiglie italiane.

Chi si indebita per le cure

Secondo la ricerca Censis-Rbm, basata su un campione di mille abitanti, nell’ultimo anno sette milioni di italiani si sono indebitati pagarsi le cure. Circa 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi. Solo il 41% degli italiani copre le spese sanitarie esclusivamente con il proprio reddito: il 23,3% deve integrarlo attingendo ai risparmi, mentre il 35,6% deve usare i risparmi o fare debiti (in questo caso la percentuale sale al 41% tra le famiglie a basso reddito). Il 47% degli italiani taglia le altre spese per pagarsi la sanità (e la quota sale al 51% tra le famiglie meno abbienti). In sintesi, sottolinea il Censis, “meno guadagni, più devi trovare soldi aggiuntivi al reddito per pagare la sanità di cui hai bisogno”.

La percezione del Ssn

La percezione della sanità da parte dei cittadini è il cuore dell’indagine Censis-Rbm. Il 37,8% degli italiani prova rabbia verso il Servizio sanitario a causa delle liste d’attese troppo lunghe o i casi di malasanità. Il 26,8% è critico perché, oltre alle tasse, bisogna pagare di tasca propria troppe prestazioni e perché le strutture non sempre funzionano come dovrebbero. Il 17,3% prova invece un senso di protezione e di fronte al rischio di ammalarsi pensa “meno male che il Servizio sanitario esiste”. L’11,3% prova un sentimento di orgoglio, perché “la sanità italiana è tra le migliori al mondo”. I più “arrabbiati” verso il Servizio sanitario sono le persone con redditi bassi (43,3%) e i residenti al Sud (45,5%). Ma per un miglioramento della sanità il 63% degli italiani non si attende nulla dalla politica. Per il 47% i politici hanno fatto troppe promesse e lanciato poche idee valide, per il 24,5% non hanno più le competenze e le capacità di un tempo.

Più “rancorosi” verso il Servizio sanitario sono gli elettori del Movimento 5 Stelle (41,1%) e della Lega (39,2%), meno quelli di Forza Italia (32,9%) e Pd (30%). Ma gli elettori di 5 Stelle (47,1%) e Lega (44,7%) sono anche i più fiduciosi nella politica del cambiamento, rispetto a quelli di Forza Italia (31,4%) e del Pd (31%).

La rabbia

È diffusa la percezione di una “sanità ingiusta”. Ormai il 54,7% degli italiani è convinto che non si hanno più opportunità di diagnosi e cura uguali per tutti. Convinzione che si trasforma in rabbia: sono 13 milioni gli italiani che dicono stop alla mobilità sanitaria fuori regione. E in 21 milioni ritengono giusto penalizzare con tasse aggiuntive o limitazioni nell’accesso alle cure del Servizio sanitario le persone che compromettono la propria salute a causa di stili di vita nocivi, come i fumatori, gli alcolisti, i tossicodipendenti e gli obesi.

Il secondo pilastro

“La salute – commenta Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Assicurazione Salute – è da sempre uno dei beni di maggiore importanza per tutti i cittadini, ma in questi anni non è mai stata al centro dell’agenda politica. Questa situazione può essere contrastata solo restituendo una dimensione sociale alla spesa sanitaria privata attraverso una intermediazione strutturata da parte del settore assicurativo e dei fondi sanitari integrativi. Bisogna superare posizioni di retroguardia e attivare subito, come già avvenuto in tutti gli altri grandi Paesi europei, un secondo pilastro anche in sanità che renda disponibile su base universale – quindi a tutti i cittadini – le soluzioni che attualmente molte aziende riservano ai propri dipendenti. In questo modo si potrebbe dimezzare il costo delle cure che oggi schiaccia i redditi familiari, con un risparmio per ciascun cittadino di circa 340 euro all’anno. I soldi per farlo già ci sono, basterebbe recuperarli dalle detrazioni sanitarie che favoriscono solo i redditi più elevati e promuovono il consumismo sanitario. Ci dichiariamo sin d’ora disponibili ad illustrare al nuovo governo la nostra proposta, che può assicurare oltre 20 miliardi di risorse da investire sulla salute di tutti”.

Oggi poco meno del 15% della spesa sanitaria privata (circa 5,7 miliardi) è rimborsata da forme di sanità integrativa (fondi e assicurazioni). “Coloro che già beneficiano già di una forma sanitaria integrativa – spiega Vecchietti – hanno la garanzia di avere già pagata oltre il 66% delle cure che dovrebbero pagare di tasca propri”. Il valore di rimborso medio nel 2017 si è attestato a 433,15 euro.

“Attraverso la disponibilità per tutti i cittadini di una polizza sanitaria o di un fondo sanitario integrativo – suggerisce Vecchietti –  si potrebbe realizzare un effettivo affidamento in gestione della spesa sanitaria privata di tutti i cittadini ad un sistema ‘collettivo’ a governance pubblica e gestione privata in grado di assicurare una ‘congiunzione’ tra le strutture sanitarie private (erogatori) e dei cosiddetti “terzi paganti professionali” (le forme sanitarie integrative, appunto) con una funzionalizzazione della spesa sanitaria privata alla tutela complessiva della salute dei cittadini. In termini economici – spiega Vecchietti – si stima che questa impostazione potrebbe consentire di dimezzare e assicurare un contenimento della spesa sanitaria privata attualmente a carico delle famiglie di circa 20 miliardi di euro (più del 50%), con una riduzione dei costi medi pro capite attualmente finanziati “di tasca propria” di quasi 340 euro”.

Le proposte

“Servirebbe – auspica Vecchietti – omogeneizzare il regime fiscale e previdenziale applicabile alle forme sanitarie integrative prescindendo dal modello di gestione del rischio adottato (assicurazione/autoassicurazione) e dalla natura delle fonti istitutive. La stessa struttura dei benefici fiscali attualmente riservati alla sanità integrativa andrebbe rimodulata collegandone la portata all’effettiva capacità di ‘intermediazione’, in termini di quota percentuale di spesa sanitaria privata rimborsata, garantita agli assicurati da ciascuna forma. L’evoluzione verso un modello multi-pilastro anche in sanità appare sempre più ineludibile. In questa prospettiva auspichiamo che il ‘nuovo’ Governo sappia cogliere l’importanza di questa sfida ed abbia la capacità di valorizzare a beneficio di tutti i cittadini le importanti esperienze maturate in questo settore negli ultimi anni”. Vedremo in che direzione si muoverà il nuovo Governo.

 

 

 

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Superticket e liste d’attesa, Aiop: “Fondamentale dialogo tra strutture private e ministero”

La presidente dell’Associazione italiana ospedalità privata, Barbara Cittadini: “ Le strutture private accreditate sono parte integrante del Ssn. Un tavolo di ‘concertazione’ con il ministero della Salute è fondamentale per affrontare il tema delle liste d’attesa”


L’Associazione italiana dell’ospedali privata (Aiop) auspica un tavolo di “concertazione” con il ministero della Salute su liste d’attesa e superticket. “Le strutture sanitarie aderenti all’Aiop – afferma in una nota la presidente Aiop, Barbara Cittadini – sono parte integrante del Servizio sanitario nazionale e, quindi, sentono la responsabilità di dare risposta ai bisogni di salute dei cittadini, affrontando, tempestivamente, alcuni nodi ancora irrisolti, tra i quali il problema delle liste d’attesa”.

Un tavolo con il ministero

Il commento dell’Aiop arriva dopo l’appello di padre Virginio Bebber, presidente dell’Aris, l’associazione che riunisce le strutture socio-sanitarie religiose, per l’istituzione di un tavolo di confronto, dopo le dichiarazioni del ministro della Salute Giulia Grillo a favore dell’abolizione del superticket. “Aiop – sottolinea Cittadini -condivide l’auspicio espresso da padre Virginio Bebber che si possa, in tempi brevi, attivare un tavolo di confronto fra tutti i rappresentanti del Ssn e il ministero della Salute, per identificare una strategia comune, che consenta la piena integrazione dell’offerta delle componenti di diritto pubblico e privato della rete del Ssn e così migliorare, dal punto di vista quali quantitativo, l’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie”.

No a “sterili contrapposizioni”

L’associazione dell’ospedalità privata è pronta a fare la sua parte: “Avvalendosi, nelle nostre strutture associate, della professionalità di 12 mila medici, 26 mila infermieri e tecnici e 32 mila operatori socio sanitari – prosegue Cittadini – l’Aiop non potrebbe mai indulgere a logiche di differenziazione, e men che meno di sterile contrapposizione rispetto ad altri player della sanità, pubblici o privati che siano. L’idea del confronto, a nostro avviso, è un presupposto fondamentale per efficientare l’offerta sanitaria complessiva e, pertanto, la proposta di un tavolo di ‘concertazione’ a livello ministeriale – conclude Cittadini – troverebbe in Aiop un interlocutore che condivide l’obbiettivo di garantire agli italiani una risposta sanitaria in tempi rapidi, efficiente ed efficace”.

 

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Spesa farmaceutica, 28 miliardi nel 2017 di cui 19 a carico del Ssn

I dati arrivano dal rapporto annuale dell’Osservatorio farmaci per l’anno 2017 pubblicato dal centro Cergas dell’università Bocconi di Milano. La spesa complessiva e pubblica pro-capite per farmaci in Italia è in linea con la media europea. Il dato è sopra la media se si fa riferimento all’incidenza sul Pil e, con riferimento alla componente pubblica, all’incidenza sulla spesa sanitaria


Ventotto miliardi nel 2017, di cui 19 a carico del Ssn. Questo è il primo dato che emerge dal rapporto annuale dell’Osservatorio farmaci per l’anno 2017 pubblicato dal centro Cergas dell’università Bocconi di Milano. In generale la spesa complessiva e pubblica pro-capite per farmaci in Italia è in linea con la media europea. Valori inferiori però a Germania e Francia e superiori a Regno Unito e Spagna. Il dato è sopra la media se si fa riferimento all’incidenza sul Pil e, con riferimento alla componente pubblica, all’incidenza sulla spesa sanitaria.

I dati sulla spesa

La spesa farmaceutica totale ha raggiunto i 28,1 miliardi di euro nel 2017 (464 euro pro-capite), di cui 19,5 a carico del Ssn (322 euro pro-capite) e 8,6 (142 euro pro-capite) a carico del paziente. La copertura pubblica della spesa farmaceutica risulta elevata, ma nonostante le misure di contenimento ha subito una riduzione nel tempo non particolarmente significativa (dal 74% nel 2001 al 69% nel 2017).

L’incidenza della spesa farmaceutica e quella sanitaria pubblica

L’incidenza della spesa farmaceutica totale sulla spesa sanitaria è rimasta sostanzialmente stabile dal 2001 ed è pari al 18,2% nel 2017.  quella sulla spesa sanitaria pubblica è scesa dal 18,3% nel 2001 al 16,7% nel 2017. Il mix della spesa pubblica per farmaci si è modificato sensibilmente negli anni. Nel 2001 la spesa convenzionata (spesa per farmaci acquistati e dispensati dalle farmacie aperte al pubblico) rappresentava l’82% della spesa farmaceutica pubblica. Nel 2013 tale incidenza è scesa al 53% e nel 2017 al 42%. La modifica del mix è dovuta al lancio sul mercato di prodotti specialistici e all’uso diffuso di forme alternative di distribuzione dei farmaci. Dal 2013 al 2017 la spesa per farmaci in distribuzione diretta e per conto è passata dal 30% al 41% della spesa farmaceutica pubblica complessiva.

La spesa privata

Anche il mix della spesa privata ha subito un cambiamento importante. Dal 2001 al 2012 gli analisti hanno registrato un aumento della quota della spesa privata su prodotti rimborsabili dal 7,9% nel 2001 al 34,7% nel 2012 e una stabilizzazione al 35% negli anni successivi. La restante quota (65% nel 2017) è rappresentata dalla spesa per farmaci non rimborsabili dal Ssn.

Le regioni

Le regioni mostrano ancora importanti differenze nelle politiche del farmaco. Per quanto vi sia una tendenza ad adottare un mix più equilibrato con la compresenza di compartecipazioni alla spesa, di forme alternative di distribuzione dei farmaci e di azioni di governo del comportamento prescrittivo, esistono tuttora dei modelli differenziati a livello regionale con regioni più propense all’adozione di forme alternative di distribuzione dei farmaci. Su tutte Emilia Romagna e Toscana. Altre regioni hanno invece puntato maggiormente sulle compartecipazioni alla spesa come la Lombardia. Al centro-sud in media è maggiore la spesa farmaceutica pubblica, mentre in quelle del centro-nord la spesa privata. Di fatto per tutti gli indicatori di spesa privata (con l’eccezione delle compartecipazioni alla spesa) il centro-nord presenta valori superiori alla media nazionale. La copertura pubblica della spesa farmaceutica è, quindi, superiore nelle regioni del sud, analogamente all’incidenza della spesa farmaceutica pubblica sulla spesa complessiva del Ssn.

Le previsioni

Nel prossimo triennio dovrebbero proseguire il calo della spesa convenzionata netta (-1,1%, – 0,4% e -0,7% rispettivamente nel 2018, 2019 e 2020). La crescita della spesa per farmaci acquistati da aziende sanitarie era del 3,5% nel 2018 e sarà 6,6% nel 2019 e 2,7% nel 2020). Il trend della spesa produrrà un’ulteriore divario tra spesa e relativi tetti. Nello specifico, l’avanzo sulla spesa convenzionata dai 473 milioni di euro passerà a 569 milioni nel 2018, 730 milioni nel 2019 e 903 milioni nel 2020. Lo sfondamento del tetto sulla spesa per farmaci acquistati direttamente dalle aziende sanitarie, passerà da 1,59 miliardi di euro a 1,82 miliardi nel 2018, 2,46 miliardi nel 2019 e 2,67 nel 2020. È evidente che il problema all’origine del sistema dei tetti (sotto-finanziamento del tetto sulla spesa per acquisti), in assenza di compensazione tra gli stessi, produrrà di fatto un payback sempre più rilevante. Già nel 2017, se l’avanzo sul tetto della convenzionata e sui fondi innovativi fosse stato utilizzato per compensare lo sfondamento del tetto di spesa sugli acquisti, quest’ultimo si sarebbe ridotto a 665 milioni.

 

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Studi clinici a domicilio per garantire una raccolta dei dati puntuale e tempestiva

Gli studi clinici possono essere eseguiti con maggiore efficienza senza che il paziente si rechi fisicamente all’ospedale. A beneficio della puntuale raccolta dei dati e del tempestivo aggiornamento della documentazione dello studio. *In collaborazione con Domedica


Tutti gli studi clinici prevedono una serie di attività che è fondamentale vengano eseguite con puntualità, perché a volte l’intervallo di tempo previsto tra l’una e l’altra è di ore o minuti. Ad esempio:

  • La somministrazione del farmaco (investigation drug);
  • L’osservazione e raccolta dati post somministrazione;
  • L’assessment e raccolta di dati clinici (es. pressione, temperatura, peso, presenza di effetti collaterali);
  • Prelievi di sangue, urine o campioni biologici (che se richiesti vengono centrifugati a domicilio) da inviare al laboratorio dell’ospedale o a un laboratorio centralizzato;
  • Esami strumentali (es. Ecg, spirometria);
  • Raccolta di questionari sulla qualità di vita o questionari patologia-specifici.

 

Queste attività, poiché prevedono il coinvolgimento diretto del paziente, costringono quest’ultimo a recarsi in ospedale in giorni definiti e a spendere anche intere giornate per adempiere a tutte le attività previste dallo studio (sia cliniche che amministrative).

L’impatto su pazienti (pediatrici e anziani, ma anche giovani e adulti) è facilmente immaginabile: l’impegno di essere coinvolti in uno studio clinico si riflette direttamente sulla qualità di vita del paziente (che si trova a rinunciare a intere giornate di scuola o lavoro) e su quella del caregiver (spesso anche più di uno, come avviene in presenza di pazienti pediatrici o pazienti il cui stato generale è compromesso), costretti ad accompagnare il paziente in ospedale quando richiesto dallo studio (con conseguente perdita di giornate di lavoro). Una situazione ulteriormente gravata dalle spese (carburante, pedaggi, parcheggi, ecc…) che i pazienti e i loro caregiver devono necessariamente sostenere e che per alcune fasce sociali diventa difficile da sostenere. È, inoltre, facilmente intuibile che la solidità di tanti studi clinici sia minata dalle variabili generate dalle difficoltà che i pazienti affrontano per raggiungere l’ospedale.

Gli studi clinici a domicilio e l’approccio di Domedica

Da alcuni anni, diverse CROs (Contract research organizations) e aziende farmaceutiche sponsor che gestiscono studi clinici, nazionali e internazionali, hanno deciso di offrire la possibilità che alcune attività di studio siano effettuate a domicilio del paziente, includendo questa possibilità nel protocollo di studio e lasciando a ogni ospedale e al relativo comitato etico la scelta di attivare questa opzione.

In questo caso i pazienti si recano in ospedale solo per attività che coinvolgono direttamente i medici investigatori (es. per la visita di controllo) e riescono a vivere con maggiore tranquillità il coinvolgimento in uno studio clinico perché la maggior parte delle attività previste avvengono nel comfort della propria abitazione.

Da più di 10 anni, Domedica è partner di diverse CROs e aziende farmaceutiche sponsor e, attraverso i propri infermieri di ricerca (clinical research nurses, certificati GCP), è coinvolta nella realizzazione di diversi studi clinici a domicilio con elevata soddisfazione dei pazienti e degli investigatori.

Gli infermieri di ricerca di Domedica ricevono un training accuratissimo sul protocollo di studio ed eseguono tutte le attività previste nel rispetto dello stesso e con l’utilizzo dei materiali e degli strumenti previsti.

A livello centrale, sia il Clin-Care Centre di Domedica che i Programme manager dedicati, garantiscono il corretto flusso d’informazioni tra pazienti, investigation site, gli infermieri di ricerca e la CRO/Sponsor, la corretta esecuzione di tutti i processi e la piena conformità della documentazione prevista. Queste figure di Domedica hanno anche un’ottima conoscenza della lingua inglese, che è l’unica lingua utilizzata negli studi clinici.

Domedica supporta gli studi clinici anche con infermieri di ricerca o data manager che presso l’investigation site (ospedale) si occupano tempestivamente dell’attività di raccolta dati e data entry.

A cura di Domedica

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Cure e sostenibilità: per un italiano su due l’ultima parola spetta al medico

Una ricerca del Censis, presentata a un evento Fnomceo sui 40 del Ssn, analizza la relazione tra camici bianchi e pazienti, misura la fiducia verso i dottori e traccia l’identikit del professionista ideale. Con un focus su tetti di spesa e vincoli che possono interferire con l’autonomia


Per il 53% degli italiani tetti di spesa, linee guida e protocolli sono utili, ma al medico deve essere lasciata la libertà di decidere, perché il camice bianco è il garante degli interessi del paziente. È quanto emerge dalla ricerca “Il medico pilastro del buon Servizio sanitario” realizzata dal Censis e presentata oggi a Roma nell’ambito dell’evento “40 anni del Servizio sanitario nazionale: la conquista di un diritto, un impegno per il futuro”, organizzato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) per celebrare l’anniversario dell’istituzione del Ssn.

Autonomia e vincoli

Secondo la ricerca, il riconoscimento della capacità del medico di individuare le cure migliori, grazie all’esercizio del suo libero giudizio clinico, va anche al di là del sistema di regole e di vincoli imposti dal Ssn (tetti di spesa, linee guida, protocolli), che possono interferire con l’autonomia del medico.

La maggioranza degli italiani (il 52,8%) ritiene che procedure e opzioni di cura prestabilite devono ritenersi utili a dare indicazioni di massima, lasciando però al medico la libertà di decidere se e come applicarle. Il 38,7% sostiene l’utilità di questi strumenti al fine di uniformare le cure più appropriate riducendo la possibilità di errore. Il 19,4% ritiene che possano avvantaggiare i medici come strumenti di deresponsabilizzazione. Solo l’8,5% le giudica inutili, richiamandosi a una visione di totale autonomia del medico come unico arbitro.

La relazione medico-paziente

L’indagine esplora anche “qualità” ed evoluzione del rapporto medico-paziente. Secondo il 58% medico e paziente devono collaborare nel prendere le decisioni sulle cure migliori (la quota è aumentata rispetto al 55,9% rilevato nel 2007). La percentuale è molto più elevata tra gli anziani (82,8%), che sperimentano più di tutti il valore di tale collaborazione nella gestione delle patologie croniche. Il 22,4% propende invece per un’asimmetria a favore del paziente, che decide da sé dopo aver ascoltato il medico (era il 10% nel 2007). Mentre il 19,6% è favorevole a una supremazia del medico, senza che il paziente abbia voce in capitolo (la quota era il 34,1% nel 2007).

La fiducia

Gli italiani si fidano ancora dei camici bianchi. L’87,1% degli italiani si fida del medico di medicina generale (la quota raggiunge il 90% tra gli over 65 anni), l’84,7% si fida dell’infermiere, mentre è molto più ridotta, sebbene ancora maggioritaria (68,8%), la quota di chi esprime fiducia nel Servizio sanitario nazionale. Lo stesso vale per gli odontoiatri. L’85,3% degli italiani ha un dentista di riferimento.

Fonte di informazioni

Il medico, secondo la ricerca Censis, è ancora la prima fonte di informazione sulla salute. Il medico di medicina generale è la fonte numero uno (per il 72,3% degli italiani), seguono familiari e amici (31,9%), poi la tv (25,7%) e internet (il 23%).

Anelli (Fnomceo): “Sconfitta visione burocratica del medico”

“I cittadini – commenta Filippo Anelli, presidente della Fnomceo – vogliono un medico preparato, competente, e che si faccia carico dei loro problemi, delle loro esigenze, comprendendone anche il disagio, il dramma che la malattia provoca. Da questa indagine esce sconfitta la visione burocratica della professione medica, imbrigliata da lacci e lacciuoli, da linee guida e protocolli, intesi non come raccomandazioni ma come vincoli. Emergono invece, prepotenti e vincenti, i principi fondamentali di libertà, autonomia e indipendenza, scritti nel nostro Codice deontologico”.

L’identikit

Completa l’indagine Censis l’identikit del “medico che vorrei”. Per il 45,5% è fondamentale la dimensione psicologica e relazionale. Per il 42,3% il valore professionale, la conoscenza tecnica e l’aggiornamento scientifico. Per il 40,9% la disponibilità e la reperibilità anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Per il 39,6% il medico ideale è il garante del diritto alla salute del paziente, perché è pronto a difenderne l’interesse anche quando questo comporta scelte al di fuori delle indicazioni predefinite (protocolli, linee guida, vincoli di budget). Per il 37,5% inoltre deve essere meno attento agli aspetti burocratici (scrivere ricette, certificati, ecc.) dedicando più tempo all’ascolto dei pazienti.

 

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Pedaggi autostradali: ecco come cambieranno

15/11/2018

 

Novità per i pedaggi autostradali di tutta Europa, che secondo una proposta di direttiva varata dal Parlamento europeo saranno calcolati tenendo conto del livello di inquinamento prodotto dal veicolo.

Strasburgo chiede che lungo tutta la rete transeuropea si adotti il sistema tariffario basato sulla quantità di CO2 (anidride carbonica) emessa dal mezzo, applicando dunque il principio “chi più inquina, più paga”. La riforma prevede inoltre una metodologia di pagamento basata sui chilometri percorsi, come già avviene in Italia, invece della tariffa preesistente in alcuni Paesi UE basata sul tempo. 

Il provvedimento riguarderà solo furgoni, tir e pullman e dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2023 per i veicoli pesanti e quelli destinati al trasporto di prodotti di maggiori dimensioni (oltre 2,4 tonnellate), dal 2027 per i mezzi commerciali leggeri.

Le tariffe applicate attualmente in Europa

In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. Anche in Inghilterra non si paga alcun pedaggio, eccetto per i tunnel e i grandi ponti.

In alcuni Paesi si paga per il tempo durante il quale l’automobilista percorre le strade soggette a pagamento: ci si può abbonare per una settimana, un mese, o anno. È il caso dell’Austria, 88 euro per 12 mesi, della Svizzera con 35,50 euro all’anno e della Slovenia dove la spesa annuale di percorrenza è pari a 95 euro.

In Italia il metodo di pagamento è invece basato sui caselli, con prezzi che risultano più alti rispetto a quelli considerati sopra: ad esempio, un pedaggio per percorrere l’A14 da Bari ad Ancona costa 33,40 euro, mentre un viaggio da Torino a Bari costa quasi 82 euro. 

Nel nord e nell’Est dell’Europa le tariffe sono nettamente più basse. In Svezia ad esempio per andare da Stoccolma a Malmö si percorrono quasi 400 chilometri di autostrada, pagando un pedaggio inferiore ai 7 euro.

Anche in Italia pedaggi differenziati tra auto e moto

Lo sconto del 30% sulle tariffe autostradali per le moto, di cui ci siamo occupati nella news “Moto in autostrada: prorogato lo sconto sul pedaggio”, è stato prorogati fino al 30 giugno 2019. 

La sperimentazione è iniziata il primo agosto dello scorso anno, quando l’AISCAT ha risposto positivamente alle sollecitazioni del Governo, a sua volta chiamato in causa dall’ANCMA (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo e Accessori) che da anni sosteneva l’idea di cambiare la logica dei pagamenti autostradali che equiparano due e quattroruote.  

La proroga dello sconto porta i motociclisti a utilizzare maggiormente le strade a pedaggio per i viaggi, ciò che va sicuramente a vantaggio della sicurezza degli stessi guidatori. La maggior tutela risulta anche dai dati 2017 forniti dall’ACI (Automobile Club d’Italia), secondo cui i centauri coinvolti in un sinistro autostradale hanno quasi il doppio delle probabilità di sopravvivere rispetto allo stesso evento che si verifica su strada provinciale o statale.

Ricordiamo che le tariffe più basse in favore delle due ruote vengono applicate in Austria, Francia, Grecia, Portogallo, Serbia, Slovenia e Repubblica Ceca, dove si paga tra il 30% ed il 50% in meno rispetto alle auto. In altri Stati europei invece non è dovuto alcun pedaggio: sono Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Lettonia, Lituania, Norvegia, Olanda e Svezia, mentre il costo rimane uguale in Romania, Spagna, Svizzera e Ungheria.

L’ANCMA, Associazione Nazionale Ciclo Motociclo e Accessori, spera da tempo che il risparmio del 30% sulle tariffe delle due ruote diventi definitivo. La stessa Associazione chiede al Governo ulteriori provvedimenti, come la possibilità di utilizzo dell’autostrada da parte delle moto con cilindrata di 125 centimetri cubici e l’incentivazione con sgravi fiscali per l’uso dell’abbigliamento protettivo.

In tema di risparmio, ricordiamo sia ai motociclisti che agli automobilisti la possibilità di usufruire delle polizze RC Auto/Moto più convenienti sul mercato grazie a Segugio.it, il portale che effettua un servizio di comparazione gratuito, semplice e veloce. Per prendere visione dei premi migliori quotidianamente basta fare una simulazione inserendo pochi essenziali dati sul veicolo da assicurare e sulle preferenze riguardo al tipo di polizza.

A cura di: Paola Campanelli

 

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Cure territoriali e servizi in farmacia: integrazione ancora lontana

Presentato a Roma il primo rapporto sulla farmacia di Cittadinanzattiva e Federfarma: "Presidi fondamentali che restano spesso esclusi dai processi di presa in carico dei pazienti cronici”


Un potenziale non sfruttato che potrebbe garantire un salto di qualità all’assistenza sanitaria sul territorio, soprattutto con una migliore presa in carico dei pazienti con malattie croniche. È quello delle cosiddetta “farmacia dei servizi” secondo il primo rapporto annuale sulle farmacie presentato oggi a Roma da Cittadinanzattiva e Federfarma. Un’indagine che sintetizza così quello che viene definito il “paradosso” della farmacia italiana: presidio sul territorio ritenuto fondamentale per capillarità sul territorio, ma “dimenticato” quando si tratta di strutturare servizi in rete, come l’assistenza domiciliare integrata (Adi) o la medicina di gruppo. “È sotto gli occhi di tutti – sottolinea il report – che la farmacia dei servizi senta a decollare e che le farmacie, pur con tutta la buona volontà, restano spesso escluse dai processi di presa in carico dei pazienti cronici”.

Il rapporto

Il report è frutto di un’indagine che ha coinvolto 1.275 farmacie, di cui circa un quarto dislocato nelle cosiddette “aree interne” (zone disagiate e lontane dai centri urbani . La survey, realizzata con il sostegno non condizionato di Teva, ha avuto due focus tematici: il ruolo nella presa in carico delle persone con patologie croniche e il ruolo della farmacia nelle “Strategie d’intervento delle Aree interne” del Paese.

I servizi

Nel 63% delle farmacie del campione è presente il servizio Cup pubblico. La quasi totalità offre il servizio di prenotazione di prestazioni e esami, mentre ci sono percentuali più ridotte per quanto riguarda il pagamento del ticket e ricezione e consegna dei referti. Nell’85% dei casi il cittadino non paga nulla per il Servizio CUP in farmacia; nel 14% paga tra 1 e 2 euro; solo nell’1% dei casi paga di più (3-5 euro).

Sempre più spesso le farmacie erogano prestazioni analitiche di prima istanza, quali test ed esami diagnostici (78% dei casi), esami di secondo livello mediante dispositivi strumentali (64% dei casi), in misura ancora residuale servizi di telemedicina. Fa eccezione la telecardiologia, che è invece abbastanza diffusa.

Per quanto riguarda test ed esami diagnostici effettuati in farmacia, troviamo facilmente la glicemia (96%), il colesterolo totale (92%), trigliceridi (83%), emoglobina glicata (50%).
Nel 65% dei casi le farmacie sono dotate di un sistema informatizzato o piattaforma web capace di rispondere alle necessità legate alla effettiva presa in carico dei pazienti. Mentre solo il 19% ha adottato protocolli o procedure per personalizzare il consiglio sui diversi target di utenza.

Coinvolgimento nelle cure territoriali

Il rapporto rileva uno scarso coinvolgimento delle farmacie da parte delle Asl. Solo il 7% delle farmacie viene coinvolto nell’erogazione dell’Assistenza domiciliare integrata, mentre è assolutamente residuale il coinvolgimento nelle diverse forme di Medicina di gruppo territoriale.
Sul fronte della prevenzione le farmacie assicurano una consolidata collaborazione con Asl e Regioni. Alle campagne di prevenzione e screening realizzate partecipano la quasi totalità delle farmacie (87%). Tra le iniziative che le farmacie svolgono con maggiore assiduità c’è la promozione (o almeno l’adesione) ad iniziative di sensibilizzazione e informazione nei confronti di target specifici di popolazione: attività riscontrata dal 70% del campione.

Le cronicità

Nel 44% dei casi la farmacia partecipa a progetti e iniziative a supporto dell’aderenza terapeutica per persone affette da patologie croniche, in particolare per patologie cardio-vascolari (73%), endocrine (67%), respiratorie (46%) e metaboliche (35%). Si tratta soprattutto di progetti ed iniziative di supporto all’aderenza terapeutica in cui, al pari delle farmacie, troviamo coinvolti soggetti quali Asl (38% dei casi), case farmaceutiche (38% dei casi), l’ente Regione (25%) e i medici di medicina generale (15%).

Le aree interne

Dal focus sulle aree interne emergo come soltanto in 11 delle 72 “Strategie per le aree interne” elaborate (o in via di elaborazione) siano presenti degli espliciti richiami al ruolo delle farmacie.

Le farmacie delle aree interne, per ragioni legate al contesto, sono più sollecitate a rispondere ai bisogni della popolazione anziana.

Le farmacie coinvolte nell’Adi sono il 9% tra quelle intervistate che lavorano nelle Aree Interne, e il 7% tra quelle intervistate che sono ubicate nel resto del Paese, ma quelle delle Aree Interne sono mediamente molto più sollecitate nella preparazione e/o dispensazione a domicilio di medicinali antidolorifici (+26% rispetto alle farmacie presenti nel resto del Paese).

Fra le peculiarità delle farmacie dislocate in queste aree, il report evidenzia una maggiore presenza di comunicazione/interazione diretta con i medici in caso di criticità o scostamento dal piano terapeutico definito (+15% rispetto al resto del Paese) e maggiore disponibilità alla ricezione e consegna referti e al controllo sull’uso improprio o abuso di medicinali, in particolare per i famaci da banco (+6%). Le criticità principali riguardano difficoltà organizzative/logistiche cui sono soggette le farmacie che operano in zone disagiate. A risentirne sono servizi come il (-17% rispetto al resto del Paese); test e esami diagnostici, campagne di prevenzione e screening.

 

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Ogni euro investito in trial clinici ne fa risparmiare almeno due al sistema sanitario

La stima arriva da “ValOR”, il primo modello in Italia (promosso da Roche) per la misurazione dell’impatto economico delle sperimentazioni e i “costi evitati”. Solo in onco-ematalogia si stimano 320-360 milioni di risparmi in un anno


Mille euro investiti in una sperimentazione clinica generano 2.200 euro di risparmi per il sistema sanitario. In altre parole: ogni euro impegnato da uno sponsor su un trial consente alla struttura che lo ospita di evitare 2,2 euro di costi. Almeno in ambito onco-ematologico e secondo i numeri di “ValOR”, un modello promosso da Roche (il primo in Italia) per misurare l’impatto economico delle sperimentazioni cliniche. “ValOR” è stato applicato al contesto delle aziende sanitarie con uno studio, coordinato da Altems, che ha coinvolto il Policlinico Gemelli di Roma e l’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo. I risultati sono stati presentati oggi al Senato.

