
Nel mondo un decesso su otto dipende dalla perdita di efficacia degli antimicrobici
In Italia quasi 15mila morti
Sfogliando le pagine del report redatto da una commissione di oltre cento esperti voluta dalla rivista inglese per stimare l’impatto di questa problematica sulla mortalità a livello globale, si evince che un decesso su 8 tra quelli registrati nel 2019 è da ricondurre alla perdita di efficacia degli antibiotici. In valore assoluto si parla di 7,7 milioni di morti. Un dato in cui, come di consueto, si riflettono le enormi differenze tra le diverse aree del Pianeta. Il problema è particolarmente sentito anche in Italia, maglia nera nell’Unione europea: quasi quindicimila i decessi che vengono contati ogni anno lungo lo Stivale a causa della mancata efficacia degli antibiotici nel trattamento delle infezioni. Detto ciò, le maggiori criticità si registrano nei Paesi dell’Africa sub-sahariana, in alcuni Stati del Nord America e dell’Europa orientale. Numeri che, a tutte le latitudini, confermano come la prossima emergenza di natura infettivologica sia in realtà già parte del presente. Da anni, ormai, anche se finora è stato difficile far capire al grande pubblico la portata di questo problema.
L’emergenza in ospedale
I ricercatori si sono focalizzati su 33 batteri patogeni e undici tra le principali malattie infettive da questi provocate (meningite, altre infezioni del sistema nervoso centrale, infezioni addominali e peritoneali, del tratto respiratorio, della pelle, delle ossa e delle articolazioni, miocardite, gastroenterite, diarrea, infezioni del tratto urinario e pielonefrite, infezioni sessualmente trasmissibili). Batteri, peraltro, in grado di determinare l’insorgere della sepsi: la più frequente complicanza in questi casi, non di rado fatale proprio per la mancata efficacia degli antibiotici. Senza precedenti il campione preso in esame: oltre 340 milioni gli individui osservati, per un periodo superiore a undici anni. Più di 200 i Paesi di provenienza. Oltre tre decessi su quattro, sui quasi otto milioni registrati, sono stati provocati dalle infezioni respiratorie, dalla sepsi e dalle infezioni peritoneali e addominali. Complicanze che colpiscono i pazienti più fragili, tra coloro che sono alle prese con malattie croniche e che per una di queste o per altre urgenze finiscono in ospedale. I ricoveri in terapia intensiva e le degenze post-chirurgiche sono le più frequenti occasioni di contagio nelle strutture di cura, dove ogni anno si registrano in media 550 mila infezioni: su un totale di nove milioni di ricoveri. Tra i grandi anziani, l’emergenza è particolarmente sentita in coloro che vivono in comunità (Rsa), che sono affetti da una malattia neurodegenerativa o che si fratturano un femore.
Impatto pesante sui pazienti oncologici
Il problema delle infezioni è sentito da tutti i pazienti fragili. E, particolarmente, dai malati di cancro. Le infezioni resistenti agli antibiotici, nei pazienti oncologici, hanno un impatto in termini di mortalità tre volte superiore a quello che si registra nel resto della popolazione. “Dopo la progressione della malattia tumorale e le sue ricadute sulla funzionalità degli organi, le infezioni, insieme ai fenomeni tromboembolici, rappresentano una delle principali cause di morte tra i pazienti oncologici” dichiara l’oncologa Paola Varese, presidente del comitato scientifico della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo). “Soprattutto tra coloro che hanno una neoplasia ematologica o che sono stati sottoposti a trattamenti oncologici intensivi con prolungata ospedalizzazione”. Oltre alla malattia stessa, a rendere maggiormente fragili le persone affette da un cancro al cospetto delle infezioni sono anche i trattamenti. Le infezioni chirurgiche, sommate alla durata dei ricoveri che seguono gli interventi, possono rappresentare la porta d’accesso al nostro corpo per batteri, parassiti e virus. La radioterapia e la chemioterapia, da sole o in combinazione, indeboliscono a lungo il sistema immunitario. Ancora più rilevanti, in questo senso, sono le conseguenze indotte dal trapianto di cellule staminali emopoietiche, a cui si ricorre nel trattamento dei tumori del sangue e del midollo osseo: dopo cicli massicci di chemioterapia, che finiscono quasi per azzerare le difese immunitarie. L’invecchiamento, la malnutrizione e la concomitanza di altre malattie sono ulteriori fattori che concorrono ad aumentare la vulnerabilità di questi pazienti. Così come il crescente utilizzo di dispositivi impiantabili. (Port, Picc, drenaggi, stent, cateteri venosi centrali, pompe sottocutanee infusionali e cateteri vescicali) che fanno ormai parte della routine. Ma il cui utilizzo va gestito garantendo sempre la sterilità.