Il modello

“Il modello – spiega Americo Cicchetti, direttore di Altems – definisce il valore prodotto dalle attività di sperimentazione, per le strutture ospedaliere, come somma di due componenti: i finanziamenti ricevuti, cioè la somma dei ricavi cumulativi per studio, derivanti dal finanziamento della sperimentazione, che include tutti i costi per la gestione del paziente, e gli averted cost (cioè i costi evitati totali), corrispondenti alla stima dei costi risparmiati dal Ssn/Ssr, in quanto il costo delle terapie farmacologiche per i pazienti arruolati nei protocolli di ricerca viene sostenuto da soggetti terzi, cioè gli sponsor o le aziende farmaceutiche”.

I risparmi

Il modello è stato sperimentato nelle due aziende sanitarie coinvolte monitorando l’attività di ricerca realizzata tra il 2011 e il 2016 in ambito oncoematologico. I risultati sono stati pubblicati nel volume “Valorizzazione delle sperimentazioni cliniche nella prospettiva del Ssn” (Edra, 2018).  È emersa una stima di risparmi potenziali che oscillano tra i due e i quattro milioni di euro per le due strutture. Partendo da questa analisi, il modello può essere proiettato verso un orizzonte più ampio: “Applicandolo a tutti gli studi condotti da Roche in Italia in ambito onco-ematologico nel periodo 2011-2016 – continua Cicchetti – il totale del risparmio per farmaco è stato di 84,6 milioni, con un impatto totale sul sistema sanitario pari a 151,3 milioni”.

Un effetto moltiplicatore che se venisse confermato a livello nazionale (sulla base dei dati Aifa relativi a sperimentazioni nel 2015 in ospedali e Irccs) produrrebbe un risparmio potenziale di 320-360 milioni di euro in un anno.

I vantaggi per le aziende sanitarie

“Grazie alla sponsorizzazione esterna da parte delle aziende – commenta Carlo Nicora, direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo – il costo della gestione a carico del Ssn per il trattamento di pazienti arruolati nella sperimentazione clinica tende a ridursi per effetto della spesa non sostenuta dall’azienda sanitaria. In particolare – spiega il dg – non vengono sostenuti i costi per procedure diagnostiche, dispositivi medici, altri materiali di consumo utilizzati per la cura dei pazienti arruolati e anche i costi dei farmaci somministrati. Il risparmio ottenuto – sottolinea Nicora – si traduce in un minor aggravio sulle Regioni e nella possibilità di reperire fondi per la ricerca indipendente; sia in quella manageriale, dal momento che una buona ricerca significa anche organizzazione di processi efficaci e rigorosi all’interno delle aziende sanitarie”.

Competitivi in Europa

Secondo i dati più recenti (Aifa 2017) il numero di trial clinici autorizzati in Italia vale il 18% del totale europeo (quasi due punti in meno rispetto al 2016). In termini assoluti, si è passati da 660 sperimentazioni nel 2016 a 564 nel 2017.  La sfida è rendere il nostro Paese più “attrattivo” per le sperimentazioni cliniche. A ribadirlo è la senatrice Maria Rizzotti, membro della Commissione Igiene e Sanità del Senato: “La sfida per l’Italia nell’ambito della ricerca clinica è aumentare l’attrattività rispetto agli altri Paesi europei, alcuni dei quali si sono già allineati totalmente a quanto richiesto dal nuovo regolamento comunitario. Modelli come questo (presentato oggi, ndr) sono l’esempio di un sistema di ricerca ad alto livello competitivo e devono essere di stimolo per continuare su questa strada di collaborazione con le aziende italiane e nell’ottica di  risparmio per il nostro sistema sanitario”.

Secondo l’ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ora deputata in Commissione Bilancio, l’Italia deve ambire a diventare il primo “hub della ricerca” in Europa: “Siamo e vogliamo rimanere il primo hub europeo per la produzione farmaceutica, grazie alla capacità di investimento delle aziende e al terreno fertile per la ricerca. Ma non basta produrre, bisogna produrre ricerca”. L’auspicio dell’ex ministro è che i decreti attuativi della cosiddetta “Legge Lorenzin”, provvedimento omnibus della scorsa legislatura che è intervenuto anche su trial clinici e comitati etici, vedano la luce al più presto.

Un auspicio condiviso da Sergio Scaccabarozzi, head of clinical operations di Roche: “L’emanazione dei decreti attuativi della Legge Lorenzin ci renderebbe più competitivi, come la Spagna, il nostro primo competitor per la ricerca clinica. Lì nel 2015 è stato introdotto un regio decreto che ha semplificato le procedure amministrative per i trial. E dobbiamo anche  farci trovare pronti all’appuntamento con il nuovo regolamento europeo sulle sperimentazioni”. Il nuovo Regolamento Ue entrerà in vigore nel 2020.

 

 

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Integratori alimentari, nuovo decreto del ministero sui preparati vegetali

Il decreto del 10 agosto 2018 disciplina l’impiego negli integratori alimentari di sostanze e preparati vegetali, con cui il dicastero di Giulia Grillo ha aggiornato ed integrato la regolamentazione relativa ai cosiddetti botanicals. *In collaborazione con Portolano Cavallo


Il 26 settembre 2018 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del 10 agosto 2018 che disciplina l’impiego negli integratori alimentari di sostanze e preparati vegetali, con cui il ministero della Salute ha aggiornato ed integrato la regolamentazione relativa ai cosiddetti botanicals, abrogando il precedente D.M. 9 luglio 2012.

Principali novità del nuovo decreto

Tra le principali novità apportate dal decreto ministeriale, si evidenzia la nuova elencazione delle sostanze e dei preparati vegetali ammessi in Italia per la composizione degli integratori alimentari (allegato 1). Tale lista, approvata dalla Sezione dietetica e nutrizione del Comitato nazionale per la nutrizione e la sicurezza alimentare, si basa sui dati e sulle evidenze scientifiche attualmente disponibili ed ha il merito di rendere finalmente unitario l’elenco delle piante utilizzabili come fonti di sostanze e preparati vegetali. L’elencazione ricomprende, al suo interno, piante già presenti sia nel precedente D.M. del 9 luglio 2012 sia nella lista BELFRIT, redatta a partire dal 2014 dalle autorità competenti di Belgio, Francia e Italia.

Un’ulteriore novità apportata dal D.M. del 10 agosto 2018 consiste nella specificazione dei controlli da compiere per garantire la sicurezza e la qualità dei botanicals e nell’indicazione della documentazione necessaria e delle procedure da osservare per un corretto impiego di tali sostanze negli integratori alimentari (allegato 2).

Si indica, ad esempio, la necessità di specificare il processo di fabbricazione ed i piani di autocontrollo così come i materiali di confezionamento e le attività di sorveglianza post commercializzazione dell’integratore alimentare (punto 4, allegato 2). L’allegato 2 riprende ed integra le prescrizioni contenute nelle “Linee guida sulla documentazione a supporto dell’impiego di sostanze e preparati vegetali (botanicals) negli integratori alimentari” redatte dalla Commissione unica per la dietetica e la nutrizione a sostegno del già menzionato D.M. 9 luglio 2012.

Entrata in vigore e regime transitorio

Il D.M. 10 agosto 2018 produrrà effetto a decorrere dal novantesimo giorno della sua entrata in vigore (ossia dal 9 gennaio 2019). Fino ad allora, possono continuare ad essere utilizzati in via transitoria le sostanze e i preparati vegetali contenuti negli allegati 1 ed 1-bis del D.M. 9 luglio 2012. Nell’ipotesi in cui, durante il periodo transitorio, venisse immesso nel mercato o etichettato un integratore alimentare in difformità rispetto all’elenco dei botanicals contenuto nel D.M. 10 agosto 2018, quest’ultimo potrà essere commercializzato solo fino ad esaurimento delle scorte (art. 5). Occorre precisare che è consentita, in forza del principio del mutuo riconoscimento, la commercializzazione di integratori alimentari non conformi al dettato del D.M. 10 agosto 2018 purché si tratti di “prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in un altro Stato membro dell’Unione europea o in Turchia o […] prodotti legalmente fabbricati in uno Stato dell’Efta, parte contraente dell’accordo sullo Spazio economico europeo (See)” (art. 4).

Prospettive future sui claims relativi ai botanicals

Un profilo che merita particolare attenzione concerne i claims riferibili ai botanicals, ossia le indicazioni delle proprietà nutrizionali e salutistiche ammissibili per gli integratori alimentari costituiti da sostanze e preparati vegetali. Infatti, come noto, i claims nutrizionali e sulla salute autorizzati ai sensi della procedura prevista dal Regolamento 1924/2006/Ce ed indicati nell’allegato al Reg. 432/2012/Ce non si applicano ai botanicals. Attualmente, i claims concernenti i botanicals impiegabili nella comunicazione commerciale devono ancora essere autorizzati e la loro valutazione è in corso dinanzi all’autorità europea per la sicurezza alimentare.

In attesa che questo processo si concluda a livello comunitario, trovano provvisoriamente applicazione, sul territorio nazionale, le indicazioni contenute nelle linee guida per gli effetti fisiologici elaborate dal ministero della Salute per ogni pianta contenuta nel D.M. 9 luglio 2012. Si può ritenere che tali indicazioni sugli effetti fisiologici possano trovare applicazione anche con l’entrata in vigore del nuovo D.M. 10 agosto 2018 laddove ricorrano le medesime sostanze contenute nel D.M. 9 luglio 2012.

Tuttavia, dato che la lista dei botanicals è in continua evoluzione, c’è il rischio che le nuove sostanze rimangano prive di indicazioni approvate. Per tale ragione, si auspica un continuo aggiornamento delle linee guida ministeriali sui claims dei botanicals che riesca a supplire almeno temporaneamente la perdurante assenza di indicazioni autorizzate a livello comunitario.

A cura di Elisa Stefanini (counsel) e di Erica Benigni (associate) – Portolano Cavallo

 

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Influenza, vaccino gratuito per i donatori di sangue in tutte le Regioni

 

Attiva l’offerta in tutta Italia, anche se con modalità diverse: in alcune realtà si va dal medico di famiglia, in altre ci si può vaccinare direttamente nei servizi trasfusionali. I risultati di una ricognizione realizzata dal Centro nazionale sangue dell’Iss


Vaccino antinfluenzale gratuito in tutta Italia per i donatori di sangue. Il servizio è infatti attivo in tutte le Regioni, anche se erogato con modalità diverse: alcune hanno scelto i medici di base mentre, in altre il vaccino si somministra direttamente nei servizi trasfusionali. È quanto emerge da una survey condotta dal Centro nazionale sangue (Cns) dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

I dati arrivano dalle Strutture regionali di coordinamento per le attività trasfusionali (Src). Secondo l’indagine, in tutte le Regioni e Province autonome i donatori di sangue possono vaccinarsi gratuitamente come previsto da una circolare del ministero della Salute emanata lo scorso maggio. L’iniziativa ministeriale ha aggiungo la categoria dei donatori a quelle tradizionalmente agevolate come donne in gravidanza, anziani e malati cronici.

Dove vaccinarsi

Nella maggior parte delle Regioni, i donatori di sangue si vaccinano gratuitamente nello studio del medico di famiglia o negli ambulatori vaccinali della Asl. La prima opzione riguarda Friuli Venezia Giulia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Puglia, Umbria, Marche, Sardegna, Sicilia, Calabria, Lazio, Molise, Abruzzo, Toscana e Campania. La seconda modalità è prevista in Veneto, Val d’Aosta, Basilicata, province di Trento e Bolzano, Toscana, Umbria, Sicilia, Calabria, Lazio, Abruzzo e Campania.

Tre Regioni (Val d’Aosta, Emilia Romagna e Liguria) consentono la vaccinazione gratuita per i donatori nei servizi trasfusionali.

Influenza e carenze di sangue

Oltre alla profilassi contro l’influenza, l’iniziativa punta anche a limitare le carenze di sangue che solitamente si registrano nei mesi del picco influenzale:  Se da una parte – spiega Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns – serve una migliore e puntuale programmazione della chiamata dei donatori per effettuare le donazioni da parte delle associazioni e federazioni del volontariato del sangue, il problema dell’epidemia influenzale, che proprio a gennaio-febbraio raggiunge il suo picco, non può essere trascurato. Per questo insieme al volontariato ci siamo attivati per far inserire i donatori tra le categorie a cui viene offerta la vaccinazione. Ora che il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale auspichiamo un’adesione massiccia da parte dei donatori”.

Per vaccinarsi è necessario presentare un documento che attesti l’iscrizione ad una associazione di donatori o un certificato di avvenuta donazione per accedere al servizio. Dopo la somministrazione del vaccino i donatori dovranno attendere 48 ore prima di poter effettuare una donazione.

 

 

 

 

 

 

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Liste d’attesa, Grillo: “Pronto il nuovo piano nazionale”

 

 

Il ministro della Salute annuncia di aver trasmesso il documento alle regioni: “I direttori generali che non mettono l’efficienza delle liste d’attesa al primo posto potranno essere rimossi dall’incarico”


“Ho trasmesso alle Regioni il nuovo Piano nazionale di governo delle liste di attesa. Il piano mancava da quasi 10 anni e conteneva generiche azioni di governo. Ora mettiamo regole certe e stanziamo fondi per dire basta alle attese infinite per una visita medica o un esame diagnostico. Presto insieme alle Regioni garantiremo tempi certi per ogni prestazione”. L’annuncio è del ministro della Salute, Giulia Grillo, in un comunicato diffuso oggi.

Le risorse

“Grazie ai 350 milioni previsti in Legge di Bilancio per il triennio 2018-20 – spiega Grillo – il aiuteremo i territori a potenziare i servizi di prenotazione implementando i Cup digitali e tutte le misure per rendere più efficiente il sistema”. Il ministro spiega che “non erano mai state stanziate risorse dedicate specificatamente alle liste d’attesa”.

Monitoraggio

L’autonomia delle Regione non verrà intaccata, ma il ministero
Salute “garantirà il monitoraggio dei percorsi diagnostico-terapeutici, ma anche delle prestazioni ambulatoriali in regime libero-professionale”. L’Osservatorio nazionale sulle liste di attesa del ministero della Salute sarà la cabina di regia, con il compito di assicurare “un monitoraggio effettivo sui servizi sanitari e quindi sull’applicazione concreta del diritto alla salute”. Ma sarà anche “uno stimolo per le Regioni”.

I direttori generali

Secondo il ministro, le aziende sanitarie saranno spinte a “competere per offrire i servizi migliori, attivando un circolo virtuoso con ricadute positive sulle persone, ma anche sui lavoratori del Ssn, che devono sentirsi maggiormente valorizzati”. Nel frattempo, i direttori generali “saranno valutati anche in base al raggiungimento degli obiettivi di salute connessi agli adempimenti dei Lea: questo – conclude Grillo – significa che chi non mette l’efficienza delle liste d’attesa al primo posto del suo mandato, potrà essere rimosso dall’incarico”.  Il Piano prevede nuove classi di priorità per le prestazioni ambulatoriali, trasparenza sui tempi massimi di attesa, nuove regole sull’attività intramoenia e aperture al privato accreditato.

 

 

 

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Italiassistenza: servizi per migliorare l’aderenza nelle terapie orali

I nuovi Patient Support Program (Psp) integrano l’assistenza specialistica con approccio multidisciplinare fornendo soluzioni avanzate a supporto del paziente cronico, con l’obiettivo di monitorare e facilitare il percorso terapeutico. Dal numero 164 del magazine. *In collaborazione con Italiassistenza


Italiassistenza Spa è la Home Care Company leader in Italia nell’ambito della progettazione ed erogazione di servizi di supporto al paziente a sostegno dell’aderenza alla terapia (‘’Patient support program’’, Psp). La società è specializzata nella progettazione, fornitura e gestione di servizi di supporto remoto e assistenza domiciliare infermieristica, medica e socio-assistenziale, counseling, supporto psicologico e fisioterapico: opera tramite le sue sedi di Milano e Reggio Emilia, dalle quali coordina una rete nazionale capillare di medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti e di centri di assistenza domiciliare accreditati.

Con oltre 15 anni di esperienza ed oltre 30 Psp attivi in 22 aree terapeutiche, con oltre 15 mila accessi domiciliari e 45 mila counseling call effettuate solamente negli ultimi dodici mesi, Italiassistenza è il principale provider in Italia del settore. La qualità dei servizi, la professionalità degli operatori, la copertura capillare del territorio e la costante innovazione sono il valore aggiunto di Italiassistenza, supportato oggi da strumenti tecnologici innovativi (Crm, portali web, app native, devices) progettati e sviluppati con approccio modulare e personalizzato sulla base delle esigenze degli stakeholder di riferimento.

Patient support program

I Programmi di supporto al paziente consistono in un set coordinato di servizi specialistici erogati al paziente da operatori qualificati che, in coordinamento con il medico specialista, garantiscono continuità assistenziale dal presidio ospedaliero alle mura domestiche, agevolano il percorso terapeutico e riducono i fattori di rischio della non aderenza. Nello specifico i Psp, grazie ad attività di monitoraggio e di assistenza continuativa, consentono un incremento immediato del tasso di aderenza alla terapia, arrivando, con servizi personalizzati, a raggiungere livelli di aderenza ottimali.

Oggi l’aderenza alle terapie tra i pazienti affetti da malattie croniche arriva mediamente al 60%, un valore inaccettabile. Un paziente su due non assume correttamente i farmaci e questo impatta fortemente sulla sua salute, sulla sua vita sociale e lavorativa e sui costi dell’intero Servizio sanitario nazionale. Commenta Stefano Caporali, amministratore delegato di Italiassistenza: “Gli ultimi dati in nostro possesso indicano statistiche di superamento del 95% di aderenza per i pazienti che partecipano ai nostri programmi: la professionalità e l’esperienza della nostra rete territoriale di professionisti sanitari e dei nostri operatori di centrale operativa, sotto il coordinamento del nostro team di Program manager sono il ‘cuore’ dei servizi a supporto dell’aderenza dei pazienti nei nostri Psp”.

Italiassistenza progetta e implementa servizi integrati con approccio multi-disciplinare, che consentono di massimizzare l’engagement ed empowerment del paziente in tutti gli ambiti: educazione sanitaria, supporto emotivo e counseling psicologico, coaching ad un corretto stile di vita. Dice Fabio Tinello, project development leader Italiassistenza: “In fase di design del Psp e progettazione del Patient journey, Italiassistenza mette in campo tutta l’esperienza di settore maturata in 15 anni combinata al proprio know-how tecnologico. Le nuove piattaforme che utilizziamo nei nostri Psp favoriscono l’engagement ed empowerment dei pazienti, ne monitorano l’aderenza terapeutica e forniscono informazioni in tempo reale ai medici dei centri ospedalieri.” Nello specifico, nell’ambito delle terapie orali, Italiassistenza ha progettato e attivato percorsi di supporto specialistici e soluzioni tecnologiche dedicate sviluppate assieme ai propri partner tecnologici.

Supporto infermieristico

L’infermiere riveste un ruolo fondamentale nel percorso di supporto al paziente ed ai suoi caregiver. A partire dal primo contatto durante l’incontro conoscitivo con il medico ed il paziente al centro, stabilisce una relazione di fiducia con il paziente stesso garantendo continuità al percorso di cura ospedale-territorio. Durante gli incontri a domicilio poi l’infermiere consegna al paziente tutto il materiale di supporto necessario per gestire al meglio la terapia e gli illustra le modalità di utilizzo delle soluzioni a disposizione a supporto del monitoraggio dell’aderenza alla terapia (diario paziente, device di monitoraggio dell’aderenza alla terapia, leaflet e vademecum, informazioni per l’accesso ai servizi del portale web e delle app dedicate), sensibilizzandolo sul tema dell’aderenza alla terapia.

Durante ciascun contatto con il paziente, l’infermiere applica un ascolto attivo, e fornisce un sostegno “umano” e professionale, che accompagna il paziente e i caregiver nel percorso terapeutico: verifica inoltre la corretta compilazione dei diari paziente e il corretto utilizzo e manutenzione dei device di monitoraggio dell’aderenza, propone al paziente o al caregiver questionari di rilevazione del rischio di non aderenza nonché di impatto della terapia e della patologia sulla vita lavorativa, per fornire strumenti di monitoraggio addizionali al medico del centro, con attenzione costante a quanto segnalato dal paziente e nel rispetto degli adempimenti richiesti dalla normativa sulla farmacovigilanza. Le informazioni sono condivise con i medici dei centri tramite la piattaforma centralizzata di Italiassistenza e sono consultabili dagli specialisti tramite un’area riservata di un portale web a loro dedicato.

Supporto psicologico

I pazienti affetti da patologie croniche hanno difficoltà ad affrontare la diagnosi iniziale e, successivamente, il percorso terapeutico e gli effetti della terapia farmacologica anche sul lavoro e sulla vita sociale del paziente: manifestano spesso disagi e si sentono isolati nell’affrontare questo nuovo percorso di vita. Il servizio di counseling psicologico e supporto emotivo personalizzato consiste in un percorso calato sulla realtà del singolo paziente. La figura di riferimento rimane sempre il medico specialista del centro clinico che valuta la necessità di indirizzare il paziente a tale servizio.

Nello specifico, in ambito di terapie orali, viene proposto un percorso di counseling per supportare il paziente nel percorso di accettazione della patologia e degli effetti sulla vita personale, fornirgli gli strumenti per affrontare il percorso terapeutico e rispettare l’aderenza alla terapia. Il servizio prevede di alternare incontri individuali face2face a domicilio del paziente a contatti telefonici pianificati. Nell’ambito degli incontri o delle call propone al paziente questionari di rilevazione della qualità della vita nonché di impatto della terapia e della patologia sulla vita quotidiana e lavorativa, con il fine di fornire ulteriori strumenti di monitoraggio al medico del centro, sempre nel rispetto degli adempimenti richiesti dalla normativa sulla farmacovigilanza.

Tutte le informazioni raccolte dallo psicologo sono condivise con i medici dei centri tramite la piattaforma Crm, in modalità “integrata”. Il valore aggiunto dell’approccio multidisciplinare di Italiassistenza è proprio la competenza ed esperienza nel fornire a pazienti e medici dei Centri servizi di supporto e monitoraggio integrati in chiave “olistica”: le tecnologie sviluppate contribuiscono a rendere possibile la condivisione dei dati raccolti dai vari professionisti in veste “integrata” e in un formato facilmente consultabile dai medici dei centri.

Italiassistenza, Omnys ed Intellettiva in partnership per monitorare l’aderenza nelle terapie orali

Italiassistenza ha sviluppato l’Adherence Suite, un set di moduli software e device integrati con Crm e portali web, dedicati alla rilevazione continua dell’aderenza del paziente per fornire al medico un efficace strumento di monitoraggio del percorso terapeutico del suo Paziente, in collaborazione con Omnys Srl, una software house che vanta una pluriennale esperienza sia nella progettazione di piattaforme digitali che nella “System Integration” e gestione di progetti IoT. Oggi Italiassistenza propone PluggyMed, una nuova soluzione innovativa e non invasiva per il monitoraggio dell’aderenza di terapie orali che, integrata con la piattaforma tecnologica di Italiassistenza, rappresenta uno strumento per la raccolta di un patrimonio informativo preziosissimo per lo specialista ospedaliero.

La soluzione PluggyMed è fornita da Intellettiva Srl, una startup – nata da una joint-venture tra Palladio Group S.p.A. e Omnys S.r.l. – che si occupa di progettare e sviluppare soluzioni tecnologiche per il mondo della sanità e delle aziende farmaceutiche con il fine di migliorare la vita quotidiana dei pazienti. La soluzione è composta da un astuccio in cartoncino personalizzato per lo specifico blister che racchiude il packaging primario del farmaco, da un dispositivo elettronico in grado di connettersi all’astuccio e di raccogliere e trasmettere i dati relativi al consumo di farmaco in modalità sicura e da una piattaforma in cloud che colleziona i dati inerenti il consumo e fornisce funzionalità di controllo e monitoraggio remoto di tutti i device in uso. La combinazione di queste tre componenti rappresenta la soluzione completa a supporto del monitoraggio dell’aderenza dei pazienti alla terapia orale che Italiassistenza integra nei propri Psp.

L’astuccio di cartoncino

Grazie all’utilizzo di una tecnologia innovativa, l’estrazione di una pastiglia dal blister viene rilevata dal dispositivo e comunicata alla piattaforma cloud. I benefici derivanti dall’utilizzo della carta sono svariati: si tratta di una soluzione che non impatta sulla catena di produzione del farmaco e che, a fronte di costi contenuti, è adattabile a qualunque packaging disponibile sul mercato ed è personalizzabile a livello grafico in base alle specifiche esigenze dell’azienda farmaceutica committente.

Il dispositivo elettronico

Il dispositivo elettronico è in grado di trasmettere autonomamente e in tempo reale le estrazioni delle pastiglie dal blister. Non necessita di essere abbinato ad uno smartphone e può essere configurato e gestito da remoto.

 

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Integratori alimentari, per la Cassazione non sussiste il reato di comparaggio

Secondo la Corte si tratta di meri alimenti, non riconducibili alla categoria di "specialità medicinali o altro prodotto ad uso farmaceutico". *In collaborazione con Portolano Cavallo


Con sentenza n. 51946 del 16 novembre 2018, la Corte di Cassazione, sezione VI, ha escluso la configurabilità del reato di comparaggio nel caso di integratori alimentari. La Corte ha infatti riconosciuto gli integratori alimentari come meri alimenti, non riconducibili alla categoria di “specialità medicinali o altro prodotto ad uso farmaceutico” oggetto del reato di cui agli articoli 170 – 172 del R. D. 1265 del 1934.

Il reato di comparaggio

Come noto, il comparaggio è un reato caratteristico del settore sanitario. Infatti, possono incorrere nelle pene previste per questo reato medici, veterinari o farmacisti che accettino denaro o altra utilità al fine di “agevolare, con prescrizione mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodotto a uso farmaceutico”. Sono soggetti alle medesime pene anche coloro che danno o promettono a sanitari o farmacisti denaro o altra utilità al medesimo fine.

Inoltre, quando il fatto è commesso dai produttori o dai commercianti di specialità mediche o altro prodotto farmaceutico, ad esempio attraverso l’attività degli informatori scientifici, il ministro della Salute, anche a prescindere dall’esercizio dell’azione penale, può imporre la chiusura dell’officina di produzione e del locale in cui è commercializzato il prodotto, per un periodo massimo di tre mesi. Infine, il ministro della Salute può revocare la registrazione delle specialità medicinali o l’autorizzazione per la preparazione e l’importazione ai fini della vendita di altri prodotti ad uso farmaceutico.

Il caso di specie

Nel caso specifico relativo alla pronuncia n. 51946 del 2018, è stato contestato ad alcuni medici di aver ricevuto favori e regali (buoni carburante dal valore di 50 euro, pagamento di cene ed elargizione di somme di denaro) in cambio del compimento di atti in contrasto con i doveri d’ufficio, in particolare la prescrizione di prodotti realizzati dalla società elargitrice di tali regali. Nel negare la configurabilità della fattispecie di reato, il collegio giudicante ha avuto l’opportunità di precisare la definizione di farmaco e di specialità medicinale.

In particolare, gli integratori alimentari vengono definiti dalla Corte come “prodotti alimentari specifici, assunti nella regolare alimentazione, volti a favorire l’assunzione di determinati principi nutritivi” che, in quanto tali, non hanno proprietà terapeutiche né capacità di prevenire e curare malattie. Per tali motivi, non sono configurabili come medicinali né assimilabili ad alcun prodotto ad uso farmaceutico. Eventuali corresponsioni di denaro volte a promuovere la diffusione di integratori alimentari non sono pertanto suscettibili di condanna ai sensi degli articoli 170 – 172 del R.D. n. 1265 del 1934.

L’impatto di questa pronuncia

In un momento in cui il mercato sta conoscendo una grande espansione di integratori alimentari, nutraceutici, probiotici, spesso promossi nei confronti dei medici attraverso informatori scientifici, questa pronuncia appare particolarmente interessante in quanto contribuisce a delimitare il campo di applicazione del reato di comparaggio in relazione all’oggetto, ossia alla categoria merceologica interessata. In passato, il Tribunale di Firenze ha ritenuto, allo stesso modo, che non sussiste il reato di comparaggio nell’ipotesi di dazione o promessa di denaro o altra utilità in relazione al latte in polvere, considerato anch’esso un mero alimento. Dunque il criterio che sembra tracciato dalla giurisprudenza fino ad oggi è che il reato di comparaggio non sia applicabile alle condotte che riguardano prodotti alimentari, seppure inerenti alla salute o alla qualità della vita. Naturalmente ciò non toglie che determinate condotte possano essere rilevanti sotto altri profili (anche penali), diversi dal reato di comparaggio.

A cura di Elisa Stefanini (Counsel) e Erica Benigni (Associate)

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Medicina scienza e ricerca

 

Sperimentazioni cliniche in Italia: nel 2017 calo del 15%

L’Agenzia italiana del farmaco ha pubblicato il nuovo rapporto. Lo scorso anno sono stati condotti 564 trial contro i 660 del 2016. Valgono comunque il 18% del totale europeo


Nel 2017 sono stati condotti in Italia 564 trial clinici. Un numero in calo del 15% rispetto ai 660 del 2018. Rispetto al totale europeo valgono comunque il 18%, contro il 20,3% dell’anno precedente. È quanto emerge dal 17esimo Rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia pubblicato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

Meno sperimentazioni cliniche

Secondo Aifa, il calo di sperimentazioni cliniche “potrebbe essere dovuto essere dovuto in parte a una contrazione delle sperimentazioni globali o europee”. Ma il dato potrebbe riflettere anche “i nuovi approcci nelle strategie di sviluppo dei farmaci, con l’uso sempre più diffuso di trial complessi, che racchiudono in una singola application due o anchepiù trial, che in passato sarebbero stati presentati come trial individuali, anche di fasi differenti”. Un’ipotesi, questa, che per l’agenzia del farmaco è supportata dal fatto che “l’unica fase di trial in aumento è quella tradizionalmente ricondotta sotto la definizione di fase I, che però è rappresentata prevalentemente da trial complessi di fase I-II o I-III piuttosto che da trial tradizionali di fase I”.

Fonte AIFA

Il primato dell’oncologia

In linea con gli anni precedenti, circa metà delle sperimentazioni cliniche in Italia riguarda l’area oncologica ed emato-oncologica. Il calo dei trial nel 2017 si è distribuito comunque in modo abbastanza omogeneo su tutte le altre aree terapeutiche.

Cresce la ricerca sulle malattie rare

Continua a crescere il trend dei trial nell’area delle malattie rare: rappresentano il 25.5% del totale (24.8% nel 2016). Nell’80% dei casi si tratta di sperimentazioni profit, con una distribuzione equilibrata fra le varie fasi di sperimentazione. Da notare che, nel complesso, oltre il 31% delle sperimentazioni di fase I riguarda le malattie rare.

Una su quattro è no-profit

Le sperimentazioni no profit continuano ad aumentare in percentuale sul totale delle sperimentazioni condotte in Italia: nel 2017 salgono a quota 26,4% (25,8% nel 2016). Tuttavia, l’incremento corrisponde a una diminuzione in numero assoluto di sperimentazioni (da 170 a 149), sebbene più contenuta rispetto alle sperimentazioni profit.

La cooperazione europea

Aifa presenta nel report anche i dati relativi alla partecipazione dell’Italia al progetto Voluntary harmonization procedure (Vhp) per la valutazione congiunta dei protocolli clinici che si svolgono in più Stati dell’Ue. Nel 2017 si è registrato un calo del 10% del numero totale condotto in Europa. Il numero assoluto di richieste di partecipazioni dell’Italia alle Vhp è sceso di cinque punti percentuali.

Per quanto riguarda le sperimentazioni multinazionali sembra che la riduzione globale abbia coinvolto l’Italia in percentuale minore rispetto al resto d’Europa: il nostro Paese si è confermato, infatti, tra i primi “Reference Member States” dopo Regno Unito e Repubblica Ceca.

Bando per la ricerca indipendente

Nel Rapporto sono riassunti anche i dati relativi alle domande di partecipazione al bando Aifa per la Ricerca indipendente 2017. Le domande sono cresciute fino 428 rispetto alle 343 del 2016.

La maggior parte degli studi ha riguarda malattie rare e popolazioni fragili con polimorbidità. Oltre la metà delle domande è relativa a studi interventistici, equamente distribuiti soprattutto fra le fasi II, III e IV. Oltre un terzo sono studi osservazionali e meno del 10% sono revisioni o meta-analisi.

 

 

 

 

 

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Vaccini Mpr, più si taglia la spesa più cala la copertura

 

Vaccini Mpr, più si taglia la spesa più cala la copertura

Questo è quanto emerge da una ricerca condotta dall'Università Bocconi di Milano e pubblicata sull'European Journal of Public Health a cui ha partecipato anche Walter Ricciardi, presidente dell'Iss. Secondo lo studio, l'immunizzazione per morbillo, parotite e rosolia diminuisce dello 0,5% per ogni 1% di taglio ai fondi economici

Più si taglia la spesa, più cala la copertura. Segno meno intorno allo 0,5% per ogni riduzione della spesa dell’1%. Questo è quanto emerge da una ricerca condotta dall’Università Bocconi di Milano e pubblicata sull’European Journal of Public Health. Alla redazione dell’articolo hanno lavorato Veronica Toffolutti, Alessia Melegaro e David Stuckler con Martin McKee (London School of hygiene and tropical medicine) e Walter Ricciardi (presidente dell’Istituto superiore di sanità).

Proporzionalità diretta

Le recenti tendenze mostrano che la causa principale dell’epidemia di morbillo, che colpisce diversi paesi europei, è la diminuzione della copertura vaccinale, che può essere attribuita principalmente alla diffusione di teorie antiscientifiche. Tuttavia, non ne è l’unica causa. Lo studio mostra che anche i tagli alla spesa sanitaria pubblica giocano un ruolo importante, con la copertura vaccinale contro morbillo, parotite e rosolia (Mpr), che diminuisce di 0,5 punti percentuali per ogni taglio di spesa dell’1%. Gli studiosi hanno confrontato la copertura vaccinale all’età 24 mesi in 20 regioni italiane con la rispettiva spesa sanitaria reale annua pro-capite per il periodo 2000-2014, una volta considerata la forza del movimento anti-vax. “Abbiamo osservato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è cresciuta costantemente dal 2000 al 2009 ad un tasso medio annuo del 3,5%. Mentre è scesa di circa il 2% all’anno tra il 2010 e il 2014. Analogamente, la copertura Mpr è passata dal 74,1% nel 2000 al 90,6% nel 2012. Ha poi invertito il corso, scendendo all’85,1% nel 2014. Ben al di sotto del 95% che costituisce l’immunità di gregge”, ha affermato Veronica Toffolutti.

La gestione locale della spesa

Poiché i tagli sono stati diversi da regione a regione, gli autori possono confrontare gli effetti delle diverse variazioni. Osservano che le regioni che hanno subito i maggiori tagli di bilancio hanno anche registrato la maggiore diminuzione della copertura vaccinale, mentre le regioni che sono riuscite ad aumentare il proprio budget sanitario sono state addirittura in grado di migliorare la copertura Mpr. La Valle d’Aosta, ad esempio, ha subito un calo del 6% della spesa sanitaria e dell’11% della copertura Mpr. La Sardegna, con un aumento del 2% della spesa, ha registrato un aumento dell’immunizzazione pari al 3,8%. “La nostra analisi suggerisce che le misure di austerità adottate in Italia hanno contribuito in modo significativo alla recrudescenza del morbillo”, scrivono gli autori. “L’Italia sta affrontando il problema del basso tasso di vaccinazione con una combinazione di misure legislative e di aumenti di bilancio. Sarà importante monitorare questi sviluppi, non solo per informare la politica in Italia, ma in tutta Europa, dove molti paesi si trovano ora ad affrontare problemi simili”.

 

 

 

 

 

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Superticket e spesa per i farmaci: prove tecniche di manovra

Superticket e spesa per i farmaci: prove tecniche di manovra

In un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano il ministro della Salute, Giulia Grillo, spiega che punterà all’abolizione del superticket su visite ed esami. E punta il dito contro la spesa per i farmaci. Per il dg Aifa tetto retributivo e rapporto di esclusività


Cancellare il superticket su diagnostica e visite specialistiche. Rimodulare i ticket aiutando le fasce di popolazioni meno abbienti. Intervenire sulla spesa farmaceutica, a cominciare dai prezzi dei farmaci innovativi come quelli contro l’epatite C. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, affida a un’intervista rilasciata oggi al Fatto Quotidiano la sintesi di alcune priorità del suo mandato. Un assaggio dei temi che probabilmente scalderanno il dibattito sulla prossima manovra finanziaria, la prima del Governo M5S-Lega.

Superticket, dialogo con il Mef

Se sui superticket il ministro riferisce di un dialogo positivo aperto con il ministero dell’Economia, sul fronte dei medicinali le indicazioni politiche arriveranno da un documento a cui sta lavorando il Tavolo sulla governance farmaceutica istituito quest’estate. “In questi anni – spiega il ministro al Fatto – a fronte di drastici tagli ai servizi della sanità pubblica, la spesa per i farmaci è lievitata, fino a sfiorare i 30 miliardi nel 2017. E questa spesa è esplosa perché non è stata governata”. Secondo Grillo, bisogna “smettere di spendere troppo, cioè male, in alcuni settori”. E bisogna anche “intervenire innanzitutto sul costo di farmaci, pure preziosi, come quelli per l’epatite C”.

Spendere meglio

A sostegno del ministro, una nota del gruppo M5s in Commissione Affari Sociali alla Camera: “Il Governo sta lavorando per dare ai cittadini una sanità più accessibile. L’abolizione della tassa di 10 euro su visite specialistiche e analisi (il cosiddetto superticket), per cui si sta impegnando il ministro Grillo, va esattamente in questa direzione. È una misura che aiuterà tanti italiani, soprattutto quelli in condizioni più disagiate. Ci auguriamo quindi che il dialogo con il ministero dell’Economia, finora positivo, conduca a questo importante risultato”. Per quanto riguarda la spesa farmaceutica, invece, i deputati pentastellati assicurano che “il taglio agli sprechi” non si tradurrà in un danno ai pazienti, ma in nuovo approccio che consenta di “spendere con criterio, avvantaggiando i cittadini e non solo le aziende farmaceutiche come fatto finora”.

Il contratto del Dg Aifa

Nel pomeriggio, rispondendo a un Question time alla Camera, Giulia Grillo è tornata sulla nomina del direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Luca Li Bassi. Il contratto di lavoro del nuovo dg, al momento in fase di definizione, contemplerà “un tetto retributivo” e anche un “rapporto di esclusività”. Dunque il divieto di “svolgere altre attività sia pubblica che privata, incluse nomine all’Ema”. Il ministro rivendica questa scelta: “Anche in questa direzione va colto il cambiamento rispetto alle esperienze del passato, che hanno registrato, sempre con riguardo al trattamento economico, emolumenti vicino al milione di euro per anno”, ricorda il ministro.

 

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Monitoraggio Lea 2016: 14 Regioni promosse, male Calabria e Campania

Monitoraggio Lea 2016: 14 Regioni promosse, male Calabria e Campania

Il ministero della Salute pubblica i risultati del monitoraggio sull’erogazione dei Lea, che riguarda 33 indicatori. Su 16 regioni analizzate, 14 sono adempienti. In netto miglioramento Puglia, Molise e Sicilia

monitoraggio lea

La maggior parte delle Regioni italiane supera l’esame sull’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea). Il ministero della Salute ha pubblicato oggi i risultati del monitoraggio relativo al 2016 e riferito ai 33 indicatori della cosiddetta “Griglia Lea”. Su 16 Regioni monitorate, 14 risultano “adempienti”, mentre Calabria e Campania (sottoposte a Piani di rientro) si collocano nella classe “inadempiente”.

Le due Regioni bocciate, spiega il ministero, dovranno superare le criticità rilevate su alcune aree dell’assistenza tra cui, in particolar modo, quelle degli screening, della prevenzione veterinaria, dell’assistenza agli anziani e ai disabili, dell’assistenza ai malati terminali, dell’appropriatezza nell’assistenza ospedaliera (es. parti cesarei)”.

Monitoraggio Lea: il trend 2012-2016

Il monitoraggio dei Lea viene curato dalla Direzione generale della programmazione sanitaria del ministero. In sostanza, si analizza la capacità delle Regioni di garantire ai cittadini l’erogazione dell’assistenza secondo standard di appropriatezza e qualità. L’aggiornamento annuale del set di indicatori rende flessibile la Griglia, capace di adattarsi ai nuovi indirizzi politici-programmatori ed in grado di intercettare gli aspetti che via via si individuano.

I 33 indicatori della Griglia Lea sono ripartiti tra l’attività di prevenzione collettiva e sanità pubblica, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera erogate dalle regioni. Analizzando il trend 2012-2016 che nel periodo considerato il numero di regioni “adempienti” è altalenante e tendenzialmente in crescita (10 nel 2012, 9 nel 2013, 13 nel 2014, 11 nel 2015, 14 nel 2016). Meritano nota le conferme, nell’ultimo biennio, di Veneto, Toscana, Piemonte ed Emilia Romagna (con punteggi superiori a 200). E il netto miglioramento di Puglia, Molise e Sicilia. Resta comunque una significativa variabilità geografica (ma anche temporale) nell’erogazione dei Lea tra le diverse Regioni.

Resta comunque una significativa variabilità geografica (ma anche temporale) nell’erogazione dei Lea tra le diverse Regioni. Il Veneto guida il gruppo delle Regioni “virtuose” con 209 punti, ma il divario con la Sicilia (163 punti) è ampio, mentre Calabria e Campania si fermano rispettivamente a un punteggio di 144 e 124.

 

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Alzheimer, sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia

Alzheimer, sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia

Uno studio di Rand Corporation ha analizzato sei Paesi europei, tra cui anche l'Italia, dimostrando che la carenza di personale e centri specializzati per la presa in carico dei pazienti, rischiano di rallentare diagnosi e cura


È sempre più difficile passare dalla fase clinica alla terapia. Secondo uno studio effettuato dalla Rand Corporation, organizzazione di ricerca no-profit con sede negli Stati Uniti, i sistemi sanitari di alcuni paesi europei non dispongono delle risorse e strutture necessarie per trasferire un trattamento efficace per l’Alzheimer all’uso clinico diffuso. I ricercatori hanno esaminato i sistemi sanitari di Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito ed hanno analizzato le sfide infrastrutturali che dovrebbero affrontare questi Paesi a partire dal 2020 in caso di un’impennata improvvisa del numero di pazienti.

L’analisi

Lo studio ha rilevato che la criticità principale è la carenza di specialisti che possano eseguire la diagnosi dei pazienti che potrebbero mostrare segni precoci di Alzheimer. In alcuni Paesi il numero di medici specialisti è limitato, senza considerare la scarsità di strutture in grado di somministrare il trattamento di infusione ai pazienti. Secondo le previsioni, il numero di malati di Alzheimer nei Paesi ad alto reddito dovrebbero quasi raddoppiare tra il 2015 e il 2050.

“A fronte dei continui sforzi non è stato fatto abbastanza per preparare i sistemi sanitari nazionali a gestire a livello strutturale e organizzativo tale sfida”, ha affermato Jodi Liu, autrice principale dello studio e ricercatrice di policy presso Rand. “Anche se non vi è la certezza che una terapia dell’Alzheimer venga approvata a breve, il nostro lavoro suggerisce che i leader della sanità nell’Unione Europea dovrebbero iniziare a pensare a come rispondere a questa svolta”.

Lo scenario che si prospetta

L’analisi suggerisce che i sistemi sanitari di alcuni Paesi europei non hanno risorse sufficienti per diagnosticare e trattare l’elevato numero di pazienti con malattia di Alzheimer allo stadio iniziale. I tempi di attesa massimi previsti vanno da cinque mesi per il trattamento in Germania ai 19 mesi per la valutazione in Francia. Il primo anno senza tempi di attesa sarebbe il 2030 in Germania, il 2033 in Francia, il 2036 in Svezia, il 2040 in Italia, il 2042 nel Regno Unito e il 2044 in Spagna. In Germania e Svezia il principale ostacolo infrastrutturale sarebbe la capacità di infusione.

Negli altri quattro Paesi, i tempi di attesa dovuti alla carenza di specialisti e alla capacità di infusione ritarderebbero il trattamento di un numero più elevato di pazienti. La disponibilità di specialisti è il principale fattore di limitazione della tempestività di trattamento in Francia, nel Regno Unito e in Spagna. “Ciascuno dei Paesi che abbiamo studiato è caratterizzato da una serie peculiare di limitazioni del proprio sistema sanitario. Affrontare queste problematiche potrebbe diventare molto impegnativo”, ha affermato Liu.

Rimborsi, regolamentazione e pianificazione

Per i ricercatori sarà necessaria una combinazione di politiche di rimborso, di regolamentazione e di pianificazione della forza lavoro per affrontare le limitazioni di ciascun sistema sanitario. La ricerca è stata realizzata grazie al contributo incondizionato di Biogen, azienda leader a livello mondiale nel settore delle biotecnologie applicate alle neuroscienze per diverse patologie, tra cui la malattia di Alzheimer.

 

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Vaccino influenzale quadrivalente, nuovo parere positivo dall’Ema Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti

Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016 e protegge da quattro ceppi di virus dell’influenza: A(H3N2), A(H1N1) e due ceppi del virus di tipo B.2 Il vaccino QIVc è ottenuto con il metodo di produzione basato su colture cellulari. Entro dicembre 2018 dovrebbe arrivare l'ok della Commissione Ue


Arriva l’ok del Chmp per un nuovo vaccino influenzale quadrivalente prodotto su colture cellulari (QIVc). Si prevede che entro fine anno la Commissione Europea esamini la raccomandazione del Chmp per dare il via libera all’immissione in commercio.

Il farmaco

Il vaccino quadrivalente QIVc è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016 e protegge da quattro ceppi di virus dell’influenza: A(H3N2), A(H1N1) e due ceppi del virus di tipo B.2 Il vaccino QIVc è ottenuto con il metodo di produzione basato su colture cellulari che consente di evitare più facilmente mutazioni di virus che si possono invece verificare utilizzando il metodo di produzione tradizionale su uova. Il vaccino quadrivalente prodotto su colture cellulari offrirebbe, secondo alcuni studi, maggiore corrispondenza fra i ceppi virali del vaccino e quelli circolanti.
Gordon Naylor, presidente dell’azienda produttrice Seqirus è lieto nel dare la notizia. “Siamo pronti a collaborare con le autorità sanitarie e i medici vaccinatori per mettere a disposizione il nuovo vaccino il più velocemente possibile”.

Dal mercato americano a quello europeo

Seqirus produce il vaccino influenzale quadrivalente basato su colture cellulari nei suoi impianti del North Carolina (Stati Uniti). L’azienda è stata in grado di aumentare rapidamente la produzione e questo la rende uno dei maggiori produttore mondiale di vaccini basati su questa tecnologia. Negli Stati Uniti fornisce oltre 20 milioni di dosi di vaccino influenzale quadrivalente basato su colture cellulari e vuole ora rispondere alle esigenze di mercato anche in Europa. Nel Vecchio continente Seqirus commercializza già il vaccino influenzale adiuvato per gli over 65.

 

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Patologie del fegato, Novartis e Pfizer fanno squadra

Le due società svilupperanno separatamente dei trattamenti mettendo in associazione dei loro farmaci


Novartis e Pfizer fanno squadra contro le patologie del fegato. Un mercato questo molto lucrativo secondo le aziende che sperimenteranno nuovi farmaci.

Le sperimentazioni

La compagnia svizzera e quella americana collaboreranno allo sviluppo di una combinazione terapeutica che coinvolgerà medicinali già in sviluppo separatamente da entrambe le società. Nello specifico sono trial focalizzati sulla steatosi non alcolica (Nash). Dietro a questa decisione c’è l’esigenza di porre rimedio a disturbi metabolici come obesità e diabete che diventeranno sempre più un problema di salute globale. Durante i test, le compagnie sperimenteranno il farmaco di Novartis tropifexor in varie combinazioni con altri medicinali di Pfizer. L’idea è quella di rendere inefficace Nash sotto più punti di vista attraverso un approccio multiterapeutico. Per esempio le molecole di Pfizer operano sulla steatosi, mentre quelle del partner combattono le infiammazioni e le lesioni fibrotiche.

Un ampio mercato

All’interno di questo contesto si sono mosse grandi aziende del calibro di Pfizer, Novartis, Gilead e Allergan che hanno visto un potenziale di mercato di 20-35 miliardi di dollari secondo quanto rivela Reuters. Nell’alleanza che si prospetta ora per Novartis e Pfizer sono inserite anche Intercept Pharmaceuticals e la francese Genfit.

 

 

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Presente e futuro nella ricerca digitale

Nel campo delle sperimentazioni cliniche fatica a prendere corpo l'utilizzo della tecnologia. Eppure il dibattito sulle potenzialità delle soluzioni digitali in questo settore è rilevante. Lo affronteremo nella nuova rubrica al via su AboutPharma, dal titolo “Presente e futuro della ricerca clinica digitale”, realizzata in collaborazione con Exom Group


In tempi in cui la tecnologia digitale è parte integrante della nostra vita quotidiana, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la conduzione degli studi clinici. Una delle ragioni potrebbe essere che questa area è generalmente lenta nell’adottare nuove tecnologie. Le cause? Diverse, tra queste la stretta regolamentazione a cui è sottoposta. Certo, alcuni potrebbero sottolineare che comunque da molti anni esiste la raccolta elettronica dei dati (Edc) o la gestione dei documenti in un Trial master file (Tmf) elettronico. Tuttavia rivoluzionare le sperimentazioni cliniche richiede molto di più che l’implementazione di software.

Occorre avere la mentalità e la visione digitale per comprendere le esigenze delle varie parti interessate (pazienti, medici, ricercatori, sponsor). Occorre implementare soluzioni innovative e dirompenti, per soddisfare le esigenze specifiche di ciascuna delle parti coinvolte. Infine, serve avere il coraggio di essere in prima fila per promuovere il cambiamento dei processi.

Le difficoltà degli studi clinici

Le sfide più importanti negli studi clinici sono oggi l’aumento della complessità operativa, il reclutamento dei pazienti, la pressione normativa e la riduzione dei tempi per la commercializzazione, tutti associati a un aumento dei costi. Combinando le tecnologie digitali, con metodologie avanzate e competenze approfondite, è possibile semplificare le attività dei ricercatori. La digitalizzazione di alcuni processi può aumentare il reclutamento e il coinvolgimento dei pazienti per una partecipazione attiva allo studio, sia localmente sia a distanza. In questo modo si possono ridurre i costi e aumentare la qualità e le prestazioni.

Il futuro digitale della ricerca clinica

Con questa rubrica “Presente e futuro della ricerca clinica digitale”, vogliamo darvi conto del dibattito in corso circa le potenzialità offerte dall’implementazione di soluzioni digitali innovative e dirompenti negli studi clinici. Ma dimostrare anche come queste tecnologie impattino sui processi, sulle tempistiche, metriche e sui costi. Negli articoli che seguiranno andremo ad analizzare le varie fasi di uno studio clinico, dalla fattibilità, alla raccolta dati e documenti, al controllo del rischio, al monitoraggio e all’analisi. Inoltre discuteremo di come queste fasi possono essere gestite mediante l’utilizzo di appropriati tool tecnologici al fine di migliorarne l’efficienza e la qualità. Verranno anche presentati diversi case study. Tali casi dimostrano l’impatto positivo sulle metriche e sugli indici di performance. Infine faremo il punto sui nuovi orizzonti tecnologici quali l’Intelligenza artificiale (AI), la chatbot e sui nuovi modelli di studio clinico che vedono il paziente al centro (Patient’s centric study) controllato da remoto attraverso applicazioni di telemedicina.

A cura di Exom Group

 

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Sanità pubblica “intasata”: anche gli ospedali privati chiedono una nuova governance

Nell’ultimo anno circa 20 milioni di italiani hanno sperimentato le criticità delle liste d’attesa per prestazioni specialistiche e ricoveri. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Aiop, che chiede di aumentare l’offerta dei servizi promuovendo l’integrazione tra pubblico e privato


Rinuncia alle cure, ricorso al privato, accessi inappropriati in Pronto Soccorso e viaggi verso altre Regioni. Sono alcune delle conseguenze di una sanità pubblica afflitta da liste d’attesa troppo lunghe. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) presentato oggi al Senato: nell’ultimo anno, circa 20 milioni di italiani hanno sperimentato la criticità delle liste d’attesa per accedere a prestazioni specialistiche, oppure per un ricovero in ospedale.

I numeri

Secondo il report “Ospedali e Salute 2018”, realizzato per Aiop da Ermeneia, nell’ultimo anno, le liste d’attesa più lunghe – oltre i 60 e fino a 120 giorni – hanno interessato il 35,6% degli utenti per le visite specialistiche, il 31% per i piccoli interventi ambulatoriali, il 22,7% per gli accertamenti diagnostici e il 15% per i ricoveri in ospedale pubblico per interventi più gravi. Hanno un certo peso anche le attese tra i 30 e i 60 giorni, soprattutto per l’accesso a visite specialistiche (22,6%), accertamenti diagnostici (20%) e ricoveri (18,3%).

Le liste d’attesa sono  – secondo il report – la prima causa di rinuncia alle cure (51,7%, +4,1 punti rispetto al 2017), e concorrono ad alimentare, da un lato la spesa out-of-pocket, dall’altro la mobilità sanitaria: oltre il 30% degli utenti, infatti, per accedere più rapidamente a una visita o a un esame, sceglie di rivolgersi ad altre strutture, di pagare privatamente le prestazioni o ricorrere ad ospedali in altre regioni.

Accessi evitabili al Pronto Soccorso

Per evitare le attese si ricorre spesso a un uso improprio del Pronto Soccorso.  Oltre la metà degli italiani in lista d’attesa (10,6 milioni) ha vissuto almeno un’esperienza di accesso al Pronto Soccorso,  registrando, nel 20,7% dei casi, ulteriori attese, in media tra le 3 e le 10 ore prima di essere visitati. Oltre il 50% ricorre ai presidi di emergenza quando non non trova una risposta dalla medicina territoriale e in almeno un caso su quattro ricorre al Pronto Soccorso per per ridurre i tempi di accesso a visite, accertamenti diagnostici e ricoveri. Le conseguenze per l’efficienza del sistema sono intuibili.

Le difficoltà di accesso minano la fiducia verso la sanità pubblica. In generale, un italiano su tre, tra coloro che hanno avuto esperienze di liste d’attesa e/o di Pronto Soccorso, si dichiara insoddisfatto del Servizio Sanitario della propria regione, soprattutto degli ospedali pubblici (32,6%) e delle strutture delle Asl (28,6%), in percentuale minore, invece, degli ospedali privati accreditati (18,3%) e delle cliniche a pagamento (14,3%).

Suggerimenti

Per migliorare la gestione delle liste d’attesa, oltre l’80% degli utenti suggerisce di ampliare gli orari di visita degli ambulatori di medicina generale e un utilizzo integrato di altri ospedali pubblici di zona. Oltre  il 50% degli utenti, pur di arginare il fenomeno, sarebbe disposto a pagare un ticket più alto.

Il ruolo della sanità privata

“A causa delle liste d’attesa, molti cittadini si trovano costretti a rinunciare alle cure, a pagarle direttamente o a migrare nelle regioni nelle quali l’offerta sanitaria è programmata meglio, in termini quali-quantitativi, per ricevere un’assistenza sanitaria efficiente, efficace e in tempi ragionevoli”, commenta Barbara Cittadini, presidente di Aiop. La proposta dell’associazione è di “aumentare l’offerta dei servizi erogati , promuovendo la piena integrazione tra la componente di diritto pubblico e quella di diritto privato del Ssn, al fine di consentire l’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie, nei rispettivi territori di appartenenza”.

Sileri (M5S): “Il privato può integrare ma non sostituire”

“Per noi la sanità è prima pubblica”, sottolinea Pierpaolo Sileri, presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato. “Quando si è sistemata la sanità pubblica, può esserci quella privata, come integrazione e non come sostituzione. Poi, è evidente, è una scelta del cittadino dove farsi curare. Vorremmo un Ssn – prosegue Sileri – omogeneo, buono se non ottimo, su tutto il territorio nazionale”. Per riuscirci servono risorse, soprattutto umane: “Stiamo cercando le soluzioni e andrà rinnovato il contratto dei medici. Ma sono necessarie assunzioni, è necessario colmare gli spazi vuoti all’interno dei Pronto Soccorso, dove mancano i medici, e rivedere tutta la rete del personale sanitario”.

Coletto: rivedere tetto per la spesa privata accreditata

Secondo Luca Coletto, sottosegretario alla Salute, vanno rivisti i tetti per la spesa privata accreditata: “Il Patto della Salute è una grande opportunità, come lo è stato la scorsa volta, e lo sarà anche questa volta. Daremo un vestito nuovo alla sanità, riprogrammando, revisionando e ristrutturando questo Ssn . Il Patto potrebbe essere uno dei veicoli per revisionare e rimodulare il tetto. Io penso che gestendolo al meglio si possa addirittura spendere meno e – conclude Coletto – avere migliori risultati”.

 

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Rapporto Crea: “La sanità continua a restare fuori dalle priorità dei governi”

L’analisi degli economisti di Tor Vergata sul Ssn: luci e ombre di un sistema che garantisce buoni livelli di salute, ma deve fare i conti con definanziamento, iniquità e disparità geografiche. Payback, Hta e governance in nodi principali per la farmaceutica


“La sensazione è che la sanità continui a rimanere fuori dalle priorità dei Governi che si succedono alla guida del Paese. Questa percezione assume concretezza con la conferma del finanziamento già previsto per il Servizio sanitario nazionale (Ssn): una scelta che non dà seguito alle promesse elettorali di un (ri) finanziamento della sanità pubblica”. Così il 14° Rapporto Sanità del Consorzio Crea dell’Università di Roma Tor Vergata fotografa l’assenza di svolte radicali rispetto al passato sul fronte del finanziamento pubblico per la sanità. Lo scrivono gli economisti Federico Spandonaro e Barbara Polistena nell’introduzione al rapporto, da loro curato, che fotografa ogni anno luci e ombre del Ssn. Un sistema che garantisce buoni livelli di salute, ma deve fare i conti con definanziamento, iniquità e disparità geografiche. E con un gap sempre più evidente, in termini di spesa pubblica, con i Paesi dell’Europa occidentale.

Finanziamento e spesa

Il settore pubblico rappresenta la principale fonte di finanziamento della spesa sanitaria in tutti i Paesi Ue, ma mentre nei Paesi dell’Ue-Ante 1995 (sostanzialmente quelli occidentali) fa fronte in media all’80,5% della spesa sanitaria corrente, in Italia questo quota risulta pari al 74,0%, avvicinandosi ai livelli dei Paesi dell’UE-Post 1995 (in gran parte a quelli dell’Est), che si posizionano al 72,2%.

Complessivamente la spesa sanitaria italiana è ormai inferiore del 31,3% rispetto a quella dei Paesi dell’Europa occidentale. E, sebbene il gap risulti tendenzialmente stabile rispetto all’anno precedente, la stabilizzazione del gap è solo “apparente”, in quanto dovuta alla massiccia contrazione nominale della spesa sanitaria che si è verificata in due specifiche realtà: la Grecia (per effetto del default) e nel Regno Unito (per effetto della Brexit). Sul fronte della spesa pubblica, il divario tra l’Italia e l’Ue-Ante 1995 ha raggiunto il 36,8%, mentre per quanto riguarda la spesa privata il gap è dell’8,5%.

Famiglie e consumi sanitari

Il 79,0% (circa 20,4 milioni di nuclei) delle famiglie italiane ha speso per consumi sanitari, a fronte del 58,0% del 2013. Alla maggiore frequenza del ricorso a spese private, è associata una riduzione della spesa media effettiva pro-capite (-1,2% rispetto all’anno precedente). Il 17,6% delle famiglie residenti (4,5 milioni) hanno dichiarato di aver cercato di limitare le spese sanitarie per motivi economici (100.000 in più rispetto al 2015), e di queste 1,1 milioni le hanno annullate del tutto

Il disagio economico per le spese sanitarie, combinazione di impoverimento per consumi sanitari e “nuove” rinunce per motivi economici, è sofferto dal 5,5% delle famiglie, ed è più presente al Sud (7,9% delle famiglie).

Aspettativa di vita

L’Italia ha un’aspettativa di vita alla nascita di 85,6 anni per le donne e 81 per gli uomini. Anche la speranza di vita residua a 65 anni (19,4 anni per gli uomini e 22,9 per le donne) è, per entrambi i generi, più alta di un anno rispetto alla media Ue.

Nel nostro Paese si vive di più, ma anche meglio. La speranza di vita in buona salute alla nascita in Italia si attesta a 67,6 anni per gli uomini e 67,2 anni per le donne e quella a 65 anni è pari a 10,4 anni per gli uomini e 10,1 per le donne, contro una media Ue inferiore (pari rispettivamente a 9,8 e 10,1 anni).

Divario Nord-Sud

Resta ampio il divario tra Nord e Sud, con oltre un anno di svantaggio in termini di aspettativa di vita nelle Regioni del Mezzogiorno, che diventano 3 per il dato a 65 anni. Tuttavia, le aspettative di vita nelle Regioni del Sud sono migliori di quanto ci si potrebbe aspettare sulla base del loro livello di sviluppo economico: Grecia e Portogallo, ad esempio, pur con un Pil pro-capite paragonabile a quello del nostro meridione, registrano performance peggiori di tutte le Regioni italiane, Campania esclusa. E quest’ultima, comunque, va molto meglio di tutti i Paesi dell’Ue orientale. Questo è il risultato – spiega il Crea – del meccanismo redistributivo alla base del Ssn, il quale permette alle Regioni più povere di avere risorse comunque sufficienti per la sanità.

Politiche sanitarie e industriali

Il titolo del 14° Rapporto Sanità è “Misunderstandings”. Secondo gli autori, uno dei “malintesi” ricorrenti nel dibattito pubblico sul settore sanitario è il seguente: “Continuare a pensare che la politica sanitaria si esaurisca con la sola ‘gamba’ delle politiche assistenziali, dimenticando quella delle politiche industriali”. Riflessione, questa, che per gli autori riporta alla necessità di approfondire il rapporto tra sostenibilità e sviluppo economico, tra sostenibilità e innovazione.

Il settore farmaceutico è il terreno ideale per questo tipo di riflessione: “Un settore – scrivono Spandonaro e Polistena – attualmente alla ricerca di una nuova governance. Sebbene i problemi siano numerosi, in sostanza il problema si è scatenato a seguito del contenzioso generatosi sui pay-back: il misunderstanding sta nel rischio di pensare che la nuova governance possa basarsi su una banale revisione degli algoritmi di calcolo del pay-back, finalizzata a ridurre i motivi di contesa. Che l’algoritmo si possa semplificare, e anche migliorare, è certo: che la sua revisione possa essere risolutiva è, invece, largamente dubitabile”.

Spesa farmaceutica sostenibile

Secondo gli economisti è necessaria una visione olistica, preceduta da un’analisi approfondita delle ragioni che incentivano il contenzioso: “Il punto di partenza del ragionamento non può essere la dimensione pay-back: nel 2017 la somma da ripianare è pari a 1,3 miliardi di euro, ovvero al 6,9% della spesa farmaceutica effettiva: spesa effettiva perché al netto di sconti e pay-back legati ai Managed Entry Agreements (MEA). I meccanismi richiamati, insieme agli importanti risparmi derivanti dalle genericazioni, hanno sin qui garantito la sostenibilità della spesa farmaceutica. La loro efficacia è indubbia: sebbene i confronti di spesa con gli altri Paesi siano molto difficili, a causa delle diverse poste rilevate, considerando che l’Italia è fra i pochi Paesi che rileva tutta la spesa, si può affermare con ragionevole certezza che la spesa italiana è significativamente inferiore a quella media Ue, e questo in primo luogo grazie ad un prezzo medio delle molecole inferiore”.

Abbattere i silos

Il tema della governance, secondo gli economisti di Tor Vergata, deve essere declinato insieme a quello del tetto di spesa e anche a quello delle politiche industriali: “Il doppio tetto, a cui si aggiungono i due distinti Fondi per i farmaci innovativi, configura un sistema di silos che non ha ragione di essere e comporta elementi significativi di inefficienza. L’abbattimento di questi silos fra farmaceutica e altre forme assistenziali, ma anche la valutazione dell’indotto generato dal settore, dovrebbero quindi essere tra gli obiettivi primari da raggiungere per poter garantire la sostenibilità dell’innovazione”. Sull’agenda della nuova governance dovrebbe esserci anche, secondo gli economisti del Crea, un’attenta riflessione sul ruolo della spesa farmaceutica privata.

Le sfide dell’Hta

L’analisi prosegue con un apprezzamento verso il fiorire in Italia, sebbene in ritardo, di richiami all’Health technology assessment (Hta). E avverte sulla portata delle sfide future:  “I prossimi anni metteranno in profonda crisi i sistemi di valutazione sinora utilizzati: le cosiddette advanced therapies, come già la medicina di precisione, pongono formidabili sfide al sistema di Hta, nella misura in cui la crescente targettizzazione implica uno scenario del tutto nuovo, con farmaci (e in generale tecnologie) per indicazioni così “strette” da essere riferibili a gruppi di pazienti di ‘dimensione’ sempre più assimilabile a quelle che si incontrano nelle malattie rare.  Questo a sua volta – sottolineano Spandonaro e Polistena – implica prezzi anche altissimi per rendere le molecole remunerative. A sua volta, la crescita dei prezzi delle tecnologie implica una sempre maggiore concentrazione delle risorse su pochi soggetti”. Una sfida sul piano della sostenibilità, ma anche dell’etica.

 

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Aifa, aperto un tavolo permanente per i pazienti

L’Aifa intende adesso privilegiare il coinvolgimento attivo di tutti i cittadini e pazienti riservando loro uno spazio esclusivo


Aperto un tavolo permanente per i pazienti in seno all’Aifa secondo le linee guida del Documento in materia di Governance farmaceutica. In sostanza i pazienti entreranno in pianta stabile all’interno dell’Agenzia italiana del farmaco per migliorare la consultazione con le associazioni dei pazienti all’interno di Open Aifa.