Quali sono i batteri più pericolosi?
Tornando al rapporto pubblicato sulla rivista del gruppo “The Lancet”, sul totale degli undici batteri identificati, a cinque è stata attribuita la paternità di oltre la metà dei decessi. Si tratta di Staphylococcus aureus (in grado da solo di provocare almeno 1,1 milione di vittime), Escherichia coli (950 mila), Streptococcus (829 mila) e Klebsiella pneumoniae (790 mila) e Pseudomonas aeruginosa (559 mila). Le altre infezioni più delicate sono risultate quelle provocate da Acinetobacter baumannii, Enterobacter, Streptococcus (A e B), Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium e Salmonella (Typhi, Typhimurium ed Enteridis). La loro presenza nella popolazione è risultata omogenea: tra uomini e donne. Differenze sono emerse invece nell’analisi condotta suddividendo la popolazione in fasce d’età. Tra i neonati, Klebsiella è stata la prima causa di morte (124 mila vittime). Nei bambini piccoli (1-5 anni) a sostituirla è stato lo Streptococcus pneumoniae (225 mila). Tra i più grandi (5-14 anni) il primato spetta invece alla Salmonella Typhi (49mila). Dai 15 anni in su, infine, è stato lo Staphylococcus aureus a provocare il maggior numero di decessi (940mila). Anche l’origine di queste persone ha inciso sulla prognosi delle infezioni resistenti agli antibiotici: con una mortalità quasi quintuplicata nel passaggio dalle realtà occidentali (52 morti ogni 100 mila abitanti) a quelle dell’Africa sub-sahariana (230 vittime su 100mila abitanti).
Come limitare i danni?
Per far fronte a questa emergenza ed evitare che diventi di fatto una nuova pandemia, occorre innanzitutto avere sempre in mente l’istantanea descritta nel rapporto. “Servono più investimenti per far fronte a un problema così grave qual è la progressiva riduzione dell’efficacia degli antibiotici”, ha spiegato Christopher Murray, il direttore dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington: tra gli autori dell’analisi. Basti pensare, per fare un esempio chiaro a tutti, che l’Hiv è considerato la causa di 864 mila decessi ogni anno. Meno della metà di cui quelli provocati assieme da Streptococcus Aureus ed Escherichia Coli. Eppure le somme che vengono investite per migliorare la cura dell’Hiv, avendo come riferimento gli Stati Uniti, sono oltre 40 volte superiori a quelle destinate agli studi finalizzati allo sviluppo di nuovi antibiotici. Diverse le possibili soluzioni ribadite dagli esperti: una maggiore attenzione negli ospedali per limitare la circolazione di batteri, il potenziamento dei sistemi di diagnosi rapida, un uso più appropriato degli antibiotici (sia in medicina umana sia in veterinaria) e la promozione delle vaccinazioni (tanto nel personale sanitario quanto tra i pazienti).
Una salute “unica” per superare l’emergenza
“Senza un cambio di rotta, la resistenza agli antibiotici provocherà almeno dieci milioni di decessi ogni anno entro il 2050: diventando la prima causa di morte nel mondo”, è la previsione ricordata da Stefano Bertuzzi, Ceo dell’American Society of Microbiology, in occasione dell’evento “One Health Award”, organizzato in autunno dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo. La sinergia – tra specialisti, ma anche tra Paesi e autorità sanitarie – è l’unica strada da percorrere per immaginare una via di fuga da questa emergenza. “Sappiamo già che nei Paesi in via di sviluppo sono stati identificati oltre mille nuovi geni presenti in batteri che rendono inutile anche l’utilizzo degli antibiotici più sofisticati” conclude lo scienziato piacentino. “Se non studieremo l’ambiente e non finanzieremo la ricerca epidemiologica e di base, questi geni arriveranno nei nostri ospedali e causeranno un aumento di infezioni e decessi”.