Il tavolo permanente

Nell’iniziativa da sempre dedicata agli incontri con tutti gli interlocutori dell’Agenzia, l’Aifa intende adesso privilegiare il coinvolgimento attivo di tutti i cittadini e pazienti riservando loro uno spazio esclusivo. L’Agenzia invita pertanto i pazienti, riuniti in associazione o anche singoli cittadini portatori di tematiche inerenti al farmaco, come accesso, ricerca, sicurezza, a contattarla all’indirizzo openaifa@aifa.gov.it e a consultare la pagina dedicata per prendere visione e sottoscrivere il regolamento di partecipazione.

Il contributo all’attività regolatoria

L’apertura di questo canale di dialogo rappresenta un contributo prezioso per l’attività regolatoria “perché – è scritto sul sito dell’Agenzia – portatore di esperienze reali e competenze che miglioreranno il raggiungimento dell’obiettivo primario che per l’Aifa è la promozione e tutela della salute dei cittadini”. L’agenda e i resoconti saranno resi disponibili sul portale istituzionale dell’Agenzia.

La survey sul patient engagement

Abbiamo preparato una survey il cui obiettivo è stimolare una riflessione e quantificare consapevolezza, aspettative e motivazioni nella relazione tra industria e pazienti.
Ogni contributo è prezioso e può aiutarci a disegnare nuovi percorsi e a scrivere un nuovo capitolo sul settore bio-farmaceutico italiano.
Il questionario richiede soltanto pochi minuti. I dati saranno raccolti in anonimo e utilizzati in maniera aggregata a fini formativi e/o di ricerca sul tema.

Clicca e partecipa alla survey

 

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Spesa globale per i medicinali, entro il 2023 salirà a 1,5 trilioni di dollari

 

 

Secondo il report "2018 Global use of medicines: 10 healthcare predictions for 2019" di Iqvia, il mercato farmaceutico arriverà a circa 1,5 trilioni di dollari entro il 2023 con un tasso di crescita annuo tra il 3% e il 6%. Nel 2018 la spesa si è attestata a 1,2 trilioni


Il traino della crescita

A guidare questa accelerata sono gli Stati Uniti e i mercati cosiddetti emergenti. Rispettivamente crescono del 4-7% e del 5-8%. Per quanto riguarda gli Usa ci sono vari fattori che spingono verso questi risultati. Innanzi tutto il prezzo dei farmaci di marca, le cui fette di mercato sono minacciate dalla scadenza brevettuale. In Europa la crescita è più lenta (1-4%) contro il 4,7% dei precedenti cinque anni. Nel 2018 in Giappone la spesa è stata di 86 miliardi, mentre in Cina di 137 miliardi. Mentre Tokyo potrebbe perdere terreno, Pechino potrebbe salire a 140-170 miliardi entro il 2023 con una crescita del 3-6% annua.

Nuovi farmaci

Iqvia prevede che nei prossimi cinque anni potrebbero arrivare circa 54 nuove sostanze all’anno sul mercato, tenendo conto, comunque, della crescita dei generici e dei biosimilari. Addirittura la crescita nei mercati più robusti potrebbe aggirarsi intorno al 50% entro il 2023. Certo l’impatto della scadenza brevettuale si farà sentire. Circa 120 miliardi tra il ’19 e il ’23, con l’80% di questa somma concentrato negli Usa. Inoltre il mercato dei biosimilari potrebbe triplicare.

 

 

 

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Bugiardino digitale, Ema apre una consultazione pubblica

Sotto esame la bozza dei principi fondamentali che costituiranno la base per l’elaborazione e l’uso nella Ue delle “ePI”, le informazioni sui medicinali in formato elettronico, che includono il foglietto illustrativo per il paziente e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari


Una consultazione pubblica sulla bozza di regole per un bugiardino elettronico armonizzato in tutta Europa. A lanciarla è l’Agenzia europea dei medicinali (Ema), spiegando che gli stakeholder potranno inviare i loro commenti entro il 31 luglio 2019.

Il documento sottoposto a consultazione contiene i principi fondamentali che costituiranno la base per l’elaborazione e l’uso nella Ue delle “ePI”, le informazioni sui medicinali in formato digitale, che includono il foglietto illustrativo per il paziente e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari. La bozza è il frutto del lavoro fatto nel 2018 da Commissione europea, Ema e la rete dei direttori delle agenzie del farmaco nazionali (Hma). Queste istituzioni hanno condotto un dialogo con pazienti, operatori sanitari, esperti in affari regolatori dell’industria farmaceutica. Ne sono derivati alcuni “principi fondamentali” per un approccio armonizzato in tutta la Ue.

Il bugiardino digitale

Le informazioni sul prodotto di un medicinale nell’Ue – ricorda l’Ema in una nota –  comprendono il foglio illustrativo per i pazienti e il riassunto delle caratteristiche del prodotto per gli operatori sanitari. Questi documenti accompagnano ogni singolo medicinale autorizzato nell’U e spiegano come dovrebbe essere usato e prescritto. Il foglio illustrativo è attualmente fornito nella scatola del farmaco e può anche essere trovato, principalmente come documento pdf, sui siti web dei regolatori. Tuttavia – sottolinea l’agenzia europea del farmaco –  le piattaforme digitali aprono ulteriori possibilità di divulgare le informazioni sul prodotto elettronicamente. I principi chiave descrivono i benefici attesi dal bugiardino elettronico, inteso come complementare (e certo non sostitutivo) alla versione cartacea e le modalità in cui questa innovazione può inserirsi nel quadro legislativo esistente.

Un’altra tappa per l’e-Health

“L’elaborazione di informazioni elettroniche sul prodotto per i medicinali – commenta Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare – è un passo importante nella digitalizzazione della sanità e dell’assistenza e sono convinto che le ePI possano apportare benefici pratici e tangibili sia ai cittadini che agli operatori sanitari. Attendo con interesse i risultati della consultazione, perché è fondamentale che le ePI soddisfino le aspettative delle parti interessate e dei cittadini in tutta l’Ue”. Dopo la consultazione, sarà concordata la versione definitiva del documento.

 

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Payback, soddisfazione da Giulia Grillo. “Ora assunzioni nel Ssn”

Il ministro della Salute commenta il Dl Semplificazioni da poco approvato in via definitiva alla Camera e si sofferma su due punti: ripiano dei tetti di spesa e nuova occupazione nella sanità


C’è soddisfazione da parte del ministro della Salute Giulia Grillo sulla questione payback. Adesso Lungotevere Ripa vuole guardare avanti e punta ad assunzioni nel Ssn. “Posso tirare un sospiro di sollievo. La norma sul payback farmaceutico nel decreto Semplificazioni, approvato in via definitiva alla Camera, è una svolta storica. Abbiamo creato i presupposti per recuperare 2,4 miliardi che andranno alle Regioni e cioè ai cittadini. Ma non mi fermo, la battaglia sul personale è il prossimo obiettivo” dichiara il ministro.

Risolto il contenzioso con le aziende

“Abbiamo finalmente risolto un braccio di ferro tra imprese del farmaco e Regioni che durava da sei anni”, prosegue Grillo. “L’accordo sul payback per gli anni 2013-17 impegna le industrie a erogare 2,4 miliardi allo Stato per ripianare lo sforamento della spesa farmaceutica. Questo significa un importante flusso di risorse che giungerà alle Regioni dopo anni di stallo causato da ricorsi ai tribunali. L’accordo permette a tutti noi di guardare avanti con più serenità al futuro del nostro Servizio sanitario nazionale e garantisce anche ai produttori una migliore programmazione. Rivendico il merito di aver fatto sedere al tavolo le parti che fino a quel momento non erano riuscite a trovare un accordo” chiarisce.

Assunzioni nel Ssn

Dopo il payback, Grillo si concentra su un’altra questione spinosa, ossia lo sblocco delle assunzioni del comparto pubblico. “Questo Dl certamente non poteva contenere tutte le norme che il Movimento e io come ministro avremmo voluto. Ma m’impegno a portare avanti le nostre grandi battaglie per la sanità pubblica. La prossima sfida da vincere è il superamento del tetto dell’1,4% per il personale per lo sblocco delle assunzioni in sanità, anche a costo di un confronto serrato con una parte della Ragioneria dello Stato, che pure fa il suo lavoro, ma credo che sia totalmente anacronistica. Non ci si può più abbarbicare a regole che sono state giuste in un tempo completamente diverso. Bisogna guardare la realtà. Il Ssn ha bisogno di nuove assunzioni” puntualizza il ministro.

La professione medica

Altro elemento su cui si sofferma il ministro riguarda la professione medica.“Rivendico anche l’importanza di un’altra norma inserita nel decreto che darà ossigeno alla medicina generale” spiega, “per far fronte al grave problema della carenza di medici di famiglia, diamo la possibilità, anche a chi non avrà ancora completato il corso di formazione, di poter ricevere l’incarico fino al 31 dicembre 2021. Questo permetterà di ampliare l’offerta dei medici di famiglia e garantirà linfa nuova al sistema. Ed è solo uno degli step che riguardano il post laurea dei medici che intendo riformare profondamente per garantire un futuro alla sanità del nostro Paese”, conclude Giulia Grillo.
Nel decreto Semplificazioni è infine prevista una norma che estende la validità delle graduatorie per le procedure concorsuali per l’assunzione di personale medico, tecnico-professionale e infermieristico, bandite dalle aziende e dagli enti del Servizio sanitario nazionale fino al 31 dicembre 2019.

 

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Plasma per farmaci salvavita: in Italia aumentano le donazioni

Nel 2018, secondo il Centro nazionale sangue, sono stati raccolti 840 mila chilogrammi, 4 mila in più rispetto all’anno precedente. Si avvicina l’obiettivo dell’autosufficienza dal mercato nordamericano. Le associazioni: “Ancora un piccolo sforzo”


Nel 2018 è cresciuta in Italia la raccolta di plasma, fondamentale per la produzioni di farmaci salvavita. Sono stati raccolti 840 mila chilogrammi, circa 4 mila in più rispetto al 2017. Un dato in linea con gli obiettivi del Programma nazionale plasma, che prevede il raggiungimento dell’autosufficienza dal mercato nordamericano entro il 2010. A darne notizia è una nota del Centro nazionale sangue (Cns) dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

La raccolta di plasma nelle Regioni

Quasi tutte le Regioni nel 2018 hanno rispettato gli obiettivi del Programma nazionale plasma, con Marche e Sicilia che hanno superato la soglia prevista. Soltanto il Molise ha raccolto meno dell’80% di quanto programmato. Le Regioni in cui si dona più plasma sono le Marche, il Friuli Venezia Giulia e la Val D’Aosta, che sfiorano o superano i 20 chilogrammi ogni mille abitanti. Più distanti dagli obiettivi, invece la Campania, la Calabria e il Lazio, con le ultime due che però hanno aumentato la raccolta in linea con le richieste.

Il traguardo dell’autosufficienza

“I risultati ottenuti dal sistema italiano, che a differenza di quelli di paesi come Usa e Germania anche per il plasma si basa sulla donazione totalmente volontaria e non remunerata, sono notevoli, e ci permettono di garantire più del 70% del fabbisogno per tutti i plasmaderivati necessari ai pazienti italiani”, commenta Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns. Ma c’è ancora da fare: “Per arrivare agli obiettivi del Piano – spiega Liumbruno – dovremmo aumentare la raccolta di circa 20mila chilogrammi entro il 2020, uno sforzo che è alla portata del sistema sangue italiano. Basti pensare che i nostri risultati sono ottenuti con 2,1 donazioni di plasma in media l’anno per ogni donatore che effettua questo tipo di donazioni, una cifra largamente inferiore a quella di altri paesi. Per raggiungere i 20 mila chilogrammi in più basterebbe che ogni in centro di raccolta si facessero tre donazioni di plasma in più ogni settimana”. Il Cns, il Civis (coordinamento delle associazioni dei donatori) e l’Associazione Italiana immunodeficienze primitive (Aip onlus), per i cui pazienti i farmaci plasmaderivati sono salvavita, chiedono quindi “un piccolo sforzo” da parte di tutti.

 

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Consiglio superiore di sanità: Franco Locatelli è il nuovo presidente

Il direttore del Dipartimento di Oncoematologia e terapia cellulare e genica dell’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma nominato durante la seduta di insediamento del nuovo Css. Paolo Vineis e Paola Di Giulio i vicepresidenti


Franco Locatelli è il nuovo presidente del Consiglio superiore di sanità (Css). Bergamasco, classe 1960, lavora dal 2010 all’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, dove attualmente dirige il Dipartimento di Oncoematologia e terapia cellulare e genica. La nomina è arrivata oggi durante la seduta di insediamento dei nuovi membri dell’organismo consultivo del ministero della Salute. Nel dicembre scorso Locatelli era a capo dell’équipe che gestito il caso di Alex, il piccolo paziente affetto linfoistiocitosi emofagocitica (HLH), trasferito dall’Ospedale Great Ormond Street di Londra al Bambino Gesù per un trapianto di cellule staminali emopoietiche.

Il nuovo Css

Locatelli prende il posto che è stato di Roberta Siliquini, alla guida del Css prima dell’azzeramento – seguito da accese polemiche – voluto a dicembre scorso dal ministro della Salute, Giulia Grillo. Nelle scorse settimane il ministro ha firmato il decreto per la nomina dei 30 nuovi membri del Consiglio superiore di sanità (Css). Oggi, con un tweet, Grillo ha augurato a Locatelli e a tutto il Css buon lavoro: “È l’inizio di una felice collaborazione di cui il Paese ha bisogno”, ha scritto il ministro.

Nella seduta odierna sono stati nominati anche i vicepresidenti: Paolo Vineis e Paola Di Giulio. Vineis, nato ad Alba nel 1951, è professore ordinario di epidemiologia all’Imperial College London. Di Giulio, nata a Brindisi nel 1955, è professore associato di Scienze infermieristiche a Torino.

“Siamo particolarmente onorati di poter offrire il contributo del nostro Ospedale ad un’Istituzione così importante come il Consiglio superiore di sanità. La nomina del prof. Franco Locatelli come presidente e quella del prof. Bruno Dallapiccola come presidente di sezione, rappresentano per noi il riconoscimento del grande lavoro svolto in questi anni nel campo della ricerca e della medicina pediatrica” è il commento di Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Locatelli: “Lavoriamo nell’interesse del Paese”

In serata, una nota del ministero della Salute riporta il primo commento di Locatelli:  “Sono straordinariamente onorato della fiducia riposta nella mia persona dal ministro della Salute e da tutti i colleghi del Consiglio Superiore di Sanità, metterò al servizio di questa fondamentale istituzione tutte le mie capacità e la mia più incondizionata disponibilità a lavorare nel miglior interesse del Paese. Sono certo che, con il contributo determinante di tutte le componenti del Consiglio Superiore di Sanità, vi sarà modo di svolgere un servizio utile per rispondere nel modo più compiuto alle sempre più complesse sfide, anche biotecnologiche, che pertengono all’ambito sanitario e che connotano i tempi attuali e quelli prossimi venturi”.

Come funziona

Il ministro della Salute si rivolge al Consiglio, oltre che nei casi espressamente stabiliti dalla legge, in tutti gli altri in cui vi sia da definire questioni di valenza tecnico scientifica prima dell’adozione di atti legislativi, regolamentari o amministrativi. Inoltre, il Consiglio ha una funzione propositiva relativamente a tematiche emergenti e di attualità per il sistema sanitario.

Alla riunione di insediamento sono stati eletti anche i presidenti delle diverse sezioni in cui si articola il Css:

Sezione I

Presidente: Prof. Bruno Dalla Piccola, Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù

Vicepresidente: Prof. Giovanni Scambia, Direttore Scientifico della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli

Sezione II

Presidente: Prof. Paolo Pederzoli, professore Ordinario di Chirurgia Generale – Università degli Studi di Verona

Vicepresidente: Prof. Luca Benci, professore di Diritto Sanitario – Università di Firenze

Sezione III

Presidente: Prof. Massimo Rugge, Ordinario di Anatomia Patologica ed Oncologia – Università degli studi di Padova

Vicepresidente: Prof. Carlo Foresta, Ordinario di Endocrinologia – Università di Padova

Sezione IV

Presidente: Prof. Vito Martella, Ordinario di Malattie Infettive degli animali domestici – Università di Bari

Vicepresidente: Prof. Mario Alberto Battaglia, Professore Ordinario di Igiene e Sanità Pubblica – Università di Siena

Sezione V

Presidente: Prof. Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’IRCCS “Mario Negri” di Milano

Vicepresidente: Prof. Mario Barbagallo Professore Ordinario di Geriatria – Università di Palermo.

Nel complesso, il Css è composto da trenta membri di nomina, in carica per tre anni, individuati in base alle loro competenze nelle discipline in cui si articola la sanità pubblica italiana e ventotto membri di diritto.

 

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Malattie rare: i pazienti chiedono una vera integrazione tra assistenza sanitaria e sociale

In occasione della Giornata mondiale focus sulle difficoltà di conciliare vita quotidiana, cure e occupazione. Una ricerca Omar-Datanalysis fotografa, invece, i "falsi miti". Il ministro Grillo: "Rinnovato il tavolo per il piano nazionale"


La qualità di vita dei malati rari (e dei loro caregiver) si tutela con un vera integrazione tra assistenza sanitaria e sociale. È la conclusione a cui arriva un’indagine su oltre 3 mila pazienti e caregiver realizzata da Eurordis in 48 Paesi europei e presentata oggi a Roma dalla Federazione italiana malattie rare (Firm Uniamo onlus) in occasione della dodicesima Giornata mondiale delle malattie rare. Il titolo della ricerca è emblematico: “Juggling care and daily life”. Rimanda ai “salti mortali” che pazienti e caregiver devono compiere ogni giorno per affrontare le conseguenze di una malattia rara. Alcuni numeri rendono bene l’idea: 7 intervistati su 10 sono “costretti” a limitare o sospendere il proprio lavoro; l’80% segnala difficoltà nel gestire semplici attività come faccende domestiche, preparazione dei pasti e shopping; due terzi dei caregiver dedicano più di due ore al giorno ad attività legate alla malattia delle persone che assistono. Inevitabile l’impatto sull’umore: pazienti e familiari dicono di essere “infelici o depressi” tre volte in più rispetto al resto della popolazione. Una condizione aggravato dal rischio isolamento sociale e stigmatizzazione.

Una sfida impegnativa

“La maggior parte delle persone con malattia rara e i loro caregiver – commenta Tommasina Iorno, presidente di Fimr Uniamo – devono coordinare una serie di attività fondamentali per la gestione della malattia come procurarsi i medicinali, provvedere alla loro somministrazione a domicilio e fuori casa; organizzare le terapie riabilitative e le visite mediche; gestire gli esami specialistici per ottenere la diagnosi corretta, ottenere l’esenzione e il riconoscimento dell’invalidità e dei diritti necessari per accedere ai diversi servizi di supporto sociale, di comunità e di ‘sollievo’ per la famiglia, senza trascurare la gestione dell’inclusione scolastica e lavorativa”. Una sfida assai impegnativa.  La senatrice Paola Binetti, presidente dell’Intergruppo parlamentare sulle malattie rare,  auspica un lavoro proficuo tra Camera e Senato per valutare una normativa ben strutturata in grado di rispondere ai bisogni sanitari e sociali dei pazienti, ma anche alle esigenze dei caregiver”.

Lacune italiane

In Italia la Federazione italiana malattie rare invita a una riflessione su alcuni punti deboli della gestione delle malattie rare. Ad esempio:

  • la corretta identificazione di centri di competenza per la presa in carico per gestire il follow-up dei pazienti, centri che devono avere caratteristiche ben precise e devono assicurare la multidisciplinarietà, in particolare una coorte di specialisti adeguati e la cosiddetta transitional care, cioè il passaggio dall’età pediatrica all’età dell’adulto con un setting di cure appropriato;
  • la mancanza di un seguito al Piano Nazionale Malattie Rare 2013-2016, scaduto due anni fa;
  • L’assenza di registri adeguati e corrispondenti alle nuove frontiere di ricerca;
  • Il supporto alle Reti europee per le malattie rare per la loro concreta integrazione nel nostro Ssn.

L’attesa per la diagnosi

Una delle altre criticità emerse dall’indagine riguarda la diagnosi della malattie rare.  Riconoscerle spesso si rivela un compito arduo per i medici e i pazienti dichiarano di dover attendere dai 5 ai 7 anni prima di ottenere una diagnosi appropriata, sottoponendosi fino a 8 visite mediche diverse. Nel 40% dei casi, sottolinea Fimr Uniamo, la diagnosi si rivela scorretta.

Il bisogno di informazione

L’indagine rileva anche un livello scarso comunicazione e informazione. Il 67% del campione lamenta di aver ricevuto in maniera non corretta le informazioni relative alla propria condizione, il 33% addirittura in maniera “estremamente sbagliata”. Più del 70% non si reputa informato a dovere sui propri diritti connessi alle conseguenze della patologia, al possibile aiuto finanziario e agli importanti servizi sanitari a cui potrebbe accedere. Il 75% degli intervistati definisce come “time-consuming”  alcune attività, come la ricerca di informazioni sulla patologia e dei medici ‘giusti’, lo spostamento per raggiungere i Centri di riferimento e fissare un appuntamento. Ben il 64% dichiara di riscontrare difficoltà nell’organizzazione.

Falsi miti (anche sui farmaci)

Alla “piaga” delle fake news nel campo della salute è dedicata un’altra indagine, realizzata da Osservatorio Malattie Rare in collaborazione con Datannalysis. I risultati, diffusi oggi, raccontano come gli italiani non abbiano le idee chiare sulle malattie rare. Più della metà pensa che colpiscano una persona su 100, mentre la soglia fissata per la definizione di rarità è una ogni 2000. Quasi tutti ritengono che le malattie rare siano di origine genetica, poco più della metà del campione però ritiene anche che possano essere sessualmente trasmissibili. C’è confusione anche sulle terapie: due terzi dei cittadini contattati pensa che i farmaci per le malattie rare siano solo sperimentali. Ma in Europa, solo nel 2018, ne sono stati approvati 21.

La giornata mondiale

A livello mondiale, la Giornata delle malattie rare si celebra in oltre 94 Paesi. In Italia, coordinata da Uniamo in qualità di “alleanza nazionale” di Eurordis, con un ricco programma di eventi in diverse città italiane. Una mobilitazione a cui si sommano numerose iniziative promosse da associazioni, istituzioni, strutture d’eccellenza e, più in generale, dalle varie animale del sistema salute.  Alla Camera è stato presentato ieri il libro “Malattie rare, i nostri figli raccontano” del giornalista Claudio Barnini:  “È sempre complicato – spiega l’autore – poter parlare di malattie riferite ai minori, delle difficoltà nella cura, del loro percorso di vita interrotto da lunghe degenze, con conseguenze psicologiche sia per loro sia per i famigliari e costi sociali considerevoli. I genitori spesso lasciano il lavoro per poter garantire ai figli l’accudimento e l’attenzione di cui necessitano”. Secondo Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità, per affrontare le criticità sanitarie e sociali in questo campo occorre “collaborazione ra i diversi soggetti interessati, che sono pazienti, ricercatori, clinici e istituzioni. Si tratta di saper lavorare in sinergia, al fine di condividere storie di vita e buone pratiche che hanno portato nel tempo a sviluppare reti”.

La politica

Si fa sentire anche la politica. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, partecipando a Roma a un convegno sulle malattie rare, spiega: “Abbiamo recentemente rinnovato il tavolo per redigere il nuovo piano nazionale per le malattie rare, che era fermo da un paio di anni. In particolare puntiamo molto sul lavoro del professor Bruno Dallapiccola, che è stato nominato anche nel Consiglio Superiore di Sanità ed è un nostro referente in generale per diverse di queste tematiche. Il lavoro è tanto – sottolinea il ministro – e spero che il risultato sia proficuo e più veloce possibile”. Il ministro ha anche annunciato alcuni “numeri” del bando per la ricerca sanitaria 2019, i cui vincitori sono stati pubblicati oggi: 18 progetti sui 235 finanziati (pari al 7,65%) sono per malattie rare, per un totale finanziato di circa 6,1 milioni di euro, sui 93 milioni assegnati”.

L’industria

Una mano tesa ai pazienti è quella della ricerca farmaceutica. “Far tornare il sorriso ai tanti bambini affetti da malattie rare. E alle loro famiglie. Con soluzioni terapeutiche che ancora non ci sono o migliorando quelle già esistenti. Il paziente deve sentire la vicinanza delle imprese del farmaco e di tutti i ricercatori. E i risultati non mancano”, commenta Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria.

“Negli Usa – ricorda Scaccabarozzi –  quasi il 60% dei farmaci approvati nel 2018 sono per malattie rare: 34 su 59 di cui molti first-in-class, cioè capostipiti di nuove terapie. In Europa sono state oltre 2.100 le designazioni di farmaci orfani dal 2000 a oggi. E in Italia è aumentato negli ultimi anni dal 10% al 25,5% il peso degli studi clinici – nel complesso oltre 140 – sulle malattie rare”. Ma non ci si può accontentare: “Si può fare di più. Tutti insieme e con una crescente collaborazione pubblico-privato per potenziare il lavoro di squadra e per migliorare la qualità di vita di tanti pazienti in attesa di una risposta alla loro malattia. E per dare un nome – conclude il presidente di Farmindustria – a quelle patologie che spesso sono ancora degli ‘X-file’”.

 

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Antibiotici, stretta sull’uso di fluorochinoloni e chinoloni

Destinato soprattutto a chi usa questi farmaci . 

La Redazione del Sito

 

Antibiotici, stretta sull’uso di fluorochinoloni e chinoloni

Dopo che l’Ema ha riesaminato il rischio di reazioni avverse, una nota dell’Aifa segnala ai medici restrizioni e casi da valutare con prudenza.  Farmaci a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico saranno ritirati dal commercio

antibiotici

Arrivano restrizioni all’uso di antibiotici chinolonici e fluorochinolonici. Le annuncia una nota informativa dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), a seguito di una revisione dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema) su potenziali reazioni avverse legate all’uso di questi farmaci. La nota, condivisa con le aziende titolari dell’Aic, riporta una serie di comunicazioni importanti relativi alla sicurezza di farmaci contenenti fluorochinoloni (ciprofloxacina – levofloxacina – moxifloxacina – pefloxacina – prulifloxacina – rufloxacina – norfloxacina – lomefloxacina)  e chinoloni. Per i prodotti a base di cinoxacina, flumechina, acido nalidixico e acido pipemidico è previsto il ritiro dal mercato.

Indicazioni per i medici

“Sono state segnalate – spiega Aifa – con gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici reazioni avverse  invalidanti, di lunga durata e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso.Di conseguenza, sono stati rivalutati i benefici ed i rischi di tutti gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici e le loro indicazioni nei paesi dell’Ue”. Da qui la raccomandazione ai medici affinché non prescrivano questi medicinali:

  • per il trattamento di infezioni non gravi o autolimitanti (quali faringite, tonsillite e bronchite acuta);
  • per la prevenzione della diarrea del viaggiatore o delle infezioni ricorrenti delle vie urinarie inferiori;
  • per infezioni non batteriche, per esempio la prostatite non batterica (cronica);
  • per le infezioni da lievi a moderate (incluse la cistite non complicata, l’esacerbazione acuta della bronchite cronica e della broncopneumopatia cronica ostruttiva – BPCO, la rinosinusite batterica acuta e l’otite media acuta), a meno che altri antibiotici comunemente raccomandati per queste infezioni siano ritenuti inappropriati;
  • ai pazienti che in passato abbiano manifestato reazioni avverse gravi ad un antibiotico chinolonico o fluorochinolonico.

Se la prescrizione non rientra in questi casi, l’Aifa raccomanda comunque particolare prudenza verso anziani, pazienti con compromissione renale, pazienti sottoposti a trapianto d’organo solido ed a quelli trattati contemporaneamente con corticosteroidi. Da evitare l’uso concomitante di corticosteroidi con fluorochinoloni.

Le reazioni avverse

L’Ema ha riesaminato gli antibiotici chinolonici e fluorochinolonici per uso sistemico ed inalatorio per valutare il rischio di reazioni avverse gravi e persistenti invalidanti e potenzialmente permanenti, principalmente a carico del sistema muscoloscheletrico e del sistema nervoso. Le reazioni avverse gravi a carico del sistema muscoloscheletrico includono tendinite, rottura del tendine, mialgia, debolezza muscolare, artralgia, gonfiore articolare e disturbi della deambulazione.

Gli effetti gravi a carico del sistema nervoso periferico e centrale includono neuropatia periferica, insonnia, depressione, affaticamento e disturbi della memoria, oltre che compromissione della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. Tuttavia, ricorda Aifa, sono stati segnalati soltanto pochi casi di queste reazioni avverse invalidanti e potenzialmente permanenti, ma è verosimile una sotto-segnalazione. Di conseguenza, la decisione di prescrivere chinoloni e fluorochinoloni dev’essere presa dopo un’attenta valutazione dei benefici e dei rischi in ogni singolo caso.

 

 

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Dupilumab, via libera dalla Commissione europea per il trattamento dell’asma grave

L'Europa ha approvato il farmaco per l'uso negli adulti e negli adolescenti dai 12 anni in su come trattamento di mantenimento aggiuntivo per la patologia respiratoria con infiammazione di tipo 2


La Commissione europea ha approvato dupilumab per l’uso negli adulti e negli adolescenti dai 12 anni in su come trattamento di mantenimento aggiuntivo per l’asma grave con infiammazione di tipo 2.

Dupilumab in Ue

“Questa approvazione segna un momento importante per adolescenti e adulti nell’Unione europea che soffrono di asma grave con infiammazione di tipo 2”, ha dichiarato John Reed, responsabile della ricerca e dello sviluppo di Sanofi. “Negli studi clinici, dupilumab non solo ha ridotto le riacutizzazioni e l’uso di corticosteroidi orali, ma ha anche migliorato la funzionalità polmonare e la qualità della vita complessiva dei pazienti. Dupilumab offre una nuova opzione di trattamento per coloro che rimangono inadeguatamente controllati con i farmaci attuali, compresi quelli che dipendono dalla somministrazione orale corticosteroidi – che possono avere effetti collaterali potenzialmente gravi se usati cronicamente”.

Le persone affette da asma grave non adeguatamente controllata sulla terapia in corso continuano ad avere problemi di respirazione. “Tutto ciò può comportare imprevisti in grado di ridurre in maniera significativa la qualità della vita”, ha dichiarato Tonya Winders, Presidente di Global allergy and asthma patient latform (Gaapp).”Gaapp fornisce nuovi trattamenti progettati per aiutare i pazienti affetti da asma grave a prendere il controllo dei loro sintomi e andare avanti con le loro vite quotidiane”.

I risultati degli studi

Nello studio di Fase 2b, entro la settimana 12, il farmaco ha migliorato il Fev1 fino al 26% (rispetto al 10% del placebo) nei pazienti con eosinofili nel sangue superiore o uguale a 300 cellule / microlitro. Entro la 24esima settimana più della metà dei pazienti trattati con dupilumab ha eliminato completamente i corticosteroidi orali e l’uso complessivo è diminuito del 70% (rispetto al 42% per il placebo). Negli studi clinici sull’asma, la reazione avversa più comune è stata l’eritema nel sito di iniezione. La reazione anafilattica è stata riportata raramente nel programma di sviluppo dell’asma.

 

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Vendita della cannabis light a rischio, bocciatura del Consiglio superiore di sanità

Vendita della cannabis light a rischio, bocciatura del Consiglio superiore di sanità

L’organo consultivo raccomanda “che siano attivate, nell'interesse della salute individuale e pubblica e in applicazione del principio di precauzione, misure atte a non consentire la libera vendita dei suddetti prodotti”

È già guerra contro la vendita di cannabis light in commercio da qualche mese in Italia. Proprio in un momento di boom del settore che ha portato all’apertura di diversi esercizi commerciali dedicati. Contro la cannabis leggera si è espresso il Consiglio superiore di sanità (Css) in un parere richiesto a febbraio dal segretariato generale del ministero della Salute. L’organo consultivo raccomanda – in un documento in possesso dell’Adnkronos Salute – “che siano attivate, nell’interesse della salute individuale e pubblica e in applicazione del principio di precauzione, misure atte a non consentire la libera vendita dei suddetti prodotti”.

Una pericolosità non può essere esclusa

I dubbi posti al Css riguardano quesiti sulla sicurezza del prodotto. In particolare è stato chiesto all’organo un parere sulla pericolosità per la salute umana. Punto su cui il Consiglio ha replicato che “la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggera’, non può essere esclusa”. Prima di tutto perché la biodisponibilità di Thc anche a basse concentrazioni consentite dalla legge (0,2%-0,6%) non è trascurabile sulla base dei dati di letteratura, come spiega ancora il Css.

Un potenziale accumulo pericoloso

“Per le caratteristiche farmacocinetiche e chimico-fisiche – continua la motivazione – il Thc e altri principi attivi inalati o assunti con le infiorescenze di cannabis sativa possono penetrare e accumularsi in alcuni tessuti. Tra cui cervello e grasso, ben oltre le concentrazioni plasmatiche misurabili. Tale consumo avviene al di fuori di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta. Di conseguenza anche gli effetti psicotropi che potrebbero essere prodotti, sia a breve che a lungo termine, non sono valutabili”.

Un rischio non adeguatamente valutato

Secondo il Css inoltre il rischio relativo al consumo di tali prodotti non è stato adeguatamente valutato. Soprattutto in considerazione di specifiche condizioni: come età, patologie concomitanti, stati di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione ecc. Tutte situazioni particolari in cui l’assunzione del prodotto percepita come “sicura” e “priva di effetti collaterali” potrebbe portare a danni per se stessi o per altri (feto, neonato, guida in stato di alterazione) sempre secondo quanto ha specificato il Css.

Una vendita della cannabis light è possibile?

Al Consiglio è stato poi chiesto se tali prodotti potessero essere messi in commercio ed eventualmente a quali condizioni. In risposta è stato riferito che “tra le finalità della coltivazione della canapa industriale (previste dalla legge 242/2016) non è inclusa la produzione delle infiorescenze. Né la libera vendita al pubblico. Pertanto la vendita dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, qualunque ne sia il contenuto di Thc, pone certamente motivo di preoccupazione. Visto il parere espresso sulla sua pericolosità”.

Non resta che attendere

Il ministero della Salute avrebbe anche richiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, proprio alla luce delle considerazioni espresse dal Css. Parere però che non sarebbe ancora arrivato.

 

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Camera e Senato, ecco le commissioni che si occuperanno di sanità

Camera e Senato, ecco le commissioni che si occuperanno di sanità

A Montecitorio, Marialucia Lorefice (M5S), parlamentare alla seconda legislatura, guida la commissione Affari Sociali. A Palazzo Madama la commissione Igiene e Sanità affidata a Pierpaolo Sileri (M5S), chirurgo e ricercatore


Entra nel vivo la XVIII legislatura. Camera e Senato hanno formato le commissioni, comprese quelle che si occuperanno di sanità, entrambe a guida pentastellata. A Montecitorio, Marialucia Lorefice (M5S) è stata eletta presidente della commissione Affari Sociali. A Palazzo Madama, Pierpaolo Sileri (M5S), chirurgo e ricercatore, è stato eletto presidente della commissione Igiene e Sanità.

La commissione Affari Sociali

Marialucia Lorefice è nata a Ispica, in provincia di Ragusa, ed è attivista del Movimento Cinque Stelle dal 2012. È stata eletta per la prima volta a Montecitorio nel 2013 e durante la XVII legislatura ha già fatto parte della Commissione Affari Sociali, occupandosi – riporta l’Ansa – in particolare di indennizzi per sangue infetto, ma anche cyberbullismo. Tra i disegni di legge che l’hanno vista prima firmataria, uno prevedeva in particolare l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero.

Sono stati eletti vicepresidenti Rossana Boldi (Lega) e Michela Rostan (Liberi e Uguali). Sul sito della Camera è disponibile l’elenco di tutti i componenti della Commissione Affari Sociali.

La commissione Igiene e Sanità

 

Pierpaolo Sileri, nato a Roma, è chirurgo, ricercatore e docente di chirurgia generale all’Università di Tor Vergata. Ha completato gli studi presso le università di Oxford e Illinois, ed è stato eletto per la prima volta in Parlamento alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Alla prima esperienza politica, ma per anni in campo nella sanità, Sileri – riporta l’Ansa – ha legato il suo nome alle denunce contro la scarsa trasparenza di alcuni concorsi universitari.

Sono stati eletti vicepresidenti Maria Cristina Cantù (Lega) e Vasco Errani (Liberi e Uguali). Sul sito del Senato è disponibile l’elenco di tutti gli altri componenti della Commissione Igiene e Sanità.

 

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Liste d’attesa, trasparenza sui tempi solo in cinque Regioni

Liste d’attesa, trasparenza sui tempi solo in cinque Regioni

A dirlo è uno studio della Fondazione Gimbe, analizzando i risultati preliminari di un monitoraggio indipendente sulla rendicontazione pubblica dei tempi di attesa. Promosse Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Valle d’Aosta e P.A. di Bolzano


La maggior parte delle Regioni italiane bocciate in materia di trasparenza sulle liste d’attesa. A dirlo sono i primi risultati di un monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe sulla rendicontazione pubblica dei tempi di attesa. Un’analisi che premia cinque Regioni: Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Valle d’Aosta e P.A. di Bolzano. E assegna una maglia nera a Campania, Molise e Toscana.

L’iniziativa del ministro e lo studio Gimbe

Lo scorso 14 giugno, in vista della predisposizione del nuovo Piano nazionale di governo delle liste d’attesa (Pngla), il ministro della Salute Giulia Grillo ha inviato a Regioni e Province autonome una circolare finalizzata a raccogliere informazioni capillari sulle modalità di gestione delle liste di attesa e dell’attività libero-professionale intramuraria. “Considerato l’interesse del nuovo esecutivo per la spinosa questione dei tempi di attesa – spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GImbe – abbiamo deciso di rendere noti i risultati preliminari del monitoraggio indipendente sugli adempimenti di Regioni e Province autonome”. Informazioni che, secondo quanto previsto dal cosiddetto “decreto trasparenza” (Dlgs 14 marzo 2013, n. 33), dovrebbero essere rese pubblicamente disponibili a tutti i cittadini.

In questa prima fase dello studio, spiega la Fondazione, la ricerca dei documenti è stata effettuata sia tramite la consultazione diretta dei siti web istituzionali di Regioni e Province autonome sia tramite ricerche Google utilizzando varie parole chiave: “liste di attesa”, “liste d’attesa”, “tempi di attesa”, “tempi d’attesa”.

Tutte le Regioni e Province autonome rendono disponibili sia le delibere di recepimento del Pngla 2010-2012 sia i Piani Regionali per il governo delle liste di attesa. Dopo la pubblicazione della prima versione, tali piani sono stati variamente aggiornati o integrati dal 2010 al 2018. Dai siti istituzionali emerge un quadro molto eterogeneo, riassunto così dalla Fondazione Gimbe:

  • Campania, Molise e Toscana non rendono disponibile alcun report.
  • Calabria, Lombardia e Umbria rimandano ai siti web delle aziende sanitarie, senza effettuare alcuna aggregazione dei dati a livello regionale.
  • 9 Regioni e una Provincia autonoma rendono disponibile solo l’archivio storico sui tempi di attesa con range temporali e frequenza degli aggiornamenti molto variabili: Provincia autonoma di Trento dal 2013 al 2017, Abruzzo dal 2013 al 2014, Friuli-Venezia Giulia dal 2009 al 2014, Liguria dal 2017 a marzo 2018, Marche da settembre 2014 a maggio 2018, Piemonte dal 2009 al 2017, Puglia da aprile 2012 a ottobre 2017, Sardegna da ottobre 2014 ad aprile 2018, Sicilia solo ottobre 2013, Veneto da gennaio 2017 ad aprile 2018.

Solo 5 Regioni offrono sistemi avanzati di rendicontazione pubblica sui tempi di attesa:

  • La Provincia autonoma di Bolzano riporta per 58 prestazioni i tempi di attesa nelle aziende sanitarie riferiti ad un preciso giorno di riferimento del mese precedente (30 maggio 2018).
  • La Valle d’Aosta riporta i tempi di attesa nelle aziende sanitarie per oltre 100 prestazioni riferite al mese precedente (giugno 2018).
  • L’Emilia-Romagna, tramite un portale ad hoc, permette di conoscere per 50 prestazioni il numero e la percentuale di prenotazioni erogate dalle aziende sanitarie entro i tempi massimi previsti. I report sono elaborati a cadenza settimanale dal gennaio 2016 e sono disponibili anche report storici dal gennaio 2015. Il sistema permette anche di confrontare le performance per singola prestazione tra differenti aziende sanitarie.
  • Il portale della Regione Lazio offre per 44 prestazioni le stesse modalità di rendicontazione dell’Emilia Romagna, ma non permette di confrontare le performance per singola prestazione tra differenti aziende sanitarie. I dati sono elaborati a cadenza settimanale a partire dal 21 maggio 2018, ma non è disponibile alcun archivio storico.
  • La Basilicata, tramite un portale ad hoc, permette di conoscere in tempo reale i tempi di attesa per le prestazioni erogate da ciascuna azienda sanitaria e di consultare l’archivio storico 2014-2018 dei tempi medi di attesa per tutte le prestazioni in tutte le strutture sanitarie. Non consente, invece, di confrontare in tempo reale i tempi di attesa per singola prestazione tra differenti strutture.

Un auspicio

I risultati preliminari dello studio  dimostrano che la trasparenza sui tempi di attesa rimane in larga parte disattesa dalle Regioni. “Al fine di contrastare questo inaccettabile livello di mancata trasparenza – conclude Cartabellotta – la Fondazione Gimbe auspica che il nuovo Piano nazionale per il governo delle liste di attesa definisca criteri univoci per rendicontare pubblicamente i tempi di attesa, per consentire ai cittadini di partecipare attivamente al miglioramento dei servizi sanitari e per fornire a Istituzioni e ricercatori una base univoca di dati per confrontare le performance regionali, anche ai fini di un inserimento di tale indicatore nel monitoraggio degli adempimenti Lea”.

 

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Invecchiamento, nel 2030 in Italia cinque milioni di anziani con disabilità

Invecchiamento, nel 2030 in Italia cinque milioni di anziani con disabilità

Dal meeting annuale di Italia Longeva le proiezioni Istat sulla “bomba demografica” che minaccia il welfare. Nel 2050 ogni 100 lavoratori ci saranno 63 anziani da sostenere contro i 35 di oggi. La sfida della Long term care


Se oggi gli over65 rappresentano un quarto della popolazione italiana, nel 2050 diventeranno più di un terzo. Di questi almeno quattro milioni saranno sopra la soglia degli 85 anni e circa cinque milioni dovranno convivere con la disabilità. È lo scenario che emerge dalle proiezioni realizzate dall’Istat per Italia Longeva, la Rete nazionale sull’invecchiamento e la longevità attiva. Questi e altri dati sono stati presentati oggi a Roma nel corso della terza edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine, la due giorni di approfondimento (che si chiude domani 12 luglio) sulle sfide della Long term care. I numeri descrivono una “bomba demografica” che impatterà pesantemente sul welfare: nel 2050 ogni 100 lavoratori ci saranno 63 anziani da sostenere contri i 35 di oggi.

Un circolo vizioso

L’invecchiamento porta con sé l’incremento di condizioni patologiche che richiedono cure a lungo termine e una crescita delle persone non autosufficienti. Di conseguenza – sottolinea Italia Longeva – crescerà la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani, ma anche quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura dei nostri vecchi.

La cronicità

Il peso delle cronicità si farà sentire sempre più. Nei prossimi dieci anni circa otto milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave, come ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie.  “Curarli tutti in ospedale – commenta Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – equivarrebbe a trasformare Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna e Firenze in grandi reparti a cielo aperto. È evidente, quindi, che le cure sul territorio non rappresentano più un’opzione, ma un obbligo per dare una risposta efficace alla fragilità e alla non autosufficienza dei nostri anziani, che si accompagnerà anche a una crescente solitudine. Le stime Istat per Italia Longeva ci dicono che, nel 2030, potrebbero arrivare a quattro milioni e mezzo gli ultra 65enni che vivranno da soli, e di questi, un milione e 200mila avrà più di 85 anni”.

L’assistenza

A preoccupare gli esperti non sono soltanto le previsioni. Il potenziamento dell’assistenza domiciliare e della residenzialità fondata sulla rete territoriale di presidi socio-sanitari e socio-assistenziali – sottolinea Italia Longeva è ancora un privilegio per pochi, con forti disomogeneità a livello regionale. “Le famiglie – commenta ancora Bernabei – pilastro del nostro welfare, saranno sempre meno numerose, pertanto i servizi sociosanitari, che già oggi coprono solo un quarto del fabbisogno, dovranno essere integrati sempre più dal supporto di badanti, da nuove forme di mutualità e, probabilmente, da un ritorno allo spirito di comunità. C’è poi la disabilità – aggiunge Bernabei – che diventerà la vera emergenza del futuro e il principale problema di sostenibilità economica nel nostro Paese. Essere disabile vuol dire avere bisogno di cure a lungo termine che, solo nel 2016, hanno assorbito 15 miliardi di euro, dei quali ben tre miliardi e mezzo pagati di tasca propria dalle famiglie”.

Boeri (Inps): “Non possiamo contare soltanto sulle famiglie”

Uno scenario in evoluzione che richiede impegni concreti da parte delle istituzioni. “Nei prossimi 50 anni – commenta Tito Boeri, presidente dell’Inps – le generazioni maggiormente a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione italiana. Non è pensabile rispondere a una domanda crescente di assistenza di lungo periodo basandosi pressoché interamente sul contributo delle famiglie. Ci vogliono politiche di riconciliazione fra lavoro e responsabilità famigliari che modulino gli aiuti in base allo stato di bisogno, ad esempio sembra opportuno rimodulare i permessi della legge 104/92 in base al bisogno effettivo di assistenza.”

Disparità geografiche

Come in altri ambiti dell’assistenza sanitaria, anche la Long term care paga il prezzo delle disparità geografiche. Al Nord, un over65 ha il triplo delle possibilità di essere ospitato in una residenza sanitaria assistenziale rispetto a un cittadino del Sud, e ha a disposizione circa il quintuplo di assistenza domiciliare, in termini di ore e di servizi. “Fatalmente – commenta ancora Bernabei – questa disparità riguarda anche il trend di crescita dell’aspettativa di vita libera da disabilità, che è quasi appannaggio esclusivo degli anziani del Settentrione”. Ma i dati poco incoraggianti sulla disponibilità di posti letto nelle strutture sociosanitarie pubbliche e private, e sul numero di ore dedicate alle cure domiciliari, mostrano un’offerta disomogenea nelle varie regioni, con un divario che va oltre le disuguaglianze Nord-Sud.

“Sicuramente – commenta Andrea Urbani, direttore generale della Programmazione sanitaria al ministero della Salute –  bisogna indentificare modelli migliori di gestione della cronicità. Il Piano nazionale cronicità (Pnc) contiene una serie di indicazioni per armonizzare la gestione dell’assistenza. Attraverso cabina di regia del Pnc abbiamo nei primi mesi di quest’anno lanciato una ricognizione per conoscere i modelli i modelli organizzativi dei singoli Servizi sanitari regionali. Dobbiamo poi ragionare – aggiunge Urbani – sul fatto che il nostro sistema di welfare è ancora organizzato per comparto. Serve, invece, una vera integrazione tra sociale e sanitario”

Puntare sulla tecnoassistenza

“Dobbiamo evitare che l’Italia diventi un enorme ma disorganizzato ospizio – avverte Bernabei – nel quale resteranno pochi giovani costretti a lavorare a più non posso per sostenere milioni di anziani soli e disabili. E a questo scopo prevenire le malattie non basterà. Visto il numero di over85, bisognerà far fronte alla inevitabile perdita di autonomia, investendo in reti assistenziali, competenze e tecnologia, la famosa tecnoassistenza che propugniamo da anni. In altre parole, scommettere su una Long-Term Care matura e moderna, che si rivelerà il vero banco di prova per il futuro del Paese. Se perdiamo questa partita, i numeri, che grazie all’Istat già conosciamo, ci schiacceranno. E sarà vana – conclude Bernabei – qualsiasi altra riforma della sanità, del lavoro o della previdenza sociale”.

 

 

Leggi anche: Long term care, l’Italia investe solo 10% della spesa sanitaria e perde il confronto con l’Europa

 

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Consumo di farmaci e spesa in crescita: tutti i numeri del Rapporto Osmed 2017

Consumo di farmaci e spesa in crescita: tutti i numeri del Rapporto Osmed 2017

Aifa aggiorna i dati sull’uso dei medicinali in Italia. La spesa farmaceutica totale segna +1,2% rispetto al 2016 e sfiora i 30 miliardi di euro. Cala la spesa territoriale a carico del Ssn.  Focus sui farmaci innovativi


Cresce la spesa farmaceutica, ma il segno “più” non vale per tutte le sue componenti. Nel complesso, comunque, i consumi sono aumentati del 4,3% tra il 2016 e il 2017 e la spesa totale nazionale ha registrato un incremento dell’1,2%, raggiungendo 29,8 miliardi di euro. È questo uno dei dati principali del Rapporto Osmed 2017 presentato oggi a Roma dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). In 360 pagine, l’ente regolatorio descrive l’evoluzione dei consumi di medicinali nel nostro Paese, dalla variabilità regionale alla spesa per i farmaci innovativi, dai generici alla crescita dei biosimilari.

Trend di spesa

Nel 2017 in media, per ogni cittadino italiano, la spesa per farmaci è stata di circa 492 euro. La spesa farmaceutica territoriale complessiva è stata pari a 21.715 milioni di euro, in calo rispetto all’anno precedente (-1,4%). La spesa pubblica territoriale – che include la spesa per i farmaci erogati in regime di assistenza convenzionata e in distribuzione diretta e per conto di classe A – è stata di 12.909 milioni di euro, cioè il 59,4% della spesa farmaceutica territoriale. Il dato ha registrato, rispetto all’anno precedente, una sensibile riduzione del -6,5%, dovuta principalmente alla diminuzione della spesa per i farmaci in distribuzione diretta e per conto (-13,7%).

La spesa a carico dei cittadini (che include la compartecipazione) per i medicinali di classe A acquistati privatamente e quella per i farmaci di classe C, è stata di 8.806 milioni euro: +7,1% rispetto al 2016.

La spesa per l’acquisto di medicinali da parte delle strutture sanitarie pubbliche (pari al 40% della spesa farmaceutica totale) è stata di 12,1 miliardi di euro (194,6 euro pro capite) e ha fatto registrare nel corso dell’anno un decremento del -0,7% rispetto al 2016.

Consumo di farmaci

Nel 2017 le dosi di medicinali consumate al giorno ogni mille abitanti sono state 1.708,2.  In media, ogni italiano ha assunto al giorno circa 1,7 dosi di farmaco. Il 66,2% delle dosi è stato erogato a carico del Ssn, mentre il restante 33,8% riguarda farmaci pagati dal cittadino (acquisto privato di classe A, classe C con ricetta e automedicazione).

Per quanto riguarda l’assistenza territoriale complessiva, pubblica e privata, sono state dispensate quasi due miliardi di confezioni (+3,2% in un anno). Un trend influenzato principalmente dall’aumento delle confezioni dei farmaci di classe A erogati in distribuzione diretta e per conto (+21,5%), dei farmaci di automedicazione (+10,4%), dei farmaci in classe C con ricetta (+7,8%) e dei farmaci di classe A acquistati privatamente dal cittadino (+2,8%).

Le categorie più prescritte

I farmaci per il sistema cardiovascolare si confermano nel 2017 la categoria più consumata dagli italiani (mentre scendono al secondo posto in termini di spesa), seguiti dai farmaci dell’apparato gastrointestinale e metabolismo, dai farmaci del sangue e organi emopoietici, dai farmaci per il Sistema nervoso centrale e da quelli per l’apparato respiratorio.

I farmaci antineoplastici e immunomodulatori si collocano al primo posto in graduatoria tra le categorie terapeutiche a maggiore impatto di spesa farmaceutica pubblica. Rispetto al 2016 aumentano consumi (+6,7%) e spesa (+12,9%) dei farmaci antineoplastici e immunomodulatori acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche.

Dati per età e genere

Il report analizza nel dettaglio l’uso dei farmaci nella popolazione, anche grazie ai dati del sistema Tessera Sanitaria. La prevalenza d’uso dei farmaci nella popolazione italiana è in media del 66,1% (61,8% negli uomini e 70,2% nelle donne). Con una comprensibile variabilità legata all’età: si passa da circa il 50% nella popolazione fino ai 54 anni, a oltre il 95% nella popolazione anziana con età superiore ai 74 anni. E alcune di genere: nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, nella quale le donne mostrano una prevalenza media d’uso superiore a quella degli uomini, con una differenza di dieci punti percentuali.

Nella popolazione pediatrica si registra una prevalenza d’uso dei medicinali del 49,9%, maggiore nei maschi rispetto alle femmine (50,7% vs 48,9%), con un picco nel primo anno di età: la metà dei bambini riceve almeno una prescrizione nel corso dell’anno.  L’uso di antibiotici è concentrato maggiormente nei primi quattro anni di vita e dopo i 75 anni. Si conferma una maggiore prevalenza d’uso nelle donne di farmaci antineoplastici e immunomodulatori (tra i 35 e i 74 anni), per il Sistema nervoso centrale (a partire dai 35 anni) e per l’apparato muscolo-scheletrico.

Variabilità regionale

La spesa farmaceutica pubblica regionale erogata in regime di assistenza convenzionata è stata pari a 8.116 milioni di euro, a fronte di 580 milioni di ricette emesse e 1,1 miliardi di confezioni di farmaci dispensati.

Per i farmaci in regime di assistenza convenzionata di Classe A-Ssn, la Puglia è la Regione con la quantità massima di consumi (1.088,3 DDD/1.000 abitanti die), seguita dall’Umbria (1.078,2) e dalla Calabria (1.060). La spesa lorda pro capite più alta si registra in Campania (204,09 euro pro capite), seguita da Puglia (203,68) e Abruzzo (201,78).

La Provincia autonoma di Bolzano è quella con livelli di spesa e consumi meno elevati, pari a 123,30 euro pro capite e 720,3 dosi giornaliere ogni mille abitanti. Le Regioni del Nord registrano livelli inferiori di spesa convenzionata rispetto alla media nazionale; Sud e Isole mostrano valori di spesa superiori.

Equivalenti e biosimilari

Il 79,4% delle dosi consumate ogni giorno in regime di assistenza convenzionata è costituito da medicinali a brevetto scaduto, che rappresentano il 59% della spesa convenzionata.

Quattro inibitori di pompa risultano tra i primi 20 principi attivi a brevetto scaduto a maggiore spesa convenzionata. In aumento l’utilizzo dei biosimilari, soprattutto delle epoetine (+65,1% rispetto al 2016) e della somatropina (+101,8%), con effetti positivi sulla spesa.

Registri di monitoraggio e accordi di rimborsabilità condizionata

Il Rapporto Osmed ci aggiorna anche sui Registri dei farmaci sottoposti a monitoraggio: nel 2017 ne risultano 212, di cui 122 attivi, 61 in fase di sviluppo (cartaceo) e 29 chiusi. All’interno dei Registri sono stati raccolti complessivamente i dati relativi a 1,6 milioni di trattamenti e 1,5 milioni di pazienti. Il maggior numero di trattamenti è stato registrato per i farmaci appartenenti alla categoria del sangue e degli organi emopoietici (principalmente i nuovi anticoagulanti orali) e per i farmaci antineoplastici e immunomodulatori.

Farmaci orfani

Al 31 dicembre 2017 risultano commercializzati in Italia 92 farmaci orfani sul totale dei 99 autorizzati dall’Ema negli ultimi 16 anni. La spesa a carico del Ssn per i farmaci orfani è stata nell’anno di circa 1,6 miliardi di euro, corrispondente al 7,2% della spesa complessiva.

Farmaci innovativi

Nel corso del 2017 sono stati riconosciuti innovativi otto farmaci, tre dei quali indicati nel trattamento dell’infezione cronica da virus dell’epatite C.

Nel 2017 la spesa per i farmaci innovativi (sia con innovatività piena che condizionata) è stata pari a 1,6 miliardi di euro, con una riduzione del -38% rispetto al 2016. Considerando i farmaci innovativi (con innovatività piena) con accesso ai fondi ai sensi della Legge di Bilancio 2017 (due da 500 milioni ciascuno), la spesa è stata pari a 900,3 milioni di euro per gli innovativi non oncologici e a 409,2 milioni di euro per gli innovativi oncologici. Considerando, però, i valori al netto dei payback relativi agli accordi di rimborsabilità condizionata, la spesa per gli innovativi non oncologici è stata pari a 143,7 milioni di euro, mentre non risultano ancora versati payback da parte delle aziende farmaceutiche relativamente agli innovativi oncologici.

In sostanza, è stato speso soltanto poco più delle metà di quel miliardo di euro stanziato per i due fondi ad hoc per l’innovazione. “Le risorse avanzate – commenta il direttore generale dell’Aifa, Mario Melazzini –  rimangono all’interno del Ssn, un domani queste risorse potrebbero essere allocate specificatamente sulla farmaceutica, ma è una decisione che spetta alla politica. I fondi sono un contenitore estremamente utile, ma noi dobbiamo essere pronti a garantire una risposta al paziente, anche nell’ipotesi non ci dovessero essere più, mi auguro di no ma nel caso in cui non ci fossero dobbiamo garantire la sostenibilità della spesa”.

Per quanto riguarda i consumi, nel 2017 sono state dispensate 13,4 milioni di dosi giornaliere rispetto ai 12 milioni nel 2016 e 9,2 milioni nel 2015. Le Regioni con la maggior spesa per i farmaci innovativi nel 2017 sono state la Lombardia (285,8 milioni di euro), la Campania (201,8 milioni di euro) e il Lazio (141,3 milioni di euro).

 

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Distribuzione di farmaci agli indigenti, accordo tra Banco farmaceutico e Croce rossa

Distribuzione di farmaci agli indigenti, accordo tra Banco farmaceutico e Croce rossa

I firmatari sono stati Francesco Rocca, presidente di Cri e Filippo Ciantia, direttore generale di Bf. Il successo a livello locale del progetto ha fatto sì che venisse sperimentato anche a livello nazionale


Il 24 giugno è stato firmato un accordo sulla distribuzione di farmaci agli indigenti. A sottoscriverlo Banco farmaceutico e Croce rossa. Con l’arrivo dell’estate, ci sono alcune categorie di medicinali più richieste, soprattutto dagli anziani in gravi difficoltà economiche. La collaborazione è stata già sperimentata a livello locale, ma ora il piano è di portarla anche a livello nazionale.

La raccolta e la distribuzione

Molti anziani abbandonano le cure per problemi economici. L’Istat rileva che quasi il 40% di loro ha dovuto rinunciare, almeno una volta, alle cure. La raccolta avverrà attraverso un sistema di donazioni aziendali di prodotti di cui si occuperà Banco farmaceutico. La Cri, poi, li distribuirà su tutto il territorio nazionale. In particolare saranno distribuiti sciroppi, integratori, creme e antisettici. Nel 2017, Banco farmaceutico ha raccolto quasi un milione e mezzo di farmaci, per un valore economico di oltre un milione di euro. Con i medicinali donati – grazie a oltre 14 mila volontari, 3.851 farmacie e 25 aziende farmaceutiche – sono state aiutate oltre 578 mila persone in difficoltà, assistite da 1.722 enti caritativi convenzionati con la Fondazione Banco farmaceutico onlus.

Il progetto locale e nazionale

A firmare l’accordo sono stati Francesco Rocca, presidente della Croce rossa italiana e Filippo Ciantia, direttore generale di Banco farmaceutico. Per i firmatari il problema della povertà è un problema sottovalutato. Ma le condizioni di indigenza sono evidenti e colpiscono un’ampia fetta della popolazione. A livello territoriale il progetto ha funzionato ed è per questo che la partnership si è allargata in tutto lo stivale. Un impulso importante alla lotta alla povertà, hanno ribadito le due associazioni firmatarie.

 

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Per il 2019 è previsto un superamento dei tetti di spesa per circa 2,4 miliardi

Secondo le analisi di Iqvia, le aziende farmaceutiche saranno nuovamente chiamate a ripianare il 50% dell'eccedenza della spesa farmaceutica per acquisti diretti per un totale di 1,2 miliardi di euro


In base ai consumi rilevati da Iqvia, ci sarà un nuovo superamento dei tetti di spesa farmaceutica per acquisti diretti nel 2019. Infatti, secondo i calcoli di Iqvia, si prevede un disavanzo di circa 2,4 miliardi di euro rispetto ai 2,1 miliardi di euro del 2018.

L’esborso per le aziende

Anche quest’anno, insomma, il tetto di spesa per acquisti diretti fissato per il 2019 non sarà sufficiente. E le aziende farmaceutiche saranno nuovamente chiamate a ripianare il 50% dell’eccedenza della spesa farmaceutica per acquisti diretti (payback) per un totale di circa 1,2 miliardi di euro. La restante parte verrà invece ripianata dalle Regioni in base al loro superamento del budget assegnato.

Nuovo sforamento

Per il 2019, il finanziamento totale del fabbisogno sanitario nazionale è stato fissato a 114,4 miliardi di euro, circa un miliardo in più rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda gli acquisti diretti di farmaci (compresi quelli acquistati in distribuzione diretta e per conto), a partire da quest’anno, a seguito dello scorporo della spesa per i gas medicinali, il tetto di spesa è stato ridotto dal 6,89% al 6,69% del totale fabbisogno, pari a 7,6 miliardi di euro. In realtà, si prevede che questa spesa supererà i 10 miliardi di euro (+5,2% rispetto al 2018). Sono esclusi da questo computo i farmaci innovativi e innovativi oncologici che rientrano in due fondi da 500 milioni di euro ciascuno.

Rallenta la spesa del canale ospedaliero

Iqvia prevede che la spesa per acquisti diretti di classe H (farmaci somministrati soltanto in ospedale) rallenterà rispetto agli anni precedenti. Infatti, nel 2019, i nuovi lanci di farmaci non avranno un impatto significativo e, inoltre, il recente ingresso sul mercato di biosimilari e altri generici avrà un impatto positivo sulla riduzione della spesa.

…ma c’è moderata crescita per la fascia A

Anche per gli acquisti diretti di farmaci di classe A si prevede un trend di crescita moderato (+2,4%) passando da 4,0 a 4,1 miliardi di euro. Nel complesso la spesa per acquisti diretti è prevista in aumento del 5,2%. Su questo aumento incide il fatto che alcuni farmaci oncologici perderanno lo status di innovatività durante l’anno.

I fondi per l’innovazione

In base ai dati raccolti finora,Iqvia si attende il superamento del tetto del fondo per i farmaci innovativi non oncologici. Infatti, grazie al progressivo debellamento dell’epatite C, avvenuto grazie ai nuovi farmaci (anti-Hcv), si prevede che il tetto prefissato di 500 milioni non sarà raggiunto. Per quanto riguarda il fondo per i farmaci oncologici innovativi, a differenza dell’anno scorso, non si prevede invece lo sfondamento, anche se la spesa prevista è vicina ai 500 milioni di euro stanziati.

La spesa convenzionata

Riguardo alla spesa convenzionata, esaurito l’effetto delle genericazioni più importanti, le previsioni parlano di una nuova timida crescita (+0,9%). La previsione è che comunque la convenzionata registrerà un avanzo positivo di circa 780 milioni di euro. “Bisogna trovare dei meccanismi che attutiscano questo impatto per consentire all’industria di continuare a investire nell’innovazione. È ora – dichiara Sergio Liberatore, amministratore delegato di Iqvia Italia – di ragionare sul pagamento della terapia in base al beneficio che ne trae il paziente. In breve, bisogna iniziare a misurare il costo dei nuovi farmaci confrontandolo con la riduzione delle spese connesse all’assistenza, la diminuzione del numero dei ricoveri, la prevenzione e il costante miglioramento dello stato di salute”.

 

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Rapporto Aifa sui vaccini 2018, 3 reazioni gravi ogni 100 mila dosi

Su un totale di circa 18 milioni di dosi somministrate in Italia nel 2018 per tutte le tipologie di vaccino, sono state effettuate 31 segnalazioni ogni 100 mila dosi. Le reazioni sono tutte note e quindi già riportate nelle informazioni sul prodotto dei vaccini autorizzati in Italia


È stato pubblicato il Rapporto Aifa sui vaccini 2018 che sintetizza le attività di sorveglianza post-marketing sui vaccini condotte in Italia nell’anno 2018.
Rispetto ai rapporti precedenti, nel 2019 è stato possibile utilizzare, per il calcolo dei tassi di segnalazione (rapporto tra il numero di segnalazioni e i dati di esposizione), le dosi effettivamente somministrate a livello nazionale, fornite dal Ministero della Salute e dai Dipartimenti della Prevenzione delle Regioni e delle Provincie Autonome. Ciò ha consentito di calcolare i tassi di segnalazione generale e delle reazioni avverse gravi correlabili per dosi somministrate su scala nazionale.

Dosi somministrate e casi avversi

Su un totale di circa 18 milioni di dosi somministrate in Italia nel 2018 per tutte le tipologie di vaccino, sono state effettuate 31 segnalazioni ogni 100 mila dosi. Grosso modo corrispondono a circa 12 segnalazioni ogni 100 mila abitanti. La frequenza delle segnalazioni relative a reazioni avverse gravi correlabili è di 3 eventi ogni 100 mila dosi. Le reazioni sono tutte note e quindi già riportate nelle informazioni sul prodotto dei vaccini autorizzati in Italia. L’andamento crescente del numero delle sospette reazioni avverse è indicativo di una sempre maggiore attenzione alla vaccinovigilanza da parte sia degli operatori sanitari che dei cittadini.

Fonte: Rapporto Aifa vaccini 2018

Chi segnala e le tipologie di eventi avversi

Oltre la metà delle segnalazioni arriva dai medici, seguiti dagli operatori sanitari. Più basse le percentuali dei farmacisti (23%) e dei cittadini (11%). Gli eventi avversi noti sono soprattutto riferibili a febbre (tremila casi) e reazioni locali (meno di duemila) o cutanee. Meno frequenti situazioni di agitazione e ipersensibilità.

La sicurezza dei vaccini

Il totale delle segnalazioni è stato di di 7.267 (12% delle segnalazioni totali, farmaci e vaccini). Il 76% di queste (5.536) si riferisce a sospetti eventi avversi che si sono verificati nel 2018 (inserite e insorte nel 2018), mentre il 20% circa (1.485) a casi che si sono verificati negli anni precedenti. Il 3,4% (246) delle segnalazioni non riporta la data di insorgenza dell’evento. Circa i 2/3 delle segnalazioni 2018 sono di tipo spontaneo (5.231, 71,9%), mentre circa 1/3 proviene da studi di farmacovigilanza attiva promossi dalle Regioni in collaborazione con Aifa (1783, 24,5%). La provenienza delle restanti segnalazioni non è stata definita dal segnalatore. Indipendentemente dal nesso di causalità, la maggior parte delle sospette reazioni avverse è segnalata come non grave (82.4%, 5988). Il 16.5% (1.202) riferisce eventi definiti “gravi” e nell’1,1% dei casi la gravità non è definita.

 

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La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

La consegna del farmaco a domicilio migliora l’aderenza alla terapia

Una terapia efficace passa per l’assunzione dei medicinali come prescritto dal medico. La consegna del farmaco a domicilio aiuta i pazienti a seguire il percorso di cura sollevandoli dallo stress degli spostamenti e garantendo la massima qualità dal ritiro alla consegna. *In collaborazione con Domedica


La consegna del farmaco a domicilio, oltre a essere una comodità, è uno dei servizi in grado di aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia. Assumere con costanza i farmaci prescritti dal medico, monitorare le proprie scorte e recarsi in farmacia per rifornirsi di nuove confezioni possono sembrare all’apparenza incombenze non difficili da portare a termine.

I vantaggi della consegna del farmaco a domicilio

Se si considera però che per tantissime malattie croniche la dispensazione dei farmaci è a carico esclusivo delle farmacie ospedaliere, gli spostamenti che i pazienti, o i loro caregiver, devono affrontare per rifornirsi di farmaci diventano ostacoli significativi, che potrebbero indurre i pazienti a interrompere il trattamento in attesa di rifornirsi. Poter ricevere il farmaco a casa, senza affrontare scomodi spostamenti

  • aiuta a garantire la costanza della terapia;
  • migliora la qualità di vita dei pazienti ;
  • genera risparmi per i pazienti e le loro famiglie, quantificabili non solo in costi per gli spostamenti ma anche in giornate di lavoro non più perse per provvedere al solo rifornimento di farmaci.

 I Patient support program e la consegna proattiva

Per migliorare l’aderenza alla terapia del paziente, i Patient support program sono la soluzione più efficace. I Patient support program non solo garantiscono che il paziente sia supportato in ogni fase del percorso di cura, ma garantiscono pure la corretta e ricorrente consegna del farmaco a domicilio rispondendo alle esigenze non solo dei pazienti, ma anche delle farmacie e dei medici. Per effettuare la consegna domiciliare dei farmaci a dispensazione ospedaliera è infatti fondamentale

  • coinvolgere i farmacisti ospedalieri;
  • garantire che il farmaco sia ritirato e viaggi a temperatura controllata e secondo altissimi standard qualitativi;
  • pianificare i ritiri con la farmacia e le consegne con i pazienti;
  • coordinare eventuali ritardi o differimenti nel ritiro o nella consegna.

Logistica efficiente

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program che prevedono la consegna del farmaco a domicilio, si avvale della partnership di fornitori di eccellenza nel campo del trasporto dei farmaci, che operano sia a livello nazionale che internazionale. In qualsiasi momento Domedica è in grado di

  • controllare la posizione del mezzo di trasporto;
  • controllare la temperatura alla quale viaggia il farmaco;
  • ricevere informazioni sull’esito della consegna.

La consegna del farmaco a domicilio è un altro dei servizi con cui Domedica supporta i medici e i pazienti per ottenere il massimo dell’efficienza dalla terapia, evitando interruzioni legate alla difficoltà al rifornimento e aumentando la qualità di vita dei pazienti, che possono dedicare il tempo e le risorse risparmiate ad attività più piacevoli e di valore per se stessi e per le loro famiglie.

A cura di Domedica

 

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Hpv, italiano il primo test al mondo “fai-da-te” venduto in farmacia

Hpv, italiano il primo test al mondo “fai-da-te” venduto in farmacia

Le donne possono eseguirlo a casa per individuare e tipizzare il papilloma virus umano, agente infettivo potenzialmente responsabile del cancro al collo dell'utero. Lo hanno messo a punto due ex ricercatori della Scuola Normale di Pisa


Scovare il Papilloma virus umano (Hpv) non è mai stato così semplice. Oggi infatti le donne possono eseguire direttamente a casa un test fai-da-te, per individuare e tipizzare l’agente infettivo potenzialmente responsabile del cancro al collo dell’utero. Il test è il primo al mondo per la diagnosi dell’Hpv disponibile in farmacia, ed è stato interamente sviluppato in Italia. A metterlo a punto Bruna Marini e Rudy Ippodrino, che dal 2009 al 2015 hanno frequentato il Corso di perfezionamento in biologia molecolare della Scuola Normale di Pisa, fondando poi nell’Area Science Park di Trieste la startup Ulisse BioMeddi Trieste.

Validato clinicamente

Ladymed, questo il nome del test, è stato sviluppato presso la startup e validato clinicamente da istituti quali il Centro di riferimento oncologico di Aviano, l’azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste e il Policlinico universitario Campus Biomedico di Roma. “Grazie a un prelievo non invasivo, che la donna può effettuare direttamente a casa – spiegano dalla Scuola Normale– è possibile rilevare il virus anche senza ulteriori procedure mediche, con un considerevole abbattimento dei costi e dei tempi della diagnostica”.

Genotipizzare il virus

Il test è sensibile e non invasivo, come confermano i due ex allievi. “È il primo al mondo presente direttamente in farmacia per il rilevamento del papilloma” spiegano. “Rispetto ai test molecolari utilizzati negli screening nazionali è anche in grado di genotipizzare il virus, ovvero fornire indicazioni precise sul ceppo presente nell’infezione. Il nostro test si inserisce nel panorama dei test consumer genetics: sono un esempio i già famosi test basati sull’autoprelievo come 23 and me e My heritage”.

La startup Ulisse BioMed

Ippodrino, laureato all’università di Firenze, e Marini, laureata a Trieste – riporta una nota – hanno seguito il corso alla Normale di Pisa con i professori Arturo Falaschi e Mauro Giacca. Subito dopo hanno creato la startup Ulisse BioMed, grazie alla raccolta di 5 milioni di euro mediata da Copernico sim Spa. La startup ha anche vinto grant nazionali e europei, per un valore complessivo progettuale di circa 1,5 milioni di euro.  Ulisse BioMed, oltre allo staff dirigenziale, conta una decina di ricercatori del settore biomedico e farmacologico, e collabora con numerosi istituti scientifici di eccellenza internazionali. L’attività di ricerca punta adesso ad altri tipi di test non invasivi.

Prossime rivoluzioni

“Abbiamo anche altri progetti di ricerca estremamente innovativi e rivoluzionari” concludono i due startupper. “Ad esempio stiamo realizzando i nanointerruttori, in grado di rilevare istantaneamente la presenza di biomarcatori proteici, con lo scopo di utilizzarli su apparecchi simili ai glucometri usati per la misura della glicemia nei pazienti diabetici, per la diagnostica portabile. I nanointerruttori li abbiamo costruiti, funzionano e ora siamo alle porte della loro validazione clinica”.

 

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Aderenza terapeutica: per i medici di famiglia la parola d’ordine è “semplificare”

Aderenza terapeutica: per i medici di famiglia la parola d’ordine è “semplificare”

Un regime farmacologico più snello, formazione degli operatori ed “educazione” degli assistiti, polipillole e telemedicina sono fra le priorità per migliorare l’adesione alle cure secondo i camici bianchi. I risultati di un’indagine Fimmg-Crea Sanità. Sileri: "Investire sul territorio"


Semplificare è la parola d’ordine per migliorare l’aderenza alle terapie secondo i medici di famiglia. Intesa come semplificazione del regime farmacologico e redazione di una schema per la somministrazione dei medicinali. Ma non è l’unica parola chiave: l’educazione terapeutica degli assistiti, la formazione degli operatori, le cosiddette “polipillole” e gli strumenti della telemedicina sono altre armi a disposizione per migliorare l’adesione alle cure. È quanto emerge da una ricerca presentata oggi a Roma da Fimmg (Federazione italiana dei medici di medicina generale) e Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità dell’Università di Tor Vergata) e realizzata con il contributo non condizionato del Gruppo Servier , che in Italia ha avviato la campagna di sensibilizzazione “#ioAderisco”.

All’origine della scarsa aderenza

L’indagine ha coinvolto 823 medici di medicina generale. Secondo il campione, i primi cinque fattori alla base della scollamento tra terapia prescritta e comportamento del paziente sono questi: presenza di disturbi cognitivi/psichiatrici, complessità della terapia, scarsa consapevolezza della malattia, comorbidità, livello culturale del paziente. Quanto, invece, alle ragioni riferite dai pazienti, le più frequenti sono due: il timore di effetti collaterali o la loro effettiva (o presunta) insorgenza. Per i camici bianchi le patologie su cui impatta maggiormente la mancata aderenza sono quelle croniche respiratorie, come l’asma e la Bpco, seguite dall’ipertensione arteriosa.

Migliorare si può

Fra gli strumenti per migliorare l’aderenza, i medici mettono al primo posto il software gestionale ambulatoriale, considerato il “miglior supporto” da circa il 72% del campione. Segue la figura dell’infermiere di studio, la figura professionale che, oltre al medico, può meglio intervenire – secondo gli intervistati – per migliorare l’aderenza terapeutica. Quasi l’80% dei mmg ritiene comunque che una maggiore informazione/formazione dei diversi operatori possa contribuire a un miglioramento dell’aderenza terapeutica. Il 56,6% considera opportuno il ricorso a tecnologie evolute, anche la telemedicina, per monitorare/migliorare l’aderenza alla terapia.

“Dall’indagine – commenta Paolo Misericordia, responsabile centro studi Fimmg – emerge con evidenza che i medici ritengono fondamentale, ai fini del miglioramento dell’aderenza ai trattamenti, l’organizzazione della propria attività. La presenza di personale di studio e infermieristico, e la disponibilità di algoritmi informatici di supporto, costituiscono gli elementi che maggiormente possono incidere nell’incremento dell’aderenza alle terapie proposte. Per questo stesso obiettivo la survey conferma quanto per i medici sia importante l’intervento sulla semplificazione del regime farmacologico, premessa migliore per rendere efficace le attività di educazione terapeutica del paziente”.

Strategie regionali

Dall’indagine emerge anche una marcata disomogeneità tra Regioni per quanto riguarda le strategie di contrasto alla non aderenza . In particolare, gli obiettivi di aderenza fissati a livello regionale o di Azienda sanitaria locale (Asl) sono fortemente disomogenei. “I risultati della ricerca – sottolinea Barbara Polistena, Direttore generale di Crea Sanità – riflettono una soddisfazione non del tutto completa da parte dei medici per le politiche regionali, neppure per quelle dove l’aderenza ha rappresentato un esplicito obiettivo”. L’utilità di questi obiettivi è percepita come positiva soltanto dal 55,3% dei medici. Percentuale che scende al 36,0% tra i medici che appartengono alle Regioni o Asl dove questi obiettivi sono stati implementati.

Federico Spandonaro, presidente del Comitato scientifico di Crea Sanità, pone l’accento sull’aspetto economico: “Tutti gli studi dimostrano che tra lo strato di popolazione a maggiore e quello a minore aderenza esiste un evidente gradiente positivo di costi. La riduzione dei costi totali nella popolazione a maggiore aderenza è risultata del 46% nei pazienti affetti da diabete, del 25% nei pazienti affetti da ipertensione e del 38% nei p: azienti affetti da ipercolesterolemia, compensando ampiamente – spiega l’economista – l’incremento dei costi degli interventi (ad esempio) farmacologici”.

Sileri: “Investire sul territorio”

A commentare i dati della ricerca Fimmg-Crea c’era il nuovo viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri: “Sicuramente c’è il tema del dialogo con i pazienti. Il tempo a disposizione dei medici si riduce sempre più e negli anni i tagli alla sanità hanno aggravato questa situazione. È fondamentale il ruolo dei medici di famiglia, che sono la nostra risorsa e ci aiutano a tenere sotto controllo spesa farmaceutica. Più aderenza significa anche risparmiare risorse, complicanze, comorbilità e mortalità. Ma bisogna pensare anche agli investimenti. Occorre investire sui medici di famiglia, sulla farmacia dei servizi, su un approccio olistico che integri pazienti, ospedale, territorio e associazioni. Con il ministro Speranza lavoreremo a questi obiettivi e sono sicuro che questa squadra sarà la migliore squadra per il Servizio sanitario nazionale”. A margine dell’evento Fimmg-Crea, il viceministro risponde a una domanda dei giornalisti sulla governance farmaceutica nell’azione del nuovo Governo: “Bisogna valutare tutto ciò che è stato fatto in passato. A volte sono stati fatti errori in buona fede o per mancata programmazione. Una volta preso atto dello stato attuale del sistema, si può intervenire sulle falle e chiuderle. Ma è chiaro che saranno necessari più investimenti”. Al quesito “si lavorerà in continuità con l’operato del ministro uscente Giulia Grillo?”, Sileri risponde senza esitazioni: “È inevitabile che sia così ed è giusto che sia così”.

 

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Ranitidina, Aifa blocca l’utilizzo di oltre 500 prodotti

Ranitidina, Aifa blocca l’utilizzo di oltre 500 prodotti

Circa 200 lotti sono stati ritirati in via precauzionale perché contenenti il principio attivo prodotto presso l’officina farmaceutica indiana Saraca Laboratories LTD contaminato da un’impurezza, la Ndma, classificata come probabilmente cancerogena. Per gli altri ora vige il divieto di utilizzo


Proprio come era successo con i farmaci contenenti il principio attivo vansartan nel luglio del 2018, lo scorso 20 settembre l’Aifa ha disposto il ritiro in via precauzionale dalle farmacie e dalla catena distributiva di tutti i lotti di medicinali contenenti ranitidina – un inibitore della secrezione acida dello stomaco– prodotta presso l’officina farmaceutica indiana Saraca Laboratories LTD. Il problema sembrerebbe essere lo stesso riscontrato lo scorso anno con i sartani, ovvero la contaminazione con un’impurezza – la N-nitrosodimetilammina (Ndma) – appartenente alla classe delle nitrosammine.

La lista si allunga

In aggiunta l’Ente, ha anche disposto il divieto di utilizzo di tutti i lotti commercializzati in Italia di medicinali contenenti ranitidina prodotta da altre officine farmaceutiche diverse da Saraca Laboratories LTD, in attesa che vengano analizzati. In questi casi infatti le autorità sanitarie operano secondo il principio di precauzione, che prevede di ridurre al minimo i rischi per il paziente, limitando l’esposizione alla sostanza potenzialmente dannosa. In totale, nella lista “nera”, si trovano oltre 500 prodotti (195 sono quelli ritirati) tra cui Zantac, Ranibloc, Raniben, Ranidil, Ulcex, Buscopn antiacido e diverse marche di generici della ranitidina. Farmaci utilizzati nel trattamento dell’ulcera, del reflusso gastroesofageo, del bruciore di stomaco e di altre condizioni associate a ipersecrezione acida.

La molecola incriminata

La Ndma – come riporta l’Aifa – è classificata come sostanza probabilmente cancerogena per l’uomo dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Oms sulla base di studi condotti su animali. È presente in alcuni alimenti e nelle forniture di acqua, ma non ci si attende che possa causare danni quando ingerita in quantità molto basse.

Valutazione in corso

Provvedimenti analoghi sono stati assunti o sono in corso di adozione negli altri Paesi dell’Unione Europea e in diversi paesi extraeuropei. L’Aifa sta lavorando insieme all’Agenzia Europea per i Medicinali (Ema) e alle altre agenzie europee per valutare il grado di contaminazione nei prodotti coinvolti e adottare misure correttive.

 

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Gimbe avverte: stop ai chek-up periodici, sono costosi e dannosi

Gimbe avverte: stop ai chek-up periodici, sono costosi e dannosi

Basandosi su una ricerca pubblicata su Bmj, la fondazione di Nino Cartabellotta teme i casi di sovradiagnosi e di conseguenza la rincorsa a test inutili che gravano pesantemente sulle casse del servizio sanitario nazionale


I check-up periodici con comuni test di laboratorio (esami del sangue) e strumentali sono estremamente diffusi in tutti i paesi industrializzati e quasi sempre a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Eppure, secondo la Fondazione Gimbe, le evidenze scientifiche suggeriscono che nella popolazione generale i check-up sono lungi dal migliorarne lo stato di salute. Anzi possono addirittura peggiorarlo in conseguenza di fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento, determinando al tempo stesso uno spreco di risorse sia pubbliche che private.

Il lavoro pubblicato su Bmj

Recentemente i ricercatori del Centre for evidence-based medicine di Oxford hanno pubblicato sulla rivista BMJ Evidence-based Medicine il seguente “verdetto” basato sulle migliori evidenze scientifiche: “Non esistono convincenti evidenze per supportare l’utilizzo dei check-up generici nell’ambito delle cure primarie. Non sembrano efficaci nel modificare esiti di salute rilevanti e non esistono evidenze di elevata qualità a supporto della loro costo-efficacia, in particolare se confrontati con le modalità standard di cure primarie”. In altre parole, secondo Gimbe, il “verdetto” conferma l’inefficacia dei check-up e il conseguente spreco di risorse. Il testo ribadisce inoltre che nelle persone sane l’esecuzione periodica di test di laboratorio e strumentali deve essere sempre personalizzata dal medico di famiglia in relazione ad età, sesso, specifici fattori di rischio di malattia, storia personale e familiare.

I “pacchetti” di esami su internet

“Eppure digitando su Google la parola “check-up” – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – la ricerca restituisce innumerevoli siti web che offrono “pacchetti” di test diagnostici proponendoli come insostituibile strumento di prevenzione e diagnosi precoce”. Un rischio, secondo al fondazione di Cartabellotta, nel trasmettere alla popolazione sana un messaggio al tempo stesso anti-scientifico e consumistico. “Questi “pacchetti” – precisa Cartabellotta – vengono proposti soprattutto da chi in sanità genera profitti. Parliamo di centri medici privati, compagnie assicurative e fondi sanitari, con una terminologia più consona a un catalogo commerciale che alla tutela della salute: per uomo e per donna, base, avanzato, plus. Tuttavia, è inaccettabile che alcune Regioni abbiano deliberato la possibilità per le aziende sanitarie di promuovere check-up a pagamento, che peraltro includono screening oncologici già inclusi nei livelli essenziali di assistenza”.

Rischi benefici dei check-up

Il verdetto dei ricercatori di Oxford si basa sull’ultima revisione sistematica Cochrane che ha valutato benefici e rischi dei check-up definiti come “l’esecuzione di test diagnostici per più di una malattia o fattore di rischio in più di un organo o un apparato”. Cartabellotta puntualizza: “sostanzialmente si tratta di un periodico “tagliando” effettuato con l’inverosimile obiettivo di identificare tutte le malattie in tutte le persone tramite esami strumentali non invasivi (elettrocardiogramma, radiografia del torace, ecografia addominale) e test di laboratorio (emocromo, esame delle urine, glicemia, test di funzionalità renale, epatica, tiroidea, profilo lipidico)”.

La revisione Cochrane

La revisione Cochrane include 17 studi clinici randomizzati di cui 15 riportano dati relativi ad oltre 250 mila partecipanti. I risultati dimostrano che i check-up non riducono la mortalità totale né quella per tumori e non hanno un impatto significativo su mortalità cardiovascolare, ictus e infarto fatale e non fatale. Nonostante alcuni limiti metodologici rilevati dagli autori, questi risultati sono coerenti con quelli di altre revisioni. In particolare relative all’ambito delle cure primarie.

Effetto cascata

“Peraltro la revisione Cochrane – continua Cartabellotta – non valuta l’impatto clinico ed economico della sovra-diagnosi. L’utilizzo inappropriato di test diagnostici sempre più sensibili, infatti, porta ad etichettare come malate persone il cui stadio di malattia è troppo precoce, molto lieve e/o non evolutivo. Ciò genera a cascata ulteriori approfondimenti diagnostici e trattamenti non necessari che configurano il fenomeno del sovra-trattamento”.

La Redazione del nostro Sito consiglia i lettori di chiedere maggiori delucidazioni al medico di fiducia 

 

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Improbabile ora pensare a una class action europea sul caso ranitidina

L'intervento tempestivo dell'Ema e dell'Aifa ha impedito che il rischio potenziale si trasformasse in rischio reale. Difficile pensare che i pazienti europei si muovano per vie legali senza dati effettivi su danni provocati dai farmaci coinvolti dall'indagine


Difficile pensare alle class action sul caso ranitidina da parte dei pazienti europei. Non ci sono ancora evidenze di rischi effettivi sulla salute dei cittadini dell’Ue, quindi non è detto che portare alla sbarra le aziende sia una strada percorribile. Anzi, a quanto dicono gli addetti ai lavori, la risposta celere di Ema ha scongiurato il verificarsi di eventi avversi pericolosi con il ritiro immediato dei prodotti sospetti. Nessun parallelismo pare con le bagarre giudiziarie sulla crisi degli oppioidi in Usa.

 Il principio di precauzione

Si potrebbe citare il famoso detto “prevenire è meglio che curare”. L’Agenzia europea dei medicinali, attraverso il Comitato dei medicinali a uso umano, ha ragionato così e ancor prima di verificare con mano la pericolosità della nitrosammina, ha preferito bloccare tutto, valutare e poi fare le dovute valutazioni. È valso, in sostanza, il principio di precauzione previsto dall’articolo 191 del Trattato di funzionamento dell’Ue (Tfue). Il suo scopo è garantire un alto livello di protezione dell’ambiente grazie a delle prese di posizione preventive in caso di rischio. Tuttavia, nella pratica, il campo di applicazione del principio è molto più vasto e si estende anche alla politica dei consumatori, alla legislazione europea sugli alimenti, alla salute umana, animale e vegetale.

“È stato applicato in senso molto rigoroso – commenta Vincenzo Salvatore leader del Focus Team Healthcare e Life sciences dello studio legale BonelliErede – per evitare che un rischio potenziale diventi reale. Il risarcimento individuale o collettivo, come nel caso delle class action, si promuove quando il danno c’è. Al momento non è stato rilevato nulla di simile”. Poi conclude “Per fortuna che c’è stata questa azione dell’Ema che è stata tutto fuorché spropositata. È stata corretta, segno che il sistema di farmacovigilanza funziona”.

Sbilanciamento di interessi

Salvatore sottolinea una questione: “Laddove il rischio è potenziale o reale, le istituzioni intervengono per evitare l’esposizione ai soggetti destinatari. Ciò lede un interesse commerciale, tuttavia, a differenza degli Usa, ad esempio, l’Europa anticipa la tutela e sbilancia la propria priorità di intervento a favore dei pazienti”. L’inibizione alla commercializzazione di un prodotto non è arbitraria. Anche un medicinale che, a seguito dei test, dovesse risultare sicuro e impeccabile, dovrebbe comunque vedersi bloccata la vendita. Un colpo non da poco per le aziende che potrebbero subire contrazioni economiche per tutto il tempo necessario alla risoluzione dei controlli. Altrettanto vero è, però, che i farmaci a base ranitidina (per fare un esempio) sono piuttosto datati e che esistono molte altre soluzioni terapeutiche alternative.

 

 

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Manovra, l’addio al superticket da settembre 2020

All’indomani della riunione notturna in cui il Governo ha trovato la quadra sulla prossima legge di Bilancio, il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce i tempi per il superamento del ticket sulle visite specialistiche


Diremo addio al superticket da settembre 2020. All’indomani della riunione notturna in cui il Governo ha trovato la quadra sulla prossima legge di Bilancio, il ministro della Salute, Roberto Speranza, chiarisce i tempi per il superamento del ticket sulle visite specialistiche: “Sarà definitivamente abolito dal mese di settembre 2020 e avrà un costo di 550 milioni”, ha detto stamani ai microfoni di Circo Massimo su Radio Capital.

L’operazione superticket

L’addio al superticket era già nero su bianco sul comunicato stampa diffuso questa mattina da Palazzo Chigi dopo la riunione del Consiglio dei ministri terminata quasi all’alba: “Si prevede la cancellazione del cosiddetto superticket in sanità, a partire dalla seconda metà del 2020, con un corrispondente incremento delle risorse previste per il sistema sanitario nazionale, destinate comunque ad aumentare nel prossimo triennio”.

L’obiettivo, secondo il ministro di Leu, è ridurre la spesa sanitaria a carico delle famiglie: “Il superticket – ha ricordato Speranza a Circo Masimo – è una tassa di 10 euro che esiste in quasi tutte le regioni e noi ci facciamo carico di abolirla. Un fatto sociale che avrà ripercussioni sulla vita delle persone”. Se il ticket per le visite specialistiche “costa 36 euro, con i 10 euro aggiuntivi si arriva 46, una spesa che diventa una diga all’accesso alle cure per molti e ogni cittadino che non riesce a curarsi per motivi economici è una sconfitta per lo Stato”.

Un’impronta sociale per la manovra

Speranza sottolinea la presenza “di una forte matrice sociale” nella manovra, che dovrebbe “cercare di dare risposta ai ceti sociali che in questi anni hanno pagato di più”. Per quanto riguarda la sanità Speranza rivendica almeno tre scelte “molto significative”: la prima è l’abolizione del superticket; la seconda è che “nel fondo sanitario nazionale ci sono 2 miliardi più, a fronte dei 900 milioni e poco più di un miliardo di aumento degli ultimi due anni: si raddoppiano le risorse rispetto a due anni precedenti. Questo significa fondi da investire in liste d’attesa e personale”. Il terzo punto è che “ci sono poi ulteriori due miliardi in più per l’edilizia sanitaria e innovazioni tecnologiche”. Aspettiamo il testo della manovra per saperne di più e la lunga battaglia degli emendamento. Da segnalare, infine, che nel cosiddetto “Decreto fiscale” che viaggia parallelamente alla manovra, è confermato il rinvio al 31 dicembre 2019 del termine per la sottoscrizione del nuovo Patto per la Salute.

 

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Infusioni a domicilio o in strutture vicine al domicilio del paziente per garantire l’aderenza terapeutica

Infusioni a domicilio o in strutture vicine al domicilio del paziente per garantire l’aderenza terapeutica

Le infusioni a domicilio o presso gli “Infusion Center” garantiscono la completa aderenza al piano terapeutico prescritto dal medico, evitando disagi e costi per raggiungere il centro clinico. *In collaborazione con Domedica

infusioni a domicilio

La somministrazione di terapia in ospedale è un’attività molto impegnativa sia per chi la effettua (il centro) che per chi la riceve (il paziente). Il centro clinico deve essere attrezzato con strumenti e personale in numero adeguato e possedere spazi necessari dove accogliere i pazienti in attesa e quelli che effettuano le somministrazioni. Dal lato del paziente c’è un impegno di tempo enorme (proprio e di almeno un caregiver) per recarsi in ospedale a ricevere la somministrazione con intervalli anche importanti (giornalieri, settimanali o mensili), a cui si aggiungono i costi per raggiungere la struttura (carburante, pedaggi, parcheggi e spesso giornate di lavoro perse per lui e per il caregiver). Altro aspetto non meno importante è l’esposizione a un ambiente potenzialmente infetto come l’ospedale, dove il paziente incontra un certo numero di persone (altri pazienti) e di operatori sanitari che sono, gioco forza, veicolo d’infezioni. La somministrazione delle infusioni a domicilio e negli Infusion Center riduce questo rischio, permettendo ai pazienti di ricevere la terapia in un ambiente sicuro, confortevole e meno esposto agli agenti infettivi.

Tutti i vantaggi delle infusioni a domicilio

La somministrazione di farmaci infusivi in vena a domicilio è tutt’altro che semplice, perché richiede una importante complessità gestionale. Nel dettaglio, vanno gestiti:

  • I rinnovi dei Piani terapeutici;
  • Le relazioni con le farmacie per il ritiro del farmaco;
  • La catena del freddo (dove richiesto) per la consegna a domicilio del farmaco;
  • La somministrazione (con venipuntura, PICC o CVC);
  • La gestione di eventuali pompe infusionali;
  • Le procedure di emergenza per la gestione di eventuali effetti collaterali;
  • Lo smaltimento del materiale utilizzato per le infusioni;
  • Il reporting al centro clinico.

Domedica, nell’erogazione dei Patient support program, garantisce il disegno accurato di tutti i processi e le procedure (incluse quelle di emergenza ed eventuali risk management plan), con il coinvolgimento di medici esperti nella gestione della patologia oggetto della terapia e delle aziende che commercializzano il farmaco, un forte coordinamento centrale attraverso il proprio patient care center per l’organizzazione di tutte le attività e la conferma degli appuntamenti ai pazienti, il reporting al centro clinico e la gestione delle eventuali segnalazioni di farmacovigilanza.

I Patient support program di Domedica si completano con la condivisione, concordata con i medici esperti coinvolti nel disegno del programma, di informazioni utili a educare i pazienti all’acquisizione di stili di vita corretti, che favoriscono il miglioramento della salute e della qualità di vita.

Infusion Center: un importante valore aggiunto quando ci sono più pazienti in una stessa località

Gli Infusion Center di Domedica giocano un ruolo importante all’interno dei servizi offerti ai pazienti, tanto quanto le infusioni a domicilio, quando ci sono diversi pazienti che abitano nei dintorni di una stessa località lontana dal centro clinico.

I pazienti di quella determinata zona geografica hanno la possibilità di ricevere la terapia raggiungendo una struttura molto più vicina al loro domicilio rispetto all’ospedale. Gli Infusion Center hanno diversi vantaggi:

  • Riducono i tempi di spostamento dei pazienti perché rispetto agli ospedali sono localizzati molto più vicino ai pazienti;
  • Riducono i tempi di attesa in struttura perché i pazienti sono convocati secondo precisi appuntamenti e permangono in struttura solo il tempo strettamente necessario ad effettuare l’infusione.

Gli Infusion Center e le infusioni a domicilio di Domedica  offrono la possibilità ai medici di poter garantire una corretta terapia anche a quei pazienti che vivono più distanti dai centri clinici o che, a causa della propria patologia o condizione sociale, non sarebbero in grado di recarsi regolarmente in ospedale. La speranza è che in futuro sempre più pazienti possano beneficiare di servizi in grado di migliorare la loro qualità di vita e l’efficacia della terapia prescritte dal medico.

 

A cura di Domedica

 

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Farmaci veterinari: Ema riunisce gli stakeholder sulla strategia 2025

Il 5 e 6 dicembre l’Agenzia europea dei medicinali organizza un workshop per approfondire i contenuti della bozza della "Regulatory science strategy to 2025” sottoposta a consultazione pubblica. Il documento finale è atteso nella prima parte del 2020


Ascoltare gli stakeholderL’Agenzia europea dei medicinali (Ema) chiama a raccolta veterinari, istituzioni accademiche, associazioni di categoria e autorità regolatorie sulla “Regulatory Science Strategy to 2025”, un piano per innovare la regolamentazione dei farmaci (umani e veterinari) nei prossimi cinque anni. Sulla scia di un’iniziativa simile organizzata per i farmaci a uso umano (18-19 novembre 2019), l’agenzia organizza ad Amsterdam un workshop “multi-stakeholder” con i protagonisti della salute animale: l’appuntamento è il 5 e 6 dicembre. L’adozione della nuova strategia è attesa per la prima parte del 2020.

Una bozza della “Regulatory Science Strategy to 2025” è stata sottoposta dall’Ema a consultazione pubblica tra dicembre 2018 e giugno 2019. Circa 150 persone e organizzazioni hanno inviato i loro commenti sulle priorità future. Lo scopo del workshop di dicembre è discutere l’esito della consultazione, riflettere sulla definizione delle priorità e individuare azioni concrete per attuare gli obiettivi e le raccomandazioni chiave. Il workshop sarà trasmesso in streaming e l’hashtag #RegScience2025 animerà la discussione su Twitter.

Quattro obiettivi

La strategia 2025 di Ema è finalizzata alla promozione di un sistema regolatorio più flessibile che favorisca l’innovazione nello sviluppo di nuovi medicinali. Fra gli obiettivi prioritari, rafforzare l’integrazione tra scienza e tecnologia; indirizzare la produzione di evidenze scientifiche e migliorare la qualità delle valutazioni; promuovere un accesso ai farmaci incentrato sul paziente; affrontare le minacce per la salute emergenti e rafforzare la ricerca e l’innovazione in ambito regolatorio.

 

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Se le api muoiono: dimezzata la produzione di miele tra clima anomalo e pesticidi

La Coldiretti a settembre ha avvisato che nel 2019 il calo è stato del 41% a causa delle condizioni di salute sempre più precarie degli sciami. Contestualmente l’Efsa ha richiesto una seconda consultazione agli stakeholder per valutare l’effetto dei diserbanti . Dal numero 3 del magazine Animal Health

se le api muoiono

Se le api scomparissero dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. Se già Albert Einstein aveva avvisato il mondo riguardo l’importanza di questo insetto, allora il problema della sua scomparsa (o drastica riduzione del numero) è un problema antico. Eppure ce ne stiamo accorgendo solo di recente della minaccia che l’inquinamento atmosferico rappresenta per la sua esistenza. L’importanza dell’ape nell’ecosistema naturale e, per quanto riguarda l’uomo, in quello economico è altrettanto noto. L’impollinazione e la produzione di miele sono due delle attività che hanno avvicinato la specie “apis” all’ “homo” in un vincolo di reciproco interesse. Ma come detto la sopravvivenza di intere colonie di api è messa a rischio a causa dei cambiamenti climatici e dell’antropizzazione forzata e incontrollata dell’ambiente. L’utilizzo di diserbanti, ad esempio, è stato messo sotto la lente di ingrandimento degli enti regolatori che in più di un’occasione si sono mossi per regolamentarne i livelli tollerati in agricoltura. In Italia, poi, il tema è particolarmente sentito dato che, secondo la Coldiretti, nel 2019 la produzione di miele si è letteralmente dimezzata rispetto ai dodici mesi precedenti.

L’apicoltura in calo

Coldiretti, a inizio settembre scorso, ha elaborato i dati Istat e ha comunicato che in Italia nel 2019 la raccolta di miele si è dimezzata. Il motivo, secondo l’associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, è dovuto ai cambiamenti climatici (alluvioni, trombe d’aria, temporali improvvisi, ondate di caldo eccessivo). “L’annata 2019 – continua la Coldiretti – sta prospettandosi per l’intera apicoltura nazionale come la più critica e problematica di sempre a causa dell’andamento climatico anomalo”. Il calo della produttività del 41% produrrà, secondo le previsioni, quantità di miele molto al di sotto dei 23 milioni di chili del 2018. L’Ismea, l’istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare, prevede una perdita di oltre 70 milioni di euro solo per i derivati dell’acacia e degli agrumi. Per dare qualche numero sulle dimensioni di questo mercato, esistono più di 50 varietà di miele con un totale di 1,4 milioni di alveari curati da 51.500 apicoltori. Di questi, 33.800 producono per autoconsumo (65%) e il resto per la libera vendita (35%).

L’impatto della riduzione delle api

Secondo i dati citati dall’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale “più del 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle, che garantiscono l’impollinazione, rischia di scomparire. In particolare in Europa il 9,2% delle specie di api europee – si legge sul sito – è attualmente minacciato di estinzione (Unione internazionale per la conservazione della natura, 2015). Senza di esse molte specie di piante si estinguerebbero e gli attuali livelli di produttività potrebbero essere mantenuti solamente ad altissimi costi attraverso l’impollinazione artificiale. Le api domestiche e selvatiche sono responsabili di circa il 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta e garantiscono circa il 35% della produzione globale di cibo”. Il discorso poi verte inevitabilmente sull’impatto che ciò avrebbe sull’uomo. Sempre citando le fonti dell’Istituto “negli ultimi 50 anni la produzione agricola ha avuto un incremento di circa il 30% grazie al contributo diretto degli insetti impollinatori. È stato dimostrato che il 70% delle 115 colture agrarie di rilevanza mondiale beneficiano dell’impollinazione animale (Klein et al., 2007). Inoltre l’incremento del valore monetario annuo mondiale delle produzioni agricole ammonta a circa 260 miliardi di euro (Lautenbach, 2012). In Europa la produzione di circa l’80% delle 264 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori (Efsa, 2009)”.

La produzione di miele in Italia

Secondo gli ultimi dati dell’Anagrafe nazionale zootecnica di giugno 2019, il grosso delle imprese si trovano soprattutto al nord. A trainare è il Veneto con oltre seimila attività (6.757), seguito da Lombardia con 6.588 società e il Piemonte con 6.162. Bene anche la Toscana, l’Emilia Romagna e la provincia autonoma di Bolzano. Per quanto riguarda il numero di apiari (il luogo dove vengono collocate le arnie), in testa c’è il Piemonte (20.781) che stacca di parecchio la seconda in classifica, ossia la Lombardia, ferma a quota 14.889. La situazione rimane sostanzialmente la medesima per il numero di alveari con il primato del Piemonte (209.894).

L’Europa e il resto del mondo

Il Bel Paese è quarto nell’Ue per numero di alveari per la produzione domestica di miele con un totale di 1,5 milioni di arnie. Al primo posto, secondo le cifre fornite dalla Commissione europea lo scorso anno, c’è la Spagna (2,9 milioni), seguita da Romania (1,8 milioni) e dalla Polonia (1,6 milioni). Nel computo totale, l’Ue produce 230 mila tonnellate di miele all’anno con 17,5 milioni alveari a disposizione e 650 mila operatori. Un’autosufficienza del 60% circa. Il restante arriva da realtà extracomunitarie, soprattutto dalla Cina con quasi il 40% del mercato delle esportazioni e dall’Ucraina (20%). Tra l’altro, la tendenza degli ultimi tre anni considerati dall’Eurostat Comext, ha fatto registrare un lieve calo dei prezzi di importazione. Dai 2,52 euro al chilo del 2015 si è arrivati ai 2,17 del 2018 dopo un trend positivo che ha portato dall’1,69 del 2008 ai 2,14 del 2014. Continuità col segno più per il valore medio al chilo per i prodotti esportati. Con lievi oscillazioni, dal 2008 si è passati dai 3,92 euro ai 5,64 del 2018. Nell’ultimo decennio la produzione mondiale è cresciuta di oltre il 20% per un totale degli ultimi anni di 1,86 milioni di tonnellate annue. A guidare il mercato è l’Asia, con la Cina in testa, davanti a Europa e Nord America.

Le due indagini dell’Efsa

Ma non c’è solo la minaccia del clima che cambia. Anche l’utilizzo di prodotti chimici mette alle strette le popolazioni di api. A tal proposito, l’autorità per la sicurezza alimentare dell’Ue a settembre ha aperto una seconda consultazione pubblica (dopo quella di luglio 2019) per commentare il protocollo scientifico che l’ente utilizzerà per raccogliere e valutare i dati sulla mortalità delle api. La necessità di disporre di dati aggiornati sulla mortalità delle api – tenuto conto di una gestione realistica dell’apicoltura e della naturale mortalità di fondo – era stata sottolineata dalla Commissione europea al momento di chiedere all’Efsa di rivedere le linee guida. Il gruppo consultivo di stakeholder che è stato in-dividuato ha già formulato osservazioni sugli orientamenti attuali, pubblicati nel 2013. Anche gli esperti di pesticidi negli Stati membri dell’Ue sono stati consultati sul documento attuale.

L’altra consultazione sui pesticidi

Il tema dei diserbanti è delicato. L’Efsa ha dedicato alla questione una consultazione parallela avviata anch’essa a settembre, seppur, stavolta, sull’impatto sull’uomo. Le parti interessate potevano presentare i commenti fino al 15 novembre su due valutazioni: una esamina gli effetti cronici sul sistema tiroideo e l’altra gli effetti acuti sul sistema nervoso. Attenzione, però. Perché nei documenti ufficiali europei si parla di concentrazioni di sostanze possibilmente tossiche, quindi non si fa riferimento diretto all’uso in quanto tale, quanto all’abuso e ai livelli di sostanze potenzialmente cancerogene che si vanno ad accumulare. Proprio l’accumulo di queste sostanze è alla base delle valutazioni dell’agenzia per valutare quanto questi influiscano sulla mortalità delle api.

Lo studio dell’Izs delle Venezie

La richiesta all’Efsa della Commissione europea di rivedere le proprie linee guida è di marzo 2019. L’anno prima sul Journal of apicultural research è stato pubblicato uno studio a opera dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie che ha rilevato la presenza, in campioni di api morte, di residui di pesticidi e di alcuni virus delle api. Lo studio è stato effettuato su 94 campioni, provenienti dal Nord-est dell’Italia e raccolti durante la primavera 2014, prendendo in considerazione 150 principi attivi e 3 virus delle api. I ricercatori hanno riscontrato la presenza di almeno un principio attivo nel 72,2% dei campioni (api morte). Gli insetticidi sono i più abbondanti (59,4%), principalmente quelli appartenenti alla classe dei neonicotinoidi (41,8%), seguiti da fungicidi (40,6%) e acaricidi (24,1).

Gli insetticidi più frequentemente rilevati sono rappresentati da imidacloprid, chlorpyrifos, tau-fluvalinate e cyprodinil. Ci sono poi le infezioni virali. La prevalenza spetta al virus della paralisi cronica (Cbpv) e al virus delle ali deformi (Dwv). Il 71% e il 37% dei campioni sono risultati positivi rispettivamente a Cbpv e Dwv. “La presenza di una possibile relazione tra la mortalità primaverile delle api e l’impiego di trattamenti antiparassitari in agricoltura potrebbe contribuire a comprendere meglio fenomeni complessi come la moria delle api e lo spopolamento degli alveari, che negli ultimi dieci anni hanno colpito questo settore”, scrivono sul sito dell’Izs delle Venezie.

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Emofilia A, ok di Aifa alla rimborsabilità di un nuovo fattore VIII a emivita prolungata

Il medicinale di Bayer, damoctocog alfa pegol,  ha ottenuto il via libera dall’Agenzia italiana del farmaco. È indicato per il trattamento dei pazienti con questa malattia a partire dai 12 anni

Emofilia A, l’ok di Aifa al farmaco di Bayer

Lo studio

I risultati ottenuti

Un trattamento per migliorare la vita dei pazienti

 

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Il traffico illegale di cuccioli si combatte anche sul web

 

 

Il traffico illegale di cuccioli si combatte anche sul web

Un business da 300 milioni di euro all’anno immette in Italia esemplari in condizioni sanitarie critiche a un prezzo inferiore anche di venti volte rispetto a quello di esemplari allevati regolarmente nel nostro Paese. Le norme ci sono, ma non bastano. Il Parlamento Ue lavora a una risoluzione. Dal numero 4 di AboutPharma Animal Health

scommettere sulla pet economy

È una guerra che richiederà ancora molto tempo per essere vinta. La lotta contro il traffico illegale di animali da compagnia si conduce da tempo con leggi, provvedimenti e sequestri. Ma quello che deve cambiare è la mentalità di chi acquista cuccioli di provenienza sconosciuta. Il traffico in questi ultimi anni continua in maniera sempre più organizzata. Come mai questo fenomeno? Molti non sono disposti a pagare le cifre richieste dal mercato regolare per un cucciolo di razza, e cercano un animale per altre vie. Trasportati con passaporti falsi, stipati in scatole e borsoni nei bagagliai di auto, furgoni o in treno, i cuccioli commerciati illegalmente affrontano viaggi lunghi in condizioni insostenibili. Provengono spesso da allevamenti irregolari che non rispettano le norme di prevenzione e profilassi veterinaria. Sono soprattutto cani, ma è in crescita anche il commercio di gatti, sempre di razza.

Aumento del traffico

Conferma Stefano Corbetta, medico veterinario, consigliere dell’Ordine dei medici veterinari della provincia di Milano: “Nel corso dell’ultimo decennio il traffico illegale di cuccioli introdotti in Italia è aumentato, purtroppo, in modo esponenziale. Cuccioli mal svezzati e mal socializzati, non vaccinati, stipati in camion o macchina, accompagnati da documentazione falsa e trasportati per lunghi tragitti entrano così nel nostro Paese”. Secondo i dati del ministero della Salute, questo commercio illegale muove un giro di denaro stimato in 300 milioni di euro l’anno e immette sul mercato animali in condizioni sanitarie critiche a un prezzo inferiore anche di 20 volte rispetto a quello di esemplari allevati regolarmente in Italia nel rispetto delle norme sanitarie e di benessere animale. Questa pratica rappresenta anche un grave danno economico per gli allevatori che operano secondo le regole.

L’offerta su internet

Internet favorisce e aumenta a dismisura questo tipo di offerta. Prosegue Corbetta: “Tra le principali porte d’ingresso, vi è sicuramente il commercio illegale sulle piattaforme online. In un mondo ormai dove Internet è ovunque e in ogni cosa (il cosiddetto Internet of Things), qualsiasi persona può comprare qualunque cosa tramite un semplice click di mouse. Compresi gli animali. Cuccioli di cani o gatti arrivati nel nostro Paese tramite un traffico illegale o addirittura specie a rischio estinzione il cui commercio è vietato dalla Cites, ovvero la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione”.

Un bollino di garanzia

Per contrastare il fenomeno non mancano iniziative specifiche anche in Italia. ItPaag è la declinazione italiana di Paag (Pet advertising advisory group), la campagna europea voluta da Eu Dog & Cat Alliance. ItPaag promuove gli atteggiamenti virtuosi delle piattaforme e i siti web che vendono animali da compagnia, oltre a sostenere le adozioni di animali in canili e gattili. L’iniziativa è promossa – tra gli altri – da Fnovi (Federazione nazionale ordini veterinari italiani) e patrocinata dal Ministero della Giustizia. Chi si impegna ad acquistare o vendere animali da compagnia a norma di legge seguendo le linee guida ItPaag riceve il marchio PetAgree, una sorta di bollino di garanzia che garantisce la trasparenza della compravendita.

Cautele e rischi

Secondo le autorità del settore la gran parte dei cuccioli importati illegalmente arriva dai Paesi dell’Est Europa: Ungheria, Slovacchia, Polonia, Romania e Repubblica Ceca. L’esportazione fuorilegge arriva in Francia Spagna Belgio e Italia. Le nostre Regioni di confine, come il Friuli Venezia Giulia sono snodi importanti di questo commercio, anche verso gli altri Stati. Vengono messi in commercio cuccioli che hanno meno di 3 mesi e mezzo, l’età minima richiesta dalle leggi ribadisce Raimondo Colangeli, vicepresidente Anmvi (Associazione nazionale medici veterinari italiani): “Il cucciolo deve avere il microchip di identificazione, e prima dei 3 mesi non può staccarsi dalla mamma. Deve essere in regola con le vaccinazioni. Ma nel mercato illegale ai cuccioli vengono messi anche microchip falsi. Spesso i piccoli sviluppano problemi di comportamento. Se non fanno vaccinazioni contraggono diverse malattie e talvolta non sopravvivono”. Come si riconosce un cucciolo di origine “dubbia”? Risponde il dottor Corbetta: “Non sempre gli acquirenti sono consapevoli dell’acquisto irregolare. È il medico veterinario la figura indicata a controllare l’età dell’animale e la veridicità della documentazione allegata accorgendosi di eventuali discrepanze tra i documenti e lo stesso animale”. Cosa si può fare allora? Prosegue Corbetta: “Per combattere e contrastare il commercio illegale o fraudolento va potenziata l’attività di comunicazione ed educazione. Il possesso di un animale da compagnia deve essere consapevole, e non può certo iniziare con un acquisto che non garantisca le condizioni a tutela del benessere psicofisico del cucciolo. È sempre bene chiedere indicazioni a un medico veterinario prima dell’acquisto dell’animale, evitando la scelta d’impulso, spesso su base emotiva”. Un suggerimento è anche guardare vicino a casa propria: ci sono tanti cuccioli ospitati nei rifugi che aspettano soltanto di trovare una famiglia.

Le norme

Normative ci sono, ma difficile applicarle sempre. Una delle ultime azioni è l’adozione, da parte della Commissione Envi (che all’Europarlamento si occupa di ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentale) della proposta di risoluzione per il Parlamento Ue sulla protezione del mercato interno e dei diritti dei consumatori contro i danni che derivano da questi traffici. In Italia per contrastare il fenomeno dieci anni fa è stata ratificata la Convenzione sulla protezione di cani e gatti del Consiglio d’Europa di Strasburgo. Con la legge 201/2010 è stato introdotto il reato di traffico illecito di animali da compagnia. Nel 2011 usciva un pratico vademecum per orientarsi nella complessità delle norme nazionali e comunitarie che regolano gli scambi commerciali di cani e gatti nell’Unione Europea. Riedito con aggiornamenti nel 2017, questo Manuale “Procedure per l’esecuzione dei controlli nella movimentazione comunitaria di cani e gatti”, è frutto della collaborazione tra la Direzione generale della sanità animale del ministero della Salute, la Fnovi e la Lega antivivisezione (Lav). La pubblicazione è rivolta alle autorità competenti, ai veterinari, agli organi di polizia e a tutti coloro che sono coinvolti in questo mondo. Il traffico illegale, secondo una recente analisi di Coldiretti, alimenta un giro d’affari intorno ai 300 milioni di euro l’anno. Sempre secondo Coldiretti, sono oltre 400mila i cani e i gatti rivenduti dai trafficanti a prezzi che vanno dai 60 fino ai 1.200 euro a esemplare. Gli animali che arrivano con la tratta clandestina sono cuccioli di poche settimane, quasi sempre non svezzati e ovviamente senza il microchip di identificazione. I cuccioli, quasi sempre imbottiti di farmaci per farli apparire in buona salute, vengono introdotti sul territorio nazionale accompagnati da una documentazione contraffatta che ne attesta la falsa origine italiana e i vaccini in realtà mai eseguiti. Coldiretti cita un Rapporto Agromafie dove si rivela che talvolta il commercio illegale si realizza anche con la complicità di alcuni allevatori e negozianti italiani che “riciclano” nel mercato legale animali di provenienza illecita. A essere vittime di questi traffici, ricorda Coldiretti, sono gli allevatori onesti. Inoltre i cuccioli acquistati illegalmente e privi di vaccinazioni spesso hanno bisogno di cure mediche e talvolta non riescono a sopravvivere.

Domanda e offerta

Secondo stime recenti nell’Unione europea vivono circa 60,9 milioni di cani e 66,5 milioni di gatti. Ed è in costante crescita l’importanza economica del settore degli animali da compagnia. Allevamento, custodia e commercio di cani e gatti in Europa sono diventate importanti attività. Si calcola che solo nella vendita siano impiegate circa 300mila persone. I dati dello studio “Benessere di cani e gatti coinvolti in attività commerciali” della Commissione Europea, condotto pochi anni fa in dodici Paesi Ue (Italia compresa), stimava che ogni mese circa 46.000 cani siano movimentati tra gli Stati membri per scopi commerciali. Le nazioni verso cui sono maggiormente diretti i cani sono: Germania (57%), Regno Unito (9%), Belgio (5%), Italia (5%), Francia (5%). I gatti sono maggiormente diretti in Germania (55%), Regno Unito (9%), Spagna (7%), Italia (6%) e Belgio (5%). I Paesi da cui principalmente provengono i cani sono: Spagna (36%), Ungheria (22%), Slovacchia (10%), Romania (10%) e Italia (4%). Per quanto riguarda i gatti è ancora in testa la Spagna con il (48%), seguita dall’Ungheria (14%), Slovacchia (9%) e Romania (6%).

Non solo cani e gatti

Con Internet oggi è più semplice soddisfare le richieste più stravaganti, anche l’acquisto di specie in via di estinzione e rare. Lo ha denunciato l’International fund for animal welfare (Ifaw), in seguito a un’indagine condotta dall’organizzazione sulle inserzioni pubblicitarie di numerosi negozi online in Francia, Germania, Regno Unito e Russia. Tutte le specie il cui commercio è vietato e che, denuncia l’Ifaw, alimentano un giro d’affari calcolato in oltre 3,9 milioni di dollari. Al primo posto in queste vendite online ci sono i serpenti (37% degli annunci), ma sono molti ricercati anche uccelli come i pappagalli e anche i rapaci. Mentre il 20% delle inserzioni riguarda l’avorio. Come anticipato, fauna e flora minacciate di estinzione sono protette dal Cites, una Convenzione internazionale tra Stati che regola e monitora il loro commercio. Ogni Stato designa una o più autorità di gestione di permessi e certificati Cites. In Italia il compito spetta principalmente al ministero dell’Ambiente.

 

 

 

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Degenerazione maculare senile essudativa, ok dell'Ue a brolucizumab

L'approvazione si basa su due studi clinici testa-a-testa, HAWK e HARRIER, nei quali il farmaco di Novartis ha ottenuto importanti guadagni visivi ad un anno


di Redazione Aboutpharma Online18 Febbraio 2020


Degenerazione maculare


La Commissione europea ha approvato brolucizumab, di Novartis, in soluzione iniettabile per  il trattamento della degenerazione maculare senile essudativa (wAMD). Si tratta, come riporta una nota diffusa dal gruppo, del primo farmaco anti-VEGF approvato dalla Ue per dimostrare una superiorità rispetto ad aflibercept nella risoluzione dei fluidi retinici (Irf/Srf), un indicatore chiave dell'attività di malattia (endpoint secondari).
Degenerazione maculare senile essudativa, una malattia degenerativa

La wAMD è una malattia degenerativa cronica della vista, causata dal VEGF, una proteina il cui eccesso favorisce la crescita di vasi sanguigni anomali sotto la macula (l'area della retina responsabile di una nitida visione centrale). Il fluido che fuoriesce da questi neovasi altera la normale struttura retinica compromettendo la visione. Inibendo il VEGF, brolucizumab è concepito per sopprimere la crescita di vasi sanguigni anormali e la potenziale fuoriuscita di liquido nella retina.
Il valore terapeutico del brolucizumab

“Attualmente i pazienti con Amd essudativa, che sono per buona parte anziani, incontrano spesso notevoli difficoltà nella gestione della malattia. Riteniamo che brolucizumab – con la sua capacità di risoluzione dei fluidi retinici – apporti un grande valore terapeutico, che aiuterà i medici a ottimizzare i trattamenti in base all'attività di malattia”, ha dichiarato Marie-France Tschudin, presidente di Novartis Pharmaceuticals. “Grazie all'approvazione di questa innovativa terapia biologica, Novartis continua a reimmaginare la medicina per le persone che soffrono di wAMD”.

Brolucizumab, nei pazienti con wAMD idonei, offre la possibilità di iniziare la terapia con un intervallo di dosaggio di tre mesi subito dopo la fase di carico. La decisione di Ema è applicabile a tutti i 28 stati membri dell'Unione europea, oltre a Regno Unito, Islanda, Norvegia e Liechtenstein.
Le cause della malattia

La degenerazione maculare senile essudativa è una delle principali cause di grave perdita della vista e di cecità nelle persone di età superiore ai 65 anni: colpisce infatti oltre 20 milioni di persone in tutto il mondo3,4,8, delle quali circa 1,7 milioni risiedono in Europa. I primi sintomi di wAMD includono una visione sfocata o ondulata7, con la progressione della malattia i pazienti perdono la visione centrale e non riescono quindi a vedere bene gli oggetti situati direttamente davanti a loro7.
Gli studi

L'approvazione europea si basa sui risultati degli studi clinici di fase III HAWK e HARRIER, nel corso dei quali brolucizumab ha soddisfatto il suo endpoint primario, dimostrando guadagni visivi (BCVA, best-corrected visual acuity) non inferiori ad aflibercept a un anno (settimana 48) e mantenendo il risultato anche a due anni.

Brolucizumab ha inoltre ottenuto risultati migliori di aflibercept negli endpoint secondari correlati al fluido: un numero significativamente inferiore di pazienti presentava fluido intra-retinico (IRF, intra-retinal fluid) e/o fluido sotto-retinico (SRF, sub-retinal fluid), rispettivamente 31% per brolucizumab 6 mg vs 45% per aflibercept in HAWK; 26% vs 44% in HARRIER a un anno.

Inoltre, brolucizumab ha dimostrato superiore capacità di ridurre lo spessore retinico (CST, central subfield thickness) – un altro indicatore di malattia. Le differenze osservate alla settimana 16 e ad un anno sono state mantenute a due anni. In entrambi gli studi, con brolucizumab, il 30% in meno dei pazienti (rispetto a aflibercept) presentava segni di attività di malattia già dalla settimana 16.
Le evidenze

In HAWK e HARRIER, oltre la metà dei pazienti affetti da degenerazione maculare senile essudativa (rispettivamente 56% e 51%), ha mantenuto una frequenza di iniezioni di tre mesi per un anno. I pazienti rimanenti sono stati trattati con una frequenza di due mesi.

"L'approvazione odierna rappresenta un passo avanti per i pazienti in Europa che sono alla ricerca di una nuova opzione terapeutica che li aiuti a conservare la vista – e quindi l'autonomia – più a lungo”, ha dichiarato Christina Fasser, Presidente di Retina International. “Questo potrebbe davvero aiutare a semplificare la vita non solo dei pazienti, ma anche di coloro che se ne prendono cura".

Nell'ottobre 2019 Novartis ha ricevuto l'approvazione dalla US Food and Drug Administration per brolucizumab nel trattamento della wAMD. Nel gennaio 2020 brolucizumab ha ricevuto anche l'approvazione della Swissmedic elvetica e della TGA australiana per il trattamento della wAMD. Novartis è impegnata a rendere disponibile brolucizumab ai pazienti in tutto il mondo; attualmente, ulteriori procedure normative di registrazione sono infatti in corso in Canada, Giappone e Brasile.
Brolucizumab

Brolucizumab (noto anche come RTH258) è il più avanzato frammento anticorpale umanizzato a singola catena (scFv1,7, single-chain antibody fragment). I frammenti anticorpali a singola catena sono molto studiati nello sviluppo dei farmaci per le loro piccole dimensioni, l'ottima penetrazione tissutale, la rapida eliminazione dalla circolazione sistemica e le loro caratteristiche posologiche.

L'innovativa struttura produce una piccola molecola (26 kDa) dotata di una potente inibizione ed elevata affinità a tutte le isoforme VEGF-A. La molecola brolucizumab è stata ingegnerizzata per ottenere la più alta concentrazione di farmaco, fornendo un maggior numero di siti di legame attivi rispetto ad altri anti-VEGF.

Negli studi preclinici, brolucizumab ha dimostrato efficacia nell'inibire l'attivazione dei recettori VEGF attraverso la prevenzione dell'interazione ligando-recettore. L'aumento del pathway VEGF è associato ad angiogenesi oculare patologica e a edema retinico. L'inibizione del pathway VEGF ha dimostrato di inibire la crescita delle lesioni neovascolari e di sopprimere la proliferazione delle cellule endoteliali e la permeabilità vascolare.

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Mascherine e disinfettanti online, interviene l’Antitrust

Mascherine e disinfettanti online, interviene l’Antitrust

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) invia una richiesta di informazioni alle principali piattaforme di e-commerce e altri siti di vendita in rete. Focus sul rialzo dei prezzi e slogan sull’efficacia anti-coronavirus

mascherine e disinfettanti online

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) interviene sulla vicende delle mascherine e dei gel disinfettanti venduti in rete a prezzi esorbitanti. Una richiesta di informazioni è stata inviata ieri, spiega una nota dell’Antitrust, alle principali piattaforme di e-commerce e ad altri siti di vendita online. Sotto accusa le modalità di commercializzazione di prodotti igienizzanti per le mani e di mascherine monouso di protezione delle vie respiratorie.

Le segnalazioni su mascherine e gel disinfettanti

“L’intervento – spiega l’Agcm –  è scaturito da numerose segnalazioni da parte di consumatori e associazioni i quali lamentavano, da un lato, la presenza di claim relativi all’asserita efficacia dei suddetti prodotti in termini di protezione e/o di contrasto nei confronti del Coronavirus e, dall’altro, l’ingiustificato e consistente aumento dei prezzi dei medesimi prodotti registrato negli ultimi giorni”.

Le misure

Le imprese dovranno comunicare entro tre giorni quali misure hanno attivato per eliminare slogan pubblicitari che possano ingannare i consumatori sull’efficacia dei prodotti per evitare/curare le patologie da Covid 19 e le iniziative adottate al fine di evitare ingiustificati e sproporzionati aumenti di prezzo.

Siamo assolutamente d'accordo con questa iniziativa

 

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Dispositivi medici impiantabili: due nuove gare Consip

La centrale acquisti della Pubblica amministrazione avvia le procedure per aggiudicare accordi quadro per la fornitura di pacemaker, defibrillatori, loop recorder e stent coronarici. Con il supporto delle società scientifiche di riferimento


Due nuove gare centralizzate per la fornitura di dispositivi medici impiantabili, con il supporto scientifico dei clinici. Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, ha annunciato oggi l’avvio di due procedure per l’aggiudicazione di Accordi quadro destinati alle strutture sanitarie pubbliche. La prima procedura riguarda 52.300 dispositivi impiantabili attivi per funzionalità cardiaca, suddivisi in 11 lotti che comprendono pacemaker, defibrillatori impiantabili e (per la prima volta in una gara Consip) anche i loop recorder, dispositivi sottocutanei utilizzati nella diagnosi dei disturbi del ritmo cardiaco. La seconda gara prevede invece l’acquisto di 105.000  stent coronarici, suddivisi in 4 lotti (che comprendono diverse tipologie di BVS e DES).

Il supporto scientifico

Alla predisposizione di entrambe le gare hanno contributo l’Associazione italiana di aritmologia e cardiostimolazione (Aica), per i dispositivi impiantabili attivi, e la Società italiana di cardiologia interventistica (Gise) per gli stent. L’obiettivo del coinvolgimento dei medici, ricorda Consip in una nota, “è  garantire appropriatezza clinica e tecnologica dei prodotti, nel rispetto delle esigenze del paziente”.

Gli accordi quadro

Gli Accordi quadro durano 24 mesi e prevedono diversi aggiudicatari, con la possibilità per le strutture sanitarie di selezionare il fornitore in base al criterio della “scelta clinica”. Un’impostazione, precisa Consip, “accolta favorevolmente, oltre che dalle amministrazioni, dalle società scientifiche e dal mercato della fornitura”. Come per le altre gare del settore sanitario, le Commissioni giudicatrici saranno composte da medici esperti del settore.

 

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Malattie rare: alla Camera una proposta di legge sulle immunodeficienze primitive

Un’iniziativa parlamentare prova a tracciare un percorso completo dallo screening neonatale alla riabilitazione, fino al supporto psicologico. Prevista anche una speciale “Tessera del paziente” per accedere ai servizi


Un percorso di cura chiaro ed efficiente per migliorare l’assistenza dei malati rari affetti da immunodeficienze primitive, un gruppo di oltre 250 patologie congenite che compromettendo il sistema immunitario favoriscono infezioni frequenti gravi. È l’obiettivo di una proposta di legge presentata oggi alla Camera dai Paolo Siani, Ubaldo Pagano e Vito de Filippo, membri Pd in Commissione Affari Sociali.

Un percorso completo

Il percorso immaginato dalla proposta è “completo”, nel senso che include screening neonatale, riabilitazione, supporto psicologico, reti, formazione degli operatori. Molta attenzione è dedicata alla diagnosi precoce. La diagnosi, quando arriva, è spesso tardiva: passano in media 5,5 anni dai primi sintomi per gli adulti e 2,5 anni per i bambini.

“Il senso di questa proposta di legge sta anzitutto nel bisogno di individuare queste malattie quando il bambino non ha ancora contratto infezioni, evitando così sofferenza, complicanze e in alcuni casi anche la morte – spiega Paolo Siani, primo firmatario – La nostra idea è stata quella di proporre una legge che permetta di individuarle alla nascita attraverso lo screening e questa proposta di legge mira a dare lo strumento a tutte le Regioni per poter introdurre questa misura. Un’altra ragione che sta dietro questa proposta – ha concluso Siani – è la volontà di mettere in rete tutti i servizi che servono per le immunodeficienze e di includere nel percorso la fase di transizione dall’età pediatrica a quella adulta facendo in modo che, attraverso la rete che proponiamo, non si interrompa l’assistenza. Inoltre vanno inseriti nella rete non solo i presidi ospedalieri, ma anche i servizi di sostegno psicologico ai pazienti e alle famiglie. In particolare, ai fratelli dei bambini affetti da immunodeficienza.”

I pazienti

La proposta di legge piace all’Associazione immunodeficienze primitive (Aip): “La proposta, a cui Aip ha collaborato, è sicuramente una buona notizia per i pazienti”, commenta il presidente Alessandro Segato. “Confidiamo – continua – che i contenuti della legge possano permettere diagnosi tempestive e facilitare e rendere omogenei i percorsi terapeutici sul territorio nazionale anche grazie al coinvolgimento delle associazioni di pazienti, come previsto dall’art. 8. Auspichiamo e sollecitiamo che si abbia la possibilità di calendarizzare nei lavori parlamentari la proposta al più presto affinché possa vedere la luce quanto prima”.

Screening e terapie

Concorda sull’importanza di una diagnosi precoce Alessandro Aiuti, vice-direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia genica (Sr-Tiget) di Milano, che ha contribuito alla messa a punto della terapia genica per alcune forme di immunodeficienze di origine genetica, come il deficit di adenosina deaminasi (ADA SCID) e la sindrome di Wiskott-Aldrich. La diagnosi precoce grazie allo screening neonatale è fondamentale per offrire nel più breve tempo possibile le terapie disponibili: ecco perché questa legge è importante, per i pazienti di oggi e di domani”, commenta Aiuti.

Fra le misure incluse nella proposta, anche quella di una “Tessera del paziente”, che dovrebbe riportare diagnosi e le complicanze della malattia e grazie alla quale il paziente potrà accedere a tutti i servizi dedicati sia in regime ospedaliero di ricovero, sia ambulatoriale, di day hospital e cure a domicilio.

 

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Morbillo, i dati europei: 4,5 milioni di bambini non vaccinati

Secondo un report del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) nel 2017 solo quattro Paesi hanno raggiunto la copertura vaccinale del 95% contro i 14 che ci erano riusciti nel 2007


In Europa oltre 4,5 milioni di bambini non sono stati vaccinati contro il morbillo dal 1999 ad oggi. A dirlo è un report del  Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), che fotografa l’avanzata del morbillo negli ultimi anni e la tendenza a vaccinare sempre meno nel Vecchio Continente. Secondo l’Ecdc, nel 2017 solo quattro Paesi hanno raggiunto la soglia del 95% di copertura vaccinale per le due dosi contro 14 Paesi nel 2007.  Dal 1 gennaio 2016 al 31 marzo 2019 negli Stati membri si sono registrati 44.074 casi, con una media annuale nell’ultimo anno di un milione di persone colpite.

Le fasce d’età

I ritardi nelle coperture vaccinali mettono a rischio di contagio i neonati troppo “vecchi” per essere coperti dagli anticorpi materni ma troppo piccoli per essere vaccinati e gli adulti. La fascia d’età colpita dal morbillo nel 2018-2019 è stata tra i 3 e i 31 anni mentre nel 2009 era tra i 2-18. Nel triennio 2016-2019 il 35% dei contagiati sono stati i giovani di 20 anni mentre tra i neonati la media annuale dei tassi di notifica è stata 44 volte più elevata rispetto alle altre fasce di età. Inoltre i contagi si diffondono da un Paese all’altro della Ue, tanto che, sempre nel triennio 2016-2019, quasi la metà dei casi (43%) è stata “importata” da uno Stato membro con una copertura vaccinale bassa e in cui era in atto una epidemia di morbillo. Secondo l’Ecdc, finché la copertura vaccinale rimarrà sotto i minimi ottimali le lacune immunitarie resteranno una minaccia per la salute a livello trasnfrontaliero in tutta la Ue.

In Italia

In Italia – spiega l’Istituto superiore di sanità (Iss) sul portale Epicentro – dal 1 gennaio al 30 aprile 2019 sono stati segnalati 864 casi di morbillo (incidenza 42,9 casi per milione di abitanti), di cui 176 a gennaio, 168 a febbraio, 221 a marzo e 299 ad aprile. Le segnalazioni provengono da 19 Regioni, ma oltre due terzi dei casi si sono verificati in Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. L’età mediana dei casi è 30 anni. Sono stati segnalati 86 casi in bambini sotto i 5 anni di età, di cui 31 avevano meno di 1 anno. L’87% dei casi non era vaccinato al momento del contagio. Un terzo circa dei casi ha sviluppato almeno una complicanza. Tra le complicanze, sono stati segnalati anche due casi di encefalite. Nello stesso periodo sono stati registrati 7 casi di rosolia con un’età mediana di 29 anni. Per quanto riguarda le coperture, secondo i numeri per la prima dose (24 + 6 mesi di età) aggiornati a dicembre 2018, il dato nazionale si attesta al 94,15%, sfiorando la soglia del 95% suggerita dall’Organizzazione mondiale della sanità.

 

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Medicinali indisponibili: dai farmacisti ospedalieri una piattaforma per monitorare il fenomeno

Con il progetto “Drughost” saranno raccolte online le segnalazioni dei professionisti. I dati, incrociati con quelli di Aifa, aiuteranno a tenere sotto controllo le criticità


Una piattaforma online per monitorare i medicinali indisponibili. Si chiama “Drughost” ed è un’iniziativa della Società italiana di farmacia ospedaliera (Sifo), realizzata – spiega una nota dei farmacisti ospedalieri in stretto rapporto con le segreterie regionali e con il supporto dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). È la prima attività in questo ambito a livello nazionale ed europeo”, spiega la Sifo.

Come funziona

“Si tratta di una piattaforma web based – chiarisce Marcello Pani, membro del direttivo Sifo e coordinatore del progetto – alimentata dai farmacisti ospedalieri e territoriali per raccogliere tutte le segnalazioni di farmaci indisponibili. L’intento a cui vogliamo dare così concretezza è quello di mappare e quantificare costantemente il fenomeno che rende irreperibili farmaci salvavita e che molto spesso impedisce l’accesso alle cure farmacologiche da parte di pazienti affetti da patologie gravissime. L’alimentazione del DataBase della piattaforma avverrà a cura dei singoli professionisti e – dopo validazione da parte della segreteria regionale – l’analisi congiunta e incrociata dei dati provenienti dalla piattaforma Drughost e delle segnalazioni inviate ad Aifa da parte delle aziende titolari di Aic forniranno una stima puntuale e rappresentativa di questa importante criticità che colpisce il Ssn”.

Medicinali indisponibili o carenti

Sifo chiarisce la differenza tra medicinali indisponibili e carenti. “Le carenze – si legge nella nota – sono generalmente legate a problemi produttivi, irreperibilità del principio attivo, provvedimenti di carattere regolatorio, imprevisto incremento dei consumi del medicinale, emergenze nei paesi di produzione o possono essere anche correlate alla non-redditività di farmaci ‘datati’ o di basso costo. Le indisponibilità di un farmaco, invece, sono spesso generate da distorsioni del mercato riconducibili al fenomeno del ‘parallel trade’ che sfrutta le differenze di prezzo dei farmaci sui mercati di differenti Paesi. Le segnalazioni di indisponibilità arrivano dagli operatori sanitari (farmacisti, medici, infermieri), ma spesso anche dalle associazioni dei pazienti, che sono i soggetti coinvolti in prima persona negli effetti pericolosi di questa indisponibilità”.

Il ruolo dei farmacisti

“I farmacisti del Ssn – commenta Simona Serao Creazzola, presidente della Sifo – sono costantemente impegnati a gestire ed attenuare gli effetti di queste carenze, mettendo in atto varie strategie attraverso la gestione delle scorte, l’individuazione di terapie e forniture alternative, e, ove previsto, la gestione delle procedure per l’importazione del farmaco analogo dall’estero. La necessità di intervenire in modo sistematico e incisivo sulle numerose segnalazioni riguardanti l’indisponibilità di medicinali nel nostro Paese ha portato, nel 2015, all’istituzione di un tavolo di lavoro cui prendono parte, con il supporto del Comando Carabinieri NAS, altri enti/associazioni pubblici e privati, e all’avvio di un progetto pilota che consentisse di individuare modalità condivise per l’intensificazione delle attività di vigilanza sulla concreta applicazione delle norme vigenti, attraverso una serie di controlli sul territorio”.

Nuovi dati

Il portale è uno dei frutti delle sinergie attivate con il tavolo tecnico. “Il sistema di segnalazione delle mancate forniture agli ospedali – continua la presidente Sifo – servirà a rendere trasparenti disfunzioni e carenze oggi non visibili, e a permettere alle Regioni di ‘qualificare’ i fornitori, accedendo ai dati che verranno resi disponibili dal territorio. Un esercizio quindi importante per capire se esistano problemi sommersi, o incidenti ricorrenti che sia necessario riportare alle amministrazioni centrali, che potranno intervenire avendo a disposizione dati oggettivi e trasversali”.

La collaborazione tra diversi attori è il punto di forza: “Il flusso di dati che verrà generato – aggiunge Marcello Pani – sarà coordinato con quello proveniente dalle farmacie, relativo ai farmaci mancanti, oggetto di un altro progetto parallelo di segnalazione avviato con Federfarma e le Regioni nell’ambito del Tavolo Tecnico Indisponibilità: il complesso dei dati dovrebbe permettere di ottenere un’immagine affidabile della situazione, e di supportare interventi mirati”.

Si parte dalla Puglia

Il portale Drughost è raggiungibile dal sito www.sifoweb.it e viene reso disponibile gradualmente su tutto il territorio nazionale attraverso una serie di fasi di implementazione regionale. Si parte dalla Puglia, dove ieri la novità è stata presenta nel corso di un workshop a Bari.

 

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Le farmacie italiane sotto la lente di Cittadinanzattiva e Federfarma

Cittadinanzattiva e Fedefarma tornano a “interrogare” le farmacie italiane (e ora anche i cittadini) sui servizi e le iniziative attivate per migliorare prevenzione, gestione delle cronicità e aderenza terapeutica. È partita – spiega una comunicato – una nuova indagine che porterà alla realizzazione del secondo “Rapporto annuale sulla farmacia, presidio del Servizio sanitario nazionale”.

Gli indicatori

Il progetto, che ha avuto il supporto non condizionato di Teva, prende in esame una cinquantina di indicatori. Fra questi, adesione delle farmacie a campagne di promozione di stili di vita salutari, promozione di specifiche iniziative volte alla individuazione dei soggetti a rischio e alla diagnosi precoce, partecipazione alle campagne di screening, coinvolgimento nell’attuazione del Fascicolo sanitario elettronico, modalità di promemoria, tutoraggio e supporto ai pazienti per una più efficace aderenza alle terapie nelle patologie croniche (Diabete, Bpco, malattie cardiovascolari, etc.), quali sono i principali servizi fruiti dai cittadini e come vengono da essi percepiti in termini di miglioramento nella compliance alle terapie.  Dopo il primo anno dedicato ai servizi nelle aree interne del Paese, nel 2019 è stato individuato come tema portante il ruolo delle darmacie nella implementazione del Piano nazionale cronicità, soprattutto per quanto riguarda prevenzione e aderenza alle cure.

I farmacisti

“La fotografia scattata con il primo Rapporto Federfarma-Cittadinanzattiva – commenta Marco Cossolo, presidente Federfarma – mostra i progressi della Farmacia dei servizi, più lenti di quel che vorremmo, e molte potenzialità della farmacia ancora inespresse. Quest’anno acquisiremo informazioni e valutazioni dei cittadini per conoscere meglio le loro esigenze. E’ paradossale il fatto che, malgrado i riconoscimenti attribuiti dalle istituzioni, la farmacia tuttora non venga sufficientemente coinvolta nella medicina territoriale”.

I cittadini

“Con il rapporto annuale sulla farmacia ci prefiggiamo l’obiettivo di fornire una panoramica condivisa della situazione delle farmacie italiane e dei servizi offerti ai cittadini. Con particolare riferimento ai bisogni dei malati cronici, al fine di meglio qualificare il rapporto tra farmacista e cittadino in un’ottica di reciproca fiducia, scambio e collaborazione”, commenta Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva.
Il punto di vista dei farmacisti sarà integrato da quello civico, rappresentato dalle associazioni di persone affette da patologie croniche o rare. E in più, rispetto alla prima edizione, nel 2019 una survey on line aperta ai cittadini permetterà di rilevarei bisogni di salute, le aspettative, il grado di conoscenza e l’esperienza diretta dei fruitori dei nuovi servizi attivati in farmacia.

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Plasmaderivati contro Covid-19, si espande l’alleanza di aziende per trovare una cura

Plasmaderivati contro Covid-19, si espande l’alleanza di aziende per trovare una cura

Biotest, BPL, LFB, Octapharma, Csl Behring e Takeda Pharmaceuticals si uniscono per sperimentare prodotti a base di plasma contro l'infezione da nuovo coronavirus


Invitare a unirsi al gruppoCsl Behring e Takeda Pharmaceuticals avevano pensato di unire le forze per trovare una potenziale terapia di derivazione plasmatica per trattare Covid-19 e adesso l’intesa si allarga con Biotest, BPL, LFB e Octapharma. Questa alleanza partirà immediatamente con lo sviluppo sperimentale di una immunoglobulina iperimmune policlonale anti-Sars-CoV-2, senza denominazione commerciale, con la potenzialità di trattare individui con complicanze gravi da Covid-19.

“Situazioni mai viste prima richiedono mosse audaci” dice Julie Kim, Presidente della Business Unit Plasma-Derived Therapies di Takeda, “Noi tutti concordiamo che collaborando e mettendo insieme le risorse del settore possiamo accelerare l’immissione sul mercato di una potenziale terapia così come incrementarne la potenziale disponibilità. Invitiamo le aziende e le istituzioni che si occupano di plasma a supportare o a unirsi alla nostra alleanza”. Bill Mezzanotte, Executive vice president e responsabile della R&D di Csl Behring ravvisa che “questo sforzo ha l’obiettivo di accelerare lo sviluppo di un’opzione terapeutica affidabile, percorribile e sostenibile che permetta ai sanitari di trattare i pazienti affetti dall’impatto di Covid-19. Oltre a mettere in comune le risorse delle aziende del settore, uniremo, ogni volta che potremo, i nostri sforzi a quelli governativi e accademici come un’unica alleanza, incluse attività importanti come gli studi clinici. Ciò renderà tutto più efficiente in questi tempi frenetici anche per queste parti interessate”.

I passi da compiere

Gli esperti dell’alleanza inizieranno a collaborare su aspetti chiave quali raccolte di plasma, sviluppo di studi clinici e produzione. Anche altre aziende e istituzioni potranno aderire all’alleanza. Lo sviluppo di un’immunoglobulina iperimmune richiederà la donazione di plasma da parte di molte persone che sono completamente guarite da Covid-19 e il cui sangue contiene anticorpi in grado di combattere il nuovo coronavirus. Una volta raccolto, il plasma “convalescente” verrebbe, quindi, trasportato negli impianti di produzione per essere sottoposto a trattamento certificato, inclusi efficaci processi di inattivazione e rimozione virale, e per venire purificato come prodotto finale. Le persone interessate a donare plasma possono visitare questo link per trovare il centro di raccolta plasma autorizzato più vicino alla loro abitazione.

 

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Covid-19, inizierà a maggio il trial clinico del vaccino sviluppato da Novavax

Covid-19, inizierà a maggio il trial clinico del vaccino sviluppato da Novavax

I primi risultati sono attesi già a luglio, con settimane di anticipo rispetto ai programmi iniziali, grazie al lavoro con Emergent BioSolutions e il finanziamento preliminare di 4 milioni di dollari Cepi. Per ora il potenziale vaccino ha dato buoni risultati nei test preclinici


Il vaccino anti Covid-19 di NovavaxNovavax ha annunciato di aver identificato un candidato al vaccino contro la Covid-19. Si tratta di NVX-CoV2373 una proteina di prefusione stabile prodotta utilizzando la tecnologia delle nanoparticelle della biotech, specializzata nello sviluppo di vaccini di nuova generazione per gravi malattie infettive. L’adiuvante Matrix-M, proprietario di Novavax sarà incorporato con NVX-CoV2373 al fine di migliorare le risposte immunitarie e stimolare alti livelli di anticorpi neutralizzanti. La startup statunitense ha anche annunciato che il primo trial clinico inizierà a metà maggio –molto in anticipo rispetto alle previsioni – in modo da avere i primi risultati già a luglio.

NVX-CoV2373 nei modelli animali ha mostrato un’alta immunogenicità, nei confronti degli anticorpi specifici per la proteina spike. Questa, com’è ormai noto, è la responsabile della penetrazione del nuovo coronavirus nelle cellule umane in seguito all’interazione con il recettore umano Ace-2. Dopo una singola immunizzazione sono stati osservati alti livelli di anticorpi specifici per la proteina spike in grado di bloccare il dominio di legame con il recettore umano Ace-2, e anticorpi di neutralizzazione del virus di tipo selvaggio SARS-CoV-2. Inoltre, i titoli già elevati di microneutralizzazione osservati dopo una dose sono aumentati di otto volte con una seconda dose, come riporta la biotech. Gli anticorpi microneutralizzanti ad alto titolo generalmente sono accettati come evidenza che il vaccino è probabile protettivo per gli esseri umani.

“Abbiamo dimostrato che NVX-CoV2373 genera anticorpi neutralizzanti ad alto titolo contro il virus Sars-CoV-2 vivo”, ha affermato Matthew Frieman, professore associato presso la School of Medicine dell’Università del Maryland. “Questa è una prova evidente che il vaccino creato da Novavax ha il potenziale per essere altamente immunogenico nell’uomo. Il che potrebbe portare alla protezione da Covid-19 e contribuire a controllare la diffusione di questa malattia”.

Il piano di sviluppo clinico di Novavax

Il piano di sviluppo clinico di NVX-CoV2373 combina un approccio di Fase 1/2 per consentire un rapido avanzamento dei dati, durante la pandemia di Covid-19. Lo studio clinico di Fase 1 è uno studio osservazionale in cieco, controllato con placebo, che sarà condotto su circa 130 adulti sani. La sperimentazione servirà anche per valutare il dosaggio necessario e il numero di vaccinazioni. La sperimentazione dovrebbe iniziare a metà maggio con risultati preliminari di immunogenicità e sicurezza a luglio.

“Sforzi eroici” congiunti

L’anticipazione del trial clinico di fase I è stato possibile sia grazie all’accordo siglato a marzo con Emergent BioSolutions, che ha fornito a Novavax il vaccino Gmp da utilizzare nelle sue sperimentazioni cliniche. Sia grazie alla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), che sempre nello stesso mese ha assegnato a Novavax un finanziamento iniziale di 4 milioni di dollari, con ulteriori finanziamento che saranno discussi in corso d’opera.

“Sforzi eroici” come li ha definiti Gregory Glenn, presidente della Ricerca e Sviluppo di Novavax“, che ha anche aggiunto come il lavoro a stretto contatto con Emergent BioSolutions e il finanziamento preliminare di Cepi, combinati con gli eccellenti risultati iniziali del candidato, hanno messo la startup in condizione di avere dati preliminari sugli esseri umani già a luglio.

Giocare d’anticipo

“A causa degli instancabili sforzi e impegno del team Novavax e dei nostri collaboratori, ci stiamo preparando ad avviare il trial di Fase 1 a metà maggio, settimane in anticipo sul programma”, ha affermato Stanley C. Erck, Presidente e Amministratore delegato di Novavax. “Questo progresso dimostra la capacità della nostra tecnologia di nanoparticelle ricombinanti di creare rapidamente candidati vaccinali per virus emergenti come Sars-CoV-2. Inoltre, le prestazioni di NVX-CoV2373 in numerosi studi e test preclinici ci danno maggiore fiducia nel suo potenziale di protezione contro la malattia Covid-19 “.

Intanto in borsa….

Novavax, inoltre, pur non avendo ancora lanciato farmaci sul mercato (non ricavando, pertanto, al momento ricavi né profitti) da quando ha annunciato di aver avviato uno studio su un vaccino contro il Sars-cov-2, ha più che triplicato la propria capitalizzazione di borsa.

 

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Covid-19, Sanofi donerà 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi

Covid-19, Sanofi donerà 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi

L’azienda ha duplicato la produzione e si avvia a quadruplicarla, con priorità per la continuità di cura dei pazienti che già assumevano il farmaco per indicazioni approvate e per fornirla ai governi che la richiedono, nella speranza che possa essere un trattamento efficace contro il Sars-cov-2


Quadruplicare la produzione di idrossiclorochinaTra chi come Donald Trump e Jair Bolsonaro la considera la cura miracolosa contro la Covid-19, e chi come Anthony Fauci, a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense e altri scienziati frenano l’entusiasmo per mancanze di prove, c’è di mezzo Sanofi, che nel frattempo ha dichiarato di voler donare 100 milioni di dosi di idrossiclorochina a 50 paesi. La priorità, come ha specificato la società francese in una nota, è garantire la continuità di cura per i pazienti che già assumevano il farmaco (noto con il nome commerciale Plaquenil) in base alle indicazioni approvate, in particolare lupus e artrite reumatoide. Lavorando, allo stesso tempo, per fornire l’idrossiclorochina ai governi che desiderano aumentarne le scorte, nella speranza che possa essere un trattamento efficace contro la Covid-19.

La società francese ha iniziato a consegnare progressivamente il farmaco alle autorità che lo hanno richiesto. Si è detta inoltre pronta ad aiutare il maggior numero possibile di paesi. A partire da quelli in cui il suo medicinale è registrato per le indicazioni attualmente approvate, fino ai paesi in cui non vi sono fornitori di idrossiclorochina o paesi con popolazioni scarsamente servite.

Intanto Sanofi ha aumentato la sua capacità produttiva del 50% (in aggiunta alla normale produzione per le indicazioni attuali) nei suoi otto siti produttivi di idrossiclorochina in tutto il mondo. Aggiungendo anche di essere sulla buona strada per aumentare ulteriormente la produzione nei prossimi mesi, quadruplicandola entro l’estate.

Gli studi clinici sull’idrossiclorochina per Covid-19

Al momento diversi studi clinici a livello globale stanno valutando l’efficacia e la sicurezza del farmaco nel trattamento di Covid-19. Il farmaco rientra anche nel megatrial Solidarity organizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per cercare una soluzione terapeutica per Covid-19. Se i dati ne dimostrassero sicurezza ed efficacia, l’azienda ha già riferito di impegnarsi per donarlo ai governi di tutto il mondo. Intanto Sanofi sta supportando gli studi in corso fornendo il l’idrossiclorochina ad alcuni siti di ricercatori partecipanti ai trial e altri centri di ricerca indipendenti.

Sicurezza prima di tutto

Al momento però le interpretazioni dei dati preliminari disponibili differiscono ampiamente e non ci sono prove cliniche sufficienti per trarre conclusioni sulla sicurezza e l’efficacia dell’idrossiclorochina nella gestione dei pazienti con Covid-19. La sicurezza del paziente deve essere sempre il principio guida e considerando che il farmaco ha diversi effetti collaterali noti, gravi, deve essere usato con cautela.

Abolire i confini

“Sanofi chiede un coordinamento tra l’intera catena dell’idrossiclorochina in tutto il mondo per garantire la continua fornitura del medicinale, se si dimostrasse un trattamento ben tollerato ed efficace nei pazienti con Covid-19″, ha affermato Paul Hudson, Amministratore delegato di Sanofi. “A questo virus non interessa il concetto di confine, quindi non dovremmo neanche noi. È fondamentale che le autorità internazionali, i governi locali, i produttori e tutti gli altri attori coinvolti nella catena dell’idrossiclorochina lavorino insieme in modo coordinato. Per garantire a tutti i pazienti che possono beneficiare di questo potenziale trattamento di accedervi”.

 

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La Commissione europea ha approvato il primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato

La Commissione europea ha approvato il primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato

Il nuovo vaccino è concepito per proteggere gli adulti di età pari o superiore a 65 anni contro quattro ceppi di influenza stagionali: due ceppi A e due ceppi B, rispetto a due ceppi A e un singolo ceppo B contenuti nel vaccino attuale


 A chi è indirizzato il vaccinoLa Commissione europea ha approvato l’utilizzo in tutta Europa del primo vaccino antinfluenzale quadrivalente adiuvato. Questo nuovo vaccino si basa sulla consolidata tecnologia, già utilizzata in un vaccino antinfluenzale trivalente adiuvato (aTIV), disponibile in diversi Paesi europei. Nelle persone di età superiore ai 65 anni, aTIV ha dimostrato una maggiore efficacia rispetto ai vaccini antinfluenzali trivalenti standard non adiuvati.

Il nuovo vaccino quadrivalente è specificamente concepito per proteggere gli adulti di età pari o superiore a 65 anni contro quattro ceppi di influenza stagionale. Si tratta di due ceppi A e due ceppi B, rispetto a due ceppi A e un singolo ceppo B contenuti nel vaccino attuale. Il nuovo vaccino quadrivalente adiuvato (aQIV) sarà prodotto da Seqirus, uno dei maggiori produttori europei di vaccini antinfluenzali e leader mondiale nella prevenzione dell’influenza.

Gli studi

Da oltre vent’anni in Italia il vaccino trivalente adiuvato viene utilizzato per la protezione della popolazione anziana, specialmente se a rischio. Nel Regno Unito, inoltre, il vaccino trivalente adiuvato è quello primariamente raccomandato nella fascia di età superiore ai 65 anni. Nella stagione influenzale 2018/2019, il Servizio sanitario inglese (Public health england) ha effettuato uno studio che ha dimostrato come l’efficacia sul campo del vaccino trivalente adiuvato nel prevenire l’influenza confermata in laboratorio sia stata del 62% (3,4%, 85,0%). È ben noto che nelle precedenti stagioni, quando veniva somministrato solo il vaccino non adiuvato a tutti i gruppi di età, l’efficacia negli anziani era molto più bassa rispetto a quella della popolazione adulta.

I vantaggi dell’aggiunta di un nuovo ceppo

L’aggiunta di un ulteriore ceppo B al nuovo vaccino può fornire una copertura aggiuntiva, in particolare nelle stagioni influenzali in cui i ceppi B sono più dominanti, come quella del 2017/18. In quella stagione, quasi la metà di tutti i decessi per influenza nelle unità di terapia intensiva che riportavano i propri dati all’European centre for disease prevention and control era imputabile a virus del ceppo B.

Con l’età, le persone anziane sperimentano un declino naturale del proprio sistema immunitario, e questo le rende più vulnerabili a contrarre l’influenza in forma grave. L’invecchiamento inoltre può anche ridurre la risposta immunitaria dell’organismo alla vaccinazione antinfluenzale. L’adiuvante presente in aQIV è concepito per potenziare la risposta immunitaria negli anziani e per contribuire a compensare gli effetti negativi dovuti all’età.

Maggiore protezione per i soggetti più vulnerabili

“È importante poter disporre di vaccini adeguati all’età, per aiutare le persone anziane a proteggersi dall’influenza, in particolar modo in questo periodo”, ha affermato Raja Rajaram, head of medical affairs di Seqirus in Europa. “Sappiamo che le persone vaccinate hanno meno probabilità di contrarre l’influenza: questo contribuisce ad operare una diagnosi differenziale e potenzialmente ad alleviare la pressione sui sistemi sanitari, già oberati a causa della pandemia da Covid-19. Come azienda, ci siamo concentrati sullo sviluppo di vaccini che offrano una migliore protezione ai soggetti particolarmente vulnerabili all’influenza. Siamo lieti di poter rendere disponibile anche in Europa questo vaccino, che fornisce agli operatori sanitari uno strumento aggiuntivo per essere in prima linea nella prevenzione dell’influenza”.

 

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Mantovani: “Allenare l’immunità innata con i vaccini”

Mantovani: “Allenare l’immunità innata con i vaccini”

Vaccinarsi contro un agente infettivo specifico per essere più reattivi anche contro altri virus e batteri. È il concetto di “protezione agnostica” e di innalzamento della soglia dell’immunità innata, che potrebbe rivelarsi utile anche contro Covid-19. Sul New England Journal of Medicine l’articolo di Alberto Mantovani

immunità innata

Il sistema immunitario può essere “allenato”, anche per combattere Covid-19. In particolare, a essere usata anche contro il fin troppo noto Sars-Cov2 è l’immunità innata, la prima linea di difesa che l’organismo utilizza contro i patogeni. Questa risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus e si accompagna all’immunità adattiva, la nostra linea di difesa più specifica, che può essere stimolata e dunque potenziata con i vaccini. L’idea dunque – stando ai dati più recenti – è che anche il sistema immunitario innato possa essere allenato.

Come funziona l’immunità innata

Lo conferma Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, che descrive il fenomeno insieme al collega Mihai Netea (Olanda) sul New England Journal of Medicine. Nell’articolo Trained Innate Immunity, Epigenetics and Covid-19 scrive infatti: “Vaccinarsi può aumentare il tono di base dell’immunità innata, come in un allenamento, e innescare la resistenza antimicrobica definita ‘agnostica’”.

“Tale addestramento è direttamente collegato alla resistenza alle malattie infettive – continua – come probabilmente accade anche per Covid-19. In questo processo giocano un ruolo chiave le cellule mieloidi, in particolare i macrofagi, attori centrali dell’immunità innata che, con la loro diversità e plasticità, contribuiscono all’attivazione, all’orientamento e alla regolazione delle risposte immunitarie adattive”.

Come “allenare” il sistema immunitario innato

Per allenare il sistema immunitario al momento esistono due strade: sottoporsi alle vaccinazioni raccomandate, compresa quella antinfluenzale stagionale, e condurre uno stile di vita sano. Principio quest’ultimo, sintetizzato nella formula 0-5-30: ogni giorno zero sigarette, 5 porzioni di frutta e verdura fresche, 30 minuti di esercizio fisico moderato. L’obesità disorienta il sistema immunitario ed è un fattore di rischio, anche per Covid-19.

Il vaccino contro la tubercolosi

Allena l’immunità innata, ad esempio, anche il vaccino contro il morbillo, che protegge non solo contro il virus specifico, ma anche più in generale contro le infezioni respiratorie. “Questo meccanismo di allenamento potrebbe contribuire a spiegare il fatto che i bambini siano meno colpiti da Covid-19 – prosegue Mantovani – dal momento che la maggior parte di loro è sottoposta a diverse vaccinazioni nei primi anni di vita. Sperimentazioni in corso utilizzano, ad esempio, il vaccino contro BCG (Tubercolosi) per alzare la soglia di allenamento del sistema immunitario”.

Gli studi già partiti

Se n’era parlato infatti, già lo scorso marzo, quando in Olanda, Germania e Australia erano partite sperimentazioni cliniche su operatori sanitari e anziani per capire se veramente il vaccino contro la tubercolosi potessi “attivare” il sistema immunitario contro Sars-Cov2, come si ipotizza. L’ipotesi è che questo vaccino (come potenzialmente altri) forniscano una sorta di “immunoprevenzione aspecifica” nei confronti dell’infezione da nuovo coronavirus. E che quindi le vaccinazione siano in grado di stimolare il sistema immunitario a una maggior risposta anche nei confronti di un patogeno diverso, come appunto il Sars-Cov2.

Più studi per avere la conferma

“Evidenze epidemiologiche, come quelle descritte in un lavoro uscito in parallelo su Proceedings National Academy of Science Usa, suggeriscono che questo vaccino possa aumentare la resistenza a Covid, ma ciò andrà provato in studi prospettici controllati. È ancora dubbio che il vaccino antinfluenzale sia associato a un effetto analogo, ma ciò non toglie che sia fortemente indicato. Certamente innalzare il livello delle nostre difese di prima linea costituisce una strada promettente da esplorare e approfondire”.

 

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Malattie autoimmuni, scoperti nuovi bersagli per curarle

 

Malattie autoimmuni, scoperti nuovi bersagli per curarle

 

La ricerca pubblicata su Nature Genetics è stata condotta da un team all’Università di Sassari e il Cnr-Irgb, su circa 4.000 individui in Ogliastra (area della Sardegna nota per l’elevata presenza di centenari e per la conservazione del Dna) e apre la strada a nuove possibilità terapeutiche
 
malattie autoimmuni

Hanno identificato nuovi bersagli terapeutici per le malattie autoimmuni, con un’indagine condotta in Ogliastra (area della Sardegna nota per l’elevata presenza di centenari e per la conservazione del Dna) su circa 4mila persone. Lo ha fatto il team di ricercatori guidato da Francesco Cucca, professore di genetica umana all’Università di Sassari e ricercatore principale dello studio ProgeNIA/SardiNIA dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb).

Nello studio pubblicato su Nature Genetics il gruppo ha scoperto 120 nuove associazioni tra varianti genetiche e livelli di almeno uno dei 700 parametri immunologici esaminati. Cinque volte le conoscenze esistenti a oggi sulla regolazione dei livelli delle cellule del sistema immune. Risultati che aprono a nuove opportunità terapeutiche per le malattie autoimmuni.

Indizi preziosi

“Circa la metà di queste associazioni si sovrappone perfettamente ad associazioni con varianti genetiche in grado di modificare il rischio di almeno una malattia autoimmune” spiega Cucca. “Come sclerosi multipla, lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, colite ulcerosa, diabete di tipo 1 e malattia di Kawasaki. Quando la stessa variante genetica influenza sia livelli ematici di un tipo di cellule immunitarie che il rischio di una malattia autoimmune è probabile che il prodotto proteico di quel gene agisca nel processo alla base di quella malattia attraverso quel tipo di cellule”.

“I risultati ottenuti da questo studio forniscono quindi indizi preziosissimi sulle proteine e i meccanismi effettivamente implicati nello sviluppo delle malattie autoimmuni – continua – e indicano nuovi ed importanti bersagli terapeutici per il loro trattamento: le specifiche proteine suscettibili di essere modulate terapeuticamente”.

La potenza dell’analisi genetica

L’analisi genetica è uno strumento sempre più potente per identificare le variazioni della sequenza del Dna in grado di influenzare caratteristiche misurabili del nostro corpo, come i livelli delle cellule e delle molecole solubili nel sangue. Attraverso analisi statistico-genetiche appropriate è inoltre possibile capire quali di esse siano coinvolte nell’insorgenza di malattie umane, contribuendo a formulare corrette ipotesi terapeutiche per il loro trattamento.

Lo studio ProgeNIA

Lo studio rappresenta l’evoluzione applicativa di numerose scoperte fatte con lo studio ProgeNIA e già pubblicate in oltre 150 articoli scientifici. “Questi studi avevano identificato le prime associazioni geniche mai riportate con i livelli ematici di cellule immunitarie, citochine e marcatori infiammatori – conclude Cucca – con i livelli dei diversi tipi di emoglobina, acido urico, lipidi e di variabili antropometriche come l’altezza, e valutato l’impatto di questi parametri sul rischio e decorso clinico di malattie come la sclerosi multipla, il diabete, la talassemia, la gotta, e le malattie cardiache e renali”.

La ricerca è stato finanziato da agenzie pubbliche come il Programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea, e l’Istituto nazionale per l’invecchiamento (NIA) dell’Istituto nazionale di sanità (NIH) del governo USA, e dalla Fondazione italiana per la sclerosi multipla (Fism).

 

 

 

 

 

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